
Fiera del Libro Milano 20 aprile 2017 Presentazione Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo
Nuovi Paradigmi
Nella Prefazione all’Antologia, Come è finita la guerra di Troia non ricordo, il curatore ribadisce in forma quasi di manifesto la propria concezione della poesia, riproponendo alcune questioni cruciali. Ma, prima di entrare in queste, è bene citare il passaggio con cui Giorgio Linguaglossa dà senso al titolo della Prefazione, Il cambiamento di paradigma della forma-poesia: “Cambiamento di paradigma è dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario nell’ambito della scienza”, locuzione, ricorda, “coniata da Thomas S. Kuhn” in “La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) e che Linguaglossa trasferisce in ambito letterario, ricordando l’opera Paradigm (2001) di Alfredo de Palchi”. Opera che colloca opportunamente tra forme pre-sperimentali e sperimentalismo, e esempio dei “più importanti mutamenti di paradigma della poesia italiana” che “avvengono a cavallo degli anni cinquanta e sessanta”. È peraltro un trasferimento non pacifico, in quanto lo stesso Linguaglossa ricorda con Kuhn che, rispetto allo scienziato, “’lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione tra loro’”. Tuttavia, anche per me, il tentativo di connettere postulati scientifici e letterari è stato ed è affascinante quanto fruttuoso, anche se Moderno e Post-moderno hanno dilatato ancor più la condizione operativa di “(im)possibilità di epistemologia della poesia” (vedi in A. Vaccaro, Parte introduttiva di “Ricerche e forme di Adiacenza”, Asefi ed, 2001).
Rilievo che poi proseguendo Linguaglossa sviluppa: “Tutto sommato lo sperimentalismo era una pratica rassicurante…introduceva delle certezze”, mentre ora siamo in un universo liquido in cui “tutte le ipotesi di poetica” sono “crollate con il crollo del Fondamento e…non si danno più certezze nell’incertezza generale né alcuna stabilità nell’instabilità generale”, “un nichilismo… diventato nuda evidenza”. “La verità è che il pensiero si è polverizzato a seguito dell’eclissi di un principio fondatore, e la sfera artistica, così come l’etica, si è trovata in balia della assenza di ogni giustificazione…è venuta meno la gerarchizzazione dei linguaggi artistici e dei linguaggi tout-court”; “e quelli poetici si sono disseminati in una pluralità degli stili”, “poetiche del frammento, della duplicazione del frammento”, anche se questo “non si può duplicare né moltiplicare”. Sono rilievi inconfutabili del punto zero in cui siamo. Ma rispetto ad esso, c’è solo la resa o c’è la possibilità di un oltre, che sappia ritornare a un paradigma rinnovato capace di risalire dalle attuali macerie? È la domanda aperta che impegna il libro e giustifica il Titolo, alla quale – come vedremo – Linguaglossa non rinuncia a cercare e a dare risposte, sia attraverso gli Autori antologizzati, sia nella stessa Prefazione, su cui qui intendiamo soffermarci.

Laboratorio di poesia, Roma, 24 maggio 2017
Il punto di partenza
Ma argomentazioni adeguate a tale nodo complesso implicano un confronto con le proprie. Torniamo perciò alle questioni cruciali inizialmente richiamate, a cominciare dalla primissima: “La poesia, come la filosofia, non progredisce, se intendiamo per ‘progresso’ l’accumulazione di ‘risultati’ che si susseguono gli uni agli altri”; “visione…propria di un modello di Ragione di cui siamo tutti debitori”. Tuttavia, precisa l’Autore: “Ci sono momenti in cui la poesia fiorisce, dopo un lungo sonno, e ci sono momenti in cui si riaddormenta”. “Ma…il sonno della Ragione poetica” tende a produrre “un eccesso di chiacchiera e di indifferenza…e quando le domande metafisiche si spengono alla Musa viene accordato un domandare ironico-scettico, il disincanto…che elude la questione…il vero domandare”. E cioè: “Il locutore ha cessato di essere fondatore. È questa la ragione centrale che ha impossibilizzato ogni forma-poesia che stabilisca…una referenzialità diretta con il ‘reale’.”
Ritengo questo “un punto di partenza” – per Rimbaud, decisivo per il prosieguo di ogni percorso – di notevole importanza, che da gran parte dei cultori di poesia contemporanea è semplicemente ignorato (confermando quel sonno sopra ipotizzato), e che chiede invece un confronto approfondito da parte di chi, come me, ne ha fatto un punto fondante del proprio percorso di ricerca. Non posso perciò evitare di rifare, sia pure sinteticamente, alcuni passi essenziali di tale percorso per poter meglio evidenziare quelli che, per me, costituiscono il corpo, il carattere, il valore e i limiti della posizione di Linguaglossa. Posizione che parte dal punto sopra citato, problematico e stimolante, in quanto (o proprio perché) è al tempo stesso materico, anomalo e contraddittorio. La biforcazione concettuale si evidenzia tra critica della Ragione (e relativo orientamento idealistico), accanto a richiami metafisici o ontologici. Tendono tuttavia a prevalere tensioni alla matericità e alla preesistenza della cosa-in-sé (dunque non frutto di pensiero o volontà), concreta o no e a meno che non si tratti di una realtà fondata da una azione creativa/inventiva; accenti rafforzati da locuzioni quali “Ci sono momenti…”, che rientrano più in impostazioni fenomenologiche.

