[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa F, acrilico su tavola, 25×40 cm 2020]
L’Evento di cui questa figurazione è la rappresentazione figurale è dato da un galleggiare di forme larvali che nuotano nella processualità autofagocitatoria del linguaggio figurale. Tessere di una sequenza di RNA che nuotano nella processualità figurale di un Virus virale. Non sono propriamente delle cose quanto delle tessere, segmenti di RNA, simulacri iridescenti, accattivanti albedini di sostanze un tempo floreali diventate esiziali e virali. Da questo mondo di figure-segmenti umbratili e larvali è scomparso l’uomo e sono scomparse le cose. E ci chiediamo: Dove sono finite le cose? Dove si nasconde l’uomo? Domande forse inutili, che non ha senso più porsi dopo la fine dell’umanesimo, ma che non possiamo non continuare a porci. «La domanda dov’è la cosa?, è inseparabile dalla domanda dov’è l’uomo? Come il feticcio, come il giocattolo, le cose non sono propriamente in nessun posto, perché il loro luogo si situa al di qua degli oggetti e al di là dell’uomo in una zona di nessuno che non è più né oggettiva né soggettiva, né personale né impersonale, né materiale né immateriale, ma dove ci troviamo improvvisamente davanti questi X in apparenza così semplici: l’uomo, la cosa».1
(Giorgio Linguaglossa)
1Giorgio Agamben Stanze, p. 69
.
Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé , se creuse un écart, un espace, et comme tout espace,celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)
Mario M. Gabriele
caro Giorgio,
essere poeti, e tu lo sai, non è cosa facile nel senso che bisogna essere prima critici di se stessi e poi costruire o de-costruire il linguaggio secondo le ragioni del fare poesia. Un giorno sul Corriere della Sera di venerdì 2 Luglio 2004, apparve un breve intervento di Giuliano Gallo con il titolo: “Faziosità, il male oscuro che spacca l’Italia”. Riferendosi al volume edito dal Mulino e curato da Ernesto Galli della Loggia e Loreto Di Nucci dal titolo DUE Nazioni. Qui si percepiva veramente un’Italia spaccata in due, anche se non vi appare il potere editoriale con tutte le sue filiali autarchiche, creando una “divisività” che ha dominato decenni e decenni di storia economica e culturale. In questo libro Paolo Mieli si sofferma, con una certa tristezza, sul fatto che “non stiamo producendo niente di nuovo, consapevole che ormai tutti i paesi hanno imparato a dividersi e a schierarsi senza volersi distruggere”.
E allora come la mettiamo nell’attuale Epoca del Covid19? La scomparsa del critico e dello scrittore ha portato a esautorare un paradigma poetico alternativo al dominio imperante del 900. Cercare punti di riferimento della fine della poesia elegiaca o di fine corrente letteraria, è molto difficile.
Secondo De Sanctis il vero declino della poesia italiana comincia a delinearsi nel Cinquecento mettendo all’ombra Ariosto, Machiavelli, e Guicciardini, dando appena un’ancora di salvezza ad Alfieri e Parini, “ma la direzione del diagramma poetico restava quella della decadenza”. Allora possiamo affermare, con Enzo Siciliano, che per il poeta resta sempre il buio in sala. Qui, non vorrei dimenticare Edoardo Sanguineti, con il quale ebbi un lungo discorso in trattoria, in occasione di una edizione a Campobasso del premio di Poesia Nuovo Molise, in cui lo stesso critico confessò che non era più tempo di Avanguardia mancando fronti culturali che si contendono una spinta al cambiamento.
Basta andare in libreria. Gli scaffali non si piegano sotto il peso di libri di poesia rimasti sempre un’arte marginale nell’epoca dei consumi. Tutto questo non ha permesso ai poeti della Nuova Ontologia Estetica di neutralizzarsi dentro apparati linguistici informali e contrastanti, che se pure esistenti tracciano la via al “senso vietato” di Deleuze proiettando il verso in un principio antropico ultimo, con la speranza di svilupparsi intelligentemente verso un paradigma che contenga al suo interno il coraggio di superare la fase di stallo del Post Covid 19, che è una vera macelleria.
Giorgio Linguaglossa
caro Mario,
scrive il paleontologo Stephen Jay Gould: «riavvolgiamo la videocassetta e, accertandoci di aver cancellato tutto ciò che è accaduto, riportiamoci a un certo tempo e luogo nel passato […]. Poi giriamo di nuovo il film e vediamo se la ripetizione è uguale all’originale».
