Inverno con Black Friday tra eventi a sorpresa e Ie foto di Marlene.
Al Max Hotel c’era un’asta di cucine LUBE, un album di 50 Rockstar e una macchina da scrivere ERIKA come quella che usava Brecht in Madre Courage e i suoi figli.
Nessuno sa quanti ricambi d’aria ci porterà la stagione,
Lei senza più ricami, con cappotto e guanti cashmer, si lasciò andare ai Sette Peccati Capitali.
Ci fu un accordo sui found poems e il cut-up senza impasse.
Guten Morgen Mein Herr, Guten Morgen, disse Albert. Qui restiamo ad attendere il Die Welt con i capitoli a puntate su Birkenau.
Condizione primaria per il Dichtung è il linguaggio ontogenetico.
Non si confonda, Signorina Ellen, la tristezza è dentro e fuori casa.
Non vorrà mica un’altra Genesi a quella che già conosce?
Non importa ciò che dice Ruth, è un passerotto su Airways.
Clara si portò dietro un disappunto per come se ne andò la giovinezza.
Portnoy è nei Meridiani Mondadori dopo aver girato come un cane nei cimiteri.
La seconda volta che incontrammo Marianne aveva tra le mani uno chiffon.
il ghostwriter di triller si aggrappò alla plafoniera per non farla spegnere.
Abbiamo una shance in Cyberpunk ed è lo stesso mondo solo un po’ diverso.
Howard Hughes girò il mondo in tre giorni, meno di Lindbergh con lo Spirit of St. Louis e la mosca ballerina.
“Ci siamo, darling, ci siamo baby…. No, bébé,à Paris.Thanks – no, merci – Amica mia….ma come Ti chiami? …. Laggiù! Laggiù! é Le Bourget, bébé !” (1)
Ti lamenti se rimani a casa. Non rimarrà una briciola dei tuoi ricordi: solo i vestiti outdoor stile Mountain Kaban. per le feste che non verranno.
Nota n. 1. Sono i versi di Alberto Mario Moriconi da:Il dente di Wells.
Svuota poesia? o Svuota cantina?
E’ la raccolta più organolettica che si propone oggi al lettore di fronte all’uso lessicale di provenienza psicopatogena, disarticolata, ed embrionale, emporio del disordine, e outlet, Zibaldone di pensieri, e oggettività a tutto spiano di carica virale, messi in atto da chi fa uso di differenze accumulative, e che forse considera l’infinito una particella minima dell’ultrainfinito, rimettendo in gioco teorie e pratiche scientifiche tali da considerare a favore o contro il principio antropico finale, quello per intenderci di Barrow e Tipler, catalogando cifre e significati policentrici ed espansivi dell’universo, tra teleologia e modello standard del Bing Bang, scendendo alle piccole cose terrene da utilizzare nella struttura del verso.
Le misture, tra parole semplici e additivi surreali, rivelano un disordine psicogeno. L’ES è in rotta con la sfera volitiva. C’è chi predilige forme e oggetti di varia natura, tra cui si annotano materassi, letti, tavoli, armadi, cassettiere, scaffali, divani, poltrone, sedie, carrozzine, girelli, culle, televisori, videoregistratori, lavatrici, frigoriferi, elettrodomestici da incasso, condizionatori, stufe e mascherine Covid, assieme a materiale chimico ed edile, come amianto, colori, vernici, bombole di gas e ossigeno, provette con idrogeno, elio, litio, boro, azoto, antimonio, argon, bismuto, cobalto, cripto, per creare un polittico? Una pala sacra? O una scuola primaria per poeti del futuro? Ciò significa mettere in scena figure e oggetti apocrifi nel tentativo di creare un camaleontismo linguistico di elevazione così bassa in cui il lettore si perde nel gioco smaliziato di significati e feuilleton. E chi lo pratica non abiura i propri solipsismi, e grovigli letterari e scientifici, che in molti casi si autodistruggono da soli, bloccando la poesia dalla sua funzione d’Arte. Svuota poesia? Sì! Ma anche svuota cantina!
[Nel nastro di Möbius esiste un solo lato e un solo bordo. Dopo aver percorso un giro, ci si trova dalla parte opposta. Solo dopo averne percorsi due ci ritroviamo sul lato iniziale. Quindi si potrebbe passare da una superficie a quella “dietro” senza attraversare il nastro e senza saltare il bordo ma semplicemente camminando a lungo]
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Marie Laure Colasson
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Leggendo anche quest’ultima poesia di Lucio Tosi, dopo quella di Gino Rago, Mario Gabriele, Mauro Pierno, Francesco Intini e altri… mi sono resa conto di come la poesia kitchen si muova lungo la superficie, che poi sia una superficie toroidale o di un nastro di Moebius non cambia nulla. La superficie ha sostituito la verticale e la verticalità. Voglio dire che la poesia di Ungaretti de Il porto sepolto (1916), poi L’Allegria di naufragi (1919), è una tipica poesia della verticalità e del thaumazein; ancora la poesia del primo periodo di Maria Rosaria Madonna si muove sulla verticalità, ma già quella del second periodo opta per la superficie; analogamente il primo Montale abbraccia la verticale, il secondo opta per la superficie. Dunque, c’è una forza storica che spinge in questa direzione, verso la superficie, la superficie versus la superficie, ma quello che differenzia la poesia kitchen o pop poetry dalla poesia tradizionalmente novecentesca è la scelta deliberata e consapevole verso la poesia di superficie unica, estesa ed infinita. E mi sembra che la differenza è quella che fa questione.
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[Marie Laure Colasson, Struttura, 20×29 cm, acrilico, 2020]
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Fabio Vergine Philosophy Kitchen #9 , Anno 5, Settembre 2018 ISSN: 2385-1945, Soggettivazioni. Segni, scarti, sintomi p.13
Extimité. Per un reale fuori dal senso
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Che cosa è un soggetto? Come lo si definisce? Sono alcuni plausibili interrogativi entro cui è possibile ricondurre l’intenzione globale della riflessione di Jacques Lacan.
Il soggetto è ciò in cui si condensano e si polarizzano forze attrattive radicalmente opposte, pur nella profonda ed apparentemente placida intimità con sé stesso. Uno dei più scostanti paradossi della soggettività lacaniana è quello in forza del quale i confini delle consuete dimensioni spaziali collassano: il dentro e il fuori non si oppongono più, l’interno e l’esterno non tratteggiano più le proprie reciproche frontiere, l’interiorità e l’esteriorità non sono più i due poli di una medesima unità, ma si trattengono in una sintesi immediata e non dialettica dell’uno e dell’altro. Extimità.
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Nei suoi numerosi riferimenti alla topologia Lacan utilizza la figura toroidale per fornire un’immagine concreta del reale: il vuoto al centro del toro è quel fuori attraverso cui si definisce il dentro (Benvenuto 2011, 10). L’intimità del toro ne è a sua volta l’esteriorità, il suo dentro più intimo è al di fuori di sé stesso, ed è proprio ciò in base a cui si definisce la sua dimensione ambivalente, o la confusione dei propri confini.
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In Lacan, dunque, la nozione di extimità si costituisce come quella soglia indeterminabile che lega insieme il fuori e il dentro, a partire dalla presenza di un vuoto centrale, di un buco, di uno iato.
In questo senso, quel vuoto centrale è ciò che stabilisce i confini della Cosa, das Ding. Come è noto, del resto, il vuoto cui Lacan qui si riferisce in termini simbolici per la determinazione dell’extimità relativa al soggetto, è quello stesso vuoto che Martin Heidegger descrive in relazione allo spazio vuoto interno alla brocca che, per certi versi, genera per ciò stesso la possibilità di un pieno. Pieno e vuoto, fuori e dentro, interno ed esterno; la topologia, in riferimento alla figura toroidale, è quello strumento che serve a spiegare la dimensione di un’intimità estima, o più esplicitamente, di un vuoto centrale che è immediatamente esterno ed interno. E lungi dall’essere una dimensione puramente astratta, il reale, descritto in termini di extimità, è il reale proprio del soggetto.
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In altri termini, si può affermare che il centro di ogni soggettività sia al di fuori di sé stessa (Benvenuto & Lucci 2014, 114). È possibile dunque figurare il reale come quello spazio vuoto centrale, intimo e al tempo stesso esterno al soggetto, in virtù del quale è si può generare il pieno del soggetto medesimo.
Così descritto, allora, il reale è sempre il reale del soggetto. Ancor più radicalmente, si può dire che il processo di soggettivazione sia il luogo dell’extimità del soggetto, o ancora, quello spazio instabile in cui avviene la torsione metamorfica tra l’interno e l’esterno (Domanin & Palombi 1997, 144).
C’è qualcosa, nel soggetto, che si configura, come ebbe a dire Sigmund Freud in relazione all’Es, nei termini di un «territorio straniero interno» (Bottiroli 2010, 8). In termini più appropriatamente lacaniani, questo territorio scosceso è, per l’appunto, ciò in forza del quale è possibile tentare di definire il soggetto ricorrendo alla nozione di extimità, nella misura in cui con tale categoria non è possibile riferirsi placidamente al mondo interiore del soggetto, o alla sfera dell’interiorità.
Le origini trascendentali del mondo.
Per un’ontologia topologica del reale globalmente intesa, quanto piuttosto a quell’ambivalenza radicale che attraversa, incidendola, l’intima esteriorità del soggetto a sé stesso. In ciò che usualmente intendiamo con interiorità c’è dunque uno spazio aperto, un vuoto che affetta, che taglia, che genera una differenza incolmabile, o un’«irriducibile estraneità» (Bottiroli 2010, 8) che, per quanto intima, incide inesorabilmente il soggetto.
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Ma ciò che più conta davvero è che questa intima esteriorità si configuri come quel vuoto necessario, originario e persino generativo per il soggetto stesso. Il carattere per certi versi trascendentale dell’extimità nei confronti del soggetto fa sì che essa, precedendo di diritto qualsiasi opposizione logica tra interno ed esterno, si configuri come quello spazio pre-logico in cui ogni dualismo perde la propria sostanzialità. Vuoto originario, causativo, limite trascendentale al fondo di ogni soggettivazione. Se il soggetto si genera dal suo vuoto così intimo eppur esterno a sé stesso, il reale è ciò che serve a nominare tale intima esteriorità. Questo nucleo vuoto, per certi versi irrappresentabile, attorno al quale il pensiero di Lacan si è arrovellato fin nell’ultimissimo periodo della sua vita, si costituisce come quella totalità originaria sulla quale si sviluppano e fioriscono tutte le concrezioni progressive della soggettività (Palombi 2014, 156).
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In fin dei conti, allora, il reale è così profondamente intimo alla soggettività da essere invisibile, irrappresentabile, ingovernabile. Come quella forma di cecità auto-indotta da chi osserva troppo da vicino gli oggetti, tanto da non poterne distinguere nitidamente tutte le sinuosità, il reale del soggetto è figurato da quell’intima esteriorità vuota al centro del soggetto stesso, che ne ostacola, perciò, ogni sorta di dominio.
Nella sua extimità, dunque, lo statuto della Cosa è al di là di ogni sua possibile rappresentazione; oltre, cioè, ogni sua possibile chiusura nel sistema della significazione. In questo senso, la Cosa è ciò che si muove in prossimità del reale (Forleo 2017, 170); più precisamente il reale stesso, nel pensiero lacaniano, sembra costituirsi come quel registro di un’esperienza del tutto particolare che, refrattaria all’ordine simbolico del linguaggio, è definibile soltanto nei termini di uno spazio vuoto che buca ogni concettualizzazione o, che è lo stesso, ogni possibilità di iscrizione dell’esperienza in un sistema di senso.
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È proprio in questa accezione che Lacan (1986), nel Seminario VII dedicato all’etica della psicoanalisi si riferisce a Das Ding e al suo statuto come a qualcosa che si situa al di fuori di ogni significato. Se è vero, infatti, come sostiene il celebre psicoanalista francese, che la Cosa è «quel che del reale patisce del significante» (Lacan 1986, 140), allora la vacuità nel cuore del reale (il reale del soggetto, ma anche il reale nella sua totalità, il reale inassimilabile al senso, il reale “primordiale”) non è altro che la condizione di possibilità di un pieno. Così come infatti il vuoto è la condizione necessaria del pieno, il fuori senso è la condizione di possibilità di ogni senso e di ogni non-senso.
Ecco dunque il motivo per cui la Cosa, in questi termini, è utilizzata da Lacan come manifestazione del reale stesso: costituendosi in un paradossale regime di intima esteriorità, la Cosa è ciò che, eccedendo i limiti del linguaggio, buca dal suo interno il linguaggio medesimo, rigettandosi così ad ogni sua eventuale rappresentazione. (Recalcati & Di Ciaccia 2000, 191).
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Il reale non è la realtà. Se in Lacan la realtà è il tessuto simbolico e immaginario, il registro del reale, nella problematica moltitudine delle sue accezioni, è ciò che massimamente irrompe nella trama della realtà bucandone l’intreccio. È questo uno dei motivi per cui il reale, come si è anticipato, è ciò che si situa fuori dal senso, al di là di ogni plausibile significazione.
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Le origini trascendentali del mondo. Per un’ontologia topologica del reale
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Se nella prima fase dell’insegnamento lacaniano l’inconscio strutturato come un linguaggio è l’etichetta in qualche modo “strutturalista” entro
la quale inserire la riflessione del celebre psicoanalista francese, in realtà, con la tematizzazione del registro del reale così come emerge soprattutto a partire dal Seminario VII, si profila qualcosa che nell’inconscio non è riconducibile alla sfera del significante; c’è un nucleo vuoto nell’inconscio, un vuoto centrale, intimamente estraneo all’inconscio stesso che, pur non minandone il funzionamento significante, l’articolazione simbolica non riesce a suturare (Di Ciaccia 1994, 9).
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Il reale è allora ciò che non si riduce ad alcunché di significante, ma che, al contrario, indica che non tutto è riconducibile al significante, o al registro simbolico. Opponendo strenua resistenza alla significazione, il reale è ciò che si nega persino a qualsiasi tentativo di definizione: interrogarlo è mancarlo, riferendone qualcosa non si fa che trasporlo in un registro di senso. Parlare del reale è, per certi versi, il modo migliore per mancarne l’obiettivo. È anche per questa ragione, in fondo, che, inseguendo tutte le asperità della teoria lacaniana sul reale, non possiamo che inserirci nel solco di un fallimento necessario, non potendo affatto escludere che ogni parola possa essere veramente proferita a vanvera. (Zenoni 2015, 203).
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Corriamo volentieri il rischio, se non altro perché, in fatti d’inconscio, non crediamo esistano modi ed attitudini migliori alla conoscenza se non attraverso il malinteso e l’equivoco.
Nell’inconscio del soggetto, allora, il reale emerge come un resto, un residuo, un torsolo; in ciò la psicoanalisi, lungi dal digradarsi a mera pratica ermeneutica, non può ridursi a una semplice teoria del senso (Recalcati 2013, 100): se così fosse, infatti, il nucleo vuoto del reale resterebbe assolutamente inviolato.
