Il linguaggio è “il vetro che riflette chi passa davanti e chi passa dietro”, che registra lo spettatore, il suo tempo e il suo sguardo,
proprio come gli specchi di Pistoletto che interagiscono con le ombre che osservano se stesse mentre vagano davanti ai propri
riflessi. Il linguaggio è “spectaculum” (g.g.)
Giuseppe Gallo, è nato a San Pietro a Maida (Cz) il 28 luglio 1950 e vive a Roma. È stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Negli anni ottanta, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, di Roma. Delle varie Egofonie, elaborate dal gruppo, da segnalare Metropolis, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, rappresentata al Teatro “L’orologio” di Roma. Sue poesie sono presenti in varie pubblicazioni, tra cui Alla luce di una candela, in riva all’oceano, a cura di Letizia Leone (2018.); Di fossato in fossato, Roma (1983); Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, Roma, 2016, con la giornalista Rai, Marinaro Manduca Giuseppina, storia e antropologia del paese d’origine. Ha pubblicato Arringheide, Na vota quandu tutti sti paisi…, poema di 32 canti in dialetto calabrese (2018), ha pubblicato il romanzo Vi lowo tutti, (Progetto cultura, Roma, 2021). È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. È redattore della rivista di poesia e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È pittore ed ha esposto in varie gallerie italiane.
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Victor si alzò dal divano e spense il televisore.
Le parole gli piovevano addosso come una grandine di virus.
Guardò intorno. Mary in cucina,
Jerry a percuotere le pelli dei bisonti.
afferrò la prima parola che gli venne a tiro
e la spiaccicò sul piano della scrivania.
La seconda la schiacciò sul dorso dei libri allineati sullo scaffale.
— Che c’è? Gli chiese Mary dalla cucina.
— Faccio un po’ di pulizia! Le rispose Vic.
La terza la affogò nel water insieme alla carta igienica.
La quarta e la quinta le scaraventò dalla finestra sul marciapiede.
Jerry avvertì gli insoliti rumori.
— Che c’è, papi?
— Niente, Jerry. Mi preparo al…
— a cosa, papi? a che ti prepari?
— al… al…
E fu silenzio.
Giuseppe Gallo ha scritto questo libro di ex-post-liriche in questi ultimi due anni, immagino, e si vede, si può notare chiarissimamente che sotto il testo c’è un altro testo, barrato, un testo denegato e rinnegato: quello della antica poesia post-lirica del novecento, quella cosa che si chiama oggi poesia narrativa o narrativeggiata, una sorta di rospo o ircocervo che va bene un po’ per tutti i palati ma che è roba da gettare nella pattumiera. Ecco, Giuseppe Gallo proviene da un libro scritto in dialetto calabro, Arringheide (2018), di seicento pagine con annesso un vocabolarietto con la traduzione in italiano dei lemmi meno accessibili al lettore. Gallo, nato a San Pietro a Maida in Calabria nel 1950, ha attraversato il secondo novecento dallo speculum del suo dialetto, aspro ed irto che inizia così: «Na vota quando tutti sti fjumari… (Una volta quando tutte queste fiumare…)» al modo antico delle favole dove si narra una storia lontana in un tempo lontano con un idioma lontano. Questo particolarissimo angolo visuale ha consentito all’autore di avere tra le mani un parallasse, uno strumento, cioè un binocolo dal quale osservare il mondo di oggi così diverso da quello narrato appena quattro anni fa nell’opera in idioma. Soltanto per mezzo di un potentissimo straniamento si può accedere dalla poesia in dialetto alla poesia in Lingua maggiore, quell’italiano che è stato imposto agli italiani dai piemontesi ma che è stato recepito solo dagli anni sessanta del novecento quando è intervenuta la televisione che ha televisizzato le plebi meridionali come quelle settentrionali, una benemerenza non da poco per uno strumento dotato di video parlante che oggi ci appare arcaico e vetusto. Così sono nati gli italiani, quella cosa abnorme che spaventava e inorridiva Pasolini dove cantavano gli usignuoli della Chiesa cattolica, dove i letterati si accapigliavano in post-avanguardie vecchie e nuove, tutte imbelli, tutte gratuite e tutte illeggibili.
Le ginestre che divennero finestre
Si mise il pennello nell’occhio destro.
Mary lo colse sul fatto.
— Perché vuoi accecarti, Jerry mio?
Jerry rimase perplesso.
La intravedeva ancora con l’occhio sinistro.
allora prese un altro pennello e lo ficcò dentro l’occhio sinistro.
— Perché ti sei accecato, Jerry mio?
— Per vedere l’altra faccia del mondo! Le rispose Jerry
continuando a dipingere un cespuglio di finestre.
La stessa morte
Jerry era nato con la camicia.
Victor lo avvertì in sogno: — Prima o poi ti schiaccerà!
— E perché?— gli rispose Jerry. — Non pesa nemmeno!
Infatti non pesava.
E se la portò in giro, fresca d’estate e calda d’inverno.
Mary se ne accorse.
— Jerry, è un anno che indossi la stessa camicia.
Non vedi che s’è fatta nera come la morte?
Toglila che la metto in lavatrice.
E Jerry, che ubbidiva ancora,
si tolse la camicia e la poggiò nelle sue mani.
Quando la indossò di nuovo, odorosa di bucato,
Jerry si sentì soffocare.
Si piegò in due e le spalle gli schiacciarono le costole e il petto.
Il cuore gli scoppiò.
— Hai visto?— gli domandò Victor in un altro sogno.
— Che ti dicevo?
— Ma come facevi a saperlo? Lo interrogò Jerry.
— Perché quella era la mia camicia! Gli rispose Victor.
Scrive Francesco Gallo nella prefazione:
«La raccolta è uno squarcio su un album fotografico di famiglia, o meglio, una story-board: Victor è il marito di Mary, genitori di Jerry e Terry; a loro si affiancano altri pochi soggetti: lo Zio nick, la cugina Flory».
La onomastica inglese non penso stia qui ad indicare gli effetti della globalizzazione quanto una spersonalizzazione de-soggettivazione dei protagonisti che, da attori, si sono trasformati in attanti e da attanti in avatar, in Figure che abitano una zona neutra, una «zona gaming» come piace dire all’autore; e qui sta il nuovo di questo libro, che non si tratta più delle esperienze private di personaggi (veri o inventati), questo schema concettuale poteva andare bene per la poesia modernista del novecento ma non più oggi, e un poeta consapevole come Giuseppe Gallo penso utilizzi questa nominologia in quanto tale, in quanto nominologia, come dei prefissi telefonici che hanno al seguito un numero, che se fai quel numero ti risponde poi una segreteria telefonica e se parli dopo il segnale acustico, risponde un nastro registrato che ti invita a parlare ad un altro nastro magnetico che reca impressa una voce. Siamo diventati tutti delle voci che parlano ad impulso in dei nastri magnetici, siamo un po’ tutti dei nastri magnetici che ripetiamo a memoria delle parole imparate a memoria, e questa nominologia che parla mediante delle fraseologie è appunto una realtà virtuale!, in realtà nessuno di quei personaggi esiste, e noi stessi non esistiamo. E questo è kitchen, squisitamente kitchen. Senza volerlo o esserne cosciente Giuseppe Gallo, assiduo frequentatore della poesia kitchen, ha tratto dalla poesia kitchen la spinta propulsiva per allontanarsi dallo story telling della poesia di accademia, come dire: «ho avuto dei pessimi maestri ma è stata una buona scuola», tanto è vero che il linguaggio e lo stile dell’opera ne sono stati beneficiati disboscando i lessemi pleonastici e le parole intonse, lasciando soltanto le parole immediatamente utili al testo.Del resto, il titolo è squisitamente kitchen: Quattro mollette blu made in Cina.
