
edith-dzieduszycka-diario-di-un-addio-vedove
Nota di lettura
di Letizia Leone
Se con Mario Luzi volessimo pensare il titolo di un libro come un mantra che viene da molto lontano, L’ Immobile volo del recentissimo libro di Edith Dzieduszycka è la scatola nera di un disastro “aereo” che ci raggiunge dall’inerzia di lunghe epoche di incomunicabilità. Uomo-donna, marito-moglie, l’Io e l’Altro, ciò che la poetessa fa emergere è una critica della comunicazione, della socializzazione standardizzata.
Dalla fenomenologia del rapporto di coppia alla più generale sclerosi di ogni «etica della comunicazione», che è poi conflitto dei linguaggi in una contemporaneità cacofonica.
Il soliloquio, ‘l’io-penso’ di due «voci monologanti», come definite da Linguaglossa, agisce dentro la scacchiera formalizzata di un matrimonio.
Un componimento in apparenza simile al genere antico del contrasto, genere molto diffuso che nella definizione di Carlo Salinari sviluppa una tecnica «basata sull’invenzione e sul rinfaccio tra i vari personaggi; questi non hanno un reale sviluppo psicologico, ma sono personaggi stereotipati, quasi maschere.»
Ma se il contrasto già nella letteratura latina medievale era indicato come disputatio, conflictus, altercatio, questo calco sbiadito sulla carta velina che ne fa Edith Dzieduszycka si configura quale intermittenza, interferenza, disturbo sonoro, anomalia d’onda nella linea piatta di un cronografo, sismografo o cardiogramma. Oscillazioni. Librazioni minime nell’ambito di uno scambio superficiario, affidato ai soli significanti o ai correlativi di un codice neutro (unica possibilità d’incontro tra gli “sposi”): vestito nuovo piuttosto provocante, vino bianco frizzante, le tende tirate, le note un po’ lagnose d’un tango argentino…E in una botola interiore i significati, i dubbi, l’asfissia, lo sfogo cutaneo di un profondo tedium familiare.
Per questa deriva solipsistica e narcisistica, (tutta epocale e generalizzata) Edith ritaglia i dettagli del micro-mondo, il privato più intimo della relazione matrimoniale, e poi passa all’investitura di una sotto-lingua priva di fonazione, quella del monologo muto: Cosa vuole dirmi?; Penso d’aver sbagliato la mia ipotesi; farò finta di niente; non riesco a chiederle; forse avrai capito che ti aspettavo al varco…
Come la LEI del testo, Edith imbandisce la cena su una tavola del silenzio e delle supposizioni con le pietanze avvelenate dalla diffidenza: ingredienti super raffinati per rinnovare l’ardore di un incontro erotico. E con leggera maestria registra una malattia contemporanea dello spirito in questa messa in scena, o per meglio dire «messa in cena» sullo sfondo del non-evento, del non-accadimento dialogico-comunicativo.
Ognuno per sé con i propri moti, pensieri, riflessioni, esigenze. La ricerca di un collegamento al solo fine del contatto consolatorio. La costruzione di un contesto domestico finalizzato alla propria tranquillità interiore. Quasi come la grande piattaforma virtuale del consenso del Like o del tweet.
Ci ricorda Karl-Otto Apel che il fondamento dell’etica politica e civile della comunicazione collettiva sia socraticamente il dialogo.
Ma qui, in queste stanze, la nuda vita, due voci separate, due monadi. E si procede per lenta accumulazione, torpore, semplice ripetizione, quotidiana rotazione.
Retro di copertina di L’immobile volo
Il libro è costituito da due «voci»: una maschile e l’altra femminile, ridotte alla «nuda vita». L’io è stato ridotto a nuda voce. Due «voci» monologanti, presumibilmente due persone conviventi o sposate dei giorni nostri di un qualsiasi luogo insignificante dell’Occidente evoluto che mettono in opera una «confessione» separata, a compartimenti stagni, in camere separate, blindate dalla incomunicabilità generale. Ciascuna «confessione» avviene nell’ambito del proprio Foro interiore, ciascuna parla a se stessa per parlare all’altra, ciascuna parla un linguaggio che l’Altro intende benissimo ma che, proprio per questo, lo fraintende e lo equivoca. Perché ciò che aziona le «voci» è la mole invisibile dell’Inconscio. Ecco spiegato il titolo L’immobile volo, in realtà i due personaggi, le due «voci», pur legate presumibilmente da una contiguità passata e da una relazione intima pregressa, ciascuna, dicevo, è sostanzialmente «immobile», cioè incapace a superare e infrangere lo schermo del Foro interiore, la convenzione sociale della «confessione» e quant’altro. Ergo, ciascuna «voce» è inetta e infetta, e falsa, fortificata dalla propria falsità, falsificata dalla falsa coscienza con la quale si presenta la civiltà dell’ordine borghese dei rapporti di produzione e delle forze produttive che ubbidiscono alle regole del mercato e del capitale. I personaggi hanno un vissuto, vivono, si strappano le vesti, gridano e si dibattono nei meandri del teatro della «confessione», ma sembrano incapaci di andare oltre di essa, impossibilitati a varcare le colonne d’Ercole del Foro interiore. L’esistenza ridotta a nuda voce, è questo il tema di questo straordinario libro di Edith Dzieduszycka.