In fin dei conti, è anche per questi motivi che secondo Jacques Lacan, così come ricorda molto puntualmente Rocco Ronchi (2015, 119), lo psicoanalista è colui che più di ogni altro sa perfettamente che il reale, nella sua intima estraneità all’ordine simbolico, può manifestarsi solo nei termini di un eccesso residuale.
Ecco allora che fuori dal simbolico c’è del reale, ma in quel fuori così intimo che è al contempo un dentro: fuori dal significato, fuori dal senso, il reale si dà al soggetto in tutta l’ambiguità del suo statuto, anche e soprattutto dal punto di vista dello spazio di pertinenza.
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L’estraneità del reale al senso, tuttavia, non coincide precisamente con l’insensatezza del reale medesimo. Se è vero, come crediamo, che la sottigliezza di questa differenza non sia puramente formale, allora è fondamentale intendersi con cura: non rispondendo ad alcuna intenzione originaria di significazione, o di “voler dire”, il reale è il registro di tutto ciò che, nell’inconscio del soggetto, è fuori tanto dal senso quanto dal non-senso. Indifferente alla sua logica, il senso è ciò che sfugge al reale in entrambi i versi del proprio dominio.
Queste le parole di Lacan al riguardo, in uno dei numerosi tentativi costitutivamente fallimentari di definizione del reale:
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L’Altro dell’Altro reale, ossia impossibile, è l’idea che abbiamo dell’artificio in quanto è un fare che ci sfugge, e cioè oltrepassa di molto il godimento che possiamo averne. Tale godimento sottile sottile è ciò che chiamiamo spirito. Tutto questo implica una nozione di reale. Certo, bisogna distinguerla dal simbolico e dall’immaginario. L’unica seccatura – è il caso di dirlo, vedrete fra poco perché – è che in questa faccenda il reale fa senso, mentre, se andate a scavare quello che intendo io con la nozione di reale, appare che il reale si fonda in quanto non ha senso, esclude il senso o, più precisamente, si deposita essendone escluso. (Lacan 2005, 61).
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Tuttavia, malgrado la sua estraneità e la sua irriducibilità all’ordine simbolico, alla significazione e a qualsiasi tentativo di rappresentazione, esiste un modello in grado di riferire piuttosto adeguatamente l’opacità del reale al senso. Si tratta della lettera. Qual è lo statuto della lettera in Lacan? Ben lungi dall’aderire al modello della scrittura tradizionale, la lettera è qualcosa di insignificante, o insensato, ma di quell’insignificanza o insensatezza che non indica tanto l’assenza di significanza o senso, quanto l’estraneità ad esso, l’indifferenza, l’inanità.
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Ogni senso, così come ogni non-senso, è interdetto alla lettera, la cui solitudine indica l’emersione di qualcosa, nel registro dell’esperienza umana (esperienza profondamente simbolica) come di un resto problematicamente irrisolvibile e non integrabile nell’esperienza stessa, in quanto dotata di senso.
In questa prospettiva, nondimeno, esiste un’utilità della lettera, non riconducibile soltanto alla sua funzione meramente indicativa, o se si vuole, sintomatica di un reale in quanto residuo non integrabile e non significante nell’esperienza del soggetto: si tratta, piuttosto, di una funzione di collegamento con una sorta di campo trascendentale del mondo del linguaggio, prima cioè che il linguaggio stabilisca ed inauguri concatenazioni significanti di parole. Si tratta, in altri termini, di annodare l’insignificanza della lettera al potere enunciativo delle parole, così da poter “godere del solo blaterare della parola”. (Floury 2012, 96).
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La questione di fondo è legata al riconoscimento del carattere esplicativo della lettera, nella misura in cui essa, prima ancora di costituirsi come segno in un sistema linguistico, polverizza il linguaggio riducendolo alla materialità di una cosa. E quella cosa che emerge come scarto nel linguaggio, non è altro che il reale stesso. Così come sottolinea precisamente Felice Cimatti (Conferenza in “Convegno sui Piani di Immanenza”, Università degli Studi di Verona, 10 Dicembre 2015) al riguardo, la lettera, non alienandosi nell’esperienza significante del linguaggio articolato, ma opponendovi resistenza, mostra l’emergere del reale come ulteriorità rispetto alla significazione delle parole.
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In fin dei conti, in questa prospettiva il reale è ciò che interrompe il funzionamento illimitato del dispositivo semiotico: irruzione del reale nella catena semiotica, impasse della formalizzazione e dell’elaborazione dell’inceppo nel dispositivo stesso. Il reale fa problema nella linearità del dispositivo linguistico, nella strutturazione simbolica della realtà. E se il dispositivo semiotico, appunto, è ciò che funziona a patto di non arrestarsi mai, il reale emerge in questo meccanismo introducendovisi come una crepa che ne mina anche solo per un istante la stabilità.
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Del reale, dunque, non si dà sapere. Escluso all’inscrizione in un registro di senso, il reale non è dell’ordine del conoscibile, né dunque della verità.
Come esso non si concede né al senso né al non senso, così esso risulta esteriore al conoscere e al non conoscere, nella misura in cui essi non sono altro che i poli opposti di un medesimo regime: il conoscere, appunto. Come sostiene Alain Badiou al riguardo, una delle differenze sostanziali tra il reale e la realtà nel pensiero lacaniano consiste nell’inscrizione della realtà nel dominio di ciò che è, almeno di principio, conoscibile. Al contrario, il reale, che abbiamo visto essere esterno tanto al conoscere quanto al non-conoscere, non può essere pensato, per ciò stesso, nemmeno nei termini di inconoscibilità. Al di là di ogni formalizzazione fallita, il reale si può solo incontrare.
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M.L. Colasson, Struttura dissipativa, 15×20 cm 2020
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Giorgio Linguaglossa
Topologia del Reale? Una superficie piatta, unidimensionale, priva di discontinuità
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L’inconscio funziona come una topologia, il sapere dell’inconscio è un sapere topologico.
La topologia ci dice che si dà un luogo che è un non-luogo. L’esemplificazione più avvincente di questa teorizzazione è il nastro di Möbius, il più famoso esempio di superficie non orientabile, della quale non è possibile stabilire un sopra o un sotto, un dentro o un fuori. Per averne conferma non ci resta che attraversare questa figura, di percorrerla, in un senso o nell’altro.
Il nastro di Möbius ci rende evidente il paradosso dell’inconscio. L’inconscio è la dimensione più propria e intima del soggetto, ma è anche quel qualcosa che gli resta sempre escluso, esterno al soggetto, bersaglio mancato, luogo nel quale l’incontro con il reale avviene nella figura del trauma. Avviene così che l’extimità è quel qualcosa di più intimo del soggetto che però si trova al di fuori di esso; la superficie topologica del nastro di Möbius ci fornisce una perfetta rappresentazione della scissione del soggetto, l’estraneità del soggetto nei confronti del suo reale più proprio ed intimo.
Quel vuoto causativo del reale al centro del soggetto è intimamente intimo ed estraneo al soggetto medesimo. Nel nastro di Möbius il sopra è immediatamente il sotto, il dentro è immediatamente il fuori, il vuoto è immediatamente il pieno. Si dà un transito continuo: il sopra diventa sotto, il dentro diventa fuori, il vuoto diventa pieno. Lo svolgimento di questo divenire è un accadimento immediato, senza soglia, mediante un transito continuo. Un effetto quasi magico.
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Si verifica un continuum non discontinuo, non oppositivo. Ciò accade in quanto ogni dimensione diventa un altro da sé in uno svolgimento, senza scambio né attraversamento di soglie o discontinuità. Nel nastro di Möbius ogni dimensione spaziale precipita nel suo opposto senza andare oltre la soglia del continuum.
Così nella poesia kitchen di Gino Rago o di Marie Laure Colasson tutto accade in virtù del continuum, per via dello statuto non oppositivo del Reale, dove si passa da un personaggio all’altro attraversando i secoli (Antonio e Cleopatra), oppure mettendo in comunicazione telepatica e geografica, oltreché storica, gli autori della nuova poesia (Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa), facendo interagire oggetti disparati come la pallottola, la gallina Nanin e la giacca di Magritte. Sono questi oggetti a costituire l’orditura del Reale. O meglio, è per il tramite della ribellione degli oggetti che possiamo gettare uno sguardo all’interno del Reale. Nella poesia di Marie Laure Colasson abbiamo un gioco di maschere e di sosia che si scambiano il posto e le identità (Eredia, la bianca geisha, Francis Bacon etc.) in una fantasmagoria che segue le leggi dell’inconscio e, in particolare, quel vuoto causativo del Reale che si rivela essere la soglia più intima (ed estranea) della soggettività.
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Gli oggetti e i personaggi della nuova poesia kitchen sono come situati su un tappeto volante o nastro magico che, scorrendo, ci mette in scena la coreografia e la scenografia di un Reale che non conoscevamo, gli scenari di un retro-Reale o sopra-Reale.
La configurazione topologica di questo nastro magico è dunque tale per cui in esso non c’è una cosa che si rovesci nel suo altro, perché prima non c’è alcuna cosa, ma solo un piano assoluto di un continuum senza opposti, senza contrari, senza discontinuità.
[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 30×30 cm, 2020]
Marie Laure Colasson
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due mie ultime poesie tratte dalla raccolta inedita Les choses de la vie. Anche nella mia poesia la storia (l’aspetto diacronico) e la geografia (il piano sincronico) coesistono e coabitano dando forma ad una superficie estesa in lungo e in largo, onnivora e vorace. Forse perché viviamo ed operiamo in un mondo piatto, in un Reale piatto (con buona pace dei terrapiattisti) che un giorno sarà popolato soltanto da virus e da germi monocellulari. Proviamo ad invertire le cose (de la vie): noi umani siamo solo ospiti dei germi e dei virus.
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36.
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Charlemagne de son épée magique tranche la tête du hibou le grand duc aux yeux émeraude qui désirait épouser l’une de ses filles le pape en jouit bénit l’inceste
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Un oeuf enfile ses baskets court dans la cinquième avenue à New York pour manifester contre le racisme
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La poussière lunaire envahit l’atelier de Francis Bacon se répand sur les pinceaux les tubes de peinture restés ouverts le fauteuil bancal les toiles à peine initiées puis pénètre dans la salle de bain pour se doucher se poudrer le nez
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Eredia et la la blanche geisha montent sur Sophie Sophie monte sur l’avion pour observer la lune ses cratèrs son eau liquide sa délirante végétation installent leurs chaises longues prennent le soleil sans se faire bronzer écoutent l’alto sax de Cannonball Adderley qui joue “Arriving soon”
Se con Mario Luzi volessimo pensare il titolo di un libro come un mantra che viene da molto lontano, L’Immobile volo del recentissimo libro di Edith Dzieduszycka è la scatola nera di un disastro “aereo” che ci raggiunge dall’inerzia di lunghe epoche di incomunicabilità. Uomo-donna, marito-moglie, l’Io e l’Altro, ciò che la poetessa fa emergere è una critica della comunicazione, della socializzazione standardizzata.
Dalla fenomenologia del rapporto di coppia alla più generale sclerosi di ogni «etica della comunicazione», che è poi conflitto dei linguaggi in una contemporaneità cacofonica.
Il soliloquio, ‘l’io-penso’ di due «voci monologanti», come definite da Linguaglossa, agisce dentro la scacchiera formalizzata di un matrimonio.
Un componimento in apparenza simile al genere antico del contrasto, genere molto diffuso che nella definizione di Carlo Salinari sviluppa una tecnica «basata sull’invenzione e sul rinfaccio tra i vari personaggi; questi non hanno un reale sviluppo psicologico, ma sono personaggi stereotipati, quasi maschere.»
Ma se il contrasto già nella letteratura latina medievale era indicato come disputatio, conflictus, altercatio, questo calco sbiadito sulla carta velina che ne fa Edith Dzieduszycka si configura quale intermittenza, interferenza, disturbo sonoro, anomalia d’onda nella linea piatta di un cronografo, sismografo o cardiogramma. Oscillazioni. Librazioni minime nell’ambito di uno scambio superficiario, affidato ai soli significanti o ai correlativi di un codice neutro (unica possibilità d’incontro tra gli “sposi”): vestito nuovo piuttosto provocante, vino bianco frizzante, le tende tirate, le note un po’ lagnose d’un tango argentino…E in una botola interiore i significati, i dubbi, l’asfissia, lo sfogo cutaneo di un profondo tedium familiare.
Per questa deriva solipsistica e narcisistica, (tutta epocale e generalizzata) Edith ritaglia i dettagli del micro-mondo, il privato più intimo della relazione matrimoniale, e poi passa all’investitura di una sotto-lingua priva di fonazione, quella del monologo muto: Cosa vuole dirmi?; Penso d’aver sbagliato la mia ipotesi; farò finta di niente; non riesco a chiederle; forse avrai capito che ti aspettavo al varco…
Come la LEI del testo, Edith imbandisce la cena su una tavola del silenzio e delle supposizioni con le pietanze avvelenate dalla diffidenza: ingredienti super raffinati per rinnovare l’ardore di un incontro erotico. E con leggera maestria registra una malattia contemporanea dello spirito in questa messa in scena, o per meglio dire «messa in cena» sullo sfondo del non-evento, del non-accadimento dialogico-comunicativo.
Ognuno per sé con i propri moti, pensieri, riflessioni, esigenze. La ricerca di un collegamento al solo fine del contatto consolatorio. La costruzione di un contesto domestico finalizzato alla propria tranquillità interiore. Quasi come la grande piattaforma virtuale del consenso del Like o del tweet.
Ci ricorda Karl-Otto Apel che il fondamento dell’etica politica e civile della comunicazione collettiva sia socraticamente il dialogo.
Ma qui, in queste stanze, la nuda vita, due voci separate, due monadi. E si procede per lenta accumulazione, torpore, semplice ripetizione, quotidiana rotazione.
Retro di copertina di L’immobile volo
Il libro è costituito da due «voci»: una maschile e l’altra femminile, ridotte alla «nuda vita». L’io è stato ridotto a nuda voce. Due «voci» monologanti, presumibilmente due persone conviventi o sposate dei giorni nostri di un qualsiasi luogo insignificante dell’Occidente evoluto che mettono in opera una «confessione» separata, a compartimenti stagni, in camere separate, blindate dalla incomunicabilità generale. Ciascuna «confessione» avviene nell’ambito del proprio Foro interiore, ciascuna parla a se stessa per parlare all’altra, ciascuna parla un linguaggio che l’Altro intende benissimo ma che, proprio per questo, lo fraintende e lo equivoca. Perché ciò che aziona le «voci» è la mole invisibile dell’Inconscio. Ecco spiegato il titolo L’immobile volo, in realtà i due personaggi, le due «voci», pur legate presumibilmente da una contiguità passata e da una relazione intima pregressa, ciascuna, dicevo, è sostanzialmente «immobile», cioè incapace a superare e infrangere lo schermo del Foro interiore, la convenzione sociale della «confessione» e quant’altro. Ergo, ciascuna «voce» è inetta e infetta, e falsa, fortificata dalla propria falsità, falsificata dalla falsa coscienza con la quale si presenta la civiltà dell’ordine borghese dei rapporti di produzione e delle forze produttive che ubbidiscono alle regole del mercato e del capitale. I personaggi hanno un vissuto, vivono, si strappano le vesti, gridano e si dibattono nei meandri del teatro della «confessione», ma sembrano incapaci di andare oltre di essa, impossibilitati a varcare le colonne d’Ercole del Foro interiore. L’esistenza ridotta a nuda voce, è questo il tema di questo straordinario libro di Edith Dzieduszycka.