Ma è che un linguaggio, uno stile non cambiano dall’oggi al domani, ogni cambiamento, anche quello più improvviso e sismico come la poetry kitchen va assimilato, processato, occorre del tempo di digestione, e questo tempo è stato messo bene ad usufrutto (stavo per dire usufritto) dall’autore. Un linguaggio non si cambia come cambiamo una camicia con una nuova fresca di bucato, occorre del tempo, se non altro per mettere la camicia sporca in lavatrice, avviare il congegno con un click, e stirarla ben profumata con del deodorante. Adesso la camicia è pronta per essere indossata.
Sulla stessa sedia
C’è del rosso e del blu
sulle pareti della sua camera.
Vic vi entra dopo un giorno di assenza.
Nemmeno la distanza rassicura la sua esitazione.
Si apparta nei suoi scarti,
nelle foto dei compleanni,
nei ghirigori sui fogli pastosi delle carte,
nelle pagine dei libri inframezzate
dagli attimi di inchiostro.
Si acquieta sulla sua sedia
come un vecchio ospite
in attesa d’una cortesia.
— Papi, che ci fai tu qui?
Non sa risponderle a parole.
Rigira tra le dita
le penne che ha infilato spesso nei capelli.
— Per conoscerti meglio!
Vorrebbe sorprenderla,
ma alla sua età non c’è più meraviglia.
Così continua a tacere
come se dovesse ancora chiederle
il permesso di respirare nel suo spazio.
Sui libri un velo di polvere,
sul letto lo scompiglio del disordine.
Nemmeno sua madre addomestica le sue scontentezze, e lui?
Le calze fra una scarpa e l’altra,
le mutandine sulla maniglia di ottone
i reggiseni sul cuscino,
i colliri e le creme sul bordo di marmo…
C’è anche del nero e del viola sulla parete di fondo
che fronteggia l’armadio.
I manifesti di Kurt Cobain.
Qualcuno è ripiegato su se stesso.
Com’è che sei capitata qui?
Perché adesso non ci sei?
a ripensarci, Vic dice di non averla mai raggiunta.
oppure d’essere arrivato in ritardo
come nei film americani
in cui i padri dimenticano di riprendere i figli da scuola.
Vic ruota fra le dita il cappellino bianco di paglia
che le comprò a Parigi per l’estate…
l’emozione dell’acqua ai suoi piedi,
il sentimento dell’ombra…
Che pacchia! Quando avevano la stessa età.
Tutti e quattro. Senza bisogno del perdono.
Meglio finirla qui.
Si rialza dal suo calore e allenta la cravatta.
— Papi, perché sei venuto a cercarmi?
Mi hai trovato o sono sempre assente?
Qualsiasi risposta risulterebbe goffa e fuori luogo.
— Sappi, però, che ho tappato la finestra,
che ho messo qualche like sulle tue foto,
accucciato sulla stessa sedia
e che ho gridato anch’io: Mamy! Mamy!
C’era da aspettarselo.
Che pacchia! Quando avevano la stessa età.
Tutti e quattro.
Capitolando sulla stessa sabbia.
Ah,Terry!
— ah, Terry!
Vic ha navigato con lo sguardo per la stanza,
poi ha aperto l’armadio che li ha contenuti per anni.
Ha spiato le macchie dei risvolti,
rigirato il mignolo nei fori dei bottoni
e poi ha compatito gli interrogativi
che sfilacciavano i pensieri.
— Dove vai?
assistevano alla scena
le ceramiche verdi di Camastra
e il lampadario dorato offeso dal terremoto del 2002.
Vic ha fatto il punto della situazione
per darsi la parvenza del coraggio
e ha dedotto che la curvatura delle sue spalle
era incrinata dallo stesso silenzio
che avvitava il volo dei passeri
sui grumi dei ricettari
e degli ECG sulla scrivania di mogano rosso.
— Dove vuoi andare?
assistevano alla scena
i manuali di anatomia.
le cornici d’argento di papi e di mamy,
le porcellane di Copenaghen,
le zampe di Hazel
e i suoi disegni a matita del sole e della primavera.
Jerry, intanto, scuoteva le sonagliere dei crotali.
Ed ecco il rituale:
Terry avanti, Vic dietro, e il corteo dei trucchi a proseguire;
il sarcasmo che le aveva regalato,
la gelosia sulle foglie delle dalie.
— Non parlarmi d’affetto!
Il ragionamento non ha la compiacenza del sorriso.
L’intimo non si legge come un ciclostilato
E vanno via i concetti,
volano fra le mosche
e smettono di vibrare come i cellulari esauriti.
— Non era solo affetto, c’era qualcosa in più…
Qualcosa… Ma cosa?
Non c’è bisogno che Terry gli risponda.
Vic non brontola più. Né svolazza.
Inghiotte solo un’altra porta.
Quella che dà sul retro della viltà e dell’orgoglio.
— Se hai deciso così, così sia!
Nemmeno per strada o in autobus una farsa del genere.
Sembrerebbe una battuta di spirito
per umettare le pause della loro indelicatezza
e attutire il calpestio sul parquet del corridoio.
Mio caro Jerry
Mio caro Jerry,
te lo ripeto ancora:
la mia morte è mia.
E la sto innaffiando giorno per giorno
dall’alba al tramonto. Ma è di notte che cresce
quando la intravedo nel buio
che attraversa i vetri
e si stende al mio fianco.
Ha preso il tuo posto nella graticola dei miei pensieri.
Non è un’amante pretenziosa.
È una amica sempliciotta.
Turbata da se stessa:
— Prima o poi sarai solo mio!
Me lo sussurra con capriccio infantile,
perché io possa ripeterlo a te.
anche gli altri hanno la loro morte,
ma come un regalo inaspettato.
Io ho strappato la carta e tagliuzzato il nodo del nastro
già da tre anni e ho abbandonato la scatola vuota
accanto al battiscopa.
La mia morte è mia.
Però è strana.
Di notte la credo inevitabile,
ma di giorno mi sbircia con i suoi occhi dorati
come un gatto appassito dal sonno.
Se ti parlo se la fila di soppiatto
e faccio fatica a ritrovarla.