Fiera del Libro Milano 20 aprile 2017 Presentazione Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo
Tre questioni
Il confronto con tale impostazione è per me interessante per varie ragioni, relative alla mia visione di idee (sintetizzo) materialistica e fenomenologica. Una visione che, come già evidenziato in precedenti scambi con Linguaglossa sul Sito-Rivista “L’Ombra delle parole”, ha punti decisivi di condivisione che credo siano tra le motivazioni, sia del mio inserimento nell’Antologia, sia del mio coinvolgimento nella sua presentazione a Milano del 20 aprile scorso, nell’ambito della Prima Fiera milanese del libro.
A tale proposito, richiamando alcuni dei 27 Autori inseriti, Linguaglossa afferma che, pur nella loro diversità, hanno “consapevolezza della frammentazione dei linguaggi e della dis-locazione del soggetto poetante. Essi sanno, o intuiscono, che non sarà più possibile ripristinare le fratture che l’epoca del Moderno ha inferto alle categorie un tempo ritenute stabili quali il soggetto, i linguaggi e il reale.”
L’analisi linguaglossiana coinvolge dunque tre questioni, intrecciate e anche per me fondanti, come è noto a coloro che hanno avuto interesse e occasione di leggere i miei saggi di analisi, sia testuale che di ricerca teorico-pratica – anche attraverso le molte iniziative di Milanocosa:
- Il soggetto e la sua identità
- Il Tempo
- La Realtà
Ognuna di tali Cose è mobile, metamorfica e molteplice. Ognuna di esse, senza le altre, cadrebbe nel nulla e tutte e tre diventano Cosa attraverso i linguaggi di cui siamo costituiti. Un nulla che non rientra in impostazioni ontologiche, o nel pensiero dell’essere “quando non è” (Severino). Per me il nulla corrisponde alla percezione della non-vita o all’impossibilità/incapacità della mente di elaborare un senso, un evento, un dato, relativi a una entità soggettiva singola o collettiva. Tale nulla riguarda, dunque, sia l’operatore sia il dato/entità operato. Anche se quest’ultimo esiste in sé, per un operatore esiste e diventa reale, solo in quanto è capace di collocarlo in un processo relazionale e quindi di attribuirgli un senso. Senza di ciò l’oggetto rimane non-vita (per il soggetto) e lo stesso operatore precipita nel nulla di senso e di realtà rispetto alla cosa in-sé, che diventa cosa, reale, solo se diventa parte dell’universo mentale.
Un processo che può avvenire solo attraverso i linguaggi di cui gli esseri umani dispongono. E sono proprio questi linguaggi – che i linguisti tendono a ridurre ad unum, cioè a quello algoritmico fatto di segni-parola, dimenticando tutti gli altri, dei sensi, altrettanto fondamentali per rendere reale in noi questa o quella cosa – struttura di un soggetto e della sua identità. Mente e linguaggi sono quindi funzioni e software corrispondenti a l’hardware di tutto il soma e non del (solo) cervello. Funzioni di quel “cervello bagnato” di cui parla Rita Levi Montalcini, comprensivo di tutti i fasci nervosi e sensoriali, senza i quali il cervello e la mente rimarrebbero sconnessi e incapaci di dire/fare alcunché rispetto al reale.
Non a caso, il primo atto pubblico con cui ho avviato nel 2000 Milanocosa è stato il Convegno (con scrittori, poeti, artisti visivi, filosofi, giuristi, musicisti, psicoanalisti ecc) intitolato “Scritture/Realtà” (Atti, Milanocosa, Milano, 2003), nel corso del quale quanto sopra sintetizzato è stato analizzato da molteplici approcci e linguaggi, proprio in coerenza con tale punto di partenza.
Il mio intervento a tale convegno – dal titolo: “Quale tempo: tempo fermo, tempo reale e tempo mentale”, anche in Parte introduttiva, op. cit. – entrava nell’intreccio tra identità soggettiva ed elaborazione dell’oggetto spazio-tempo, nel processo interminabile di conoscenza della realtà. Con quell’analisi coinvolgevo anche la teoria dell’Autopoiesi dell’identità soggettiva, (dalle ricerche in campo biologico e neurofisiologico di Francisco Varela e Maturana), “fondata su più livelli via via più complessi: immunitario, psico-motorio e socio-linguistico. Ognuno di questi livelli si definisce solo nell’interazione con l’ambiente”. Per cui “Ripetere che ogni identità è determinata dall’Altro, che è quindi (anche) l’altro, può apparire persino banale”. Sono esempi di approcci interdisciplinari, che già nell’antichità hanno fatto intuire quell’unità mobile (poi divisa dai platonismus perennis in tanti doppi, corpo e anima, fisico e spirito ecc) di ogni identità soggettiva.
Diventa perciò “centrale la concezione del soggetto, o del rapporto tra unità e totalità. A tale proposito il modello che ho trovato più corrispondente all’Adiacenza è quello quantistico”, con cui “venne fra l’altro confermata, sin dal livello di particelle subatomiche, l’intuizione di Epicuro di 2.300 anni prima, sulla capacità di movimento spontaneo (clinamen) di ogni corpo (infimo, singolo o collettivo), il quale non ha un’energia data, ma la esalta o la deprime in relazione ai rapporti che sviluppa o meno con altro/i”.
Tutto dunque nasce dalla relazione, che si fa musica, immagine e parola, che si fa pensiero, cosa e mondo. Come ogni forma di vita, anche ogni campo espressivo o di ricerca esclude perciò “sia la totale autonomia che la completa dipendenza”. Ma è da tale possibilità di esaltare o deprimere la (propria) energia, che questa si fa autopoietica e reale, fonda la realtà. Per questo, il punto di partenza condiviso con Linguaglossa, implica, per me, che anche per la poesia l’altro extraletterario arricchisce la realtà e il valore estetico. Per il quale, senza cadere in impegni d’antan, non bastano solo analisi tecniche e formalistiche.