(g.l.)
Testi da L’immobile volo
LEI
Sì ma sì lo so certo che lo so da tempo, tanto tempo tempo che non sospetti forse ma forse sbaglio come tu sai –credo –che io so ma fai finta di nulla come faccio anch’io così entrambi in livido vortice di silenzio.
LUI
prevedo che sarà quest’oggi una giornata no Mi basta il suo sguardo obliquo sfuggente per capire l’umore l’oscuro meccanismo che di quando in quando la pervade la rode rendendola straniera al decorso normale pensa forse “banale” della vita vissuta In questi casi sto zitto aspetto che le passi
LEI
sento però salire quella voglia malata di aprire la botola dall’aria rarefatta e sentori di muffa in cui contorte strisciano e s’aggrovigliano sul fondo viscido e claustrofobico come larve i pensieri richiusi assuefatti ormai a quella vita grama di torpore a quella vita che addosso ci sta appiccicata sempre sia quella vita
LUI
però devo sapere se quel mio pensiero è l’ipotesi giusta me ne deve parlare sono cose urgenti non c’è tempo da perdere Non riesco a chiederle se quella è la causa del suo atteggiamento quasi colpevole Se sarò troppo brusco si richiuderà lei e per un giorno due quattro chi sa quanti non si sbottonerà e staremo allo stallo Una bella fatica sopportare le donne tentare di capirle
Edith Dzieduszycka Cinque-cinq, edizione bilingue, Genesi, 2014
LEI
una tovaglia fresca odorosa di bucato sul tavolo rotondo accanto alla finestra Invece sul carrello un vassoio di lacca con calici bottiglie un mazzo di lillà dai sentori d’infanzia In sordina gemevano in preda a Metamorfosi i ventitré violini Ho scoperto con gioia che anche a te piacciono Era tutto perfetto era stucchevole quasi mi vergognavo un’immagine kitsch da corriere del cuore Prevedevo il tuo ghigno lo davo per scontato ma ti sei trattenuto forse avrai capito che ti aspettavo al varco
LUI
devo però ammettere conciata così sei piuttosto arrapante -quasi non ricordavo- pure un po’ patetica vista la cosa cruda a mente fredda Scommetto che nel bagno per completare il quadro hai acceso candele Andato a controllare invece non ci sono delusione! Ora ti tolgo un punto A parte quel dettaglio non manca proprio niente avrai letto “Eva Nuova” Ma mi viene un sospetto forse il tuo scopo è prendermi in giro recitando sulfurea la parte dell’allumeuse? Aspetto lo strip-tease
LEI
sì proprio strozzare basta poco davvero per di colpo cambiarci in bestie omicide Credo si chiami raptus quell’impulso violento quasi incontrollabile che sai di dover stringere dietro un argine L’iter è fare finta rimanere nel solco perfino sprofondarci con la mano sul freno Così ti ho sorriso un sorriso solare quello delle stagioni felici della storia sei sembrato sorpreso forse ti aspettavi una lunga valanga di accuse e rimproveri?
Edith Dzieduszycka, immagine, fotografia
LUI
una gelida fiamma perché nel tuo sguardo all’improvviso cupo ho percepito al volo spaventato una traccia di odio fino ad allora ignota Così veloce è stata che m’è venuto il dubbio di avere sbagliato colpa dell’ombra scesa subdola sulla sera Infatti subito nella luce rosata del sole al tramonto si è illuminato il tuo viso -sorpresa non da poco- in un largo sorriso Radioso il tuo volto all’improvviso
LEI
nel tenue chiarore che a quest’ora filtra dalle persiane chiuse due gisants côte à côte di marmo opalescente i nostri due corpi ora disintrecciati pesante la tua testa sul mio braccio dolente che non oso spostare per non farti svegliare Meno male non fumi rito dopo rito invece te ne vai in un mondo lunare in cui non ti raggiungo distane siderali di nuovo tra di noi ad alare barriere
Giorgio Ortona, Catania, olio su tela, 24×30 cm 2017
In un certo senso anche Giorgio Ortona si occupa del noto, di ciò che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: i palazzi, le vie delle nostre città, in particolare la Roma della speculazione edilizia, gli abitanti delle città, sospesi tra il non-essere e il nulla, ma lo fa trattando questa «materia» come se fosse una materia di sogno, con colori sbiaditi e sbilenchi, con foschie che si aggrumano e si disperdono. È proprio questo quello che intendo quando scrivo «abitare il poetico». Il nostro modo di abitare il poetico, di vivere poeticamente è raffigurare le cose per come sono… una via qualsiasi di qualunque città, una vecchia Panda che sfrigola nel caldo afoso di una strada. Questo significa abitare il poetico.
(g.l.)
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Fare esperienza del noto. Abitare il poetico.
caro Lucio Mayoor Tosi,
scrivere una poesia non è far mostra di quanto uno è bravo ma, essenzialmente, un fare esperienza di linguaggio.
L’esperienza di linguaggio che ho compiuto in questa ultima Storia italiana del Covid19, non ha più la forma di un viaggio e di un racconto (da Omero a Derek Walcott) che, separandosi dalla propria dimora abituale e attraversando il caleidoscopio dell’essere e il terrore del nulla, fa ritorno là dov’era già stato in origine, come accade ed è accaduto nella metafisica dell’Occidente, piuttosto qui la parola fa ritorno ad un luogo che non è mai stato, ovvero, ad un luogo di tutti, un luogo-non-luogo in cui ci siamo tutti da sempre, che non fa più questione e non fa più esperienza, un luogo che non è stato mai lasciato ma che ho trovato già fatto e compiuto ed è qui tra noi da sempre, un luogo della in-differenza.
Tutto ciò assume la semplice figura di un’abitudine, di un abitare nel noto, di un prendere atto del noto e del notorio, di una in-differenza dove non si può fare alcuna esperienza di ciò che già sappiamo.
Pensare il negativum (la Voce) in quanto tale senza rimarcarne il fondamento e per, eticamente, semplicemente, abitualmente oltrepassare l’essere e guadagnare l’avere, non più presupporre la finzione di un inizio, di uno svolgimento e la fine di un qualcosa che definisca e richiami a un qualche ritorno.
Qui, mi trovo in consonanza con il pensiero di Agamben: quell’esperienza «abissale», sintagma tipicamente heideggeriano, e che in Heidegger ha a che fare con l’esperienza radicale della morte, dunque dell’Essere, viene, da Agamben, radicalmente ribaltata: non solo essa non ha più a che fare con la chiamata della morte e con l’Essere, ma – di più – da esperienza «abissale» essa, come esperienza del «semplice» svanire, deve farsi abitudine, esperienza abituale, abitazione nel noto, etica, abitazione del poetico.
(Giorgio Linguaglossa)
giorgio ortona, ritratto di Letizia Leone, 2012, olio su tavola, 59,8 x 35,6 cm
Lucio Mayoor Tosi
La strada è in vetrina. Qualcuno passa, qualcuno c’era. Verità dura un attimo. Da che ricordo, anche meno.
E io sono crudele. Uccido a piacimento dove mancano parole. Confido che nessuno lo verrà a sapere.
Il puro sguardo piange e non piange.
Sai bene che Lucy ormai vive solo di poesia, e solo con Mario M. Gabriele. Non sa dove altrimenti
nascondere gli optional del mestiere, se in cofanetto la ceralacca dei baci, oppure nel sottosuolo.
Al giudizio universale manca sempre una postilla.
Marina Petrillo
Non tacque l’ultimo senso e affidò il tramite
all’indulgere di silenziosi Astri.
Remoto atto creante in riverbero
straniato ad infinito, algoritmo di Sé stesso
in sibilante ascesa, grembo saturo di onniscienza
velata di solitudini albescenti.
Si diede orma dal rilucente
in forma nulla all’eterno respiro sino a meditare
la capienza in vasi contenenti l’Universo
ed esplodere Tutto in Amore subitaneo
all’urgente multiplo della perfezione.
In inciampo non avverso al divino spense sorriso
unico, il sole e, ovvio alla luce, vegetò la Creatura Prima.
Immemore di essere, reminiscente al calco infuso a conoscenza
Chimera effimera nel vuoto della caduta incarnata a suo precipizio.
giorgio ortona, ritratto di Letizia Leone, 2012, olio su tavola, 59,8 x 35,6 cm
Giorgio Agamben
Stralci da Il linguaggio e la morte
Come dobbiamo pensare l’Ereignis nella prospettiva del nostro seminario? La coappartenenza e l’intreccio di essere e tempo sono stati qui posti in luce come l’aver-luogo del linguaggio nel tempo, cioè come Voce. Nell’Ereignis, potremmo allora dire, Heidegger tenta di pensare la Voce in se stessa, non più semplicemente come mera struttura logico-differenziale e come relazione puramente negativa di essere e tempo, ma come ciò che dà e accorda essere e tempo. Egli tenta, cioè, di pensare la Voce assolta dalla negatività, la Voce assoluta. La parola Ereignis, nell’accezione heideggeriana, è semanticamente prossima alla parola Assoluto: in essa occorre, infatti, intendere lo eignen, il proprio, come in Assoluto il sé e il suo. Ereignis potrebbe valere, in questo senso, quando as-sue-fazione, as-so-luzione. La reciproca appropriazione di essere e tempo che ha luogonell’ Ereignis è, anche, una reciproca assoluzione, che li scioglie da ogni relatività e mostra la loro relazione come la relazione assoluta, la relazione di tutte le relazioni. […] Per questo Heidegger può scrivere che, nell’Ereignis, egli cerca di pensare “l’essere senza riguardo all’essente” – cioè, nei termini del nostro seminario,l’aver-luogo del linguaggio senza riguardo a ciò che, in questo aver-luogo, è detto, formulato in proposizioni.
(G. Agamben, Il linguaggio e la morte, p.127)
La domanda che dobbiamo porre a questo punto è: è possibile una tale assoluzione e assuefazione della Voce? È possibile assolvere la Voce dalla sia costitutiva negatività, pensare la Voce assolutamente? Tutto si decide dalla risposta che diamo a queste domande. Quel che, tuttavia, possiamo già anticipare, è che l’ Ereignis non sembra essersi integralmente sciolto dalla negatività e dall’indicibile. “Noi non possiamo mai rappresentarci l’Ereignis”; “l’Ereignis non è né si dà”; esso è nominabile solo come un pronome, come l’ Esso (Es) o come il Quello (Jenes) “che ha destinato le diverse figure dell’essere epocale”, ma che, in se stesso, è “non storico, meglio: senza destino”. Anche qui, come nell’Assoluto hegeliano, nel punto in cui, nell’Ereignis, il destinante si rivela come il proprio, la storia dell’essere giunge alla fine […] e, al pensiero, non resta letteralmente null’altro da dire e da pensare che questa “assuefazione”. Ma questa è, nella sua essenza, una espropriazione (Enteignis) e un nascondimento (Verbegung) che, ora, non si nasconde più, non è più celato in figure storiche e in parole, ma si mostra come tale: puro destinar-sé senza destino, puro obliar-sé dell’inizio. Nell’Ereignis, possiamo dire, la Voce mostra sé come ciò che, restando non detto e insignificato in ogni parola e in ogni tramandamento storico,destina l’uomo alla storia e alla significazione, come il tramandamento indicibile che fonda ogni tradizione e ogni parola umana. Solo in questo modo la metafisica può pensare l’ethos, la dimora abituale dell’uomo. (G. Agamben, op. cit. p.128)
In Heidegger, la figura dell’umanità as-sue-fatta, cioè post-storica, resta ambigua. Da una parte, infatti, che nell’Ereignis avvenga lo stesso nascondimento dell’essere, ma non più celato in una figura epocale e, quindi, senza più destinazione storica, può soltanto significare, se ben si riflette, che l’essere è, ora, definitivamente obliterato e che la sua storia, come Heidegger ripete, è finita. Dall’altra, Heidegger scrive che vi sono ancora, nell’Ereignis, possibilità di disvelamento che il pensiero non può esaurire e, quindi, ancora destinazioni storiche; inoltre l’uomo sembra qui avere ancora, in verità, la figura del mortale parlante. L’Ereignis è, anzi, proprio ilmovimento che porta il linguaggio come Sage alla parola umana. In questo senso, “ogni linguaggio autentico (eigentlich) – in quanto è, attraverso il movimento della Sage, assegnato all’uomo – è destinato (geschickt) e, perciò, destinale (geschicklich)”. Il linguaggio umano, pur non essendo più qui legato ad alcuna natura, resta destinato e storico. (p. 130)
Poiché tanto l’Assoluto che l’ Ereignis sono orientati verso un esser stato, un Gewesen, di cui rappresentano la consumazione, i lineamenti di una umanità veramente assolta, as-sue-fatta – cioè integralmente senza destino – restano, in entrambi, nell’ombra. (p. 130)
Assuefazione, assoluzione, ombra, per Agamben sono parole semanticamente contigue. L’essere si trasduce e traduce allora nell’avere, nell’habitus, nella veste modale: «la stessa prassi sociale, la stessa parola umana divenute trasparenti a se stesse». (p. 133).
Per questo, se volessimo caratterizzare l’orizzonte del seminario rispetto all’esser stato in Hegel e in Heidegger, potremmo dire che il pensiero si orienta qui piuttosto in direzione di un mai stato. Il seminario pensa, cioè, a partire dalla definitiva cancellazione della Voce, pensa la Voce come mai stata, non pensa più la Voce, il tramandamento indicibile. Il suo luogo è l’ethos, la dimora in-fantile – cioè senza volontà e senza Voce – dell’uomo nel linguaggio. Questa dimora – la figura di una storia e di una parola universali e mai state, che non si destinano, perciò, più in un tramandamento e in una grammatica – è ciò che resta, qui, da pensare. (pp. 130-131)
[il video di cui al link sopra riportato, è stato costruito utilizzando le notazioni grafiche su fogli di carta di Antonio Amendola e ascoltando il suono da lui creato. Poco prima della fine del video potrai leggere spiegazioni più dettagliate.
Gianni Godi]
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caro Gianni,
grazie innanzitutto per il tuo lavoro, per noi è importantissimo questo incontro tra arti e poetiche artistiche diverse: poesia, romanzo, pittura, video-art e musica. È questo il nuovo modo di pensare e di condividere la nuovissima pop-arte, pop-poesia, pop-video-art, la poesia non può vivere da sola, non può sopravvivere nel suo «splendido» isolamento che è diventato solipsismo autarchico, la poesia ha bisogno del confronto critico e dello scambio tra tutte le arti e con il pensiero filosofico.