Spesso è dentro la scia del tuo fumo,
altre volte è nelle pause dei tuoi rifiuti.
alcune volte è nella spazzatura
o nelle parole strozzate dall’ira
che ci ingoia entrambi.
— Jerry, lo sai che i padri aumentano la propria solitudine
in base al numero dei figli?
Perciò Vic ha solo due solitudini.
Kurt non ha fracassato la chitarra questa sera.
Ha preferito vacillare nel sangue nero
del proprio tramonto.
La sera è indefinita, un confine di nebbia con l’eterno.
Mary, lo sai che Vic ha paura
della curvatura del tempo?
Teme che l’ombra si aggrappi alle cose,
che crei il vuoto intorno a ciò che è palpabile
e che le tue mani possano perdere
la rigidità e la morbidezza della loro sostanza.
— anch’io sono una cosa! Ripete ogni tanto.
Ma la consapevolezza dell’approssimazione
gli appare come una verità che non aveva previsto.
Una sorpresa simile alle foglioline di basilico per il sugo
o a quelle di timo per la carne arrosto.
lombradelleparole.wordpress.com Le parole gli piovevano addosso come una grandine di virus. Guardò intorno. Mary in cucina… twitter.com/i/web/status/1…—
Giorgio Linguaglossa (@glinguaglossa) December 19, 2022
nota dell’autore
Il linguaggio è “il vetro che riflette chi passa davanti e chi passa dietro”, che registra lo spettatore, il suo tempo e il suo sguardo,
proprio come gli specchi di Pistoletto che interagiscono con le ombre che osservano se stesse mentre vagano davanti ai propri
riflessi. Il linguaggio è “spectaculum”. Unione di materia verbale e suono. Un abisso, che attrae e fagocita. Ma è anche ciò che non
si vede o si vede poco e male, perché il vetro, come ogni parola, è pure una “separazione”, un offuscamento del visibile.Il linguaggio è la nostra casa. Vi abitiamo dentro! Ma come in esilio. Da vivi e da morti. È la casa che contiene l’eco delle parole dette e di quelle gridate in lontananza. È la memoria di quelle sempre taciute, ma è anche il mormorio dei fonemi impressi sulla pagina. Però una cosa è la scrittura come “ripetizione della lettera” e altra cosa è la scrittura come “la voce originaria che accade in prossimità del senso” come aveva suggerito Derrida. In tale direzione la scrittura è più “occultamento” che “svelamento”; è ombra! E in quanto ombra, la parola è balenio dentro il buio e perciò anche fosforescenza da intravedere solo serrando gli occhi!
Non per nulla Dante, entrando nella “selva oscura”, scorge non la luce diretta, ma la sua evanescenza alle “spalle” del “colle” ed
è questa fugacità che gli permette di ricordare “che la diritta via era smarrita”. Così il linguaggio, allocato nell’ombra, è antinferno e inferno, purgatorio e paradiso. Ricordate Rimbaud e i colori delle sue vocali? Ecco, ogni lemma, ogni elemento linguistico
subisce ed esprime oltre che se stesso anche il rapporto con ciò che lo contiene e con tutto ciò con cui entra in contatto. ogni parola è in quanto è in connessione con le altre parole, sia in senso semantico che sintattico. Ha affermato Žižek che «Il discorso
umano non è mai la mera trasmissione di un messaggio, ma asserisce sempre in modo autoriflessivo il patto simbolico basilare
fra i soggetti comunicanti» e il primo luogo in cui si svolge questo patto è la famiglia. E perché ci sia famiglia sono necessari una
madre, un padre e uno o più figli. anche la struttura familiare è “selva oscura” e luogo labirintico, in cui i pericoli di perdersi sono consimili a quelli del ritrovarsi, quelli delle metamorfosi identici a quelli dell’anonimia e dell’annullamento. Della castrazione totale. E tutto ciò avviene, dentro il linguaggio. Il fatto è che oggi non è possibile avventurarsi in questo luogo misterioso con gli strumenti della logica cartesiana. Per poter accedere a noi stessi e alle nostre incognite profondità dobbiamo ricorrere all’oblio “della differenza originaria tra significante e significato” secondo la felice espressione di Agamben. Il linguaggio è, perciò, anche una burrasca, dentro la quale dobbiamo trovare un riparo, sfuggendo al mito distruttivo del diluvio universale. Solo che è necessario rintracciare il volo della colomba sulle acque sterminate della distruzione per avvistare l’evento della salvazione: il vero impossibile! “Il vero impossibile… non allude a quel che mai potrà farsi reale, ma piuttosto al farsi reale proprio di ciò che reale non potrà mai essere” (Massimo Donà, Di un’ingannevole bellezza. Bompiani, 2018, pp. 59-60). Si allude alfantasma della poiesis? Forse! Certo è che nel ventre di questa famiglia si attuano macerazioni, smarrimenti,incomprensioni, lotte aperte e sotterranee e ambiguità intorno all’essere e al nulla. Spesso, un poeta non può far altro che inventare parole, anche quelle della speranza, ma nella consapevolezza, però, che “sono le parole a giocare con noi” e che “il soggetto è soltanto” un loro “ricettacolo” occasionale (G. Linguaglossa).
leggo a pag. 64 questo verso:
una forchetta d’oro davanti agli spaghetti
Vorrei dire che questo è un verso squisitamente kitchen, una inserzione kitchen in un contesto post-esistenzialistico, ovvero, pre-kitchen, eppure è proprio grazie a questo verso kitchen che Giuseppe Gallo riesce ad innalzare il diapason del testo, anzi, dei testi, perché di queste inserzioni per fortuna se ne trovano molti nella raccolta, ad esempio, nella stessa poesia:
Ma Jerry ha le strade lastricate d’oriente
e Terry gli incroci sfalsati e i semafori inversi.