Stanza n. 3
Duchamp è con la pipa. Madame Hanska è nuda. Siedono attorno ad un tavolo.
Hanska distribuisce le carte da gioco.
Duchamp deglutisce.
«Ecco a Lei. Io adesso Le darò le carte.
Tredici carte di Picche. Le disponga in fila, non importa l’ordine.
È la fila delle cause.
Scelga poi le tredici carte di Cuori. Le mescoli bene.
Disponga in fila sotto le carte di Picche una carta di Cuori.
E solo una sotto ogni carta di Picche.
Accade che nella stessa posizione delle due file si presenti in alto
una carta di Picche e in basso una carta di Cuori
con lo stesso valore.
Due Sette in terza posizione. Due Re in decima o quel che capita».
«La relazione di concordanza è un modello formale
della relazione di causalità:
Il Sette di Picche “causa” il Sette di Cuori,
Il Re di Picche “causa” il Re di Cuori, etc.
Il principio di identità simula il principio di ragion sufficiente.
È la rappresentazione del principio eziologico.
Se c’è il Sette di Picche sopra, c’è il Sette di Cuori sotto.
Se non c’è il Sette di Picche sopra, non c’è il Sette di Cuori sotto».
[…]
L’unghia smaltata di K. agguantò al volo un calice di Campari
che oscillava negli stagni Patriarsci.
Il direttore d’orchestra depose la bacchetta, i musicisti se la filarono,
il pubblico prese a fluire.
Zlatan Ibrahimovich prese a calci un pallone e fece goal.
«C’è un agente morboso», disse K. rivolto ad Azazello.
«Se c’è, c’è il morbo», rispose quest’ultimo.
Il quale tirò fuori dal taschino della giacca un ipotocasamo nuovo di zecca,
e con quello cominciò a frinire, a fare saltelli.
«Se non c’è?», chiese amabilmente Azazello, dopo una giravolta.
«C’è la guarigione», replicò K. passeggiando rumorosamente con i mocassini nuovi
made in Italy.
Il berretto verde di K. ebbe un sussulto.
«Il cosiddetto principio di concordanza.
Sono i risultati delle tre carte, caro Cogito.
Nient’altro che un gioco di prestigio.
Tuttavia, la poesia nasce da un lancio di dadi
su un piano inclinato…
Il Covid19?, un elemento della perturbazione che concorre
con la perturbazione generale…
Quella parte del tutto che vuole costantemente il male e invece concorre
a produrre costantemente il bene…
Al di là del principio del bene e del male.
Ovviamente.»
*
Nella poesia di Mario Gabriele e, in generale, nella poesia della nuova ontologia estetica, ciò che è fondamentale è il gioco stesso, non i giocatori. La poiesis diventa il libero campo di azione del gioco del linguaggio. In tal senso, si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo, fintantoché lascia fuggire l’uomo nella vertigine delle significazioni che gli fanno obliare il rischio e la posta in gioco del suo rapporto con il linguaggio.
È nota la diffidenza che Heidegger ha sempre nutrito nei confronti del linguaggio ordinario. Le sue riflessioni sul linguaggio non coincidono con la teoria ermeneutica della «metaforicità fondamentale» del linguaggio elaborata da H.-G. Gadamer.
È nella misura in cui la poiesis riesce a prendere le distanze dal linguaggio ordinario che può ritrovare il gioco del linguaggio e, con ciò, il gioco della metonimia, della metafora e della estraneazione. Nel linguaggio compreso come Sage, il mostrare prevale sempre sull’indicare. Ora, questo privilegio del mostrare (die Zeige), implica una nuova e diversa valutazione del linguaggio non inteso soltanto in senso riduttivo come polisemia o per le sue qualità di ambiguità semantica, concetti che ci condurrebbero all’esterno del discorso critico e poietico. Proviamo a pensare il linguaggio come stazione apotropaica, evento, linguaggio come aver luogo e basta. Il pensiero essenziale, quello dell’Ereignis, è essenzialmente pluricentrico, la messa in evidenza della policentricità non significa la confessione dell’impotenza di un pensiero che avrebbe fallito a dirsi nell’univocità del concetto o nella polisemia del discorso poetico della tradizione, ma è ben di più, molto di più.