Se la patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie, per la pop-poesia non ha senso parlare di «soluzioni immaginarie», la pop-poesia avverte l’esigenza di reinventare il reale come finzione, come gioco di specchi, come costruzione e decostruzione ad un tempo del linguaggio nel linguaggio.
Non si tratta di una riscrittura segnica della realtà, perché la realtà come noi la intendiamo non esiste, ma è già, in quanto tale, frutto di una simulazione; si tratta piuttosto di porre in essere una dissimulazione auto ironica della realtà, perché essa viene distrutta e insieme ricostruita proprio nel non-luogo che la contiene: nello specchio del linguaggio.
L’altra sera Marie Laure Colasson, dopo aver visionato il video di Gianni Godi, ha riconosciuto la grande capacità dell’autore di reinventare il linguaggio poetico in un altro linguaggio, un linguaggio simulacrale fatto di avatar, emoticon, figure tridimensionali che si avvale della stessa grammatica del web per ricostruire un video secondo un modernissimo concetto di spazio simulacrale-virtuale. Ha fatto un pop-video, se così possiamo dire.
(Giorgio Linguaglossa)
Per come la vedo io, Pop è scrivere nel geroglifico del banale. Merito dell’arte pop è quello di rendere manifesto e riconoscibile il banale. Dopo l’epoca della grande narrazione, il passo successivo. Nomi e oggetti del vecchio mondo, ancora qui: autentico vintage.
(Lucio Mayoor Tosi)
…lo finisco il pensiero. Il pop pensiero è l’autentico presente che a un certo punto ci siamo dimenticati che per una serie di ingolfamenti temporali torna finalmente a galla. Dalla deriva, dall’esclusione, a cui era stato sottoposto o riapparendo se preferite. Mi vengono in mente le tanto care missive che quell’instancabile di Rago ha inviato a Ewa Lipska, il prototipo delle lettere alla Maria nazionale. Ergo, quindi Ingravallo e li che deve indagare. Madame Colasson ha un gancio perfetto col buona camicia televisivo. (Uno dei miei scrittori preferiti è Sebastiano Vassalli per come riesce ad essere cronista e protagonista in una sua storia è strabiliante. Un teatro tutto suo, grande!). Termino. Cosa voglio dire? Appunto. Che c’è sempre una parte del presente che dovrà diventare futuro, e viceversa, che dovrà diventare passato. La pop poesia è il presente che affiora.
(Mauro Pierno)
Gino Rago
Storia di una pallottola n. 10
Metro B. Fermata Colosseo. Sale il Fantasma del Louvre. Porta una mascherina. Gialla.
Milaure Colasson con la sua Birkin è in fondo alla carrozza. Sale nella metro il filosofo Stavrakakis. «È Belfagor! Fermatelo! Le fantôme du Louvre!», grida.
Un agente in borghese pedina Marie Laure Colasson. «Signora, pardon, mi sono invaghito di lei, non creda a Belfagor, non è possibile, è una invenzione di Victor Hugo…».
Madame Colasson: «Monsieur, è tutta colpa di Juliette Gréco. Rivolga istanza all’Ufficio Informazioni Riservate».
Da una Beretta calibro 9 una pallottola di gomma colpisce in pieno un kit anti-Covid-19 (mascherina e visiera in plexiglas) fissata con una molletta sul filo dei panni del balcone del quinto piano. Il filosofo Stavrakakis litiga con il filosofo Žižek.
Ingravallo dice che Linguaglossa è un sovversivo. Una volante a sirene spiegate. Tre giubbotti antiproiettili fanno irruzione al quinto piano di via Pietro Giordani. Uno, due, tre spari.
Sequestrano tute, occhiali cinesi, una videocamera a raggi infrarossi, guanti in lattice, un termoscanner, una soluzione idroalcolica, un reagente, due confezioni di amuchina, mascherine chirurgiche FFP2, tamponi. Cadono sulla strada dei vasi da fiori sulla testa di due clienti proprio davanti al negozio di vini sfusi.
Apericena da Rosati a Piazza del Popolo. Marie Laure Colasson incontra Catherine Deneuve. Parlano di quella scena che girò tutta nuda in “Belle de Jour”.
Da una finestra: «Quelli eran giorni, sì, erano giorni. Noi ballavamo anche senza musica…». Vittorio Gassman parcheggia l’auto sportiva a Piazza del Popolo nel film “C’eravamo tanto amati” (1974), regia di Ettore Scola con Nino Manfredi, Stefania Sandrelli e Giovanna Ralli.
Ripostiglio di sartoria teatrale al primo piano di via Gabriello Chiabrera: manichini, scampoli, aghi, spolette, fili di seta, bottoni, ditali. Montale sta provando una giacca di velluto a coste fini:
«Ahimè, la Musa mi ha abbandonato, questi giovinastri preferiscono gli stracci, le discariche abusive, la plastica, i cassonetti della immondizia…».
Marie Laure Colasson
Egregio poeta Gino Rago,
innanzitutto prendo le distanze da quel poliziotto in borghese che mi ha pedinato durante tutto il mese di agosto in pieno solleone… il figuro non faceva che sbirciare la mia gonna… e poi sono desolata che in questa triste vicenda con il commissario Ingravallo sia stata investita anche l’Ambasciata di Francia cagionando un incidente diplomatico. Tutto ciò per le intemperanze di un commissario inadeguato e incompetente. Sono contenta che Ingravallo sia stato rimosso dal suo incarico e rispedito a Campobasso, suo paese natale. Questo pettegolezzo mi è stato riferito dal Signor Linguaglossa il quale è un notorio “sovversivo” come bene sanno i servizi deviati di stanza nel bel Paese. Però devo dirLe che il mio incontro con Catherine al caffè Rosati di piazza del Popolo è stato molto piacevole e con lei ho scambiato due chiacchiere sulle nostre rispettive “nudità”. Non le nascondo, comunque, il mio apprezzamento franco e disinteressato per la sua Storia di una pallottola n, 10… Aspetto con impazienza il seguito della Storia malfamata. Ma, per favore, non mi faccia più incontrare con quel buzzurro di Ingravallo! Affettuosamente, Milaure
Francesco Paolo Intini
Al 103esimo KIRK
Caricare Kirk di responsabilità. Metterlo in un quadro e fargli suonare la chitarra Perché non ha fatto “La strada” e non è entrato nel cast di “ Persona”
Kirk non ebbe scelta, rientrò dai 104 nel 70 a.C. Fu vera gloria suonare sul monocordo “Libertà o Morte” E Goya alla cinepresa -Non è così che si alzano le braccia e si pronuncia “VIVA”. stai presenziando l’ Oscar o l’Aspromonte?
In un genoma comunismo e critica cinematografica: a ognuno secondo il sogno.
Mc Carthy? Una funzione di stato. Il leninismo una vampa di calore.
Uomini e caporali sul campo di battaglia. Da che parte è la guerra?
La classe operaia impara dai ricci a sotterrarsi. E dopo i titoli di coda la Via Lattea fino a Capua.
Scartavetrando azzurro cenere Soltanto un lampo di pessimismo croce n. 2020 in un campo di papaveri
Si intravede l’etichetta di un pomodoro Spartacus con le istruzioni di una battaglia 3D. Michelangelo al rifiuto della Pietà
Poi perde la vita banalmente per evitare che un ramarro finisca tra le ruote
SPARI DI WARHOL
C’è uno sbuffo tra le silver clouds e dalle inferriate sfugge acroleina.
L’ala del corvo fa un cigolio -Papà è lo sportello della cinquecento
L’albero della piazza ha dato i fichi in pegno ma ci ha guadagnato investendo a Singapore.
C’è da credere a quello di Hong Kong. Ride Ollio della libertà.
Bisogna riscaldare la scena milioni di gradi per avvicinarlo a Lenin.
Dopo tutto la produzione di un pensiero pulito richiede che si brucino due cartoon.
È’ scritto che qualcosa si perda nel telecomando. Partono missili a zig zag. Acqua brucia nei polmoni.
L’accostamento in olio bollente schiude l’uovo dell’universo.
Bucefalo scaccola le sue narici. Alessandro ride a quaranta denti.
Totò compra la Cappella Sistina.
FIRME DI PRESENZA.
L’uomo di Cromagnon si affacciò con un pacco da firmare. Chi era Dio tra loro?
L’autentica è scomparsa e duole stare in piedi dal big bang.
La penna è sul muro. Calcinaccio che conserva gli occhi di cerva E l’ordine dal più sudato al meno.
L’ odore ha la sua parte proibita.
HAL 9000 dunque e dopo un astronauta. Palpa la camicia per riconoscere il male al petto.
Graffio di Caino sulla visiera. Si diede da fare nella metallurgia e scoprì qualcosa che poi gli fruttò ricchezza.
Assomigliava al Neanderthal, un brav’uomo deceduto durante una rapina in banca. Ci morirono delle guardie giurate.
Sbrigarono la faccenda all’alba e si accusarono a vicenda pur di nascondere un tizio somigliante a Lorca.
La conservazione nell’inconscio è perfetta. Soltanto di notte esce qualche indizio sulla vera identità.
In sostanza anche i versi furono assorbiti, caddero giù per il pendio e si fissarono nella foiba.
Una stalattite ride del cobra su Wall Street
Giorgio Linguaglossa
C’è un «significante eccedente» che caratterizza la poesia moderna e contemporanea, questo è indubbio, ma ciò che caratterizza la poesia della nuova fenomenologia estetica della top-pop-poesia, della poetry-kitchen o pop-corn-poetry è una particolare idea di «significante eccedente». Pensare questa idea soltanto nel senso semantico come ha fatto lo sperimentalismo e la poesia tardo novecentesca, a mio avviso sarebbe limitativo. Qui occorre pensare l’«eccedente» nella accezione di uno scarto e di un residuo non assimilabile ad alcun significato stabilito; a questo punto si apre uno spazio di «gioco linguistico» nel senso di Wittgenstein sconosciuto alla poesia del Moderno, impensabile dalla poesia del modernismo del novecento. È questo salto mentale che bisogna fare, altrimenti si ricade inevitabilmente nella poetica del significato e del significante.
«Noi crediamo che le nozioni di tipo mana, per quanto diverse possano essere, considerate nella loro funzione generale… rappresentino esattamente quel significante fluttuante, che costituisce la servitù di ogni pensiero finito (ma anche la garanzia di ogni arte, di ogni poesia, di ogni invenzione mitica o estetica), sebbene la conoscenza scientifica sia capace, se non proprio di arrestarlo, di disciplinarlo parzialmente».1
Lévi-Strauss, citato da Giorgio Agamben, Gusto, Quodlibet, 2015 p. 47 e, in Enciclopedia Einaudi, vol. 6, Einaudi, Torino 1979.
Penso che l’Evento non sia assimilabile ad un regesto di norme o ad un’assiologia, non ha a che fare con alcun valore e con nessuna etica. È prima dell’etica, anzi è ciò che fonda il principio dell’etica, l’ontologia. Inoltre, non approda ad alcun risultato, e non ha alcun effetto come invece si immagina il senso comune, se non come potere nullificante. La nientificazione [la Nichtung di Heidegger] opera all’interno, nel fondamento dell’essere, e agisce indipendentemente dalle possibilità dell’EsserCi di intercettare la sua presenza. Si tratta di una forza soverchiante e, in quanto tale, è invisibile, perché ci contiene al suo interno.
L’Evento è l’esito di un incontro con un segno. (g.l.)
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L’ultimo stadio della nuova fenomenologia estetica: La pop-poesia
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I due testi proposti sono esemplificativi di un modo di essere della nuova fenomenologia estetica come pop-poesia, poesia del pop. Si badi: non riattualizzazione del pop ma sua ritualizzazione, messa in scena di un rituale, di un rito senza mito e senza, ovviamente, alcun dio. Con il che finisce per essere non una modalità fra le tante del fare poesia, ma l’unica pratica che nel mondo amministrato non ricerca un senso là dove senso non v’è e che si colloca in una dimensione post-metafisica.
In tale ordine di discorso, la pop-poesia si riconnette anche a quello che è stato da sempre lo spirito più profondo della pratica poetica: la libertà assoluta e sbrigliata soprattutto dal referente, da qualsiasi referente, parente stretto della ratio complessiva del sistema amministrato.
La pop-poesia vuole essere la rivitalizzazione dello spirito decostruttivo che, nella poesia italiana del novecento si è annebbiato. La poesia si è costituita in questi ultimi decenni come una attività istituzionale e decorativa, si è posta come costruzione di un edificio veritativo.
La poesia che vuole mettere in evidenza le contraddizioni o le condizioni di un essere nel mondo, finisce inesorabilmente nel Kitsch. La pop-poesia non redige alcun senso del mondo e nessun orientamento in esso, non è compito dei poeti dare orientamenti ma semmai di svelare il non orientamento complessivo del mondo.
Non è compito della pop-poesia commerciare o negoziare o rappresentare alcunché, né entrare in relazione con alcunché, la pop-poesia non si pone neanche come una risorsa o come un contenuto veritativo o non veritativo. La pop-poesia può essere considerata una pratica, né più né meno, un facere. Così è se vi piace.
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Mario M. Gabriele
Inedito di da altervista il blog di Mario Gabriele
Andando per vicoli e miracoli ritrovammo l’albergo e il trolley.
Non si dà nulla per certo, neanche prendere contatti con il gobbo di Notre Dame per suonare le campane.
Bisognava partire. Tu non vuoi più le carezze?
Il fatto è che se ci mettiamo a seguire Ketty non leggeremo Autoritratto in uno specchio convesso.
I Simpson si riconoscono per il colore giallo. Giulia ne ha fatto una raccolta di figurine acriliche.
Tutto rotola e va in basso. Sale e scende. Linee nere e linee rosse.Si cerca il punto originario.
Cerca di distrarti! Prova a chiamare le cugine di Sioux City.
Ti suoneranno l’Hukulele ricordandoti C’era una volta l’America.
Oh bab, baobab, invocò il nigeriano alla fermata del Pickup.
Controlla tutto e bene nel trolley. Vedi se c’è anche questa sera il Roipnol.
Giorgio Linguaglossa
Proprio nel momento in cui l’erede di Giovanni Agnelli, il topastro John Elkann, ha liquidato il direttore di “Repubblica”, Carlo Verdelli, sostituendolo con un fedelissimo moderato pony express del moderatismo, Maurizio Molinari, e comprato l’asset per un pugno di dollari, possiamo comprendere come il capitale internazionale disdegni le testate giornalistiche «diverse» e comunque «critiche» del sistema-Capitale. Il problema è che si preannuncia in Italia, in Europa e nel mondo occidentale un acutizzarsi della crisi e dello scontro in atto tra i ricchissimi e il nuovo proletariato internazionale che ama visceralmente i Bolsonaro, i Trump, i Salvini, le Meloni, gli Orban, i Putin, i Di Battista… Le democrazie liberali sono a rischio di sopravvivenza, questo è chiarissimo anche in Italia dove l’accoppiata fascista-leghista Salvini-Meloni lancia accuse incandescenti e bugiarde contro un governo parlamentare che sta affrontando la crisi più grave del novecento e del post-novecento.