Laboratorio di poesia 24 maggio 2017, Steven Grieco, Antonio Sagredo, Sabino Caronia
Il tempo mentale
“Dunque, senza l’attenzione all’Uno il Tutto ci sfugge, perché la pluralità dell’Uno non è che una forma della pluralità del Tutto; e l’uno molteplice implica la pluralità di senso di ogni termine, come ad esempio quello di realtà e di quelli, a quest’ultimo intrecciati, di spazio e di tempo. Entro la complessità delle varie galassie che costituiscono l’universo mentale dell’identità soggettiva, la categoria tempo è infatti percepita ed elaborata in modi completamente diversi.”
“C’è la galassia (riferibile alle modalità operative dell’Es) in cui il tempo è percepito come un immobile lago nero…che richiama l’ossimorico oscuro chiarore di Corneille. È insomma il luogo dell’ombra che consente alla luce di essere luce. Non è solo l’inconscio, ma è il nostro accumulo di affettività e di memorie. È anche il luogo dove la soggettività sfuma in quella collettiva, nel patrimonio comune di immagini – archetipiche e no. Più che un tempo perduto è, a mio avviso, un tempo fermo” o “ruotante su di sé: sempre presente e sempre passato. Nella pluralità intra-soggettiva è l’Altro già dentro di noi, disinteressato a ogni norma morale, ma del senso del limite, quindi della necessità etica, è fonte profonda; è il referente mentale sia della nostra corporalità, materiale e immaginale insieme, sia della indefinibilità e irraggiungibilità della poesia, dell’amore e dell’odio, del sesso, dell’insieme, infine, della Cosa che è la vita nella sua totalità.”
“C’è poi la galassia (riferibile all’Io), che agisce nel presente ed elabora invece il tempo come astratta sequenza lineare: è il luogo mentale per eccellenza dell’ossimoro realtà virtuale. Ossimoro che trova dunque dentro l’universo mentale l’incrocio di un bel paradosso: l’area dominata dal passato (assente) tende a operare con modalità più materiali e reali di quella prevalentemente interessata alla realtà del presente.”
“La quantità di stimolazioni audio-visive del mondo contemporaneo tende in sostanza a una sorta di ingorgo sensitivo mai risolto, perché non attraversa la totalità dei tempi mentali… rimane somma di meteore virtuali, che anziché aiutarci riducono la nostra capacità di vedere, e producono facilmente stati passivi di meraviglia angosciata, se non di depressione.”
Con modalità tendenti ugualmente alla temporalità lineare opera, infine, la galassia (riferibile al Superìo) volta a proiettarsi e a progettare il futuro, che ci aiuta a capire (anche) che non possiamo beatamente naufragare nel visionario, nell’onirico, in fascinose sonorità di effetti-eco, se queste fonti di piacere fruitivo di un qualunque sistema di segni non ci trasmettono una visione di idee – oltre sia il candore ingenuo di una funzione salvifica e consolatoria dell’arte, sia della sua funzione catartica – capace di rafforzare una interazione adiacente che aiuti a farci sentire meno separati e alienati.
Sul punto, vedi anche: https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/09/07/adam-vaccaro-quale-tempo-tempo-fermo-tempo-reale-tempo-mentale-quale-poesia-linterazione-con-laltro-da-se-la-questione-del-so

Laboratorio di poesia 24 maggio 2017, Roma Libreria L’Altracittà via Pavia, 106
Quali forme
Non possiamo perciò alonare di ridicolo una Cosa che tenda alla forma di poesia, immaginando di salvare la vita (propria o di altri) con essa, ma è inevitabile che “l’area mentale del Superìo tenda a costruire un atto critico verso l’orizzonte sociale, se è vero che ‘L’orizzonte sociale è connaturato all’atto critico’ (Francesco Leonetti)”. Il che non vuol dire inventare forme di “‘politicizzazione dell’arte’”, contrapposte alla “estetizzazione della politica” (Benjamin), vuol dire porre il problema del vuoto di “progettazione alternativa”; da cui forse nasce un eccesso di tensione verso l’innovazione (solo) tecnico-formale.
“Ammal(i)arsi di nuovo può portare a stare sulla coda dell’esistente convinti di inventare, come la famosa mosca, mille movimenti di opposizione. Si finisce per immaginare che il mezzo – sia esso la penna, il computer o il linguaggio nel suo insieme – possa essere fonte magica, mezzo che diventa generatore autonomo. Come ho già detto altrove, la lingua che parla da sola è un mito visionario lacaniano, di una lingua-soggetto che non esiste. La mia ricerca è perciò fuori da ogni fuoco chiuso nell’esercizio linguistico, in autoappagati jeu de mots iperletterari, con correlativa ideologia del testo per la quale “il testo è tutto”.
Il testo è parte (della vita) che, come ogni altra cosa, non basta a se stesso. È una linea anomala e minoritaria, dantesca, rispetto a forme più consone a petrarchismi o a impostazioni ontologiche astratte, spiritualismi di qualunque tipo o separatezze insormontabili tra arte e vita.