Il discorso poetico non è un in-differente, un indifferenziato, non è una proprietà neutrale del linguaggio ma ha la funzione di preparare l’incontro con quell’Inatteso («Bereitschaft für das Unvermutete» di Heidegger) che è cancellato dal linguaggio ordinario, che è interamente sussunto nel dominio dell’opinione e del «si dice».
1 M. Heidegger, Was heisst Denken, cit., p. 83. («Se tuttavia qui è possibile parlare di gioco, il gioco non sarà un gioco di parole, perché è l’essenza del linguaggio che gioca con noi», Che cosa significa pensare II trad. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1988, p. 15).
Mario Gabriele
da Registro di bordo, Progetto Cultura, Roma, 2020
9
Sei rimasta come le foglie del bonsai.
Mi scrivi: – salutami Stella e le amiche di Parma. –
Esco di rado. Qualche volta mi fermo al Cabaret.
Riapre il Nasdaq di Londra con le start-up a 10 Buy.
Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni.
Ci riserviamo le prognosi future
e le segrete stanze dell’illusione.
Rispuntano gli ologrammi.
Stasera ci fermiamo con i turisti by night.
Leggo e ripongo After Strange Gods
dopo una giornata di meteo invernale.
Qui prepariamo i bouquet
per i compleanni della famiglia.
– Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
così nessuno potrà dire: per chi suona la campana! –
C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire.
A digiuno ci fermammo nella certosa
ricordando Debora e Barak.
La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.
Gino Rago
Il moto entropico perpetuo in Registro di bordo di Mario Gabriele
“[…]Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni[…]”.
e, poco più giù, nello stesso polittico, il lettore, già tramortito dalla valanga di immagini-parole-metafore cinetiche che Mario Gabriele crea e intreccia, con la maestria e la sapienza dei vecchi cestari, si imbatte in un altro distico non meno spiazzante del primo
[…] C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire […]
Lo spaesamento dell’uomo d’occidente è totale: le stagioni è possibile rinvenirle nella discarica e tra il “nascere” e il “morire” del secondo distico manca ciò che si verifica o che dovrebbe verificarsi tra le due polarità estreme del nascere e del morire: vivere, semplicemente vivere.
C’è tutto, anche se mai viene nominato, ciò che non riesco a dire diversamente il dolore dell’uomo d’Occidente nella gabbia filiforme di una Europa ipermoderna cristallizzata in quello che Zygmunt Bauman ha saputo indicare come “il-tempo-di-mezzo”, tra un “non più” non ancora concluso e un “non ancòra” che stenta ad albeggiare; e il poeta d’avanguardia come Mario Gabriele avverte la lacerazione tra “cosa” e “parola”, lacerazione ribadita da Giorgio Linguaglossa: ” Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire…” e rimangono le interferenze, le ibridizzazioni, le immagini metaforiche, gli sparpagliamenti, le dissipazioni: una entropia di linguaggi in un moto entropico perpetuo…
Per questo forse
“[…]Marisa riordinò gli arredi
lasciando al gatto Musumeci i residui di Gourmet[…]
mentre in altra parte dello spirito d’Occidente, benché ad altre latitudini e ad altre longitudini
“La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.”
Il congedo qui si è fatto definitivo dai direi tòpoi di tantissima nostra poesia, le discariche, i residui di Gourmet, il matrimonio con la tristezza della sposa americana, le foglie del bonsai prendono il posto definitivamente in un altro luogo poetico delle linee-luoghi comuni fiore-sole-cuore-luna-amore…
Qui lo spaesamento dell’uomo d’Occidente convoca altri approdi, in questo Registro di bordo l’estraneazione richiede altre poetiche, un’altra estetica, una altra morale, un’altra etica, qui siamo alla «poetica della indignazione morale», alla «estetica della disperazione».
Giorgio Linguaglossa
Heidegger nel 1924 scrisse: «quando ci sentiamo spaesati, iniziamo a parlare».
Ecco, io penso che la poiesis accada quando ci accorgiamo che ci sentiamo spaesati, quando non riconosciamo più le cose e le parole che ci stanno intorno. Allora, le parole e le cose ci diventano ad un tempo familiari e irriconoscibili, come questa di Mario Gabriele.