In questa situazione, alla poesia viene sottratto il terreno da sotto i piedi, le parole diventano sempre più difficili, scottano, non possono più essere maneggiate, i poetini e le poetine alla Mariangela Gualtieri e alla Franco Arminio vengono citati sulle pagine della stampa e dei media per le loro poesiouole sul Covid19 e sull’ambaradam dello sciocchezzaio, mentre un poeta laureato di Milano discetta sulla fine della «società letteraria» d’un tempo, e altri autopoeti parlano di «Bellezza» e altre amenità consustanziali allo stupidario di massa di oggi.
In questa situazione, che cosa può scrivere un poeta che vive nel paese più a rischio democratico d’Europa come l’Italia? Può solo scrivere con sconcertante umiltà:
«Tutto rotola e va in basso»
per concludere:
Controlla tutto e bene nel trolley. Vedi se c’è anche questa sera il Roipnol.
Mario M. Gabriele
Quanto scrivi, caro Giorgio, non può che accomunarsi a quanto da me riportato nel commento del 24 aprile, a proposito della “divisività”, che ha dominato e domina la poesia italiana di oggi, dove un poeta, con idee nuove, debba rimanere sempre al buio in quanto nemico dell’establishment culturale che si consolida con la politica statica e conservatrice.
Mi duole se nel trolley dobbiamo portarci il Roipnol per dimenticare tutto ciò che la classe dirigente e i comandamenti che ogni anno provengono da Davos, unificano la classe sociale e culturale, dove basta un semplice agente patogeno, il Covid19 a fare piazza pulita di tutto il sistema collettivo dove si frantuma un corpo sociale in mille pezzi costruito da una cultura di comunicazione virtuale dove prevalgono le Fake News e i continui attacchi dell’opposizione alla classe dirigente di oggi che si trova a dover allontanare il Default come la nube di Chernobyl.
Se c’è qualcosa che ci accomuna è la nostra fragilità, l’essere una massa enorme e impotente all’interno di un mondo diviso. Ma ciò che più determina il nostro disagio è la degenerazione culturale di tipo fascista, che tipografa sui muri le svastiche o incendia le lapide dei partigiani.
Alla luce di quanto finora detto non possiamo permettere come normalizzazione e appiattimento l’idea di una Nazione, la nostra, che diventi ancella della Merkel, e della Troika che hanno fucilato la Grecia.
La poesia è anche un Kit di pensieri e azioni, rispetto al nostro mondo desacralizzato dalla pandemia, che ha rimesso tutto in campo, facendo rinascere una società in cui ciò che conta è la capacità di reinventarsi nuove occupazioni lavorative, anche se il Capitale sta a guardare e ad operare come un bodyguard. Ti ringrazio, caro Giorgio, per aver ospitato un mio testo, da te rivelato nelle sue parti più essenziali.
Giorgio Linguaglossa
Stanza n. 4
Il Signor F. frugò nel taschino del gilet e saltò fuori il nano Proculo, con la giacca a quadretti azzimata, un pantalone liso e sdrucito e un cappello a cilindro.
Il quale scrisse una lettera al Presidente del Consiglio Conte, per riavere indietro i trenta denari dati in prestito e ancora insoluti per via del precoce decesso del legittimo proprietario.
Si accomodò in poltrona dal barbiere François, accavallò le gambe e si fece radere il mento. Poi sputò nella sputacchiera e si diresse all’angolo della tosse
dove i liberi erano in quarantena. Spalancò la finestra. «Aria! Aria! Cambiate l’aria!», gridò.
[…] Chiese uno stuzzicadenti. Il Coronavirus saltellò qua e là e decise di uscire a prendere un po’ di aria fresca.
Il poeta di Milano fece un gran fracasso. Gridava che la «società letteraria» era scomparsa e altre quisquilie.
Inutilmente il direttore d’orchestra intimò il silenzio. La grancassa riprese a fare fracasso.
[…]
Come prima. Più di prima. Il direttore disse: «Ti amo» alla prima violinista.
Un gran numero di topi di fogna presero il largo dicendo che in democrazia anche i topi erano liberi. Accadde tutto così di fretta che il commissario non intervenne. Un altro poeta gridò:
«La bellezza salverà il mondo!», e scomparve. Dei turisti giapponesi si accalcarono per vedere il Prof. Tarro con il virus nell’ampolla.
Scattavano fotografie dappertutto, entravano anche nel bagno. Dicevano ai bambini: «State zitti, contegno, state in casa del prof. Tarro!». Poi le cose periclitarono, l’Italia fu dichiarata «zona rossa»
e venne bannata dalle guide turistiche. Nadeche Hackenbusch, la bella presentatrice di un reality show scorrazza per il lager con la sua jeep zebrata,
la accompagna la sua devota biografa, la redattrice della rivista “Evangeline”, Astrid von Roëll, entrambe in minigonna e tacchi a spillo,
intervistano gli africani del lager. Lui, anzi Lei, la loro amante, ribattezzata Lionel perché il nome tedesco è troppo difficile, le asseconda.
Ursula Andress prende il revolver di Marie Laure Colasson, dice che ha licenza di uccidere, e spara un colpo in aria e un altro nella testa di Azazello
il quale crolla all’istante, e così Bulgakov non trova più il suo personaggio che nel frattempo si è insinuato nel romanzo di Gadda dove c’è il commissario Ingravallo che svolge le indagini.
Interviene il cardinale Tarcisio Bortone portando i buoni uffizi del Vaticano ma non ci fu niente da fare, le cose tornarono a posto da sole.
[…]
Il nano Proculo si diresse verso la botola e riprese il suo posto. Il Signor F. disse che aveva scherzato. E si ritirò nella fogna.
Ursula Andress ritornò all’isola dei Caraibi, sulla spiaggia, in bikini, nella famosa scena del film di Jan Fleming.
Se dovesse lasciare questo piano di esistenza vorrei vederla piccola, rannicchiata sul pavimento
intonare un canto,Angelus della dipartita benevole al gesto dell’insidioso andare,
Paradigma brama bellezza in archetipo se muove l’insoluta perfezione ad attimo.
Lì perviene il presente in dubbio opalescente al nastro annerito del pianeta.
Hölderlin canta l’Essere, la sua pace d’oro. Dimenticanza, perdono. Nube che viaggia che viaggia innanzi alla serena luna,
Smemore ogni tratteggio nell’indiviso multi verso o diafanità tralucente la parola.
Alla preghiera antica, torna il coro degli esseri senzienti declinati ad Uno.
Lieve tocco in stilla apparsa in sogno primo gesto non contemplato ad inizio
per cui il Big Bang è tonfo della sua fine.
Giorgio Linguaglossa
cara Ewa Tagher,
giunti, come parrebbe che stiamo, al punto culminante della Crisi, abbiamo il dovere di percorrere con lo sguardo la crisi per abbracciare, con un colpo d’occhio, con l’occhio della crisi, l’arte che è stata fatta in questi ultime decadi. E derubricare quel modo di fare poiesis. E la poesia? Che cosa si penserà di noi tra cento, duecento anni? Che cosa si citerà di significativo della crisi di questi anni?
Vorrei attirare l’attenzione dei lettori su questo punto: sulle conseguenze nel discorso poetico della assunzione di questa pratica e di questa petitio principiis: una pratica della differenza e della contraddizione. La nuova fenomenologia poetica vuole liberare la differenza dalla differenza per dare luogo a un discorso poetico che preveda e consenta la differenza, la contraddizione, la dialettica senza negazione, la dialettica negativa. Un discorso poetico che dica sì alla differenza, alla contraddizione; un discorso poetico del molteplice, della molteplicità che non si limiti alla omogeneizzazione fonologica e stilistica, come è stato fatto finora, che riesca a liberarsi dall’assoggettamento alle categorie, che vogliono costringere lo sguardo che osserva dall’alto in basso secondo l’ideologema di un io plenipotenziario e panottico che crede ingenuamente di tutto abbracciare e tutto governare, che squadra l’oggetto e lo descrive, o crede di descriverlo.
La ragione è in se stessa l’atto che differenzia, che mette in opera quell’Unter-scheidung (differenza), figlia dell’Ent-scheidung (decisione), che realizza la Scheidung, il taglio dei significati e dei significanti, la moltiplicazione dei significanti. La poesia della nuova fenomenologia del poetico ha questa spiccata consapevolezza, che quel logos, quella ragione è inappropriata a rappresentare ciò che sfugge alla rappresentazione, l’origine non rappresentabile della rappresentazione.
Ewa Tagher
Gentilissimo Linguaglossa,
Lei scrive: ”un discorso poetico che dica sì alla differenza, alla contraddizione; un discorso poetico del molteplice, della molteplicità che non si limiti alla omogeneizzazione fonologica e stilistica” e ancora “la ragione è in se stessa l’atto che differenzia, che mette in opera quell’Unter-scheidung (differenza), figlia dell’Ent-scheidung (decisione), che realizza la Scheidung, il taglio dei significati e dei significanti, la moltiplicazione dei significanti”. A me sa cosa viene in mente? Una visione: il trittico “Il giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch, che non a caso è un polittico, ancora ammirato, seppur vecchio di oltre 530 anni. E perché ancora molti ne rimangono estasiati? Proprio perchèélì avviene quanto Lei auspica per la poesia contemporanea: sulla tela si agitano “moltiplicazioni di significati”, rovesciamenti, significanti dai doppi, tripli significati. Lasciando da parte le intenzioni di Bosch (purtuttavia poco chiare anche agli studiosi), la sua opera affascina i contemporanei proprio perché è di difficile interpretazione e perciò richiede uno sforzo, occorre richiamare alla mente tutte le possibili metafore per comprendere i gesti delle piccole figure nude, prigioniere in gusci d’uova. Ecco, io mi auguro che la Nuova Ontologia Estetica, il Cambiamento di Paradigma, così come Lei auspica, diventi il Nuovo Giardino delle Delizie, un lavoro al quale fra 100, 200 anni altri possano guardare incuriositi, stimolati, invaghiti.
Marina Petrillo
Sento che giunge, non so cosa sia. È una lingua di fuoco azzurra, creante, a scendere e a soffiare la vita. Abita il cielo dell’onnipotente pensiero tralasciando ogni altra forma.
Non giace immobile il mare e torna in risacca dopo aver compiuto traccia del suo esodo. In ipotesi estatica, trae luce il Verbo, a solstizio armonico,
come se sottili lettere ambissero nuovo lemma. Ad aereo suono risponde la compagine alfabetica, assorta in emisferi dello spirito limitrofi alla linea iniziale.
Contemplare l’ombra a sua luce è espediente noto. Non lasciare adito a supponenti orchestrazioni filosofiche ma allo spazio derivante da conoscenze eterne,
ne è la traduzione in diagramma plurimo. Si dissolve il pensiero, algoritmo dimostrabile in sequenza tendente al non finito.
Essere sulla soglia non contempla l’azione dell’entrare se il passo non si attiva e le sinapsi non determinano la funzione di controllo. Procede il ripetersi di azioni conclamate ad avvio della coscienza,
non suffragate da eventi coerenti all’agire stesso. Riflessioni animano spazi verbali ma non vi sostano se, combacianti a specchio, negano il respiro in asfissia della coscienza
Resta immobile il respiro e in sua apnea, giunge un suono tramutato in parola. Indaga il suo doppio e lì permane a scrutare i cieli possibili.
I più imponderabili. Contraddizione in termini mai sazia di indizi lessicali.
Mauro Pierno
L’alfabeto muto dell’appartenenza la semplicità della rete in fibra, fare centro al primo colpo!
La messa cantata annullata, solo due visi pallidi in pompa magna.
A quell’ora predisposta fuori dell’uscita. Lo stesso prezzo lo stesso cartellino.
La menzogna della calze lunghe, Raggiodiluna allenta le briglie.
Quelle scommesse così rarefatte, non indicate vi prego le praterie.
E le parole quante volte appese. Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo stoppino.
Giuseppe Gallo
Giorgio Linguaglossa chiede un parere sulla trascrizione in terzine della poesia di Marina Petrillo. Il suo tentativo ha il pregio di rendere più chiari i contenuti, le immagini e i significati che sottostanno al testo. Linguaglossa introduce un principio di ordinamento linguistico nel cuore del vaticinio e della profezia. Un risultato consimile si sarebbe ottenuto anche attraverso una trascrizione in distici e l’isolamento di qualche verso. Così, però, la scrittura della Petrillo perde quell’aura di sapienza sacerdotale che la percorre e attraversa tutta. La scrittura della poetessa, fascinosa e misticheggiante, è l’ avvenente trucco di una vestale del Verbo, sotto il segno di una “contraddizione in termini”, dove termini significano “respiri in apnea” che producono parole… e “indizi lessicali” per delineare gli argini di un territorio imperscrutabile.
Giorgio Linguaglossa
caro Giuseppe Gallo,
la poesia di Marina Petrillo è a mio avviso un esempio probante di poesia dell’età tecnologica in quanto adotta le strategie della retorica al meglio e in profondità, proprio quella retorica che ha contraddistinto il novecento, proprio quella retorica che ha accompagnato il feretro della civiltà dell’umanesimo. Proprio in questi giorni lo spettacolo dei fascismi di ritorno (è inutile girarci attorno, qui bisogna chiamare le cose con il loro nome), fenomeno eclatante e inquietante in Italia, in Europa e nel mondo sembra convalidare la nostra ipotesi che siamo un paese alla deriva e all’avanguardia del fascismo in Europa.
La fine dell’umanesimo significa, per chi ancora non l’avesse capito, la fine di quel modo di fare poiesis come l’abbiamo conosciuta nel novecento e in queste ultime due decadi. Quella poiesis è risultata Kitsch, ancella del conformismo. Marina Petrillo, e questa è la sua prerogativa, reimpiega la retorica della antica poiesis per sfornare un nuovo modello di poesia. In fin dei conti, la retorica è nient’altro che tecnica, rientra nella tecnica e non ne è mai uscita.
Per pensare adeguatamente la tecnica è necessario aprire gli occhi sul fatto della natura e della tecnicità dell’uomo, della immediata mediatezza dell’esistenza umana: l’uomo è per natura un essere artificiale, la tecnica non solo non è la negazione dell’umanità, ma è anzi l’espressione della sua più profonda essenza,l’esplicazione dei fondamenti della sua costituzione materiale.
Heidegger ha notoriamente interpretato la nostra epoca come epoca del Gestell (apparato impersonale/dispositivo/impianto) che si impone portando aconcepire il mondo intero non più soltanto come Gegenstand aperto dinnanzi al Subjekt ma addirittura come Bestand pronto all’impiego (in cui persino il Subjekt diventa impiegato, nel migliore dei casi, come impiegante).