(g.l.)
Testi da L’immobile volo
LEI
Sì
ma sì
lo so
certo che lo so
da tempo, tanto tempo
tempo che non sospetti
forse
ma forse sbaglio
come tu sai –credo –che io so
ma fai finta di nulla
come faccio anch’io
così entrambi
in livido vortice
di silenzio.
LUI
prevedo che sarà
quest’oggi
una giornata no
Mi basta il suo sguardo
obliquo
sfuggente
per capire l’umore
l’oscuro meccanismo
che di quando in quando
la pervade
la rode
rendendola straniera al decorso normale
pensa forse “banale” della vita vissuta
In questi casi
sto zitto
aspetto che le passi
LEI
sento però salire
quella voglia
malata
di aprire la botola
dall’aria rarefatta e sentori di muffa
in cui contorte strisciano
e s’aggrovigliano
sul fondo viscido e claustrofobico
come larve i pensieri
richiusi
assuefatti ormai
a quella vita grama di torpore
a quella vita che addosso
ci sta appiccicata
sempre sia quella
vita
LUI
però devo sapere
se quel mio pensiero è l’ipotesi giusta
me ne deve parlare
sono cose urgenti
non c’è tempo da perdere
Non riesco a chiederle
se quella è la causa
del suo atteggiamento
quasi colpevole
Se sarò troppo brusco
si richiuderà lei
e per un giorno
due quattro
chi sa quanti non si sbottonerà
e staremo allo stallo
Una bella fatica
sopportare le donne
tentare di capirle
LEI
una tovaglia fresca
odorosa di bucato
sul tavolo rotondo accanto alla finestra
Invece sul carrello
un vassoio di lacca con calici bottiglie
un mazzo di lillà dai sentori d’infanzia
In sordina gemevano
in preda a Metamorfosi
i ventitré violini
Ho scoperto con gioia
che anche a te piacciono
Era tutto perfetto
era stucchevole
quasi mi vergognavo
un’immagine kitsch da corriere del cuore
Prevedevo il tuo ghigno
lo davo per scontato
ma ti sei trattenuto
forse avrai capito che ti aspettavo al varco
LUI
devo però ammettere
conciata così
sei piuttosto arrapante
-quasi non ricordavo-
pure un po’ patetica
vista la cosa cruda
a mente fredda
Scommetto che nel bagno
per completare il quadro hai acceso candele
Andato a controllare
invece non ci sono
delusione! Ora ti tolgo un punto
A parte quel dettaglio
non manca proprio niente
avrai letto “Eva Nuova”
Ma mi viene un sospetto
forse il tuo scopo è prendermi in giro
recitando sulfurea
la parte dell’allumeuse?
Aspetto lo strip-tease
LEI
sì
proprio strozzare
basta poco
davvero
per di colpo cambiarci in bestie
omicide
Credo si chiami raptus
quell’impulso violento
quasi incontrollabile
che sai di dover stringere dietro un argine
L’iter è fare finta
rimanere nel solco
perfino sprofondarci
con la mano sul freno
Così ti ho sorriso
un sorriso solare
quello delle stagioni felici della storia
sei sembrato sorpreso
forse ti aspettavi una lunga valanga
di accuse e rimproveri?

Edith Dzieduszycka, immagine, fotografia
LUI
una gelida fiamma
perché nel tuo sguardo all’improvviso
cupo
ho percepito al volo
spaventato
una traccia di odio
fino ad allora ignota
Così veloce è stata
che m’è venuto il dubbio di avere sbagliato
colpa dell’ombra scesa
subdola sulla sera
Infatti subito
nella luce rosata del sole al tramonto
si è illuminato il tuo viso
-sorpresa non da poco-
in un largo sorriso
Radioso il tuo volto
all’improvviso
LEI
nel tenue chiarore che a quest’ora
filtra dalle persiane chiuse
due gisants côte à côte di marmo opalescente
i nostri due corpi
ora disintrecciati
pesante la tua testa
sul mio braccio dolente
che non oso spostare per non farti svegliare
Meno male
non fumi
rito dopo rito
invece te ne vai
in un mondo lunare
in cui non ti raggiungo
distane siderali
di nuovo
tra di noi
ad alare barriere
LUI
(Dorme)
Il libro c’è. Ma ne verrebbe anche uno diverso, con fotografie, una per ogni poesia. Un foto libro.