Ci sono delle cose che si possono dire con una lettera. Ricevere una lettera è molto diverso da quando parli con qualcuno che hai di fronte. Il dialogo con un estraneo è cosa molto diversa dal dialogo con una persona che amiamo e che conosciamo molto bene. Anche un dialogo al telefono è molto diverso dal dialogo con una persona che abbiamo di fronte. Le parole non sono mai le stesse. È molto difficile scrivere in un libro di saggi in modo da essere correttamente compreso, tanto più in un libro di poesia. È evidente. Alcune cose richiedono di essere scritte a mano, come una lettera di condoglianze. È ancora consuetudine che si scriva a mano e non a macchina un pensiero di condoglianze. Così una dedica a un libro che doniamo. Chi penserebbe di scrivere una dedica a macchina? Sarebbe davvero improprio.
Ci sono delle cose che in una poesia non si possono dire. Scrivere una poesia è un atto di estrema cortesia e di estrema reticenza. Non posso scrivere in una poesia un pensiero del tutto ovvio, perché verrebbe immediatamente archiviato dalla memoria collettiva. In poesia non si possono scrivere truismi, se non per ribaltarli. Resta il fatto, però, che l’altro ha bisogno di conoscere esattamente ciò che non è detto, e il poeta di rango non si sottrae mai a questo problema, egli risponde sempre come può, riproponendo di continuo ciò che non viene detto in altri modi, con altre parole, in questo modo ingaggia una lotta perpendicolare con ciò che non viene detto allargando il campo della dicibilità e restringendo quello della linguisticità. Questo è il compito proprio della poiesis.
È molto importante trovare il luogo nella linguisticità. E questo lo possono fare soltanto i poeti. Mario Gabriele ha trovato il suo luogo esclusivo nella linguisticità generale, e non si muove di lì. Soltanto in quel luogo può parlare, in altri posti (della linguisticità) rimarrebbe muto. Nessuno che esprime qualcosa dice ciò che effettivamente intende. Ciò che intendo è sempre diverso da ciò che dico. È ingenuo pensare ad una perfetta coincidenza tra ciò che intendo dire e ciò che dico. Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire. Tra le parole si insinua sempre l’ombra, viviamo sempre nell’ombra delle parole. Anche trovare la parola giusta al momento giusto, è una ingenuità. Il politico pensa in questo modo, pensa in termini di «giusto», non il poeta. La poiesis non ragiona in questo modo, alla poiesis interessa trovare il «luogo giusto» dove far accadere l’evento del linguaggio. Tutto il resto non interessa la poiesis.
Pensare l’evento del linguaggio dal punto di vista di chi è fuori dal «luogo», è una sciocchezza; chi è fuori del «luogo» non comprenderà mai l’evento di quel linguaggio che deriva da un «luogo». Quello che Heidegger vuole dire con la parola Befindlichkeit è proprio questo, il situarsi emotivamente da parte dell’Esserci in un luogo. Ogni luogo ha la sua particolarissima tonalità emotiva. E la poesia è il recettore di questa tonalità.
L’uomo è nella cosa, esattamente dove non sono. Dove non si guarda. Perchè per essere nel non luogo è necessario navigare l’abisso della mancanza del senso e della mancanza di un linguaggio che lo descriva.
Giorgio, ma che ne è delle poesie che ti ho inviato? E dello scritto riassunto delle conclusioni del libro Vis? Buona giornata Antonella
Inviato da smartphone Samsung Galaxy.
carissimo Giorgio,
fino a quando ho occhi per vedere leggo sempre i testi poetici della NOE. Qualcosa sta però cambiando, come dice Lucio Tosi, avendo letto una mia poesia su Altervista dell’1.5.2020.. Se proprio dovessi essere selettivo, direi che le tue ultime stanze poetiche aprono nuovi squarci fuori da certi esiti di carattere trasgressivo avanguardista, prodotti da alcuni poeti dal lessico chimico-surrealista. Tu mi dirai che ogni poeta è libero di scrivere ciò che vuole, questo è vero, ma è altrettanto vero che se si vuole seguire una traccia, una formula, una Sigla, bisogna essere coerenti e subordinati.
Viviamo nell’epoca del Covid19 dove il meglio della scienza è in avanscoperta per ridurre al minimo i danni prodotti dal virus, ma anche proporre in poesia elementi nuovi, senza per questo coabitare con tessuti verbali che si richiamano a civiltà sepolte nel tempo nel recupero memoriale di nomi e soggetti.
La poesia è una forma linguistica che si offre al lettore come mezzo di comunicazione psichica in grado di trasformare il testo in evento e perchè no anche in paradigma.