in risposta a Giuseppe Talìa
copia e incolla dalla pubblicità
Scrive il nostro caro Giuseppe Gallo : ” Il linguaggio è “il vetro che riflette chi passa davanti e chi passa dietro”, che registra lo spettatore, il suo tempo e il suo sguardo,
proprio come gli specchi di Pistoletto”. Ma io conosco un altro vetro, oggi slim, super piatto, anni addietro convesso, che fa lo stesso gioco: quello della tv. La tv che ha insegnato l’italiano agli italiani e che ora è passata allo storytelling traboccante, adattato pure alle ricette di cucina, agli omicidi e alla guerra. E’ quello il linguaggio che ci sovrasta! E’ inutile negarlo! Cosa sono le poesie di Giuseppe Gallo in cui è stata segnalata una sottotraccia di narratività, se non atti teatrali interrotti, in cui gli attori si sfidano in tripli salti mortali , per poi tornare ai posti di partenza? La narrazione nemmeno inizia che è già finita, nemmeno finisce che ne inizia una nuova. Come fare zapping nelle nostre esistenze: azione, interruzione, spot pubblicitario, oggetto su mensola, suono di campanello, sogno, ancora sogno, risveglio. Ognuno di noi ha trovato il modo di rompere con la poesia lirica, sposando sì il nuovo linguaggio kitchen, ma ognuno a modo proprio: c’è che sente l’esigenza di personaggi che si muovano sulla scena, come fa Gallo, in questa sua splendida raccolta, con Victor, Mary, Jerry e Terry, come Rago a cui auguro tanta fortuna per la sua ultima pubblicazione, con la pallottola e la gallina Nanin. Altri invece, che non ne sentono l’esigenza. E’ un matrimonio quello con la poesia kitchen che grazie a Dio può declinarsi liberamente senza il rischio di rimanere invischiati in un rapporto a due chiuso e ostile. Per quanto mi riguarda, credo che la sottotraccia narrativa così tratteggiata da Giuseppe Gallo (e dico tratteggiata non a caso, perchè di piccoli tratteggi si parla) risponda proprio al desiderio e alla tendenza di de-strutturare, de-comporre, e ri-cucire la narrazione, perchè in fondo per cosa è nato il racconto, nella notte dei tempi? Per consolare una creatura morta di paura in fondo a una grotta buia e aperta a bestie e intemperie. E ora che nemmeno la più bella delle storie riuscirebbe a consolarci, la si manda in frantumi, e poi si tenta di raccoglierne i cocci o la si interrompe con spot pubblicitari e urla scimmiesche. Ecco come sento il la poesia di Giuseppe Gallo, estremamente inconsolabile.
“una forchetta d’oro davanti agli spaghetti”…
—
siamo immersi fino alla testa di artmosfere domestiche-cucinarie con la poesia kitchen e questo verso secondo Linguaglossa è “squisito” come una buona carne per brodo – ——
mentre col distico :
Ma Jerry ha le strade lastricate d’oriente
e Terry gli incroci sfalsati e i semafori inversi.
la musica cambia: qui siamo geograficamente in una America che sa di Oriente, diciamo un tentativo di conciliare Occidente e Oriente: ma in Usa vi sono zone davvero orientali (una imitazione tutta americana che denota un potere assimilatore o fagocitore di culture altrui)… cosa che in Oriente non è ammissibile: questo peril primo verso del distico.
Il secondo verso, secondo me, immette in una sorta di cartone animato, tipo “gatto Silvestro” dove lo scherzo, talvolta crudele,
fa si che vi siano “incroci sfalsati e i semafori inversi”.., ciò vuol dire fare inciampare e collidere gli animati avversari. Di cucina nemmeno l’ombra (delle parole), ma una delle cratteristiche che nel precedente post ho elencato: atmosfere metropolitane deformate dagli specchi che a loro volta deformano gli specchi, ma dietro le quinte!
——————————–
Gallo l’ho conosciuto per la prima volta personalmente alla Nuvola dell’Eur la settimana scorsa… si è presentato e mi ha donato con dedica le su “Quattro mollette blu…”; Gli ho detto perché non gialle visto che sono cinesi, e che il giallo si addice bene alla quarentena globale? -Si è messo a ridere.
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A Ewa Tagher… più che ” estremamente inconsolabile”, i versi di Gallo sono consolatori ma di segno opposto alla misericordia o alla pietà, ma lo sono fin tanto lo scherzo dura fino ad una finzione mal riuscita, poiché tutto è sfalsato e inverso.
adieu! as
Ho scritto nel sett. del 2019:
Sulle ragioni della crisi della poesia
Su alcune antologie di poesia italiana dal 2000 ai giorni nostri
Nell’anno 2005 vengono pubblicate tre Antologie di poesia: Parola plurale, Dopo la lirica e La poesia italiana dal 1960 a oggi.
Il problema metodologico sconfina e rifluisce in quello della datazione delle singole opere di poesia. Grosso modo tutte e tre le antologie scelgono l’anno 1960, l’anno della rivoluzione operata dai Novissimi e dalla neoavanguardia quale linea di demarcazione dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura delle proposte di poesia accompagnate dalla caduta del tasso tendenziale di problematicità delle proposte stesse che collimeranno con posizioni di poetica personalistiche da parte delle personalità più influenti. Si nota una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole autorialità. La storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione. Così Piccini dichiara nella introduzione alla sua antologia i suoi intendimenti metodologici:
nonostante tutto ciò e messolo in conto, l’antologia che il lettore ha fra le mani nasce e si articola come un tentativo di risposta al vuoto storiografico verificatosi per esplosione demografica, democratica e orizzontale delle presenze. Quello che si vuole evitare è di favorire in sede storica la proliferazione di autori minori in seno a una stessa trafila poetica, a una medesima (tra le tante possibili) tradizioni. Cercare di fornire per ogni orientamento e ricerca il o i migliori esponenti di essi e le poetiche più interessanti è la bussola che ha orientato la redazione della presente antologia. (Piccini 15)
Piccini dichiara di voler mettere un freno all’esplosione demografica delle antologie e lo fa con un’antologia ristretta a poche personalità che siano però considerabili «nevralgiche e capaci di render ragione del quadro» (Piccini 36). Coerentemente con questa premessa, soltanto tre dei ventuno poeti antologizzati da Berardinelli e Cordelli sono inclusi in La poesia italiana dal 1960 a oggi: Cucchi, De Angelis e Magrelli. Risulta però evidente che la selezione dei nuovi autori introdotti: Rondoni, Ceni, Mussapi sia piuttosto il prodotto di una mancanza di intraprendenza per non aver incluso nessun autore che non fosse già ampiamente confortato da una lunga frequentazione dei luoghi deputati della poesia.
La seconda antologia del 2005 è Dopo la lirica, curata da Enrico Testa, per Einaudi.
Il periodo considerato va dal 1960 al 2000, la selezione include ben 43 autori di poesia. Nella Introduzione, dopo un excursus sulle linee di forza della poesia degli ultimi tre decenni, il curatore presenta i poeti in rigoroso ordine cronologico. Pur nella ampiezza e sobrietà del quadro storico contenuto nella introduzione, alla fin fine il criterio adottato dal curatore finisce per essere quello del catalogo e dell’appiattimento degli autori in un quadro storico direi unidimensionale. Voglio dire che dal quadro storico finiscono per scomparire le differenze (se differenze ci sono) tra un autore e l’altro e non è spiegato perché proprio quelli siano i prescelti e per quale giudizio di gusto o di eccellenza. Se la poesia è in crisi di crescenza esponenziale, il curatore amplia a dismisura i poeti inclusi nella antologia, quando invece sarebbe stato ovvio attendersi una restrizione delle maglie in verità larghissime. A questo punto, l’analisi linguistica dei testi si rivela per quello che è: un valore informazionale e di nessuna utilità ai fini della storicizzazione che avrebbe dovuto spiegare perché proprio quei poeti e non altri. Testa sfiora la problematica centrale: le «grandi questioni del pensiero e, in particolare, il nichilismo; la presenza «di motivi e strutture antropologiche: le figure dei morti al centro di rituali evocativi o procedure sciamaniche, visioni arcaiche dell’essere, animismo della natura, funzione non strumentale e magica degli oggetti». (Testa XXXII)
Il criterio guida della antologia è la individuazione di una «rottura radicale della lirica italiana» verificatasi intorno agli anni Sessanta. Verissimo. «Rottura» dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni di essi sulla struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, che si è riflessa nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Tutto ciò è verissimo ma ancora troppo generosamente generico. Vengono sì messi nel salvagente gli autori della precedente generazione (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) con una piccola concessione alla poesia dialettale: Loi, Baldini. Possiamo però condividere lo sconforto del curatore il quale si trova a dover rendere conto dell’esplosione di un «genere indifferenziato» come la poesia «post-lirica» con conseguente difficoltà a tracciare un quadro riepilogativo della situazione; a nulla serve tentare di giustificare questa condizione mettendo le mani avanti con l’argomento secondo cui tutta la poesia contemporanea è «postuma», con il risultato ovvio che tracciare «una cartografia imperfetta è allora preferibile a uno scorcio o veduta parziale» (Testa XXVI).