Anni fa pensavo alla eventualità di mettere della pubblicità sui libri di poesia. Ma certo in ambiente letterario sarebbe disdicevole. E poi i libri di poesia non si vendono. Ma sarebbe proprio per questo un’azione meritoria da parte delle aziende. Comunque, poi vennero i social e abbandonai l’idea.
Edith Dzieduszycka: queste cose di relazione io non le capisco più, ma come rumore di fondo hanno una loro bellezza. Nella sua magistrale lettura, Letizia Leone mette in chiaro il clima ovattato (per certi versi frequente, ma con toni diversi, nelle poesie di E. D.):
“questo calco sbiadito sulla carta velina che ne fa Edith Dzieduszycka si configura quale intermittenza, interferenza, disturbo sonoro, anomalia d’onda nella linea piatta di un cronografo, sismografo o cardiogramma. Oscillazioni. Librazioni minime nell’ambito di uno scambio superficiario, affidato ai soli significanti o ai correlativi di un codice neutro (unica possibilità d’incontro tra gli “sposi”)”.
Mi permetto una musica che sento adatta:
la prosa-poesia di Edith nel rapporto donna-uomo che non si parlano se no in un silenzio interiore è molto efficace e molto frequente .
Questo non dialogo è ,trovo ,molto riuscito e coraggioso .
Grazie Lucio, per i tuoi commenti, sempre affettuosi e puntuali. Un foto – libro l’ho fatto con testi estratti dal mio Diario di un addio dopo la morte di Michele (con il Bisonte di Firenze, la prefazione di Vittorio Sermonti e la conclusione di Giovanni Paszkowski). Credo in questo Diario di aver detto tutto per quanto riguarda i rapporti uomo-donna, quando resistono felicemente a 40 anni di convivenza.
Bello il video che hai aggiunto, con tutte le sfunature di sentimenti possibili!
C’è silenzio e silenzio. Può essere ostile o complice, c’è una bella differenza!
Grazie Milaure del tuo intervento. Come rispondo anche a Lucio, esistono tante sfumature di colori nel rapporto uomo-donna…
aggiungo i non -detti !
I non detti ci saranno sempre, in ogni rapporto, non soltanto sentimentali. Come sarebbe una società in cui ognuno butta addosso al prossimo tutto quello che pensa?!?!? Senza che sia falsità, può essere a volta soltanto buona educazione !!! A cos’altro serve la Diplomazia?! C’è già tanta agressività in giro e gironi infernalii di gente che si odia…
… senza rendercene conto siamo un po’ tutti diventati delle voci disincarnate, delle «nude voci» che parlano e parlano… la verità vera è che non abbiamo affatto bisogno di comprenderci ma soltanto di essere confermati nel nostro EsserCi. Vogliamo soltanto essere confermati nella nostra falsa coscienza, il mondo è volontà e disperazione senza più disperazione, come diceva Adorno, essendo la disperazione l’ultima ideologia dell’Occidente…
“Nude voci che parlano parlano”, non sempre, io di solito parlo poco, ma oggi sì! per ringraziarti una volta ancora per la tua amicizia e il tuo sostegno generoso, benché sappia di non scrivere esattamente come lo prescriverebbe la NOE! Grazie di nuovo caro Giorgio!
E un grande grazie anche a Diego De Nadai, che presta la sua voce di velluto scuro e suadente e il suo talento ai miei testi. Ormai è diventata una bellissima collaborazione.
Ragguagli su un avvenimento ormai dimenticato
NB: la prima notizia è abbastanza documentata, le altre un po’ meno.
Vittorio Sereni in gioventù
aveva scoperto le tracce
del passaggio di Rimbaud per Milano
qui nel seguito ne diamo alcuni saggi
confidenti nel vostro interesse per l’argomento
a occhio erano un quarantuno quarantadue
data la media altezza dell’individuo
chissà se la stagione torrida
lo era a sufficienza per il suo termometro
era proprio lui che dopo più di vent’anni
Bava Beccaris stava cercando di bombardare
è stato qui che ha deciso che l’Africa
sarebbe stata più adatta alle sue mire
è ormai certo che camminasse all’indietro
per depistare i critici delle direzioni
anche della presenza di Emily Dickinson
è stata quasi trovata una prova sicura.
caro Guido,
interessante questa caccia al «significato» «su un avvenimento ormai dimenticato». Far parlare l’avvenimento, la cosa piuttosto che l’io, ebbene, questo è proprio quello che predica la nuova fenomenologia del poetico.