Tutto questo per coabitare con l’espressione, il ritmo,e le modalità percettive di un mondo che cambia, in millesimi di secondi, come le teorie sulla formazione dell’universo, dove non si può rimanere sempre con formule scientifiche in eterna stasi concettuale.
carissimo Mario,
hai ragione, «qualcosa sta cambiando», nella tua, nella mia poesia, e in quella di altri poeti più ricettivi… in altri autori avverto meno questo impulso verso il nuovo, verso le categorie del poetico che abbiamo setacciato in questi anni e, in specie, in quest’ultimo periodo. Avverto ancora delle forti resistenze psicologiche, umane e culturali a recepire le grandi novità che si profilano nel mondo e nelle cose della poesia, molti sono ancora attardati a programmi di un surrealismo ormai chiuso e sepolto. Li vorrei sollecitare ad andare avanti, a seppellire i morti una volta per sempre…
Nella mia poesia postata, come vedi, è saltato il distico, ma questo non vuol dire che in altre poesie magari non lo ripristini. Qui è saltato perché la forza delle cose andava in quella direzione. Oggi siamo in piena eruzione vulcanica, il Covid19 si sta manifestando per quello che è: una misteriosa entità che si è abbattuta sul genere umano… e che ha: una micidiale forza dirompente che cambierà il volto del capitalismo selvaggio. Non sappiamo se in meglio o in pejus, questo sta a noi.
Il mio personale augurio è che chi ha talento raccolga tutte le forze e tenti di allungare il passo del cambiamento: via tutti gli aggettivi inutili, i verbi siano ridotti all’osso e tutto il resto lo facciano i nomi, le cose. Leggo ancora troppi aggettivi, troppi verba, troppa normografia.
CHE SI FACCIA UNA POESIA A PARTIRE DALL’EVENTO. E si abbandonino le descrizioni delle cose. Quella è poesia nata già in obitorio. Lì sono inutili i parti cesarei e le ostetriche.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/05/02/nel-discorso-poetico-della-nuova-poesia-e-fondamentale-il-gioco-stesso-non-i-giocatori-lepoca-del-covid19-una-lettera-di-mario-m-gabriele-a-giorgio-linguaglossa-commento-di-gino-rago/comment-page-1/#comment-63855
Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé, se creuse un écart, un espace, et comme tout espace, celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)
Le figuralità nella poesia
Nelle figuralità presenti nelle poesie di Mario Gabriele e mie si può rintracciare il percorso che unisce e separa la poesia del novecento con quella della nuova ontologia estetica. Sono le figuralità che fanno la differenza.
Le figuralità sono delle vere e proprie tecnicalità, ripropongono la stessa logica anti-entropica e al contempo auto-trascendente della vita. Sono l’espressione di quel fondo pre-individuale e potenziale la cui presenza caratterizza la modalità umana, quella carica di natura conservata nella individuazione umana che contiene potenzialità e virtualità.
Ogni figuralità è tecnicalità. In ogni oggetto tecnico della poiesis possiamo vedere in atto la dynamis della «natura» umana, quella dimensione originaria che consente all’uomo di esternarsi e di porsi in relazione con quanto lo circonda; quel supporto naturale che permane come un apeiron, serbatoio infinito di potenzialità. L’artificialità delle figuralità non è dunque in alcun modo opposta alla spontaneità produttiva della natura, è anzi consustanziale all’artificialità che contraddistingue l’azione umana, che rappresenta la «natura» umana in svolgimento. La tecnicalità rende visibile al di fuori non tanto semplicemente ciò che l’uomo è nel di dentro, quanto il processo dentro-fuori e io fuori-dentro. La poiesis non fa distinzione tra un fuori e un dentro, ogni limite è un confine e un ingresso e, come ogni ingresso, è anche un egresso.
Tecnica, mediato e immediato, artificiale e naturale, sono inseparabili e e irrelati. Una delle leggi antropologiche fondamentali è quella dell’immediatezza mediata,strutturalmente connessa a quella dell’artificialità naturale, nonché a quella del luogo utopico, del non-luogo a-topon.
Parlare di tecnica e di naturalità delle figuralità della nuova poesia vuol dire parlare del medesimo. Le figuralità sono la spia di una poesia altamente artificiale, in quanto la tecnica è essa stessa prodotto di artificio.