Per me Poesia, non ha a che fare con l’Essere, che agnosticamente non conosco, ma con gli esseri che vivono o sono vissuti dando sangue, emozioni e pensieri al flusso incessante della vita. Per me il fare del poièin è qualcosa di materico e fortemente innervato nell’esperienza dolorosa-gioiosa che ognuno fa nel corso della sua esistenza. Anche la poesia non è niente di diverso da ogni processo di metamorfosi che prende e restituisce qualcosa del processo vitale. Riproporre dunque la questione del soggetto, entro una identità soggettiva stratificata, proteiforme, autopoietica e mai conclusa nella sua incessante interazione col Resto, implica superare l’incrocio Jakobson-Lacan tra Semiotica e Psicoanalisi, utilizzando col senso di galassie mentali la individuazione freudiana di tre fondamentali ambiti/spazi costituenti l’identità soggettiva.
L’intreccio tra queste diverse modalità operative produce perciò una cosa che chiamiamo (anche) realtà (ma stesso discorso può valere per bellezza, verità, ecc.): spazio mentale fatto di tempo unitario – cioè di una percezione con-fusa e fraterna (adiacente) di passato, presente e futuro. Non può che essere una contemporaneità effimera, fatta di serie di punti di sutura del processo autopoietico, momenti di orgasmo mentale e di una casa del tempo, di spazio fatto di tempo, quale immagine mobile dell’eternità (Platone).
Il piacere del testo (di scrittura e di lettura) sta in questa esperienza di recupero di tempo mentale, quale combinazione tra tempo fermo/circolare (area dell’Es) e tempo lineare (aree dell’Io e del Superìo). Da tale combinazione non ne viene forse una forma di elicoide, quale quella delle colonne del Bernini o del DNA, quale insomma quella citata da Gio Ferri, nella sua ricerca della cosa biologica alla base o al cuore della ragione poetica? (Gio Ferri, La ragione poetica, Milano 1994).
La realtà – e in particolare la realtà creativa o poetica – è perciò frutto di un’operatività dell’identità soggettiva, che è se costruisce adiacenza tra le varie aree dell’universo mentale. Piacere del testo e comunicazione, purché intesa come mettere in comune (Antonio Porta), sono i ponti possibili di dinamica autopoietica, senza i quali l’energia poetica si deprime e cade in una di quelle fasi di cui parla Linguaglossa all’inizio della sua Prefazione. Le dinamiche di intreccio adiacente tra le varie aree mentali non sono perciò analisi fini a se stesse, ma anche l’ante-rem, o la condizione intra-soggettiva e pre-testuale più adeguata alla costruzione di un testo che voglia tendere al massimo di comunicazione inter-soggettiva, a essere in re, luogo che esalta creatività e intreccio tra estetica e ricchezza di funzione antropologica e socioculturale, tale se vissuto da una comunità e non solo esercizio intimistico.
Postulato ancora più rilevante in una fase di cambiamenti epocali che tendono a distruggere e a far cadere nel nulla la percezione di una comunità solidale, avvertita e persino decantata (come ad esempio dalla Thatcher) solo come somma di soggetti singoli chiusi nell’individualismo imperante.

Fiera del Libro Milano 20 aprile, 2017, Lucio Mayoor Tosi legge le poesie
I mondi che siamo
Sono considerazioni che ho ritrovato in termini calzanti nell’ultimo libro della saggista multidisciplinare Eleonora Fiorani, che nel suo ultimo libro “I mondi che siamo – Nel tempo delle ritornanze” (Lupetti, Milano, 2017), dice: “Viviamo in un’epoca in cui si susseguono profonde metamorfosi e…contraddittorie trasformazioni del mondo che…credevamo di conoscere“. “Diversi sono perciò i modi di vivere il trapasso epocale della seconda modernità a una nuova epoca che non ha ancora trovato una definizione dopo quella di postmoderno di Lyotard…perché ogni nuova concezione della storia implica una visione del tempo”. Aggiunge Fiorani: “nell’intreccio dell’’adesso e del già stato’ – la definizione è di Didi-Huberman – oggetti, avvenimenti, modi d’essere, sensibilità estetiche si inabissano e scompaiono e poi ritornano”, cambiando “il loro uso, valore… statuto antropologico”, insieme al “nostro sguardo”.
Una visione del tempo…mette in campo non solo…presente-passato e futuro, ma i molti e diversi tempi che convivono e anche si intrecciano o si oppongono in uno spazio dilatato all’intero globo”. “È…un aspetto che ci ha lasciato il Novecento nei modi in cui…ha posto come centrale la questione del tempo, della memoria e della storia, facendo emergere la sua complessità tra “presente attivo…passato reminiscente, sul tempo delle ritornanze…sulle fratture, sui processi inconsci che li accompagnano”. “Già Nietzsche, da cui è partita l’analisi della crisi dei valori nella cultura occidentale, con l’eterno ritorno aveva messo in discussione il tempo cronologico…ed era ritornato sulla circolarità del tempo e sulla ripetizione della cultura. E lo ha fatto ponendo anche il passaggio dall’ontologia all’estetica”. Con “Un nesso stretto” che “collega…Nietzsche e il disagio della civiltà di Freud. Tutto ciò ha posto implicitamente la necessità di un rinnovamento delle metodologie” di analisi “del testo visivo e della critica estetica” con i contributi di Bataille, di Leiris, di Einstein…e ora da Didi-Huberman…del potere delle immagini… intrecciando diversi ambiti disciplinari…antropologia, archeologia, estetica, filosofia perché “’in ogni oggetto storico tutti i tempi si incontrano, entrano in collisione, oppure si fondono plasticamente, si biforcano o si combinano gli uni agli altri’”. Talché “‘futuro passato’ è definizione e oggetto di analisi di Koselleck (1986) della presenza nel presente…del passato e del futuro”.
