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 Letizia Leone, Poesie scelte da Viola norimberga, Progetto Cultura, Roma, 2018 pp. 100 € 10 – con una Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero. La storia vista da un colore

Letizia Leone Viola Norimberga

part. di Der beste Doktor di Alfred Kubin, cover di Lucio Mayoor Tosi

Letizia Leone è nata a Roma. Si è laureata in Lettere all’università  “La Sapienza” con una tesi sulla memorialistica trecentesca e ha successivamente conseguito il perfezionamento in Linguistica con il prof. Raffaele Simone. Agli studi umanistici  ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF organizzando corsi multidisciplinari di Educazione allo Sviluppo presso l’Università “La Sapienza”. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011. Nel 2015 esce Rose e detriti testo teatrale (Fusibilialibri). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera (Versi erotici delle maggiori poetesse italiane), Perrone Editore, 2012. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016), con il medesimo editore nel 2018 pubblica la silloge Viola norimberga. Sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia contemporanea, How The Trojan War Ended I don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019.

Allucinazione e paesaggio

Di certe pergamene che maestri profeti avevano letto solo a se stessi
di notte e nel deserto, nessun frammento aveva superato il tempo.
Ed ora l’ultima piaga:
la grande moria delle api.
Tra gli atti estremi della predazione: il saccheggio dei pollini fatati, delle api bottinatrici, dei fiori operai.
Verso l’estinzione

Bucata e piatta ormai la terra,
senza più venti
aria ferma dall’alba al tramonto. Una grossa bolla ardente
come in una stufa la vampa aveva prosciugato tutte le sorgenti.
E sebbene si fossero dimenticati i nomi di quei venti, si teneva duro in un battere i brividi nei denti.
Nilo, Alisei, Zefiri, Boree?
Nomi sacri per la carie del cielo
o per il taglio secco di un fiume.
Qualcuno si domandò:
Cosa avranno provato gli uomini quando chiamarono per la prima volta il cielo“cielo” e il mare “mare”?
Sarà sgorgato un po’ di colore azzurro? Si saranno sollevate le onde irruenti?*
Mare, Mare, Thalassa…Quale volteggio azzurro sotto la cappa di vapori e ossidi!

Estinti i sogni, il sonno degli umani così cupo intero fondente. Una scatola di buio.

Ma qualcuno scrutava i segni al fuoco di candela.
Dentro una tenda studiava come sbrogliare il groviglio colossale di tutte le materie del pianeta.
Studiava superstizioni, vacue leggende di frutti e di fiori, i felici impulsi della natura. Come porre un freno allo sgretolamento della creazione?
Necessitava una riparazione.
Inoltre in molti si erano persi e sarebbe stato difficile dirglielo.

Il campo era sovraffollato e il deserto andava loro incontro.
Se la luce è pensiero (così dissero i patriarchi) quel faro abbagliante del giorno era febbre, follia, malattia.

Troppi confidavano in lui, nella sua guida.
Chi possiede un alfabeto ha accesso a più segreti e lui era l’unico che sapeva leggere numeri e simboli.
Come un antico padre del deserto avrebbe dovuto guidarli al cospetto degli alberi maestosi,
gli animali immobili della guarigione,
le creature che costruivano giardini.
Trovare un albero sarebbe stato come trovare una cisterna d’acqua pura, una colonna di vita che avrebbe restituito protezione e nutrimento.
Ma ovunque alberi tagliati senza un fiato e senza un lamento. Abbattimento delle sequoie. Cortecce scorticate e legno per le crocifissioni.
Radure di mozziconi crudi e neri.
La mappa dei delitti ardenti. L’antico cuore del pianeta tutto brucato.

Ma a chi dire quelle cose?

Se qualcuno ricominciasse a provare pietà.
Si fermasse commosso a contemplare le sterpaglie lungo i sentieri di polvere,
a guardare il cielo tozzo che pesa sul mondo e a dire: “bello”
a indovinare le stelle oltre il coperchio opaco dell’atmosfera.

Lui allora sollecitò i gruppi a rimettersi in cammino.
Intorno onde di sabbia e gente abbattuta che dormiva nei sacchi.
Nessun animale in giro.
Le bestie, dissacrate e umiliate, erano state consumate come cibo o usate in modo feroce come giocattoli per i più deboli.
Avevano disseminato la terra di oggetti. Le scorie della Storia segnavano il cammino e orientavano chi tornava disperato sui propri passi.
Quanti utensili degli antichi popoli spensierati.

Lui si tormentava. Avrebbe dovuto confessarlo a quei disgraziati che non sapeva niente, né dove andare e tanto meno che fare. Quali boschi? Quale refrigerio di un albero? Quale antico giardino descritto nei codici miniati?
Aveva raccontato solo menzogne.
Era tutto morto intorno e loro erano in trappola dentro una brocca di tenebra. Scappavano dalla cenere.

Una folla gli si accalcò intorno “non ci puoi abbandonare! Sei l’unico che conosce la storia!”. Le donne piangevano: “La rivelazione?”
Tornare a guardare. Ricominciare a guardare oltre il filo spinato, ma da sopravvissuti.
Riportare un ricordo felice dentro le baracche,
accumulare poche forze e mettersi in marcia. Ricalcare i propri passi e raccogliere i semi curativi nei ciuffi d’erba che avevano resistito.
Sguardi di compassione.