Appunto, la dimensione aperta, storica, evolutiva e ibrida dell’essere umano. L’ibridazione con l’alterità nasce da una incompletezza che non è un difetto da colmare bensì una possibilità da vivere, che è per l’uomo la possibilità di vivere dando vita a una dinamica ad un tempo biologica e culturale, innata e acquisita, ontogenetica e filogenetica. La fisicità umana è fondamentalmente protesica, la physis umana è immediatamente meta-fisica.
Già Carlo Marx affermava che l’uomo è Gattungswesen, essenza generica o ente naturale-generico, apertura potenziale al mondo che si determina in modalità temporale e comunitaria. L’uomo è quell’essere che per natura è chiamato ad agire, ad avere un rapporto mediato con quanto lo circonda, all’esposizione con il fuori e con l’altro da sé per cercare di trovare e determinare attivamente se stesso; è in rapporto-a e in relazione-con (zoon politikon); la sua natura non rigidamente statica, ma dialettica e dinamica lo spinge verso il mondo per entrare in rapporto con esso. Che l’uomo abbia un Verhältnis (tanto “relazione” quanto comportamento, azione: relazione), significa che la sua condotta di vita è una questione di modi di essere, il suo comportamento concerne il come agire in ogni determinata situazione.
L’uomo è per natura uno sperimentatore per eccellenza, è sempre al di là (ek) del limite (peira) immediato imposto dalla natura. L’uomo è il medium tramite cui la natura si spinge al di là dei propri limiti. La tecnica appartiene all’essenza umana nella sua verbalità come esserCi, cioè essa va inserita nel mondo, come disvelamento pro-vocante che pro-cede da physis, dal disvelamento producente del mondo che tocca l’uomo come natura che si fa storia. Se la techne è un modo dell’aletheuein dell’essere, è perché essa è la pro-vocazione della natura nei confronti dell’uomo, è quel movimento di fuoriuscita da sé con cui la physis chiama a sé nella forma del superamento di sé aprendo lo spazio dell’umanità, costituendo l’uomo in quanto ente storico-culturale, in quanto ente che deve corrispondere al movimento sottrattivo di una natura che si dà nascondendosi e venendo meno nella sua immediatezza. L’uomo è così per sua natura un ente non-centrico, ec-centrico rispetto a qualsivoglia forma di centricità, di chiusura autocentrica; è sempre s-centrato e de-centrato rispetto a se stesso.
Se «espandiamo [e introiettiamo] tecnologia», è «per scoprire chi siamo e chi possiamo essere… la tecnica, i suoi apparati, non sono una deviazione rispetto alla norma o alla natura umana, ma piuttosto ne sono una amplificazione, una stilizzazione e una manifestazione eminente. […] Ciò che avviene attraverso la tecnica è una vera e propria rivelazione: ciò che si oggettiva nelle protesi è la natura umana, noi possiamo sempre specchiarci negli attrezzi che abbiamo fabbricato […] e dirci: ‘Questo sei tu’. […] La tecnica non è aberrazione, è rivelazione, ci mostra chi siamo davvero, e funziona non come uno specchio deformante, ma casomai come un microscopio o un telescopio»1.
1 M. Ferraris, Anima e iPad. Rivelazioni filosofiche, Guanda, Parma 2011, 11, 68
La parte meno esposta.
La parete del divisorio, questo lo ricordi?
L’ultima sigaretta,
va bene, la penultima!
L’orientamento spostato a ovest,
troppa luce! È quanta polvere, ancora?!
Hai dimenticato ancora
le lenti nel cassetto.
Queste, queste
dovresti averle sempre con te Jack.
Hai tante donne per la testa Jack!
I visipallidi ispirano così tanta devozione.
Caricate…
puntate…fuoco!
Grazie Ombra.
TEOREMA
(Per coloro che si incontrano nei sogni)
A quest’ora l’Eternità è quasi deserta.
La notte liturgica, piangendo, si offre al branco.
Passa una pioggia nuda, senza pensieri.
Due cieli isterici, con i capelli del pazzo.
Un morto solitario, stralunato, insegue la sposa per le scale.
Il giardino proibito, fuggito dai teatri, cerca nelle cisterne la rugiada delle fanciulle.
(Voce bianca, tremante, inginocchiata davanti al Cosmo):
Lo scopo dello schianto è addentrarsi nella Dea.
Dovunque si sente l’animale triste, che vuole l’opposto. Dice che hanno nascosto l’ala spezzata dell’Universo nel congegno psichico, sorvegliato dalle macchine.