È semplice.È l’evento che parla, in prima persona, non noi che parliamo intorno all’evento.
Heidegger non considera l’ Ereignis come un semplice evento futuro,
che esso è «già qui» nell’età della tecnica la quale ne è la «prefigurazione», che la storia è a più strati, è un multi strato, e l’ Ereignis è «altro» solo nel senso che ne costituisce lo strato più profondo, che esso non può essere sostanzializzato ma va colto per accenni, per invii, per sconnessioni…
La ragione è il Logos, è in se stessa l’atto che differenzia, che mette in opera quell’Unter-scheidung (differenza), figlia dell’Ent-scheidung (decisione), che realizza la Scheidung, il taglio dei significati e dei significanti, la moltiplicazione dei significanti. La poesia della nuova fenomenologia del poetico ha questa spiccata consapevolezza, che quel Logos, quella ragione è inappropriata a rappresentare ciò che sfugge alla rappresentazione, l’origine non rappresentabile della rappresentazione.
Abbiamo dunque bisogno di un nuovo Logos per investigare l’origine non rappresentabile della rappresentazione, l’impensato dell’impensabile.
Edith Dzieduszycka ad esempio fa parlare in prima persona la «incomunicabilità». Le due voci che parlano in realtà sono dei prestanome, dei prestavoce.
«Evitiamo di perderci nell’infinito, non siamo fatti per averne la benché minima idea e ci è assolutamente impossibile risalire all’origine delle cose. Del resto, che la materia sia eterna o sia stata creata, che ci sia un Dio o che
non ce ne siano affatto non è per noi motivo di inquietudine. È una follia tormentarsi così tanto per ciò che è impossibile conoscere e per ciò che, quand’anche venissimo a saperlo, non ci renderebbe più felici»*
* Julien Offray de La Mettrie, L’uomo macchina, ed. mimesis, Milano 2015, a cura di Fabio Polidori, ed. or. L’Homme machine,1747, cit. p. 52
Tutta la tradizione metafisica non ha fatto che ripetere a se stessa che c’è un inizio ed una fine, che c’è un origine e poi qualcosa che ne deriva, che la rappresenta, che le permette di evolversi, espandersi, uscire fuori di sé (quasi sempre col fine già predisposto di fare ritorno a casa). C’è un primario e un secondario, una realtà e una finzione, un significato e un significante, e qualsiasi cosa succeda, e comunque la si metta, non si potrà dire che il finto venga prima del vero, che la rappresentazione venga prima di ciò che viene rappresentato. Ma in realtà (più evidentemente in questa epoca che in altre) noi non ci muoviamo che attraverso e dentro la finzione, le rappresentazioni, codici, scritture, origini sempre differite . Chi ha mai visto l’Essere?Chi ha mai toccato il Senso? Chi ha mai potuto dire di aver stretto rapporti con l’Origine?
Edith, mia cara,
ho ascoltato e ri-ascoltato, ho visto e rivisto, testo poetico (“Un uomo”) e video (magistralmente allestito) di Diego De Nadai: risultato estetico-emotivo-culturale in grado di avvinghiare l’uditore-spettatore in spire dalle quali non è facile alla fine liberarsi.
Non sono esiti, questi, lasciabili al caso, ascrivibili al dilettantismo, attribuibili alla fortuna o alla estemporaneità domenicale.
Qui, in un lavoro come questo, c’è, e c’è tutta, quella che chiamo solitamente “cultura poetica” in chi scrive e in chi legge e in chi dice e/o interpreta gli altrui versi:
competenza (di chi scrive poesia e di chi la legge), capacità critica, orecchio, consapevolezza,etica, esperienza di lettura…
Sorprendente, infine, la capacità di interpretazione della poesia contemporanea da parte di Letizia Leone la quale ci lascia anche qui una sicura e chiara testimonianza critica.
Carissimo Gino, riconosco in questo commento una tua caratteristica e capacità affettiva e intelletuale di lettura, scrittura e ascolto, una benevolenza e apertura agli altri, una “gentilezza” che sembra ormai qualità desueta di altri tempi – quali poi?! – ed invece è quella che renderebbe subito migliore il nostro mondo così travagliato e aggressivo. Grazie Gino per le tue belle parole.
da http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-del-09082020/#comment-260
Poesia inedita di
Mario M. Gabriele da Remainders di prossima pubblicazione per Progetto Cultura di Roma
Il tragitto fu di breve durata.