Questo fa “interrogare il corpo di carne e dei sensi e i suoi nessi con i territori e i luoghi in cui…si iscrive l’abitare”. Dunque “accanto ai concetti” il “potere delle forme e delle immagini di inabissarsi e poi riapparire sotto altra forma”, l’azione de l’”inconscio visivo”, genera “la più profonda o ampia comunione dei contemporanei, aprendo il campo al massimo di senso” attraverso “opere multimediali, di video arte, di narrazioni che intrecciano immagini, suoni, simboli, di nuovi e vecchi media…il linguaggio che tutto parla”.
È l’apertura interdisciplinare di Eleonora Fiorani la fonte di una tensione espressiva e di ricerca – anche per me fondativa – di un fare cultura, arte o poesia che non si rassegnano a ruoli ancillari, ornamentali o parnassiani, per cercare di essere strumento di ricostruzione di senso e pensiero forti, quanto più viviamo una fase epocale che li distrugge e tende a farli cadere nel nulla.
Fiorani ripropone sempre – con tutti i suoi libri e anche con questo – la necessità di rielaborare in questa epoca di decadenza una cornice proposizionale, metodologica e visionale-concettuale, quanto più viviamo in un contesto che ci fa fare l’esperienza opposta, di una disgregazione e frammentazione socioculturale arresa alla perdita di senso, per me il fondamento del nulla. Ma anche il nulla non ha un significato univoco, può avere tanti livelli e declinazioni, con sapori magici o terrificanti e tragici, con momenti che possono essere connessi a esperienze e momenti sia d’amore che di violenze. Esperienze di attimi d’infinito (Platone) in cui possiamo annientarci o rinascere con moti di Araba Fenice. Dipende da noi – sempre ovviamente nello spazio possibile, tra depressioni e deliri di onnipotenza, di né totale dipendenza, né totale autonomia.

Fiera del Libro Milano, 20 aprile, 2017 Stand di Progetto Cultura
Conclusioni aperte
Sia il mio percorso di ricerca intorno al concetto di Adiacenza, sia le formulazioni interdisciplinari di Eleonora Fiorani hanno in comune il bisogno di ripensare il proprio fare culturale in relazione all’epoca storica che viviamo. Ed è la stessa tensione che trasmettono le proposizioni critiche di Linguaglossa, che, seppure già note, sono dis-piegate e strutturate in forma più organica e – come ho detto, quasi di manifesto – in questa Antologia.
Sono posizioni anomali rispetto alle tendenze prevalenti, in cui prevale una sorta di catatonìa sonnolenta e passiva (che non è solo della poesia), denunciata nelle formulazioni iniziali della Prefazione. Lo sviluppo delle argomentazioni successive, che abbiamo ripreso in alcuni nodi e passaggi essenziali, conduce a punti di arrivo che cercano anch’essi moti di risalita dallo stato delle cose.
Ogni termine o oggetto viene alla fine indagato in cerca di una apertura e moltiplicazione di sensi: “così c’è un nichilismo inconseguente e acritico che presta fede alla parvenza di un soggetto che si è eclissato, e c’è un nichilismo forte, che Roberto Bertoldo chiama ‘nullismo’, di chi ritiene che siano ancora possibili le narrazioni autentiche…Il logos di chi accetta e prende in consegna la disseminazione dei linguaggi…è il logos forte che segna una risalita dal profondo della scomparsa delle fondamenta sgretolatesi”. Possiamo aggiungere che anche il frammento non implica un senso univoco: c’è il frammento insignificante di un coccio di bottiglia, e c’è il frammento di cristallo o di diamante che apre a mille sensi e riflessi.
Se il destino del frammento tende a cadere nell’abisso della perdita del senso, la creatività poetica degna di questo nome è la sua vendetta, utilizzando e rovesciando anzi quest’ultimo, per farne il piede del Tutto. Senza la tensione ad esso, non c’è possibilità di ricostruire un senso, non il Senso ma un senso, che non è mai dato una volta per tutte, da rifare con il letto ogni mattina. Illusoriamente o meno, non ha importanza, ma senza quel gesto tutto quel che siamo non riuscirà ad alzarsi e a procedere. Il poièin sta qui e anche Linguaglossa lo dice e lo fa. Gli oggetti non attivano da soli quella interazione complessa che chiamiamo esperienza. E la Cosa si accende se condivisa in relazioni con l’Altro, e quanto più viene coinvolto il livello inconscio, talchéi l’oggetto poetico rimane progetto ignoto anche per chi lo costruisce.
Per questo, “La forza della nuova poesia italiana sta proprio qui, in questo punto, nel prendere in consegna il testimone di una eredità infranta per ricostruire la forma artistica e riposizionarla”. È la sfida e il merito di questa proposta antologica.
9 maggio 2017
Da Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo
Renato Minore
La piuma e la biglia
1)
C’erano quattro biglie colorate pronte a partire,
ma lo sparo fu rinviato
da sempre. Da sempre le biglie
formavano un quadrato
immaginario e al centro
c’era l’invisibile punto
di convergenza di tutti
i loro colori.
La pista allungata, infinita,
era una distesa
di acqua o di sabbia,
ma senza acqua né sabbia.
2)
Rossa la prima e potevi
aver voglia di spaccarla
per trovare i semi
come dentro la melograna.
Verde la seconda come
quando saltella la capra
sopra i prati e i prati
hanno il luccichìo
della pioggia appena velata.