In sogno ricevo la Ferita. E uccido le belle penombre cinesi.
È caduta la scatola nera che contiene la morte. L’ho voluto io. Sono io il segreto, il segno sbagliato, che sfugge.
(Forma azzurra, disanimata dal lungo esilio):
La Signora delle vallate convoca il delirio nel clavicembalo.
Nell’androne, angosce navigabili. Pianto di serpi, dal fondo dell’oltredio.
La settima luna, sul miracolo bagnato.
Clessidre cieche, furiose, piene di morti.
Il risvolto del sogno è il prezzo della Croce.
Per sfuggire al Santo, molti bevono il nero che non c’è.
La Sposa torna nell’alabastro, velata dal profumo di danze.
Gioca all’addio, nel vagone spento.
La macchina sognante spaventa le consustanziazioni.
Padroni cadono come pietre, quasi blu.
L’occhio dell’amplesso cresce, suscitando tendaggi e girasoli monumentali.
L’interno dell’eremita contagia il Limbo. Ragazze postume si addentrano nel sacrario, nude come primavere. L’addio del cielo si copre di spine, per accarezzare quelle cosce.
La nostalgia sciolta nell’acqua benedetta dice – Amore, vieni con la corona di spine.
La caduta del guscio spalanca membra sature d’abisso. Costringe a gettarsi nelle fiamme.
Se ti penso il pascolo pullula di numeri e astronavi.
Se ti parlo la brezza abbandona le statue
e lascia morire celebri corsieri.
(Riflessione nell’acqua sottile):
The mind enclosed in the soft machine reclines at the fake dusk.
Shattered sky, why don’t you play anymore?
Il mandorlo presagisce l’estasi dei gendarmi.
Paradiso confuso in oscuri colombai.
Morirò nel filone rotto della tua anima.
Bel marmo silenzioso di garofani.
Invece di carezze
il vento porta frange di tristezza
tagliate da una scure.
Un jardinier cruel surgit dans le silence de la guitare
et il fond dans le vaisseaux aux cheveux laches.
Gli occhi dei risorti corrono sulle grondaie
perdendo pomeriggi scandalosi.
Dame di velluto ondeggiano nei salici
appena bagnate dal mistero.
L’odore di serpenti devoti staziona davanti all’incesto.
Les amants entrent dans l’image qui tombe
sur les escaliers tourmentes par les prophetes.
Donne fulve e inesplorabili tramontano a distesa
in stelle di mare ammobiliate di verdi silenzi.
Perché sogni per sempre dietro grandi ventagli
impazziti nella strana quiete degli angeli.
La poesia di Carlo Livia si nutre quasi esclusivamente di Figurazioni (la Sposa, la Fanciulla, l’Eternità, i Padroni, il Sogno, il Giardiniere, l’Angelo, gli angeli, la Signora, la Ferita, il Paradiso, la Dea, l’Universo, la Clessidra, la Croce, il dado, il pazzo, il morto, le ragazze, i silenzi etc.). È ovvio che qui le figurazioni sono delle vere e proprie personificazioni. L’astratto diviene concreto e il concreto, astratto. C’è scambio di attanti. Shifter. Deviazioni, sostituzioni, salti, peritropè… Tutti espedienti retorici che attingono alla tradizione letteraria, non solo poetica, che, però, nella scrittura di Livia diventano elementi di una poesia post-metafisica e, se mi è concesso di dire, post-pop, una sorta di allegria di naufragi presenti e prossimi venturi. C’è tutto un mix di ingredienti della Controriforma e chiesastici fino a un repertorio di derivazione surrealistica reinventato di sana pianta. Nei suoi momenti migliori Livia è un autore di indubbia caratura, unico nel panorama della poesia di oggi in Italia. Quando rinuncia ai toni tenui e preraffaelliti attinge esiti, a mio avviso, ancora più alti. E anche quando sopprime quasi integralmente gli aggettivi, come in questa poesia.
Livia è un poeta che proviene da una sua personalissima metafisica, e da lì attinge il suo repertorio e le sue figurazioni.
Grazie, Giorgio, per la tua analisi, che mette in luce la mia necessità interiore di riformulare, trasfigurandola, la metafisica tradizionale, per “seguire le tracce degli Dei scomparsi”, in una geografia assiologica inevitabilmente eterodossa, affidata ad un codice sommerso.
caro Carlo Livia,
poiché intendo pubblicare in un post apposito la tua poesia, dimmi se ho fatto bene a mettere in corsivo i versi tra le parentesi. Se dovesse essere erroneo, ti pregherei di inviarmi la poesia in apposito file word.