Così risulta affatto chiaro quale sia per Testa la linea di sviluppo che la poesia italiana ha seguito dal 1985 al 2005. Infine, ritengo un rimedio non sufficiente l’intendimento del curatore di ridimensionare il peso di alcuni autori: Benedetti, Buffoni, Dal Bianco quando invece sarebbe occorso più coraggio e più intuizione nelle esclusioni e nella indicazione delle linee di forza del quadro poetico.
A quindici anni dalla apparizione della antologia Dopo la lirica risulta ancora un mistero che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi due lustri, Testa si limita ad indicare le categorie del post-moderno, della «postumità» della poesia, della poesia «post-montaliana», questioni peraltro abbastanza confuse su cui si potrebbe anche essere d’accordo ma manca l’essenziale, mancano i perimetri, le delimitazioni, le ragioni di fondo degli accadimenti, l’unico concetto chiaro e distinto è l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida ma ancora vaga e ondivaga, non sufficientemente delimitata. Per aggiungere alla «mappa» dei 43 autori altri autori per completare il quadro sarebbe occorso una diversa campionatura e uno studio più articolato sugli autori della militanza poetica che nel lavoro di Testa non c’è probabilmente a causa dell’enorme congerie di autori e di testi poetici che galleggiano nel mare del villaggio poetico italiano.
Parola plurale di Andrea Cortellessa tenta di fare il punto della situazione comprendendo alcuni autori già selezionati ne Il Pubblico della poesia di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli del 1975 e già presenti nella Parola innamorata. Il modello ineguagliato resta quello de Poeti italiani del Novecento di Vincenzo Mengaldo.
Si procede per inflazione dei numeri: gli autori confluiti nella Parola plurale sono 64, numero pari a quello dell’antologia di Berardinelli e Cordelli. Il primo capitolo, inoltre, non solo riprende gli autori antologizzati nel 1975, ma già nel titolo rimanda esplicitamente a quel precedente: Effetti di deriva, il saggio di Berardinelli è qui diventato Deriva di effetti. I curatori di questa antologia danno molto rilievo alla frattura posta al centro dell’operazione antologica di Berardinelli e Cordelli, dai quali riprendono le date di rottura: 1968, 1971 e 1975. Nel Sessantotto si esaurisce l’esperienza della Neoavanguardia «l’ultimo tentativo compiuto dal Moderno di rinnovare l’Idea di Forma senza allontanarsene del tutto» (Alfano. 20). Il 1971 conclude l’evoluzione del genere lirico con le raccolte di Montale e Pasolini (Satura e Trasumanar e organizzar), e apre un nuovo periodo che privilegia il privato con Invettive e licenze di Dario Bellezza. L’idea di fondo di Parola plurale è mettere il punto fine al periodo inaugurato dalla antologia di Berardinelli e Cordelli del 1975 per ripartire dalla idea di una selezione degli autori in base ad un codice o modello «plurale», nonché di riposizionare il genere antologia mediante la introduzione del fattore collegialità.
L’organizzazione «policentrica» mengaldiana, rinvigorita da una solida struttura saggistica che inquadra i testi si scontra con il problema oggettivo della omogeneizzazione dei criteri e dei giudizi di gusto dei singoli curatori che affiancano Cortellessa; il Fattore «plurale» agisce nella selezione e nella organizzazione di una antologia “plurale” dove ogni inclusione ed ogni esclusione viene appesa al giudizio di gusto dei singoli curatori; in tal modo, in mancanza di un comune orizzonte di ricerca, la «collegialità» del lavoro finisce inevitabilmente per coincidere con la generosità delle singole inclusioni.
Il problema della «mappa», in mancanza di un progetto che rientri in un preciso orizzonte dei mutamenti della forma-poesia, finisce per periclitare in una generosa pluralità di gusti e di posizioni individuali prive di una omogeneizzazione che, sola, può nascere soltanto da una attiva militanza nel vivo del territorio poetico.
Così spiega un curatore la sua idea: «La risposta […] sta nel dismettere l’idea di mappa – ove questa di necessità comporti raggruppamenti e sigle […]. Non si progetti un’ennesima mappa dall’alto, non si operi più sulla base di astrazioni, di modelli cartografici desunti da quelli passati (‘generazioni’, ‘gruppi’, ‘linee’…); ma lo si percorra in lungo e in largo – questo territorio. (Alfano et al. 9)
Dei 64 poeti, circa una ventina obbediscono ad una linea neo o post-sperimentale, tutti gli altri sono posteggiati in una sorta di narratività allo stadio zero della scrittura. Accade così che Parola plurale, sicuramente uno dei cataloghi più aggiornati sotto il criterio bibliografico, non riesce ad evitare una sorta di generosità e di inesplicabilità della situazione della poesia italiana contemporanea che non va oltre il truismo della mancanza di un canone o modello. E anche puntare il dito sulla de-ideologizzazione della scrittura poetica, non solo non è un criterio di per sé sufficiente, ma a mio avviso il discorso critico lasciato così a metà strada perché non approfondito sulle poetiche e sugli stili dei diversi autori rischia di aggravare il problema. A mio avviso, la mancanza di una militanza sul terreno del poetico rende enormemente difficoltoso se non impossibile tracciare dei confini della «mappa» per il semplice fatto che non si ha adeguata cognizione del territorio reale cui la «mappa» dovrebbe corrispondere.
E siamo giunti a Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2017), a cura di chi scrive, che include soltanto 14 autori, con una netta inversione di tendenza rispetto alla esplosione demografica delle antologie precedenti. E siamo a ridosso della «Proposta per una nuova ontologia estetica» (2017), una piattaforma di poetica sicuramente militante che almeno mette dei paletti divisori in modo visibile. La «nuova ontologia estetica» non vuole essere né una avanguardia né una retroguardia, ma un movimento di poeti che ha dato un Alt alla deriva epigonica della poesia italiana che dura da cinque decenni, la proposta è un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), verso la poesia, diciamo, parlamentarizzata che dura da alcuni decenni in una imperturbabile deriva epigonica: la cosiddetta poesia a vocazione maggioritaria che fa dell’ogettoalgia e della soggettoalgia i binari del cromatismo emotivo di una poesia eternamente incentrata sul logos dell’io.