Bianca era la terza
ed era neve, neve
coagulata o neve sparsa
o cielo torbido che vela
le forme perché cancella
luce e ombra.
Nera la quarta ed era
specchio quasi opaco, l’immagine
riflessa era dietro
la superficie, non dentro,
come se il vuoto fosse
pieno di quel vuoto
nero nerissimo.
3)
Immobili le biglie attendevano
che dall’una venisse
la mossa per la prima partita.
Ma il silenzio
non faceva scandalo, era
il colore naturale,
rosso o verde bianco nero
come le biglie che non partivano.
Ubaldo de Robertis
Il dipinto e la realtà
Deluso dalle imitazioni, belle figure, luoghi ordinari,
forme, colori per niente naturali, un di fuori che ti assale,
fatto di segni che lo spazio modella con emozione lirica.
Il dipinto è meno di quanto si manifesta nella Natura.
Nessuna cosa è più viva di quel puntino rosso che brilla là,
nell’angolo grigio della stanza, o di quella porta
che potrebbe aprirsi, ad un tratto.
Che ti salta in mente di rivelare certe cose in poesia?
Nel silenzio si sente un tic-tac ordigno ad orologeria.
E’ il cuore.
Stranamente ha tre uscite questa stanza,
una celata dalla specchiera dà verso l’esterno,
il vuoto e lo specchio che ti guardano,
che ti scoprono la faccia, denudano la maschera
se dalla feritoia si infiltra il tenue azzurro cielo.
Che cosa altro pretendi di vedere da una finestra?
Cos’altro vuoi che appaia ancora?
La tragicità della vita si nasconde dietro l’immagine
più misteriosa e lieta. Brilla, qui, in primo piano
l’astro di Thérèse vista di spalle che indossa
la robe rose a strisce verticali argentate e un tablier noir,
lo sguardo in direzione delle case, non degli alberi
che Bazille ritrae in secondo piano.
Dramma della quiete, della serenità.
Sembra essere proprio questa la realtà.
La figura virtuale rimanda all’esistente.
Dove è dunque la poesia?
E’ nel modo con cui si divide lo sguardo
tra lo spazio racchiuso dalla cornice, Thérèse, colori, ombre,
o le cose viste nella coscienza della luce azzurra
che manifesta l’astronomia del cielo in una piccola camera?
Ma non è lì che ti senti testimone, spettatore gettato,
dimenticato
bagliore di un Sole già crudelmente
tramontato?
Alfredo de Palchi
a Roberto Bertoldo, alla sua onestà
Di sabato notte
scendi dall’ultimo piano
e controlli chi esce e chi rientra
sostando al piano appena sospetti
che un inquilino aspetta
la tua presenza
sdentato, biascica litanie
al crocifisso alla cabala alla mezzaluna
all’ultimo istante chiede perdono
per aver tradito tutti
e incassato ricchezze rovinando famiglie
e aziende in crisi
così alla domenica
il palazzo dorme di inquilini
reduci da Wall Street,
a mezzo giorno scendono in mutande
e salgono con il giornale per leggervi
gli annunci funerari e varie notizia
mai a corto di brutture
la sola giustizia che ho io
sei tu che lo spacci senza perdono
e senza aspettare una risposta –
te la dò io che nulla mi appartiene:
entra nei palazzi e
liberaci dal male.
20 luglio 2008

Adam Vaccaro Grafica di Lucio Mayoor Tosi
Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare (Studio Karon, Novara 2002) e Labirinti e capricci della passione (Milanocosa, Milano 2005) con acrilici di Romolo Calciati. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, Terziaria, Milano 2001. È stato tradotto in spagnolo e in inglese. Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), Associazione con cui ha curato varie pubblicazioni, tra cui: Poesia in azione, raccolta dal Bunker Poetico, alla 49a Biennale d’Arte di Venezia 2001, Milanocosa, Milano 2002; Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto, Atti, Milanocosa 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, Milanocosa, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo, Roma, Progetto Cultura, 2016. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.
UNDICI POESIE METAFISICHE di Kikuo Takano (1927-1998) da “L’infiammata assenza” Commento di Renato Minore
Tokyo Maison Hermes
Kikuo Takano nato a Sado nel 1927, laureato all’università di Utsunomiya.L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da RyuichiTamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo.
“Scrivere poesie vuol dire innanzitutto soffermarci con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste: Accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri. Fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle”. E ancora: “Sulla Terra, quello che non siamo riusciti a sciogliere e a congiungere, viene di giorno in giorno accumulato o gettato. Per capire il senso di questa Terra, che per noi è unica, dobbiamo innanzitutto interrogare il senso fondamentale del nostro essere e del nascere”. Queste sono parole di Kikuo Takano, un poeta che non ha mai smesso di interrogarsi non solo sull’essere e sul nascere, ma sul mondo intero. Perché il cielo è così sfuggente? Perché il mare è così rancoroso? Perché una trottola trova il suo equilibrio solo nel movimento? Perché dio si trova solo con le parole del cuore? E perché dio non risponde, quasi fosse un dio individuale, ad personam e non di tutti gli uomini?
ponte di legno tra i ciliegi in fiore
Takano è un poeta complesso, a dispetto dell’estrema semplicità stilistica e formale delle sue poesie. Si parte dal fiore, dalla farfalla, dal moto circolare che ogni giorno, quasi per inerzia, conduce il sole a nascere e a morire. Ma poi si arriva lontano e, quasi senza accorgersene, uno si ritrova a parlare dell’origine dell’universo, dell’amore, di dio. (…) È la visione della natura che ogni giorno combatte per uscire da sé e diventare altro. È un equilibrio sottile e impercettibile che lega le forze naturali in una lotta perenne, tra l’andare e il restare, tra il bene e il male, tra il nascere e il morire.