Alcuni capi non erano d’accordo. Era questo il prodigio che aveva promesso?
Qualcuno aveva letto i libri e ne citò delle frasi.
“Ma noi abbiamo ceneri alle spalle!” gridò un altro dal fondo.

Alcuni aspettavano l’apparizione di Dio su qualche monte,
fosse anche una discarica o perfino il mucchio dei cadaveri.
In fondo erano tutti stanchi dei sentimentalismi, amore, compassione ma nessuno lo diceva.

Molti anni dopo arrivò la notizia dell’interrogatorio di Mosè, di come gli furono estorte informazioni su lettere e alfabeti.
Lui sapeva leggere e interpretare, era in grado di scrutare l’abisso che celava ogni lettera. Il loro lato in ombra,
cosa nascondesse l’Alef
o se era veramente un gancio la Jod.
Le lettere erano anche madri. Il segreto e l’essenza.
Bisognava andare a serrare le porte che erano state dissigillate, aperte, violate. Usando una sola lettera.
Semplice a dirla così.
Lo interrogarono ferocemente per cento notti.
E lui alla fine confessò che a far vibrare la vocale e ad attivarne il potere non era più compito da uomo ma da uccello.

Avrebbero dovuto ripopolare il cielo di uccelli e di insetti,
rifarlo azzurro, e poi far cantare tutti, corvi e colombe.
Il nome di Dio non era cosa per bocca umana.
Ne spettava ormai la pronuncia a disumani sospiri.
Magari alle api, le messaggere irruente degli odori.
Riallacciare i nodi arcani e segreti della natura. Ma lasciare fuori questa volta le creature pericolose. Gli uomini. Se Dio era là tra gli alberi, se Dio era un albero.

“È vero che Dio ha sigillato il mondo col suo nome di cento lettere?” lo incalzarono gli aguzzini.
I suoi ultimi pensieri furono per certe lettere misteriose che avevano il potere di suscitare la creazione…
Lo misero a capo della fila che attraversava i bagni. Il capo della rivolta.
La carne scoppiata di dolore.
“Guida il tuo popolo, Mosè”, urlavano sferrando calci, e lui sentiva urla e risate anche dalle orecchie spappolate.
Riscaldò di rosso le piastrelle bianche.
Quando le parole si scrivono col sangue diventano inesauribili.
Intanto una donna pia aveva messo quel dolore sotto vetro e ne aveva fatto conserve invernali per tutti.

Finché un giorno le prime scintille scappate fuori dal Libro dello Splendore fortificarono l’erbetta malata che brillò di pioggia mista a cenere.
Nessuno riusciva a decifrarlo quel libro di vecchie storie

ma bastava pronunciarlo
come alfabeto cantarlo
per far scappare fuori il più luminoso dei giorni.
Quando un cinguettio spaccò la sabbia.

La vita povera è ricca di sensazioni.

Uno che scriveva poesie origliò dal barattolo del dolore:
Eppure il passero ci offre un’immensa lezione: come trasfigurare la sua povertà in festa, la sua vulnerabilità in grazia*
I melograni dell’immaginazione allora glorificarono il giardino delle promesse
e il garofano abbandonato alla finestra dal giorno della deportazione
si scoprì in piena fioritura sotto il sole delicato dell’equinozio.

Mosè avrebbe voluto dire.
Lontano il campo di sterminio.

* Odisseas Elitis
* Dai Diari di Hatty Hillesum.

Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero

La storia vista da un colore

 

Scrive Giorgio Linguaglossa nel retro di copertina:

« Il Processo di Norimberga iniziò il 20 novembre 1945 e durò fino al 1 ottobre 1946. Oltre ai 24 accusati avrebbero dovuto essere processati anche Adolf Hitler, cancelliere della Germania e principale responsabile di tutti i crimini, Heinrich Himmler, capo della SS e della polizia e Joseph Goebbels, il capo della propaganda nazista, ma costoro si erano suicidati già una settimana prima della fine della guerra. Nella lista degli accusati avrebbe dovuto esserci anche Adolf Eichmann e Josef Mengele, due dei massimi responsabili del genocidio degli ebrei, ma entrambi erano riusciti a fuggire in Sudamerica. Mi chiedo: perché una poetessa italiana, Letizia Leone, dà alle stampe un’opera che si ispira al famoso processo? La poetessa romana racconta con un senso di orrore e di disappunto, come una colpa, con un linguaggio irrigidito da quella immane tragedia che è diventata la tragedia dell’umanesimo europeo; in realtà, la cultura e l’arte nulla possono per fermare la mano di un assassino, è questo il punto. «Questa Storia/ Non si può scrivere a mezzogiorno», la poesia nata come canto è stata oggi derubricata a funzione accessoria non necessaria, e allora sarà la successione delle immagini, dei fotogrammi a fare la poesia, sarà unicamente il montaggio dei frammenti e dei lacerti dell’orrore. E questo comporta la conseguenza della massima spersonalizzazione dell’autore e del destinatario dinanzi al referto linguistico. Niente tridimensionalità acustica, retorizzazioni, iconologie, canto, niente commento, solo i frammenti di uno specchio rotto: ossimori, enunciati sghembi, contaminazioni lessicali, un vortice linguistico che è lo stigma dello stile. È il modo personale della Leone di erigere una barriera stilematica chiusa. Libro della piena maturità questo della Leone che osa l’inosabile, nominare l’impronunciabile.» Continua a leggere

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