La proposta di una antologia della Poetry kitchen (dicembre 2022) di 16 autori complessivi, varata in questi ultimissimi giorni ha almeno il merito di essere giunta a quella «rottura radicale» tanto cercata dalle proposte antologiche che la precedevano e a un dimagrimento del numero degli autori inclusi. Almeno questo traguardo è stato raggiunto.
E allora? Non resta che tornare alle Antologie militanti.
Diciamo una verità, amara ma necessaria: Le antologie uscite finora negli ultimi cinque decenni sono dei campionari di alimenti a scadenza breve, cataloghi tutt’al più che, a esser generosi, rispondono al criterio della visibilità.
A questo punto non rimane che una sola strada: tornare alle Antologie rigorosamente di ricerca, parziali e non generaliste che individuano una direzione di ricerca.
Non c’è più un orizzonte di attesa per la poesia. La poesia è rimasta senza orizzonte di attesa oltre che senza un pubblico. Ancora negli anni sessanta c’era ancora un pubblico della poesia anche se in via di assottigliamento; voglio dire un pubblico che si aspetta qualcosa dalla poesia, che cosa non lo sa perché deve essere la poesia a dirglielo. Oggi non c’è più un orizzonte di attesa, e l’autore di poesia osserva il linguaggio come uno spettatore osserva un paesaggio senza orizzonte. Voglio dire che quel guardare non è più un guardare, è un vedere, è un vedere le cose piatte e uniformi. Così, la poesia è rimasta oltre che priva di un orizzonte, priva anche di un linguaggio, non ha più un linguaggio, almeno le post-avanguardie del novecento volevano rottamare ancora qualcosa, quel qualcosa che oggi non c’è più!
L’occultamento e il travestimento sono modalità che si presentano nella modernità delle società mediatizzate. Nella prassi del poetico, occultamento e travestimento sono elementi fondanti, nel senso che fondano delle maschere che fuoriescono dal nulla del fondale e che ritornano nel nulla del fondo, che si inabissano nello sfondo.
«La poésie doit etre faite par tous. Non par un. Questa frase del poeta franco-uruguaiano Isidore Lucien Ducasse, più conosciuto con lo pseudonimo di conte di Lautréamont, sintetizza molto bene la scomparsa dell’azione letteraria nell’età della comunicazione in cui tutti scrivono, ma nessuno legge, tutti parlano, ma nessuno ascolta».1
Sopravvivere a un attacco di scafandri e radioonde
Chiedersi che cosa significhi un verso siffatto di Francesco Paolo Intini è comportarsi come quella bambina che nel museo di “Picasso” a Barcellona, di fronte a un quadro del busto di una signora con un occhio sopra e uno sotto il mento e il naso al posto delle orecchie etc. di Picasso, si chiedeva: «mamma ma l’autore del quadro è diventato pazzo?».
È esattamente così. Porsi davanti ad una poesia della poetry kitchen ricercandone un senso e un significato, equivale a porsi davanti ad un quadro di Picasso ricercando in esso la sintassi pittorica di Tiziano o di Rembrandt o di Vermeer. Nella poesia kitchen è cambiato il «modo» oltre che il mondo, è cambiato il linguaggio.
Quanto alla questione della «ontologia» qualcuno ha rivolto la critica secondo cui noi continuiamo a pensare l’ontologia come discorso sulla «sostanza». Ebbene, mi permetto di ribaltare questa critica: sono proprio i conservatori del linguaggio poetico a pensare e a scrivere secondo il concetto di una ontologia come «sostanza», noi abbiamo sempre parlato di «ontologia meta stabile» proprio per segnalare che l’ontologia di cui trattiamo non è una «sostanza» stabile quanto una «instabilità permanente», un modus, una possibilità permanentemente rinviata.
E allora? Non resta che tornare alle Antologie militanti.
1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009 p. 59.
A me pare che Giuseppe Gallo non sappia fermarsi. Qui e là dirottamenti kitchen. Ho provato a leggere figurandomi un cartoon, sequenze animate (Jerry?) Tom e Jerry disegnati da Zerocalcare. Non male certe sequenze, solo non mi preoccuperei di scrivere versi di poesia; eviterei anche di accompagnare con pensieri quel che si vede e accade. Per lasciare accadere.
Ma, va bene, do ragione a Ewa Tagher: siamo diversi.
” figurandomi un cartoon, sequenze animate (Jerry?) Tom e Jerry disegnati da Zerocalcare” Mayoor,
quindi Gatto Silvestro… e allora? Mi dai ragione!
Giuseppe Gallo scrive pop poesia ma, come ho scritto, meglio evitare tentativi poetici.
caro Lucio,
penso che Giuseppe Gallo abbia davanti a sé un viale alberato: una poesia sempre più kitchen, cioè lastricata di non-sensi e di fuori-senso… oppure può scegliere di tornare ad una poesia del significato, ovvero, tornare indietro. Entrambe scelte rispettabilissime.
I nostri testi devono fare continuamente i conti col non-senso come nella frase: «Colorless green ideas sleep furiously», frase perfettamente grammaticale ma semanticamente insensata (Jakobson). Ed è grazie al non-senso che la frase acquista un alto grado di informazione. Infatti la poesia kitchen che esalta il fuori senso e il non senso, ha un alto tasso di informazione, una informazione vuota, magari, a perdere, magari…
Cari amici, mi trovo a Lecce da qualche giorno e purtroppo in casa non usufruisco di internet. Comunque a tratti riesco a leggere quanto scrivete in relazione a “Quattro mollette blu made in Cina”. Sgombro subito il terreno da qualsiasi fraintendimento: tutte le vostre riflessioni sono interessanti e alcune colpiscono al cuore dei miei intendimenti. In attesa di ulteriori elementi critici, prometto di rispondere a tutti al mio rientro a Roma. Intanto auguro a tutti felici feste natalizie e un anno nuovo meno catastrofico di quello che stiamo per superare. Se poi A. Sagredo si trova a Lecce, sappia che un aperitivo o un caffè lo possiamo sempre prendere insieme. Mi può cercare su WhatsApp oppure stasera stessa al Bamboo di via m. Schipa, dopo le19. 30 sempre a Lecce. G. Gallo
Spiace di essere stato così perentorio nel mio giudizio. Giuseppe, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente, è una cara persona, illuminata da curiosità. Ma nelle poesie qui riportate si trovano spiegazioni, lente come solo la narrativa. Certamente godibili, ma rimettono il lettore in platea.
NO, NON SONO A LECCE QUESTI GIORNI.