Il pensatore tedesco ha fatto della tecnica, ancora più radicalmente, non tanto solo uno dei più importanti eventi del nostro tempo, quanto soprattutto l’Ereignis a partire dal quale nel nostro tempo le cose possono e-venire e av-venire, a partire dal quale nel nostro tempo ogni accadimento e ogni atto diventano possibili e pensabili. Saremmo di fronte al La Tecnica maiuscola per eccellenza, al modo in cui il Seyn si dà in questa epoca, al modo il cui l’Essere per noi si “epocalizza” in quanto modo dell’aletheuein , al modo in cui la temporalità per noi si temporalizza.
Marina Petrillo
Gentili Giuseppe Gallo e Giorgio Linguaglossa,
nel silenzio che alcuni scritti abitano, si manifesta un mondo di pensiero e riflessione poetica in sé compiuto. L’evento si muove aereo, quasi in assenza di forza di gravità. Le parole, geometria nello spazio, ingenerano una progressione data non solo dalla successione logica ma dalla profondità. Si integrano i segni convenzionali in libere associazioni, come se trasformassero in reazioni chimiche il vuoto indugiare. L’aura di sacro esprime e risolve la natura dell’accadimento, diviene coincidente al processo del pensiero stesso. Catalizzatori di memorie, i processi associativi, come microchips della coscienza in sua espansione. In tale prospettiva, si è in un prisma che induce nuovo riverbero, senza estenuazione. Come per l’opera pittorica citata da Ewa Tagher, “Il giardino delle delizie” di Bosch, in cui l’esoterico prende forma attraverso una messe infinita di indizi in un processo di amplificazione visiva. Una moltiplicazione dei linguaggi, campo di ricerca al quale attingere. Frattali energetici dove sublimare contenuti. In un approfondimento di pochi giorni fa, caro Giorgio, hai sottolineato l’importanza del significato di ” evento” che sento di condividere.
Con l’Ereignis (Evento) si interrompe quel gioco linguistico per cui qualcosa come un significante sta, in quanto segno, per qualcos’altro, cioè per un altro significante, poiché non c’è nulla, al di fuori dell’Ereignis. È l’Ereignis che precede e fonda il significante e il significato, e quindi il linguaggio. Ora, conformemente a questa premessa, costruire una poesia dal punto di vista dell’Evento significa sottrarsi al vincolo di una poesia basata sul significante e sul significato e sottrarsi al punto di vista che questo necessariamente comporta.
Ringrazio Giuseppe Gallo, sposando la sua tesi, poiché lo scritto, per il potenziale che evoca, necessita della funzione fondamentale che lo anima, non ultimo l’interrogativo iniziale tratto dal Libro di Giobbe: “Ma la sapienza da dove si trae?”.
È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.
Giuseppe Gallo
Pane al pane e vino al vino
Il Padre cullava l’idea di essere anche poeta. Ogni tanto scriveva fiordaliso e poi sorriso. Bruma ed aprico, rinfocola e sestante. Una volta scrisse asfodèlo senza averne l’immagine negli occhi. L’asfodèlo se la prese a male e protestò vivacemente. -Perché non dici pane al pane e vino al vino? Il Padre, allora, vide Jerry e gli scrisse Figlio sulla fronte. Incontrò Mary nel corridoio e le scrisse Moglie sopra i seni. Si guardò allo specchio del bagno e scrisse Padre sopra il suo riflesso. Quando Jerry si accorse d’essere solo Figlio se ne andò di casa a cercare una Moglie per essere Marito e Padre. E quando Mary pensò d’essere solo Moglie abbandonò la casa per cercare la Figlia ch’era stata e trovare la Madre ch’era ancora. Così, il Padre, ormai solo e poeta, tornò di fronte allo specchio del bagno, inumidì il vetro con il proprio respiro e scrisse la parola Ombra sulla sua Ombra.
caro Giuseppe Gallo.
la tua poesia mi ha fatto venire in mente questa frase di Giorgio Agamben: «il sottouomo deve interessarci assai più del superuomo. Questa infame zona d’irresponsabilità è il nostro primo cerchio, da cui nessuna confessione di responsabilità riuscirà a tirarci fuori».1 La poesia deve andare a sondare quella realtà del sottouomo, come tu scrivi: «Ombra sulla sua Ombra». Che cosa c’è sopra e dietro l’Ombra? Un’altra Ombra. Cosa c’è dietro il fondo? Un altro s-fondo. E così via. Fino a giungere all’Ereignis (l’evento). Con le parole di Heidegger: «l’essere svanisce nell’ Ereignis».2 Con il che la storia giunge al termine, e con essa la metafisica. L’Evento indica il punto cieco della ragione, ciò che non può essere portato a “significato” essendo la condizione che precede e rende possibile ogni significato. Penso che la nuova poesia sia un aspetto della problematica dell’evento che si configura sotto i nostri occhi, emblematicamente rappresentato dalla perturbazione indotta nel nostro mondo dall’insorgere del Covid19.
2 M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1969; trad. it. a
cura di E. Mazzarella, Tempo ed essere, Guida, Napoli 1980, p. 123
Mauro Pierno
In un’altra casa spingendo carrelli a vapore un variopinto dipinto variegato al cioccolato. Senza panna.
Corresse subito la mira, la stessa ripartenza. Suvvia i versi potrebbero misurarsi a metri, non ne avremmo difficoltà a srotolarne i nastri!
Ho fatto a meno dei decalitri questo sbottò. Si portò la mano alla fronte, era totalmente sfebbrato.
A guardarlo non si direbbe. Colavano dal naso alternativamente i gusti cacao e fior di fragola.
Sono qui a dipingervi! Non potete, non potete ogni volta inventarne di nuove e astruse! Questa volta sbatte forte la cella.
Sulla tavolozza le macchie correvano lungo le arterie, svoltarono. Mirò il virus si attenne all’ordine.
Misurò la profondità del menù e svenne.
Mario M. Gabriele
L’unica cosa che Orlock disse fu: Gratia vobis et pax- facendo frullare le ali delle rondini sul sagrato.
Giuda attese che lo chiamassero al Palazzo di Giustizia dove c’era un bodyguard con la tagliola in mano.
Avete mai visto un uomo crescere nel pantano? domandò Padre Cruz ai missionari nel Wuhan.
-Abbiamo bisogno di un sofà con lenzuolo di seta e almeno 10 bicchierini di Gentleman Jack.
Il tuo viso non necessita di Chanel. Ti toccherà tornare al passato rubando Le Illuminazioni.
Le cose come sono viaggiano a tradimento. Ne parleremo con il Giudice al Processo.
Ci ha pensato anche Ian Bruegel, il Giovane, con il Paradiso Terrestre alla Gemaldegalerie di Berlino.
Qualcuno si fermò nel concerto dei Pink Floid dopo aver scritto: Liebe Christa wie geht es dir?
Si arrivava a piedi all’abbazia di Fra Petrarca l’unico che sapeva dove fosse il Santo Graal.
I falchi passavano da un ramo all’altro come pensieri senza sponda.
Niente più veniva alle porte del mattino se non l’ombra del verbasco su un futuro da epitaffio.
Su tutto echeggiavano le parole di Franz Wertmuller Oh, la soupe à l’Oignon Gratinée! –
(inedito)
Non saprei dire se questa sia una poesia post-pop o una pop-poesia, così come c’è oggi una philosophy kitchen si dà anche una poetry kitchen. Mario Gabriele sonda le possibilità della nuova poesia accostando e facendo fibrillare la Gemaldegalerie di Berlino con il Santo Graal, Wuhan e l’abbazia di Fra Petrarca, Franz Wertmuller e la soupe à l’Oignon Gratinée… mischiando il sacro col profano, reperti del museo della storia e ologrammi, fragili algoritmi poetici con assiomi e aforismi diserbati di significato. È il nostro tempo di Covid19 che richiede una poesia siffatta, né derisoria né irrisoria, che si sottrae alle categorie della critica del testo perché in realtà non c’è più nessun testo da interpretare, qui l’ermeneutica fa cilecca, mostra tutta la propria inanità. Qui c’è un testo che non si dà più come un testo, qui c’è un testo che bara con il lettore e con l’autore, e così facendo mostra che le regole del gioco sono state cambiate durante la partita, e che quindi non c’è più nessun gioco che si gioca, che la partita è finta, è frittura di pesce marcio…Continua a leggere →
Quando le ho scoperte, una certa estate, spaesate e smarrite sulla bancarella di un rigattiere, un giorno di mercato sulla piazza di una città in Francia – , non immaginavo per quali strade mi avrebbero trascinata insieme a loro ! Quante storie mi avrebbero raccontato, come tante mini Shahrazade, queste piccole donne-oggetto venute dal passato. Compagne delle nostre nonne, madri, anche nostre, sono il versante rosa della luna, quello che guarda a Venere, femminile e seducente, romantico e provocante, un universo di figlie, sorelle, mogli e cortigiane, contrapposto a quello di Marte, popolato da soldatini armati di archibugi e fucili, poi da Big Jim, nerboruti che non chiedono mai e da macchine rombanti che fanno vrumvrum.
Prima, con le loro facce ancora paffute da bambine ottocentesche e salottiere, un po’ viziose e un po’ ingenue, i loro occhioni sgranati dalle espressioni ambigue e le loro chiome cotonate, i loro nastri, merletti e trine da precoci cocottes; più tardi, adottando o creando nuove mode : trucchi sapienti, capelli ossigenati e vestitini attillati o jeans e minimagliette su corpicini anoressici e loliteschi, sono diventate le tremende Barbie e Bratz, miti e modelli delle nostre figlie, nonché inconsapevoli clones delle ragazze patinate e quasi intercambiabili che esibiscono il loro broncio telecomandato e le loro grazie su riviste, foto pubblicitarie, schermi TV o computer. Tutte hanno comunque cullato e cullano ancora i sogni di generazioni di ragazze di tutte le età..
Ma nel passato erano – forse sono ancora – altro e di più: amiche, complici, confidenti delle loro padroni, piccole o grandi. Come mi ha raccontato chi, diventato loro guardiano e medico-chirurgo, smonta, rimonta e restaura, curandole con l’affetto di un padre di famiglia nella sua Boutique fantasque, altre di loro, scoperte poi a Roma, erano quelle a cui poter confidare segreti, gioie, tormenti; per le quali inventare storie straordinarie; quelle di cui le ampie vesti sapevano nascondere e proteggere, come dentro un reliquario o una cassaforte inespugnabili, diari, lettere compromettenti, gioielli magari ricevuti clandestinamente e mai esibiti, se non nell’intimità di una camera chiusa; quelle a cui sussurrare frustrazioni o al contrario peccati troppo vergognosi o scandalosi per poterli svelare in confessione, impossibili da raccontare ad uno psicanalista ancora di là da venire; quelle, mute ma comprensive e consolatrici, che sapevano ascoltare senza giudicare né tradire.
Inserendole in contesti spiazzanti o ambigui e riflettendo sulla loro tipologia e simbologia, mi sono chiesta se non fosse possibile leggerle anche come archetipi e personificazioni di una condizione femminile, che per inclinazione o astuzia, gusto o calcolo, a volte costrizione, purtroppo spesso violenza, si presenta o si pretende sempre sorridente, ammiccante, pronta e disponibile al migliore offerente.
Le mie donnine, un po’ per sfida e provocazione, un po’ per divertimento, le ho collocate, come tante Alice nel paese delle meraviglie, in scenari strani lontani anni luce dai salotti buoni e camere da letto della loro infanzia. Le ho inserite, facendo loro violenza a mia volta, in luoghi insoliti, periferie, strade e marciapiedi, boschi; scenari astratti, dietro finestre mute, davanti a portoni fatiscenti e minacciosi, dove sembrano aspettare, chi, il principe azzurro che le bacerà e salverà, chi, il cliente facoltoso, sorvegliate da papponi nascosti.
Dietro le loro facce ilari, perplesse o rassegnate, da alcuni loro corpi abbandonati, usa e getta, emana profumo di finta innocenza e ingenuità, intrecciate ad una passività la quale perpetua un loro ruolo ancestrale, che le condanna, volenti o nolenti, alla sottomissione oppure al giuoco e al piacere, ottime attività solo se liberamente scelte.
(Edith Dzieduszycka)
1. Olimpia. Non sapete chi sono io
Mammina mi ha chiesto di portar fuori il cane perché oggi è giorno di riposo del nostro filippino e la colf è impegnata a sistemare gli armadi per il cambio di stagione. Così mi dovrò trascinare quella bestiaccia raso-terra e puzzolente, a volte anche mordace, per gran parte del pomeriggio. Meno male che la mia amica Priscilla verrà insieme a me, così potremo chiacchierare un po’ facendo shopping. Sono parecchi giorni che non la vedo; lei ha sempre un sacco di pettegolezzi gustosi da raccontare, così il tempo passerà malgrado tutto in modo divertente.
Ah! Dimenticavo di dirvi chi sono io: mi chiamo Olimpia di Bellosguardo. Sono di ottima e antica famiglia e mi sembra pure che si veda. Ma ho un grande cruccio, perché mio padre vorrebbe che sposassi il figlio del banchiere Salasso per poter ridorare il blasone di famiglia un po’ appannato. Ma a me quel ragazzone bianchiccio e magrolino non piace affatto; a dire la verità mi fa perfino ribrezzo. Dovrò coinvolgere mia madre e schierarla dalla mia parte. Poverina! Lei ha sempre tanto da fare tra balli e feste di beneficienza da organizzare; cercherò però di acchiapparla e pregarla di convincere Papà a rinunciare a quell’insano progetto. Ma non avrà comunque l’ultima parola, potete esserne certi. Non mi lascerò trascinare all’altare come un agnello al macello. Vi terrò al corrente del seguito della faccenda.
Magdalena. Non so se tornerò
Sono andata a visitare mia sorella Elisabeth, suora di clausura in questo austero convento fuori città. Non l’avevo più vista dal giorno dei suoi voti. Ha avuto un permesso speciale perché ci potessimo incontrare ed abbracciare. Poverina, l’ho trovata molto sciupata, pallida e smunta, anche troppo tranquilla. Mi ha detto che dorme male, si deve alzare prestissimo per le preghiere mattutine, mangia poco. Mi ha anche confidato bisbigliando che la superiora è molto severa, soprattutto con le novizie. In poche parole mi ha fatto davvero pena.
Però a suo dire ha trovato qui una grande pace; a volte sente delle voci lontane che la chiamano e le parlano; così intreccia con loro lunghi discorsi mentali e spirituali dei quali, dice lei, io non capirei proprio niente. Comunque non vorrebbe tornare indietro alla vita frenetica di prima. Contenta lei…
Non mi ha chiesto molte notizie di casa, ma alla fine del nostro incontro mi ha rimproverata per il vestito rosa, secondo lei troppo frivolo e non adatto per una visita in un luogo di raccoglimento e di modestia come questo. Dopodiché mi ha salutata ed è ritornata nella sua cella. Non so proprio quando tornerò a trovarla.