Takano parte dall’infinitamente piccolo, dall’osservazione delle forme più semplici. Una tradizione giapponese che sopravvive da almeno sei secoli e che, dopo la II guerra mondiale, ha preso forma in Giappone con gruppo raccolto intorno alla rivista ‘Arechi’. Ma Takano va oltre: non è più soltanto osservazione e identificazione con la natura. È un’interrogazione continua sul ‘senso’ della natura. Sul senso della nostra esistenza. Evangelica, oserei dire. O meglio, biblica: è il feroce punto di domanda dell’uomo davanti all’immensità, prima di disperare.
Tokyo
Potremmo dire che anche l’amore, per Takano, si inserisce in questa visione panteistica dell’universo. Il prato che si distende e accoglie le sagome degli amanti; il cielo che continua il suo giro idiota, indifferente alle lacrime di una donna abbandonata; la farfalla che punta verso un confine visibile solo ai suoi occhi miopi e non si accorge del dramma di un uomo sconfitto. Sono parte del tutto e, quindi, anche del sentimento. Entrano in quella vertiginosa girandola di identità nascoste, che solo l’osservazione del tutto restituisce. Il mondo è visto da Takano come un dono non richiesto. Come un bimbo che si veda ricevere un giocattolo del quale sa poco o nulla e si chiede cosa farne. Ma poi comincia a osservarlo, a sventrarlo, a scardinarne le parti… E in questo si ritrova gran parte della filosofia del Tao, di Lao-Tsu: «Il grave è radice del leggero, / il quieto è signore dell’irrequieto. / Per questo il santo viaggia tutto il giorno / senza discostarsi dal bagaglio, / anche se possiede palazzi regali / placidamente se ne sta distaccato».
L’uomo che si trova, suo malgrado, dentro un disegno oscuro, complesso, immenso quasi. L’uomo che non riesce a capire perché mai in quel momento lui e solo lui può e deve trovarsi in quel determinato punto, a dire quelle determinate parole. Ecco le domande che maggiormente assillano Takano; un determinismo del presente che inscatola la natura umana e sembra definirla. Ma poi questa muta forma, come in un quadro di Picasso: diventa uccello, farfalla, pistole, diamante, rana o portafogli. Impossibile inscatolarla, aveva insegnato Jaspers, uno dei maestri del poeta. Non resta che la distanza: protési verso l’obiettivo, ma con la testa rivolta indietro, in una specie di Angelus Novus improvvisato. O come insegnava Lao Tsu: se vuoi raggiungere una cosa prendi la direzione opposta. Forse nessuno capirà mai queste parole ma quando leggiamo Takano che scrive: «Per entrare più a fondo l’uomo deve fare il contrario, allontanarsi», ecco che si srotola una immagine bellissima. Quella di un uomo che rinuncia a se stesso, si spoglia delle sue convenzioni i ridiventa puro. Bambino. Assoluto.
Tokyo paesaggio urbano “Per entrare più a fondo l’uomo deve fare il contrario, allontanarsi”
Non è un caso che Kikuo Takano abbia rinunciato a produrre verso nel trentennio che va dagli anni Settanta ai Novanta. In quegli anni infatti la poesia stava attraversando quella temperie che passerà alla storia come sperimentale (…) E non a caso il suo lavoro è stato spesso paragonato a poeti quali Eliot, a cui è accomunato da un vocabolario asciutto e metafisico, scabro e essenziale. Il silenzio dei cieli muti di Takano è il contrappeso dei mondi spogli di Eliot…
Un oscuro senso di desiderio insoddisfatto percorre tutta la produzione di Takano: da una parte l’aspirazione a essere uomo, a imporre la propria umanità scabrosa, dall’altra la consapevolezza che l’unica salvezza è l’assenza di passioni. Si gioca su questi due registri il filo che tiene insieme le poesie: l’assenza e il desiderio. E, in mezzo, un dio che si fa negare… Il silenzio di dio è bergmaniano, ha un che di tragico perché è il silenzio dell’uomo: nessuna risposta a nessuna domanda ma in fondo che cos’è la vita se non aspettare invano?… Come due specchi che vengono messi l’uno di fronte all’altro e insieme rispecchiano un vuoto infinito, per usare le parole del poeta.
(Renato Minore)
Kikuo Takano L’infiammata assenza Edizioni del Leone, 2005 pp106 € 9,30 cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore
Kikuo Takano
Burattino
Nulla può il burattino, che pure è mosso da fili;
nulla può perché non saprà mai reciderli,
e può soltanto, mosso dalla disperazione,
abbrancare l’aria con inutili piroette.
Il treno
Mi capita talora di prendere un treno
e di andare volentieri verso un luogo
del tutto sconosciuto,
e lì capita che bambini senza nome
in fila sull’argine ignoto, ci salutano,
sventolano le mani senza che nessuno risponda
al saluto subito dimenticato.
Ed io penso:
“Ma le mani non dimenticano”.
Non dimenticano quelle mani d’essere mani,
e dunque parto ancora una volta,
voglio ancora incontrarle
con le guance rosse per la mia età.
Ma cosa è questa mano?
Compro il biglietto con questa mano misteriosa.
E cosa è quella mano?
Corro a scovare quelle mani misteriose
per aver certezza di incontrare ogni altra mano
e di vergognarmi di queste mie mani.
.