Vorrei esserci almeno per consolare un mio vecchio e caro amico da 63 aani… versa in uno stato quasi da suicidio a cui non posso porre rimedio e l’unio mio conforto sono le mieo sue telefonate…
adieu
as
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scusatemi se approfitto del blog, ma non so come raggiungere Gallo
Caro As, potremmo incontrarci questa estate. Gentilissimo Tosi, grazie per il consiglio, ma mi risulta un po’ pleonastico, dato che la prima parte di Quattro mollette blu made in Cina”, quella più corposa è proprio ridotta a prosa. Leggere per credere. Anzi c’è proprio un componimento molto chiaro a proposito, vedi a p. 38:Jerry che voleva scrivere, si chiude con l’affermazione :- ionon sono un poeta… La seconda parte del libro, dalla quale Linguaglossa ha postato i brani più lunghi, ha come titolo Interior-mente con il significato che tutto ciò che detta l’interiore è solo menzogna. Caro Tosi, ti voglio bene e lo sai, anzi colgo l’occasione per ringraziarti della bellissima cover e per augurarti il meglio per la tua arte…
Caro Giuseppe,
il tuo mondo famigliare e pop, insieme a lavastoviglie, disordine di ragazzi; valorizzare il proprio decadimento; mi viene da ridere, una serpe! Ecco, quel mondo, nelle tue poesie, è specchio di vero pop. Magnifico! leggero, innamorato. / È per quel che leggo su questa pagina. A noi grafici pubblicitari, presunti poeti, basta leggere il titolo, sapere qualcosa dell’autore, cercare di capire quale sia il desiderio nascosto del richiedente; mi ero fatto l’idea che Tu fossi un abile poeta astratto. Ecco, vado di fantasia! Non vedo l’ora di approfondire, farmi un’idea più esatta, non da selvaggio. Manco di intelligenza femminile. Grazie se avrai pazienza.
Strappo longitudinale di un inedito
…
Basta poco a un deserto per affascinare un raggio di sole, il cactus nella hall talvolta distilla sudore senza muovere neppure una spina
Archimede Pitagorico e Einstein si rifanno alla teoria dei buchi neri, la ricetrasmittente emette segnali non decifrabili, forse questi sono punti intervallati da linee blu
Nella bolla di sapone Natta scopre la tensione elettrica di una partita di calcio, sarà che troppi muoni nell’aria di porta creano confusione?
Lo specchietto retrovisore lascia sull’asfalto una linea bianca, il contadino ci pianta la rucola che cresce selvatica
Un albatros si mette in testa un cappello con la visiera e cannocchiale per guardare la fusione nucleare mentre il riccio attraversa la strada
by c.r.
buone feste di a tutti
Vorrei dire a Giuseppe Gallo che non ho potuto dare al post che Giorgio Linguaglossa ha dedicato a “Quattro mollette blu made in Cina”, il suo nuovo, recente libro, né le attenzioni, né il contributo di lettura che, invece, serbavo in animo di dare.
Ma già da “Arringheide” so bene “perché scrive” Giuseppe Gallo e,soprattutto, “per chi scrive”, quest’ultimo orientamento (“per chi scrive il poeta”), è, come si sa, stilisticamente decisivo nel destino di ogni poeta… Ricordo i due sentieri nel bosco di Frost.
E, poi, la Morte.
Perché anche per Giuseppe Gallo, girando intorno a uno dei punti fermi pasoliniani, la morte non è nel non poter più comunicare, ma nel non più essere compresi.
Ottime le note di lettura di Marie Laure Colasson e di Ewa Tagher.
Allego qui di seguito una mia lettura di un testo letto alla presentazione del libro di Giuseppe Gallo nel salotto letterario del Mangiaparole a Roma il 28 gennaio:
La Crocifissione kitchen di Giuseppe Gallo
Quattro mollette blu
Mary non gli raccomandava altro.
-quando rientri, fai quello che devi fare.
Perché io non la voglio
la puzza di fuori dentro casa mia!
E Jerry, che ubbidiva come sempre,
pure sabato notte, dopo lo sballo in discoteca,
per arieggiare un po’
si appese allo stenditoio del balcone
con quattro mollette blu made in Cina.
Domenica, all’alba, Mary lo trovò ancora crocifisso.
Aprì il balcone e gli diede una sniffata.
-Ora basta, sei inodore al punto giusto.
E gli schiodò le mollette dalle mani e dai piedi.
Jerry si afflosciò sui panni da stirare.
-Alzati! Ora alzati! Gli intimò subito Mary.
Jerry si sollevò un po’ malfermo.
-Dove vuoi che mi metta, mamy?
Mary, però, non gli rispose.
Vic l’aveva già infilata in lavatrice.
Questo testo di Giuseppe Gallo, neo-allegoria di una crocefissione ultracontempranea, è il centro pulsante di una sorta di ‘fiction’ poetica, ‘Quattro mollette blu made in Cina’, ultima raccolta del poeta (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2022) che articola un intreccio domestico e familiare sospeso nel vuoto.
Un discorso poetico sintonizzato sulla parodia stilistica dello story telling o della graphic novel, neo-generi pseudo letterari, e categorie merceologiche alla moda tendenti alla semplificazione del messaggio. Oggi chi scrive rischia l’afasia. In società totalmente mediatizzate risuona in lontananza il monito di Benjamin sulla «percezione distratta» quale tratto distintivo della modernità, ora che la distrazione di massa appare quasi un progetto sociale.
L’obsolescenza programmata investe ogni aspetto della comunicazione. Pubblicità, informazione e politica prosperano in un flusso compulsivo di suggestionabilità. La merce editoriale ha una data di scadenza di pochi mesi. Un vuoto a perdere di parole e immagini che eludono qualsiasi complessità concettuale. Una compulsività usa e getta di parole, dati, sistemi, oggetti.
«L’isteria è l’inevitabile costituzione psicopolitica delle popolazioni completamente mediatizzate». (P. Sloterdijk)
Gallo allestisce dialoghi pseudo isterici e surreali all’interno del gruppo familiare: “quando rientri, fai quello che devi fare. /Perché io non la voglio /la puzza di fuori dentro casa mia!”. Entra così in certi meccanismi della contemporaneità con la precisione di un diabolico orologiaio, decostruendo e smontando in continuazione i gangli logico-sequenziali del racconto. Sabotando dall’interno l’inerte significazione della letteratura di evasione (evasione da ogni tipo di auto-riflessione critica). Entra in medias res nella patina dell’intrattenimento ludico che incarta ogni tipo di discorso mediatico.
Allora ci vien da pensare che le parole della merce editoriale siano simili a quelle mollette di plastica colorate comprate nei bazar di cianfrusaglie: le mollette che si rompono subito, come le ha definite un’amica del poeta commentandone il titolo.
Le apparenti vicende minimaliste, vocate all’astrattismo, galleggiano in «un sistema altamente instabile e infiammabile».