Ninetta la Rossa
Come sono stanca. Ho tanto da fare ultimamente. E’ un periodo molto faticoso ma non mi lamento. Anzi devo essere contenta perché significa che le cose vanno bene. I clienti sono tanti e sembrano tutti soddisfatti delle mie prestazioni. Ma non so quanto potrò reggere con questo ritmo. Non ho neanche più il tempo di sistemarmi, pettinarmi e rifarmi il trucco tra una seduta e l’altra. E’ proprio un passa-parola. Come le ciliegie! Una tira l’altra.
Quando sono sbarcata in questo quartiere sembrava davvero un mortorio. La gente passava veloce. Che piovesse o soleggiasse, che fosse giorno oppure notte, nessuno si fermava. C’era pure qualche altra botteguccia in giro, ma di scarso interesse.
Appena sistemata io invece, pare l’andamento sia radicalmente cambiato. E’ perché io ci so fare! Nel mio piccolo commercio non sono l’ultima arrivata. Solo che adesso le cose stanno quasi superando le mie speranze più rosee e mi ritrovo in una situazione piuttosto stressante. Dovrò cominciare a fare una selezione severa che rischia di piacere poco ad alcuni dei miei afficionados. Però non si può escortare chiunque senza pretendere un minimo di garanzie e di signorilità. Ne va della mia reputazione ormai in via d’ascesa. Non ho forse ragione?
Piera. Una donna di classe
Da lontano e dall’alto assisto alle liti feroci tra Ninetta e Gianna. Sembrano beghe di galline in un pollaio!
Io mi sento così estranea a tutte quelle piccolezze che loro mi fanno insieme rabbia pena e tenerezza. Prima perché mi sembra di non somigliare a nessuna delle due. Io ho un mio stile molto particolare, sobrio ma originale, direi anzi sofisticato senza temere d’essere smentita; e non scenderei mai ai livelli volgari che stanno purtroppo attecchendo in sempre più numerosi ambienti di lavoro.
Io me ne sto sempre piuttosto in disparte con un atteggiamento misurato e riservato che può forse intimidire una certa clientela, ma ne attira sicuramente un’altra, più attenta e sensibile all’eleganza e al buon gusto.
Per cui, ripeto, mi sento al di là e al di fuori del loro circo patetico e becero e me ne sto per conto mio, sicura d’essere nel giusto. Avrò forse meno lavoro, ma di qualità, ed è quello che conta ai miei occhi, che tutti ritengono notevoli.
Jorge Francisco Isidoro Luis BorgesAcevedo nasce a Buenos Aires il 24 agosto 1899 e muore a Ginevra il 14 giugno 1986. Nonostante sia stato uno dei più importanti scrittori del ventesimo secolo, ed abbia ricevuto importanti riconoscimenti, non gli fu mai conferito il Premio Nobel. Più volte il suo nome è apparso nella lista dei candidati ma le sue idee politiche conservatrici e filo-occidentali gli hanno alienato i favori dei membri della giuria svedese.
Borges è famoso per i suoi racconti nei quali ha saputo coniugare idee filosofiche e metafisiche con i classici temi del fantastico (quali: il doppio, le realtà parallele del sogno, i libri misteriosi e magici, la contemporaneità del tempo).
buenos aires
Molti sono gli scrittori che sono stati influenzati dalle sue opere: Cortazar, Philip K. Dick, Umberto Eco, Leonardo Sciascia, Italo Calvino. Oggi l’aggettivo «borgesiano» definisce una concezione dell’arte e dell’esistenza, l’opera come menzogna, intersezione e sovrapposizione di reale e immaginario ( famose le sue recensioni di libri immaginari). Dal 1914 al 1921 è con la sua famiglia in Europa; dapprima in Svizzera, a Ginevra, dove frequenta il Collège Calvin, che gli consente di conoscere molti autori europei, apprendere il latino, il francese ed il tedesco, poi Lugano, Maiorca, Siviglia e Madrid. Nel 1925, Borges incontra Victoria Ocampo, la musa che sposerà quarant’anni dopo. Con lei stabilisce un’intesa intellettuale destinata a entrare nella mitologia della letteratura argentina.
Jorge Luis Borges
Nel periodo successivo ad un incidente che lo costringe all’immobilità e ad un attacco di setticemia che mette in serio pericolo la sua vita, Borges concepisce alcuni dei suoi capolavori che verranno pubblicati dopo 6 anni, nel 1944 col titolo di Ficciones e dopo altri cinque anni anche i racconti di Aleph, ispirati all’immortalità, all’idea del tempo infinito. Nel 1955 viene nominato direttore della Biblioteca Nazionale, ciò che aveva sempre sognato di fare. Con spirito eminentemente borgesiano, lo scrittore commenta così la nomina: «E’ una sublime ironia divina ad avermi dotato di ottocentomila libri e, al tempo stesso, delle tenebre». E’ l’inizio di un lungo e fecondissimo tramonto. Nonostante la morte avvenga molto più tardi. Gli sarà accanto la sua seconda moglie, l’amatissima Marìa Kodama, una sua ex allieva divenuta poi sua segretaria.
Ha scritto Addison che quando sogniamo l’anima «conversa con innumerevoli individui di sua creazione e si trasferisce in diecimila scene di sua immaginazione»: l’anima è, insomma, «il teatro, l’attore e lo spettatore». Ma anche, soggiunge Borges, l’autore della storia cui assiste, sicché i sogni rappresentano un vero e proprio «genere letterario».
Nel saggio Kafka y sus precursores, pubblicato nel 1951, Borges sostiene che «cada escritor crea a sus precursores. Su labor modifica nuestra concepción del pasado, como ha de modificar el futuro. En esta correlación nada importa la identidad o la pluralidad de los hombres». Sta qui la chiave per entrare dentro la produzione letteraria di Borges, l’idea di una letteratura che crea i propri lettori creando un nuovo genere letterario. I racconti e le poesie di Borges vogliono essere non qualcosa di «nuovo» quanto un nuovo genere letterario. È questo il punto decisivo della sua poetica tipicamente modernista.
Lungi dal trattasi di una esperienza del sublime come quella che commuove Dante nel Paradiso, El Aleph evoca l’abietto mediante l’apparizione di immagini sgradevoli e impensate e mediante l’allusione a una realtà multipla, inconoscibile, governata dalla incertezza e dalla mutevolezza degli spazi e dei tempi. In realtà, la sua poesia e i suoi racconti sono una brillante interpretazione degli incubi e dei sogni dell’uomo contemporaneo, scritture libere da qualsiasi pensiero mimetico del reale. La scrittura è simulacro, immagine riflessa di un simulacro, simulacro di un sogno e ciò che l’uomo considera «reale», è semplicemente il frutto dell’abitudine alle credenze, non diversamente dalla mentalità primitiva che crede negli sciamani. Per dirla con Ortega y Gasset, l’uomo borghesiano è un animale «fantastico tecnologico», ha bisogno di creare continuamente i propri mondi irreali e fantastici per poter sopravvivere e utilizzare al meglio la tecnologia.
Per Borges il tempo è il problema centrale della metafisica e l’inesplicabile costituiscono alcuni dei temi centrali della sua opera. Come il punto microcosmico può contenere l’universo, così un istante può significare la eternità. La prima ipotesi si fonda sul misticismo panteista, la seconda un avatar del paradosso di Zenone: «William James niega – scrive Borges, que pueda transcurrir catorce minutos, porque antes es obligatorio que hayan pasado siete, y antes de siete, tres minutos y medio, y antes de tres minutos y medio, un minuto y tres cuartos, y así hasta el fin, hasta el invisible fin, por tenues laberintos de tiempo». Borges pensa che la dialettica di Zenone è una irreltà che conferma il carattere allucinatorio del mondo; nelle sue narrazioni la dialettica opera all’interno della irrealtà dell’arte, per questo i suoi racconti, come la tartaruga di Zenone, hanno un colore di irrealtà nel mentre che sono retti da una logica irrefutabile. Russell ha scritto che «lo scetticismo universale, quantunque logicamente inconfutabile, risulta praticamente sterile». Borges sa che gli schemi temporali della metafisica, come le sue teorie, sono irrealtà, sa che l’uomo non può negare la sostanza di questo fatto – il tempo -; sa, e lo ha detto, che in una gran parte della sua opera palpita uno «scetticismo essenziale». Analogamente, sa anche che l’arte non è «uno specchio del mondo, ma una cosa aggregata al mondo», e che sul piano della letteratura lo scrittore diviene un artigiano che tratta schemi temporali come Dio scrive le pagine dell’universo. Di tutti gli schemi temporali, quello preferito che ricorre con maggiore frequenza nella sua opera è il tempo ciclico o circolare. In molti dei suoi saggi Borges ha approfondito le vicissitudini di questa dottrina: dalla sua genesi platonica alla rinnovata formulazione di Nietzsche. Di tutte le versioni dell’eterno ritorno, quella che Borges preferisce è la ipotesi che considera che i cicli che si ripetono infinitamente non sono identici ma similari. Tale concezione del tempo permette una feconda interpretazione della realtà che lo scrittore argentino applica nei suoi racconti e nelle sue poesie.
«Por qué nos inquieta – chiede Borges – que el mapa esté incluido en el mapa y las mil y una noches en el libro de Las mil y una noches? ¿Por qué nos inquieta que Don Quijote sea un lector del Quijote, y Hamlet espectador de Hamlet? Creo haber dado con la causa: tales inversiones sugieren que si los caracteres de una ficción puede ser lectores o espectadores, nosotros, sus lectores o espectadores, podemos ser ficticios»(O.I. 68-69).
Se l’arte è sogno o magia, l’esito del mago è questo istante nel quale il reale sembra fittizio e il fittizio, reale. Il programma della sua narrativa Borges lo definisce così:
«creare irrealtà che confermano il carattere allucinatorio del mondo, come è dottrina presso tutti gli idealisti»(D.136), come appare evidente dal seguente paragrafo di Schopenhauer:
«Se il mondo come idea è solamente la visibilità della volontà, l’opera dell’arte restituisce questa visibilità della volontà, l’opera dell’arte restituisce questa visibilità più precisa. È la camera oscura che mostra gli oggetti in modo più puro e ci fornisce la possibilità di esaminarli e comprenderli meglio. È il dramma dentro il dramma, lo scenario sopra lo scenario in Hamlet.»
Per Schopenhauer, l’arte è una irrealtà all’interno di un’altra, come il dramma dentro il dramma in Hamlet, che ha però la strana virtù di proiettare una immagine più chiara della realtà che per lui è un prodotto della volontà. Borges si propone, sul piano della letteratura fantastica, il compito che mette insieme la metafisica idealista con il piano della realtà: se il mondo esiste come una mia idea del mondo, allora io, come parte di questo mondo, sono solo una idea all’interno di questa mente che mi percepisce o mi proietta come una percezione. Crea con esso personaggi fittizi, sempre nell’ambito della finzione, nel mentre che li pensiamo reali. Borges insomma converte personaggi storici reali in personaggi fittizi e favolosi come quel Marco Flaminio Rufo comandante di una coorte romana al tempo della guerra di Diocleziano contro i mitici popoli degli agili e dei garamanti nei pressi di Berenice, di fronte al mar Rosso.
(Giorgio Linguaglossa)
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Il sogno
Quando gli orologi della mezzanotte elargiranno un tempo generoso, andrò più lontano dei rematori di Ulisse nella regione del sogno, inaccessibile alla memoria umana. Da quella regione sommersa recupero residui che ancora non comprendo; erbe di botanica elementare, animali un po’ diversi, dialoghi coi morti, volti che in realtà sono maschere, parole di lingue molto antiche e talora un orrore non comparabile a quello che può darci il giorno. Sarò tutti o nessuno. Sarò l’altro che ignoro d’essere, colui che ha contemplato quell’altro sogno, la mia veglia. La giudica, rassegnato e sorridente.
El sueño
Cuando los relojes de la media noche prodiguen un tiempo generoso, iré más lejos que los bogavantes de Ulises a la región del sueño, inaccesible a la memoria humana. De esa región inmersa rescato restos que no acabo de comprender; hierbas de sencilla botánica, animales algo diversos, diálogos con los muertos, rostros que realmente son máscaras, palabras de lenguajes muy antiguos y a veces un horror incomparable al que nos puede dar el día. Seré todos o nadie. Seré el otro que sin saberlo soy, el que ha mirado ese otro sueño, mi vigilia. La jurga, resignado y sonriente.
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Cosmogonia
Né tenebra né caos. Esige occhi che vedano, la tenebra; così suono e silenzio esigono l’udito, e lo specchio, la forma che lo popola. Né lo spazio né il tempo. E neppure una divinità che concepisce il silenzio anteriore all’iniziale notte del tempo, che sarà infinita. Il gran fiume di Eraclito l’Oscuro non ha intrapreso il corso irrevocabile che dal passato va verso il futuro, che dall’oblio va verso l’oblio. Qualcosa che già soffre. Che già implora. Dopo, la storia universale. Ora.
Cosmogonía
Ni tiniebla ni caos. La tiniebla requiere ojos que ven, como el sonido y el silencio requieren el oído, y el espejo, la forma que lo puebla. Ni el espacio ni el tiempo. Ni siquiera una divinidad que premedita el silencio anterior a la primera noche del tiempo, que será infinita. El gran rio de Heráclito el Oscuro su irrevocable curso no ha emprendido, que del pasado fluye hacia el futuro, que del olvido fluye hacia el olvido. Algo que ya padece. Algo que implora. Después la historia universal. Ahora.
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[poesia attribuita a Borges ma scritta alla maniera di Borges. In tal senso riteniamo questo tentativo di imitazione un esperimento interessante»
Istanti
Se io potessi vivere un’altra volta la mia vita nella prossima cercherei di fare più errori non cercherei di essere tanto perfetto, mi negherei di più, sarei meno serio di quanto sono stato, difatti prenderei pochissime cose sul serio.
Sarei meno igienico, correrei più rischi, farei più viaggi, guarderei più tramonti, salirei più montagne, nuoterei più fiumi, andrei in più posti dove mai sono andato, mangerei più gelati e meno fave, avrei più problemi reali e meno immaginari.
Io sono stato una di quelle persone che ha vissuto sensatamente e precisamente ogni minuto della sua vita; certo che ho avuto momenti di gioia ma se potessi tornare indietro cercherei di avere soltanto buoni momenti. Nel caso non lo sappiate, di quello è fatta la vita, solo di momenti; non ti perdere l’oggi.
Io ero uno di quelli che mai andava in nessun posto senza un termometro, una borsa d’acqua calda, un ombrello e un paracadute; se potessi vivere di nuovo comincerei ad andare scalzo all’inizio della primavera e continuerei così fino alla fine dell’autunno. Farei più giri nella carrozzella, guarderei più albe e giocherei di più con i bambini, se avessi un’altra volta la vita davanti. Ma guardate, ho 85 anni e so che sto morendo.