Non furono i Dichtung
ma le pagine 233-238,
in particolare le pp. 236-237
a cambiare la vista del mondo.
Ciò che Orwell disse, fece rabbrividire mente e pelle
tra assenso e negazione.
Mister Gab,
la Pojetika vorrebbe averla tra gli ospiti
al Convegno sulle frantumazioni dell’anima
nei distici.
Ciò che è detto è detto, si sentì dire come risposta.
Ogni ermeneutica sul verso
è una mobilitazione delle raffigurazioni
e dei momenti.
La prima questione fu di Clark
abbandonando le mani di Charlotte
per una autodifesa del Nulla.
Anche in queste cose
ogni discorso diventa un percorso.
Bisognerà chiedersi se la museruola lasciata al bulldog
rientri nel silenzio dell’Essere.
Le rispondo Signore, ora che ho finito il Master
e posso discutere di Friedler
e della categoria di – visibilità pura-.
E’questione di coscienza,
e di come abbiamo trasmesso la nostra ontologia.
Quel Dichtung di cui parlava
ha bisogno di un mondo reale e tattile,
come le bucce di banane alla Conad.
E’ questo il punto ontogenetico
che ha fatto dire a Sibill:
Oh Paris, le Belles Lettres
allungano i quesiti, li denudano della loro origine
fino a morire nella Senna.
*
Filippo says:
agosto 9, 2020 at 11:12 am
Straordinaria poesia, che all’improvviso appare in un mare di insignificanza poetica e di espressioni formali assurde.
Lucio Mayoor Tosi says:
agosto 9, 2020 at 12:45 pm
Non un cambio soft, è piuttosto un acuto. Anche nella forma “intervista”, estranea alla tradizione, il poeta di talento lascia sempre e comunque il segno. Il distico è alle spalle (come aver vinto la Champions, che ancora non lo sa nessuno). La vita di ciascuno è tutto sommato breve, si lascia un segno là davanti, in quel nulla di cui tutti soltanto parlano. Mando un abbraccio.
Giorgio Linguaglossa says:
agosto 9, 2020 at 5:23 pm
caro Mario,
penso che la tua pop-poesia possa essere letta da chiunque eserciti una professione utile ma non da un impiegato della pseudo cultura… un negoziante, un orologiaio, un barista, chiunque tranne che da un letterato.
In distici o in tristici o in quadristici il tuo è un discorso sulla tristizia del linguaggio de-politicizzato che usiamo tutti i giorni. Il fatto è che quel linguaggio si è decomposto già da tempo, la decostruzione è già avvenuta e avviene continuamente tutti i giorni e tutti i momenti ad opera delle emittenti dei media che emettono vomito profumato in miliardi di esemplari. Ma, gratta gratta resta vomito. E tu, da poeta sub-atomico, lo metti in evidenza, non fai nulla per nascondere, dissimulare o vestire il vomito.
Anche in queste cose
ogni discorso diventa un percorso.
Bisognerà chiedersi se la museruola lasciata al bulldog
rientri nel silenzio dell’Essere
Andiamo tutti quanti in giro con una museruola, solo che non ce ne accorgiamo, diciamo frasi fatte, frasi obbrobriose per la loro insignificanza. Tutto ciò «nel silenzio dell’essere». Non è drammatico se non fosse comico? Drammatico e demiurgico e demoscopico con un algoritmo che decide del nostro linguaggio de-politicizzato profumato all’aloe. È che «l’essere svanisce nell’Ereignis», «l’essere svanisce nel valore di scambio», ha scritto una volta Heidegger. Davvero, una frase così potrebbe sottoscriverla un filosofo marxista e verrebbe tacciato di estremismo infantile. E invece l’ha scritta Heidegger.
Se consideriamo la nota tesi dell’esteticità diffusa propria della post-modernità (da internet all’arte pubblica, dagli spettacoli sportivi al design, dalla moda alla pubblicità, ecc.), l’idea di poiesis che ne deriva è un’arte come capacità di formazione di campi di comunicabilità e di intersoggettività, tesi che non può essere accettata se non come principio trascendentale di possibilità. In tale accezione, la tua è una operazione di disattivazione del linguaggio ordinario e comunicazionale per convogliarlo in una nuovo campo intersoggettivo dove quel linguaggio viene denudato e riportato allo stato nascendi, spogliato delle sue proprietà della falsa comunione e comunicabilità.