Il simbolo della crocifissione ripensato nel continuum iconografico della storia dell’arte approda al ciclo delle crocifissioni di Francis Bacon. “Tre studi di figure per la base di una crocifissione”, le tre tele del 1944 sono epifanie fantasmatiche liberate da ogni salvifica trascendenza, quasi macchie di dolore. Sagome, spettri di angoscia e terrore. Opere che impressionarono Giovanni Testori, il quale nella ‘Suite per Francis Bacon II’ stilizza versi di carnale, allucinato, violento espressionismo novecentesco:
Sanguinante nel nulla,
sacro lino
teso da falangi,
unghie sfatte,
divorate.
Ronza l’aria
D’insetti planetari.
Lino di demenza,
trama inappagata,
cresce la bestemmia
sul tuo sangue;
Ultima saliva,
disperazione vana,
filigrana,
aria.
Da questa latitudine possiamo osservare il salto di una poiesis di ricerca sull’onda della Poetry Kithen. Sulla via di una totale de-sublimazione. Né interiorizzazione, né contemplazione, né misfatto. Nessun “Urlo” o Pathos o seduzione carnale.
Quella di Gallo è una Crocifissione virtuale. Un ologramma acceso nei colori della plastica. Una interferenza nel vuoto. Non più lino di demenza ma corpo-cencio destinato alla centrifuga. Sagoma sgonfia appesa a quattro mollette blu. Illusione ottica.
Carissimi amici,
ho atteso prima di fornire il mio contributo a quest’articolo sul nuovo lavoro del nostro Giuseppe (del quale serbo un ricordo straordinario legato all’evento della scorsa estate a San Basilio, avendo potuto apprezzare in lui una persona squisita e di grande spessore umano, oltreché poetico ed intellettuale) sia per alcune nuove scadenze impostemi inaspettatamente dal mio committente televisivo, sia perché ho preferito immergermi nella lettura del volume di Giuseppe (della cui ricezione lo ringrazio) che è stata in pratica la mia attività kitchen prevalente in quest’ultimo periodo.
Innanzitutto mi ha colpito, nella lettura della raccolta di Giuseppe, un’osservazione che ricorre spesso nelle mie riflessioni sulla nostra ricerca poetica ed intellettuale (e mi scuso per l’eventuale ripetitività), vale a dire la diversità nell’unità che riscontro negli approcci diversi che ognuno di noi ha con il progetto Noe (quindi già ante-Poetry kitchen), pur nella coerenza e nell’omogeneità legate all’intendimento di offrire nuove strade e nuove modalità espressive, linguistiche ed ontologiche alla ricerca poetica; pur condividendo evidentemente dei punti di riferimento comuni, ognuno di noi ha una fisionomia poetica precisa che emerge nella propria originalità e ciò costituisce senza dubbio un valore aggiunto che credo contrassegni peculiarmente il nostro lavoro ed il cui merito va sicuramente attribuito a Giorgio, per la sua capacità di aggregare qualità e personalità diverse, nel rispetto della personalità creativa di ognuno.
In questo contesto trovo che l’opera testimoniataci da Giuseppe attraverso questa sua raccolta, rappresenti un ulteriore arricchimento del nostro percorso, in un interessante ponte fra tradizione e modernità, che personalmente trovo altrettanto interessante che l’innovazione in sé e che costituisce un orientamento nel quale mi ritrovo in qualche modo, pur cercando di indirizzare le bracciate della mia nuotata sempre più verso il nuovo approdo
In particolare, trovo che versificazione di Giuseppe, offra un contributo del tutto originale, nel riprendere in chiave “Kitchen”, rivisitandolo quindi in modo del tutto innovativo, un elemento importante della poesia per così dire “tradizionale”, vale a dire la poesia narrativa (che tanta parte ha avuto nella deriva prostastica della cosiddetta “poesia del quotidiano”) spingendosi addirittura ad una sorta di rivisitazione del poema in prosa di carattere familiare, ma in formulazione rigorosamente “kitchen”.
I protagonisti dell’opera di Giuseppe, sembrano improvvisamente essere stati catapultati in una dimensione ontologica “altra” del mondo e quindi – forse anche inconsapevolmente – della storia, da cui ri-decifrare e ri-semantizzare l’universo di significati convenzionale, che è stato probabilmente anche il loro fino a ieri.
La meraviglia che sembra emergere dalle espressioni dei personaggi, nell’inquadrare gli stessi angoli, gli stessi oggetti che hanno accompagnato loro fino al giorno prima nella loro esistenza quotidiana, alla luce del nuovo prisma deformante di interpretazione della loro esistenza (lo stesso processo che si associa alla fase parossistica da febbre, in cui improvvisamente il mondo appare scomposto, rivelandoci però spesso nuove prospettive che ci accompagnano anche nel ritorno alla condizione fisiologica di normalità) sembra quasi ricalcare il coinvolgimento estatico delle esperienze epifaniche; in fondo, questa condizione credo rifletta la stessa attitudine di spaesamento iniziale e poi di assorbimento totalizzante del poeta di fronte alla rivelazione della possibile lettura del mondo e dell’esperienza sensibile nell’ottica della poetry kitchen.
Probabilmente ha ragione Lucio, quando evidenzia una certa discontinuità nella poesia di Giuseppe Gallo tra il fraseggio pop – nel quale il poeta evidenzia il suo afflato di rottura rispetto alla poesia tradizionale – e la sua tendenza a voler fare ancora poesia in senso tradizionale; credo però che questa sia la cifra specifica dell’opera di Giuseppe, valida proprio in quanto cerca una reinterpretazione di un orizzonte che ha comunque storicamente, ontologicamente ed antropologicamente una sua nobiltà (certo, svilita dall’evoluzione salottiera ed annichilente che la poesia soprattutto italiana ha conosciuto negli ultimi cinquant’anni, ma questo è un altro tema) ed anche perché ci restituisce la fotografia di un cammino, che è quello attuale del poeta, in fase di definizione e transizione ed a mio avviso è proprio questo l’ “ubi consistam” determinante dell’apporto offerto da Giuseppe Gallo con i suoi versi.
Riferendomi alla biografia di Giuseppe, immagino (e mi piacerebbe conoscere in tal senso anche l’opinione di Giuseppe stesso) che il fatto di aver in passato composto anche nel suo idioma locale, abbia contribuito a quest’opera di scomposizione della versificazione tradizionale, poiché ritengo (ed è la ragione per cui a mia volta in passato ho utilizzato il mio vernacolo oltre all’italiano e per cui mi sono saltuariamente avventurato anche in composizioni in altre lingue ed in scritti “mélangés” ) che se scissi dalla tendenza conservatrice che talvolta si abbina all’uso delle lingue locali, esse costituiscano un possibile strumento progressista di rottura, rispetto agli impaludamenti storico- sociali subiti dalla lingua nazionale, come evidenziato nell’intervento di Giorgio; penso addirittura che anche le lingue locali, possano rientrare in una produzione kitchen se giustamente modulate e sicuramente quell’esperienza è stata fondamentale nell’elaborazione dell’ “anima kitchen” di Giuseppe.
Complimenti vivissimi a Giuseppe Gallo per la sua nuova creatura e… lunga vita all’Ombra ed alla Poetry kitchen!!