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Il guardiano dei libri
Là sono i giardini, i templi e la giustificazione dei templi, la retta musica e le rette parole, i sessantaquattro esagrammi, i riti che son l’unica sapienza che agli uomini concede il Firmamento, la dignità di quell’imperatore la cui serenità venne riflessa dal mondo, specchio suo, così che i campi davano i loro frutti e i torrenti rispettavano le sponde, l’unicorno ferito che ritorna per indicare la fine, le segrete leggi eterne, il concerto dell’orbe; tali cose o la loro memoria sono nei libri che custodisco nella torre. I tartari vennero dal Nord su piccoli criniti puledri; annientarono gli eserciti che il Figlio del Cielo aveva inviati per punire la loro empietà, eressero piramidi di fuoco e tagliarono gole, uccisero il malvagio con il giusto, uccisero lo schiavo incatenato che vigila la porta, conobbero le donne, le scordarono e andarono oltre, al Sud, innocenti come animali da preda, crudeli come coltelli. Nell’alba dubitosa il padre di mio padre salvò i libri. Sono qui nella torre dove giaccio e ricordano i giorni stati d’altri, gli stranieri, gli antichi. Mancano i giorni ai miei occhi. I palchetti son alti, non ci arrivano i miei anni. Leghe di polvere e sonno cingono la torre. A che ingannarmi? La verità è che non seppi mai leggere, ma mi consolo pensando che immaginato e passato sono tutt’uno per un uomo che è stato e contempla quel che fu la città e toma ora ad essere deserto. Che cosa m’impedisce di sognare che decifrai un tempo la sapienza e tracciai con attenta mano i simboli? Il mio nome è Hsiang. Sono il custode dei libri, che sono forse gli ultimi giacché nulla sappiamo dell’Impero e del Figlio del Cielo. Sono là nei loro alti palchetti, remoti e prossimi a un tempo, visibili e segreti come gli astri. Là sono i templi, là sono i giardini.
Jorge Luis Borges
È l’amore
È l’amore. Dovrò nascondermi o fuggire. Crescono le mura delle sue carceri, come in un incubo atroce. La bella maschera è cambiata, ma come sempre è l’unica. A cosa mi serviranno i miei talismani: l’esercizio delle lettere, la vaga erudizione, le gallerie della Biblioteca, le cose comuni, le abitudini, la notte intemporale, il sapore del sonno? Stare con te o non stare con te è la misura del mio tempo. È, lo so, l’amore: l’ansia e il sollievo di sentire la tua voce, l’attesa e la memoria, l’orrore di vivere nel tempo successivo. È l’amore con le sue mitologie, con le sue piccole magie inutili. C’è un angolo di strada dove non oso passare. Il nome di una donna mi denuncia. Mi fa male una donna in tutto il corpo
L’uomo abita l’ombra delle parole, la giostra dell’ombra delle parole. Un “animale metafisico” lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l’ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l’uomo legge l’universo.
«Quegli sguardi dall'abisso... noi guardiamo dentro quelle pupille enormi, nere, lucenti come sfere d'ossidiana, e vediamo l'abisso. Ma loro verso cosa guardano? Verso di noi guardano. E vedono in noi l'abisso»
Il Mangiaparole – Come abbonarsi alla rivista, Quota ordinaria € 25, Quota sostenitore € 50 + copia di un Libro in omaggio a scelta della collana Il Dado e la Clessidra
Trimestrale di Poesia Critica e Contemporaneistica Il Mangiaparole n. 1
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. Gli scrittori e i preti sono i camerieri. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.
Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura
Al posto del problema gnoseologico kantiano, come sia possibile la metafisica, compare quella di filosofia della storia, se sia possibile comunque un’esperienza metafisica
Ogni felicità è frammento di tutta la felicità che si nega agli uomini e che essi si negano
Gli uomini vivono sotto il totem di un sortilegio: che la vita abbia un senso o che non ne abbia alcuno
Pura immediatezza e feticismo sono ugualmente non veri
Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, utilissima per l’autoconservazione
Un angelo zoppo ci venne incontro e disse, senza guardarci: “malediciamo il nome di Dio.”
Nessuno capace di amare e così ciascuno crede di essere amato troppo poco
Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti (Hegel)
Sortilegio e ideologia sono la stessa cosa (T.W. Adorno) Si può dire… che l’uomo è l’essere che progetta di essere Dio. Dio, valore e termine ultimo della trascendenza, rappresenta il limite permanente in base al quale l’uomo si fa annunciare ciò che è. Essere uomo significa tendere ad essere Dio, o, se si preferisce, l’uomo è fondamentalmente desiderio di essere Dio (J.P. Sartre)
Alfredo de Palchi monografia – Adesso diciamo una cosa tremendamente reale, che siamo entrati tutti in un Grande Gelo, in una nuova epoca, nell’epoca della piccola glaciazione dove le parole le trovi sì, ma raffreddate se non ibernate
Donatella Costantina Giancaspero
Carlo Livia. L’angoscia… perpetua il sortilegio come il freddo tra gli uomini (T.W. Adorno)
La poesia è scrittura della nostra preistoria
Il soggetto non è mai del tutto soggetto, l’oggetto oggetto
Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato
Il piacere sensoriale, a volte punito da un misto di ascetismo e di autoritarismo, è divenuto storicamente nemico immediato dell’arte: l’eufonia del suono, l’armonia dei colori, la soavità sono divenute pacchianeria e marchio dell’industria culturale (Adorno)
L’io penetra l’oggetto pensandolo e immaginandolo
Helle Busacca distoglie lo sguardo dal viola norimberga
Edith Dzieduszycka. Avevano corso,/ di giorno e di notte,/ poi di nuovo di giorno,/ e ancora di notte./ Avevano corso/ come bestie assetate,/ in cerca del ruscello al quale abbeverarsi
Letizia Leone: Il diavolo indossa un camice bianco/ E stacca pezzi di carne dalla carne/ Del mondo/ Con aghi, occhi a punta, lame, rasoi // Non affonda la mano/ ma ferro disinfettato./ Non si sporca
Su di un cerchio ogni punto d’inizio può anche essere un punto di fine (Eraclito) – Roma, 1997, Giorgio Linguaglossa e Antonella Zagaroli
Cara Signora Schubert, mi capita di vedere nello specchio Greta Garbo. È sempre più simile A Socrate. Forse la causa è una cicatrice sul vetro (Ewa Lipska)
La casa pare ormeggiata nel cassetto di una vecchia scrivania./ “Mi chiedevo dove avessi lasciato le scarpe”./ La donna guarda attraverso le fessure della tapparella./ Ha sentito sbattere la portiera (Lucio Mayoor Tosi)
Anna Ventura conserva le parole tra le righe della sua scrittura come si mette un cibo in frigorifero
Domando al piombo perché ti sei lasciato fondere in pallottola? Ti sei forse scordato degli alchimisti? (Ch. Simic)
La precarietà del pensiero non identificante che indugia sulle cose. La tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla, litiga di nascosto con lo specchio (Gino Rago)
Le parole sono i raggi ultravioletti dell’anima
Maria Rosaria Madonna, cover 1992
Iosif Brodskij Le immagini rappresentano il contro movimento delle parole. C’è un rapporto debitorio tra le immagini e le parole, o un rapporto creditorio, uno squilibrio della contabilità, della partita doppia
Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente
Trattare tutte le cose come un terzo pensiero che ci osserva
Edith Dzieduszycka
Alfredo de Palchi, a 12 anni/ meschino nella tuta lurida di grassi/ per motori a nafta/ consegno 5 lire/ (la settimana—domenica compresa)/ nella busta troppo larga al nonno anarchico/ mangiato dal cancro
Mauro Pierno, Compostaggi – Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, condizionata storicamente e socialmente. Il contenuto di verità dell’assente è indifferente (T.W. Adorno)
La poesia di Giuseppe Talia proviene da una grande deflagrazione
Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat). Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano
in cover Maria Rosaria Madonna
La poesia di Mario Gabriele è un film, una successione di fotogrammi in un orologio senza lancette. «Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione» (T.W. Adorno)
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,/ separava la pula dal grano,/ chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei./ Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777./ Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time. (Mario Gabriele)
Gezim Hajdari, Il poietès è il più grande positivo perché porta le cose all’essere dal nulla
Ci sono dei pensieri che hanno una carica elettrica, uno di questi è il pensiero dell’essere, «concetto omnibus» diceva Ortega y Gasset
Perché le parole sono sagge, loro lo sanno di essere melliflue e superflue
Un Enigma ci parla, ma noi non comprendiamo quella lingua. L’Enigma non può essere sciolto, può solo essere vissuto
Quante parole dobbiamo usare per avvertire il silenzio tra le parole?
Quando una categoria si modifica muta la costellazione di tutte le altre (Adorno)
Letizia Leone
Giorgio Agamben Da quella lontananza rovesciata raggiungiamo la lontananza nostalgica. Non essere a casa propria ovunque
Critica della Ragione sufficiente
Mario Gabriele, Una fila di caravan al centro della/ piazza con gente venuta da Trescore e da Milano ad ascoltare Licinio:/-Questa è Yasmina da Madhia che nella vita ha tradito e amato,/ per questo la lasceremo ai lupi e ai cani
Predrag Bjelosevic
Gino Rago, Alla domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,/ risponde il filosofo Erèsia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,/ il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua
Le parole che scriviamo ci parlano di altre parole che non conosciamo
Le parole sono finestre che aggettano sul labirinto che noi siamo
Anna Ventura, Finalmente so/ che cosa mi avete insegnato./ Siete nella tazza di caffè/ vuota sul tavolo,/ nelle carte sparse, nel cerchio di luce della lampada.
Era piccola la casa, accanto a un cimitero romano. I suoi vetri tremavano per via di carri armati e caccia (Charles Simic)
Roberto Bertoldo
Donatella Giancaspero, Giorgio Linguaglossa, 2016
Alle 18 torna Milena. Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni. Sale il fumo fino alla lampada. Andrea rinnova aria fresca (Mario Gabriele)
Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra (Giacomo Marramao)
Lucio Mayoor Tosi, – Prenderò del Cornac; con spremuta di pomodori e un Lìsson. – Ci vuole della cannella sul Lìsson? – Sì, perché no./ Lo sai che sono innamorata di te
Gezim Hajdari
Carlo Livia, La prigione celeste
Ewa Tagher
Wystan Hugh Auden
Petr Kral
Michal Ajvaz
Mario Lunetta
Ubaldo de Robertis
Jorge Luis Borges
Giuseppe Talia
Kjell Espmark
Tomas Tranströmer
Salman Rushdie
Osip Mandel’stam
Iosif Brodskij
Boris Pasternak
Cesare Pavese
Georg Trakl
Sabino Caronia
Vladimir Majakovskij
Italo Calvino
Katarina Frostenson
Pier Paolo Pasolini
Czeslaw Milosz
Salman Rushdie
Alejandra Alfaro Alfieri
Duska Vrhovac
Fernanda Romagnoli
Italo Calvino
Marie Laure Colasson
Lorenzo Calogero
Derek Walcott
Emilio Salgari
Zbigniew Herbert
Bertolt Brecht
Werner Aspenström
Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa
Fernando Pessoa
Giuseppe Ungaretti
Eugenio Montale
Paul Celan
Ezra Pound
Edgar Allan Poe
T.S. Eliot
Samuel Beckett
Franco Fortini
Allen Ginsberg
Charles Bukowski
Agota Kristof
Derek Walcott
Giorgio Linguaglossa e Gino Rago
Marina Petrillo
Charles Simic, Il mostro ama il suo labirinto e abita presso l’Hotel Insonnia
Fernando Pessoa
Silvana Palazzo,
Samuel Beckett
Anna Ventura, «Tra le parole e le cose occorre una grande distanza»
Guido Galdini, Le parole sono schegge di appunti precolombiani – è uno specchio per le allodole/ o sono allodole per lo specchio/ o le allodole sono lo specchio?
Guido Galdini
Mauro Pierno, Lo statuto recondito delle parole dimenticate
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
La presenza di Èrato vuole essere la palestra della poesia e della critica della poesia operata sul campo, un libero e democratico agone delle idee, il luogo del confronto dei gusti e delle posizioni senza alcuna preclusione verso nessuna petizione di poetica e di poesia.
Giorgio Ortona, Catania, olio su tela, 24×30 cm 2017
In un certo senso anche Giorgio Ortona si occupa del noto, di ciò che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: i palazzi, le vie delle nostre città, in particolare la Roma della speculazione edilizia, gli abitanti delle città, sospesi tra il non-essere e il nulla, ma lo fa trattando questa «materia» come se fosse una materia di sogno, con colori sbiaditi e sbilenchi, con foschie che si aggrumano e si disperdono. È proprio questo quello che intendo quando scrivo «abitare il poetico». Il nostro modo di abitare il poetico, di vivere poeticamente è raffigurare le cose per come sono… una via qualsiasi di qualunque città, una vecchia Panda che sfrigola nel caldo afoso di una strada. Questo significa abitare il poetico.
(g.l.)
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Fare esperienza del noto. Abitare il poetico.
caro Lucio Mayoor Tosi,
scrivere una poesia non è far mostra di quanto uno è bravo ma, essenzialmente, un fare esperienza di linguaggio.
L’esperienza di linguaggio che ho compiuto in questa ultima Storia italiana del Covid19, non ha più la forma di un viaggio e di un racconto (da Omero a Derek Walcott) che, separandosi dalla propria dimora abituale e attraversando il caleidoscopio dell’essere e il terrore del nulla, fa ritorno là dov’era già stato in origine, come accade ed è accaduto nella metafisica dell’Occidente, piuttosto qui la parola fa ritorno ad un luogo che non è mai stato, ovvero, ad un luogo di tutti, un luogo-non-luogo in cui ci siamo tutti da sempre, che non fa più questione e non fa più esperienza, un luogo che non è stato mai lasciato ma che ho trovato già fatto e compiuto ed è qui tra noi da sempre, un luogo della in-differenza.
Tutto ciò assume la semplice figura di un’abitudine, di un abitare nel noto, di un prendere atto del noto e del notorio, di una in-differenza dove non si può fare alcuna esperienza di ciò che già sappiamo.
Pensare il negativum (la Voce) in quanto tale senza rimarcarne il fondamento e per, eticamente, semplicemente, abitualmente oltrepassare l’essere e guadagnare l’avere, non più presupporre la finzione di un inizio, di uno svolgimento e la fine di un qualcosa che definisca e richiami a un qualche ritorno.
Qui, mi trovo in consonanza con il pensiero di Agamben: quell’esperienza «abissale», sintagma tipicamente heideggeriano, e che in Heidegger ha a che fare con l’esperienza radicale della morte, dunque dell’Essere, viene, da Agamben, radicalmente ribaltata: non solo essa non ha più a che fare con la chiamata della morte e con l’Essere, ma – di più – da esperienza «abissale» essa, come esperienza del «semplice» svanire, deve farsi abitudine, esperienza abituale, abitazione nel noto, etica, abitazione del poetico.
(Giorgio Linguaglossa)