Una rapida ricognizione nella nostra libreria, ma anche uno sguardo superficiale alle esperienze artistiche del Novecento (la musica atonale, l’arte concettuale, il ready made, la real thing etc.) può farci facilmente capire che l’arte si riferisce semprea paradigmi, grammatiche e valori condivisi. Talvolta questi valori sono labili e mutano molto velocemente, altre volte sono più stabili. È che da molto tempo non abbiamo più una tavola di valori stabili e condivisi. In tal senso, l’idea kantiana del sensus communis può essere accettata, una volta sgombrato il campo dalla desueta teoria delle facoltà dell’animo, per pensare l’arte non sulla base di un mondo fattuale e istituzionalizzato, ma in virtù delle sue capacità di istituire mondi possibili di comunicabilità. Questo è il principio trascendentale dell’arte sul quale è incardinata la proposta di una poetry kitchen. Il trascendentale che tu poni in essere è la nuova comunicabilità intersoggettiva di un linguaggio de-soggettivizzato ad algoritmo non più significativo che tu trasponi e traduci in nuova comunicabilità intersoggettiva. Il trascendentale intersoggettivo della tua poiesis può significare l’idea della genesi della condizione di possibilità in quanto condizione di possibilità di un campo di linguaggi denudati e mutilati che vengono dis-attivati e ri-attivati in un nuovo campo gestaltico qual è la poiesis. E questo è il luogo dei tuoi sintagmi presi come ready made, come real things che entrano in un nuovo campo linguistico intersoggettivo.
Una volta affermata la «fine della storia» e il tramonto della metafisica, insistere sulla ricerca di unanuova definizione dell’arte significherebbe commettere una contraddizione insanabile: riutilizzare le categorie metafisiche dell’estetica moderna dopo averne argomentato l’inefficacia e dichiarato l’esaurimento, e infatti la nuova poiesis non va definita in alcun modo se non come attivazione di un nuovo campo di possibilità comunicazionali, una nuova Gestalt.
Tu scrivi, caro Giorgio, fuori da ogni stravaganza ermeneutica. Credo di metterti nella double face di poeta e critico, tutte le volte che immetto un testo poetico a cui dai il meglio della interpretazione e del motivo per cui alla nostra età (almeno la mia) ci dinamizziamo in temi, figure, linguaggi, problemi sociali ed esistenziali, soffermandoci su situazioni inesplicabili e metafilosofici, che lasciano alla causalità esterna il nostro annichilimento.L’opera d’arte è anche differenza e relazione, contributo alla conoscenza, se proprio la consideriamo l’altro di sè dell’artista interessato verso una “una nuova Gestalt”..
Ecco una variante de Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa
alla maniera della poetry kitchen
Giorgio Linguaglossa
*
Beatrice esce dalla sala da ballo de “Il gattopardo”
di Luchino Visconti
entra nella “Tempesta” di Vivaldi e balla di nuovo il valzer con il principe Salina
il secondo valzer di Shostakovich.
Tancredi cade ferito a morte nella battaglia di Calatafimi.
La storia finisce così e il romanziere deve scrivere di nuovo il romanzo.
Adesso è Nino Bixio che uccide alle spalle Tancredi
per gelosia, per invidia, per tradimento
mentre l’esercito borbonico si ritira…
Angelica fa ingresso di nuovo nel salone degli specchi.
Il principe Salina adesso danza con Angelica,
Nino Bixio danza e sposa la bellissima Angelica.
E Tancredi? Tancredi è morto, caduto in battaglia tra i valorosi.
Così, almeno, narra la nuova versione del romanzo.
E adesso è un nome su una croce in un piccolo cimitero di campagna
tra i morti della battaglia di Calatafimi…
*
Gino Rago
Dal fucile di un borbone parte un colpo verso Bixio. La pallottola oro-argento uccide il licantropo che a ogni luna piena sacrificava una verginella tra le masserie del quadrilatero Bronte-Calatafimi-Taormina-Milazzo.
Madame Colasson è la prima che accorre. Toglie la maschera al lupo mannaro morto. Grida:
«Sacrilegio. Il licantropo ammazzavergini lo conosco, è il parroco zoppo di Agrigento».
Unico indizio la luna piena.
La pallottola oro-argento entra nella camera di Kavafis, sfiora lo scaffale con i due vasi gialli senza fiori, entra nell’anta destra dell’armadio a specchio, esce dalla finestra e colpisce un garibaldino di Bixio al polpaccio sinistro.
A meno di un metro di una parigina che legge i cronologi su Le Figaro cadono tappeti turchi, sedie di paglia viennese, federe, cuscini di piume d’oca, un divano color amaranto, gabbie di canarini, barattoli di lenticchie, bicchieri e bottiglie di plastica, posate d’argento, confezioni di guanciale, una copia di Ritorno a Birkenau di Ginette Kolinka.