Il gancio
Dentro di me si muove
un gancio di ferro
chissà da quando, chissà perché,
lasciato chissà da chi,
appeso così, è un gancio proprio pauroso.
E speravo davvero che, con la ruggine,
mai dovessi provarlo.
Ma ora desidero
vedere me capovolto
a quel gancio dove non c’è
proprio nulla da appendere.
Il cigno
«Osserva bene il cigno,
valuta tutto grazie al cigno»,
un tempo era questo
il mio severo proposito.
Ma quanto è dura la vita del cigno:
con le sue ali bianche
egli rifiuta la luce
e dentro alimenta la tenebra.
.
Corda
«Lascia andare le mani, abbandonale».
Qualcuno me lo bisbiglia all’orecchio.
All’improvviso lo ho ascoltato
mentre stringevo una temibile corda,
più la tiro da ogni parte
e più diventa lunga.
Davvero inutile maneggiarla,
ben me ne accorgo,
ma se non la toccassi
sarei tutto soffocato
da quella corda.
tokyo paesaggio urbano “Lao Tsu: se vuoi raggiungere una cosa prendi la direzione opposta”
Due giochi di prestigio
“Ecco uno spago
e ne prendo i capi,
li annodo, ne faccio un anello:
di che si tratta?”
Ma è ormai banale
sentire cose simili.
“ecco, lo sciolgo,
ma da qualche parte
sarà pur finito l’anello”.
È un sempliciotto
chi me lo domanda.
“Di nuovo lo annodo,
compare l’anello,
torno a scioglierlo
e quello scompare,
ripeto il nodo,
spunta fuori l’anello,
ma se torno a snodarlo
l’anello non c’è più”.
*
Guarda questa scatola vuota
che io chiudo con un piccolo coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. È così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.
Tokyo
Lo specchio
Che oggetto triste
hanno inventato gli uomini!
Chiunque si specchia
sta di fronte a se stesso
e chi pone la domanda
è, al tempo stesso, l’interrogato.
Per entrare più a fondo
l’uomo deve fare il contrario,
allontanarsi.
.
In me
In me c’è qualcosa di rotto.
Sono come l’orologio che si ferma
poco dopo averlo caricato,
come il piatto incrinato ce non torna
nuovo se anche
lo incolli con cura.
In me c’è qualcosa di schiacciato.
Sono come il tubetto di dentifricio
quando nulla ne esce
se anche lo premi,
come la pallina da ping-pong ammaccata
che non può tenere più in gioco
nemmeno un buon giocatore.
Ci sono oggetti distrutti e schiacciati
dal principio, senza motivo, in me:
l’ombrello che non sta aperto, il violino
fuori uso e i sandali coi cinturini rotti,
il rubinetto intasato, il flauto
sfiatato, la lampada consumata.
Eppure non mi perdo d’animo,
l’ira non mi trascina, né mi tormento
come una volta, anzi mi auguro
di potermi riempire
di quelle cose inutili,
restando distrutto e schiacciato,
in questo trovando il mio orgoglio.
Sempre una voce
Sempre una voce
ti ha avvisato: “Se piangi
vai oltre il dolore.
E ti accorgi che nell’addio
c’è l’incontro”.
Così ti parlava Dio, sfiorandoti
con la mano la schiena.
Sempre una voce
ti ha avvisato: “Con pazienza
aspetta, e per meglio guardare
impara a chiudere gli occhi”.
Così ti parlava Dio, con una lieve
carezza sui capelli.
Quando nel dolore piangevi
senza poter far nulla
quel Dio lo avevi accanto,
a volte ti portava sulle sue spalle.
.
Se ti dico
Se ti dico che è la destra,
mi rispondi: “Anch’io la destra”,
se ti dico che è la sinistra
mi ripeti: “Anch’io la sinistra”.
E così insieme abbiamo atteso l’alba.
Solo l’addio che entrambi ci eravamo detti
era il desiderio dell’uno per l’altra
e assai fortemente stringeva l’uno all’altra
e noi, senza neppure toccarci,
eravamo stupiti da tanto desiderio.
“Siamo stati stupiti come bambini…”
E ora tu mi disprezzi
“sì, ti odio
perché l’hai contemplata come in estasi
senza svegliarmi con uno schiaffo
anch’io abbagliata da quella visione”.
Senza darti uno schiaffo.
un pesante schiaffo.
E noi, in quell’istante,
eravamo già oltre quella “domanda”;
tu avresti potuto pronunziare il tuo addio,
io avrei detto il mio
e con questi nostri addii
avremmo potuto iniziare
ogni notte e ogni mattina.
Ma ancora mi chiedi:
“Non poteva quell’addio
prender congedo dall’addio?”
Ed io ancora ti ripeto
quando diversa è la “domanda”,
che sparisca quella “domanda”.
Abbiamo fatto esperienza non d’amore
ma di tempo, il tempo vuoto,
e l’abbiamo accettata come un fatale contrassegno.
Avesti dovuto capirlo anche tu.
Ma alla fine che cosa vuol dire?
Se mi confronto con te,
scuoti il capo in modo banale
e banalmente mi rimproveri.
Erano inutili quei giorni,
inutili quelle lotte.
Oggi sentiamo come peccato
l’esperienza dopo aver recuperato
ciò che abbiamo vissuto.
Oh, la spola della tessitura!
È un terribile filo: più costruisce la trama
più si sfila l’altra parte del bandolo
E passano i giorni in cui mi capita
di dipanare sempre fil filo.
(da L’infiammata assenza Ediz del Leone, 2005 cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore)
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