A Piazza Santa Maria alla Minerva l’elefantino butta giù l’obelisco. Entra nel Caffè Sant’Eustachio, frantuma tazze, confezioni di cioccolata, scatole di latta piene di biscotti, sacchi di iuta. Poi beve un caffè, ruba un cornetto al cioccolato, succhia il cappuccino dalla porcellana di Milaure Colasson la quale si toglie dai capelli la forcina, la infila nella proboscide coperta di schiuma e stordisce l’elefantino che ritorna sotto l’obelisco.
Pennac, Robbe-Grillet, Queneau e Perec tornano all’Ufficio Affari Riservati al quinto piano di Via Pietro Giordani.
Il direttore il noto filosofo Giorgio Linguaglossa è assente, nessuno dei presenti ha notizie di lui. Due stanze sono affittate a uffici commerciali, le altre sono abitate da sensali, da affaristi, da lobbisti e da mercanti.
Madame Colasson lancia dal balcone della Circonvallazione Clodia una copia del saggio di Italo Calvino La poubelle agréée sul gabbiano che insegue un piccione romano sull’immondezzaio.
Dall’appartamento al quinto piano di Via Gozzi piovono sull’asfalto copie di Le parole e le cose di Michel Foucault, di La vita delle cose di Remo Bodei, di Il Museo dell’innocenza di Oran Pamhuk, di Dalla vita degli oggetti di Adam Zagajeski.
Milaure Colasson rientra in cucina e si prepara un frullato con frutta di stagione.
Un messaggio cifrato alla sezione affari internazionali di Piazza Farnese: Giorgio Linguaglossa ieri è stato visto sulla strada da Bou Jeloud a Bad Fetouh.
Prima era stato in un vecchio mulino a vento all’isola di Paros…
*
Gino Rago
(bozza)
Dal fucile di un borbone parte un colpo verso Bixio. La pallottola oro-argento uccide il licantropo che a ogni luna piena sacrificava una verginella tra le masserie del quadrilatero Bronte-Calatafimi-Taormina-Milazzo.
Madame Colasson è la prima che accorre. Toglie la maschera al lupo mannaro morto. Grida:
«Sacrilegio. Il licantropo ammazzavergini lo conosco, è il parroco zoppo di Agrigento. Unico indizio la luna piena».
La pallottola oro-argento entra nella camera di Kavafis, sfiora lo scaffale con i due vasi gialli senza fiori, entra nell’anta destra dell’armadio a specchio, esce dalla finestra e colpisce un garibaldino di Bixio al polpaccio sinistro.
A meno di un metro di una parigina che legge i cronologi su Le Figaro cadono tappeti turchi, sedie di paglia viennese, federe, cuscini di piume d’oca, un divano color amaranto, gabbie di canarini, barattoli di lenticchie, bicchieri e bottiglie di plastica, posate d’argento, confezioni di guanciale, una copia di Ritorno a Birkenau di Ginette Kolinka.
A Piazza Santa Maria alla Minerva l’elefantino butta giù l’obelisco. Entra nel Caffè Sant’Eustachio, frantuma tazze, confezioni di cioccolata, scatole di latta piene di biscotti, sacchi di iuta. Poi beve un caffè, ruba un cornetto al cioccolato, succhia il cappuccino dalla porcellana di Milaure Colasson la quale si toglie dai capelli la forcina, la infila nella proboscide coperta di schiuma e stordisce l’elefantino che ritorna sotto l’obelisco.
Pennac, Robbe-Grillet, Queneau e Perec tornano all’Ufficio Affari Riservati al quinto piano di Via Pietro Giordani.
Il direttore il noto filosofo Giorgio Linguaglossa è assente, nessuno dei presenti ha notizie di lui. Due stanze sono affittate a uffici commerciali, le altre sono abitate da sensali, da affaristi, da lobbisti e da mercanti.
Madame Colasson lancia dal balcone della Circonvallazione Clodia una copia del saggio di Italo Calvino La poubelle agréée sul gabbiano che insegue un piccione romano sull’immondezzaio.
Dall’appartamento al quinto piano di Via Gozzi piovono sull’asfalto copie di libri, Le parole e le cose di Michel Foucault, La vita delle cose di Remo Bodei, Il Museo dell’innocenza di Oran Pamhuk, Dalla vita degli oggetti di Adam Zagajeski.
Milaure Colasson rientra in cucina e si prepara un frullato con frutta di stagione.
Un messaggio cifrato alla sezione affari internazionali di Piazza Farnese: “Giorgio Linguaglossa ieri è stato visto sulla strada da Bou Jeloud a Bad Fetouh. Prima era stato in un vecchio mulino a vento all’isola di Paros…”
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Gino Rago
Dopo aver letto le poesie di Edith Dzieduszycka, le parole di commento di Giorgio Linguaglossa e di Letizia Leone, ho pensato a questa poesia che ho scritto un po’ di tempo fa. Anche qui l’incomunicabilità è al centro, non di parole, ma di gesti.
CRISI DI COPPIA
Era partita con il piede avanti
che lui ha immaginato fosse di lato
allora lei ha proseguito con il sinistro
in diagonale per incontrarlo
proprio mentre lui si spostava.
Lei ha imboccato allora una linea retta leggera
per non rompere lo schema
e incrociare l’occhio di lui
che ha invece chiuso lo sguardo
e l’ha schivata
con una falcata di sbieco.
Per aggirare il groviglio
lo ha affiancato.
E’ una provocazione, si è detto lui
e le ha dato le spalle.
Ai lati opposti di un tavolo
ora si leggono in silenzio.
Tiziana Antonilli
Anche io non le capisco più; ma allo stesso tempo mi ritrovo a viverle. A voglia a tentare di spiegare che è lì che lavorandoci sopra si potrebbe tentare un rinnovamento dell’esperienza umana. Se solo un sano individualismo, soprattutto economico, potesse realizzarsi!! Ah, se tutti potessi guadagnare abbastanza da risultare completamente indipendenti, indipendentemente dalle esigenze della famiglia (che non può essere, e non deve, sinonimo di coppia!)!
In proposito una poesia scritta di recente:
ROSAE ROSARUM
E si torna a trattare d’amore
Sofferenze Dolorini Silenzi
Rancori Livori
Scazzi mattutini corti amari
Feroci
Vomiti di parole
Bilanci
Trasparenze che vogliono opacità
Mancanza di empatie e complicità
Arrendersi all’assenza?
Forse sì
Sposarsi
Firmare un contratto
Far sfiorire le rose
Lacrime sui baffi
Un tempo saltellavamo
Sui petali di quella rosa
Che credevamo mia e tua (o ero solo io
A crederlo?)
Per poi assopircici sopra
Sul ciglio di velluto di quei petali
Era un tempo di vigneti e roseti erotici
Poi le rose aumentarono
Mazzolini fasci e rosoni
E fu come un nuovo assopirsi
Nella speranza di liberarsi dai falsi
Dai falsi sogni
Dal mondo contorto
Rozzo zozzo e tozzo
Identitario
Utilitario
Era un assopimento d’amore
In cui tra le priorità personali
Si affastellavano i desideri
I bisogni e le necessità
Dell’altro (almeno per me)
E non (mi raccomando)
Le paure le sofferenze i dolori
(anche se so che è il rifiuto
per molti
a generare identità)
Erano varie rose
Ma volevo mi paresse una rosa
Sola
E mia e tua
Nostri tutti i petali a nastro
Ma non era così
Erano rose diverse
Una mia e una tua
Erano rose diverse
E questa volta
Per quanto non sia una storia finita
Una rosa sfiorita
Un momento
(per me una storia non finirebbe mai)
È una storia da lasciare dietro le spalle
Senza partenze tuttavia
E dopo gli scoppi d’ira
La forza interna è bassissima
È speranza o disperazione
Ricordi tu che lui
Davanti alla violenza
Ha provato speranza
E nel fiume dei piaceri
Paura della foce
Dei suoi scopi poderosi
Lei ne saprà quanto colui
Ignorante in astrologia
Della Luna e di Mercurio
Uomini velati parlarono di altre divinità
Ma non si sa se siano possibili due o più verità
Per la stessa realtà
Una rosa
Due rose
Rosari
È possibile accettare più Dei
O alcuni devono prima
Asservire o uccidere gli altri
Rose gramigne
Posso accogliere
Adesso
Posso scendere
Immobile
Pietra in un ghiacciaio
Le rose non sono sfiorite
Perché le rose sono indimenticabili
Forse ci diletteremo a ricercare
Insaziati
I riflessi che le nostre anime
Si sono lasciate
L’un’ l’altra
Intanto
Si torna a trattare l’amore
Forse un sogno incerto di un’alba esitante
Che pare una sera deserta
Tra perplessi corridoi
Vane anticamere
E scale vertiginose
A chiocciola
Tra le mie mani
le tette di sempre
Dietro la finestra aperta
I tetti di sempre
In alto i rami e le antenne
Di cui non si può essere nemici
Tornano a confondersi
Forse niente è più limpido
Della solitudine
Di una rosa
Di una rosa del deserto
E si torna a trattare d’amore