Hai fatto benissimo, grazie per l’attenzione.
Mario Gabriele, Registro di bordo, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2020, Pagine 152, E.12 Prefazione di Giorgio Linguaglossa
*
Lettura di Gino Rago
Scendiamo in medias res leggendo insieme questo polittico in distici di Mario Gabiele tratto da Registro di bordo, Progetto Cultura, Roma, 2020
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Sei rimasta come le foglie del bonsai.
Mi scrivi: – salutami Stella e le amiche di Parma. –
Esco di rado. Qualche volta mi fermo al Cabaret.
Riapre il Nasdaq di Londra con le start-up a 10 Buy.
Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni.
Ci riserviamo le prognosi future
e le segrete stanze dell’illusione.
Rispuntano gli ologrammi.
Stasera ci fermiamo con i turisti by night.
Leggo e ripongo After Strange Gods
dopo una giornata di meteo invernale.
Qui prepariamo i bouquet
per i compleanni della famiglia.
– Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
così nessuno potrà dire: per chi suona la campana! –
C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire.
A digiuno ci fermammo nella certosa
ricordando Debora e Barak.
La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.
*
“[…]Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni[…]”.
e, poco più giù, nello stesso polittico, il lettore, già tramortito dalla valanga di immagini-parole-metafore cinetiche che Mario Gabriele crea e intreccia, con la maestria e la sapienza dei vecchi cestari, si imbatte in un altro distico non meno spiazzante del primo
[…] C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire […]
Lo spaesamento dell’uomo d’occidente è totale: le stagioni è possibile rinvenirle nella discarica e tra il “nascere” e il “morire” del secondo distico manca ciò che si verifica o che dovrebbe verificarsi tra le due polarità estreme del nascere e del morire: vivere, semplicemente vivere.
C’è tutto, anche se mai viene nominato, ciò che non riesco a dire diversamente “il dolore” dell’uomo d’Occidente nella gabbia filiforme di una Europa ipermoderna cristallizzata in quello che Zygmunt Bauman ha saputo indicare come “il-tempo-di-mezzo”, tra un “non più” non ancora concluso e un “non ancòra” che stenta ad albeggiare; e il poeta d’avanguardia come Mario Gabriele avverte la lacerazione tra “cosa” e “parola”, lacerazione ribadita da Giorgio Linguaglossa: ” Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire…”,
e rimangono le interferenze, le ibridizzazioni, le immagini metaforiche, gli sparpagliamenti, le dissipazioni: una entropia di linguaggi in un moto entropico perpetuo…
Per questo forse
“[…]Marisa riordinò gli arredi
lasciando al gatto Musumeci i residui di Gourmet[…]
mentre in altra parte dello spirito d’Occidente, benché ad altre latitudini e ad altre longitudini,
“La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.”
Il congedo qui si è fatto definitivo dai direi tòpoi di tantissima nostra poesia, le discariche, i residui di Gourmet, il matrimonio con la tristezza della sposa americana, le foglie del bonsai prendono il posto definitivamente in un altro luogo poetico distante da quello delle linee-luoghi comuni fiore-sole-cuore-luna-amore…
Qui lo spaesamento dell’uomo d’Occidente convoca altri approdi, in questo Registro di bordo l’estraneazione richiede altre poetiche, un’altra estetica, una altra morale, un’altra etica, qui siamo alla «poetica della indignazione morale», alla «estetica della disperazione».
Ogni lettore «vede» in un componimento poetico ciò che egli per cultura, per vastità di letture, per frequentazioni dell’altrui poesia ciò che è in grado di vedere, basti pensare al Suonatore Jones di Edgar Lee Masters, ri-adattato alle sue esigenze musicali da de Andrè:
in quel «vortice di polvere» nel quale tutti vedevano i segni della siccità, lui soltanto, il suonatore nella/della libertà vedeva in quello stesso vortice di polvere, in quel forse mulinello di stracci, «la gonna di Jenny» in un ballo di tanti anni fa…
Ciò per suggellare, fra le tante già a più riprese messe lucidamente in evidenza da Giorgio Linguaglossa nella sua ermeneutica, una cifra che poi è un punto di forza della lunga storia poetica di Mario Gabriele:
la libertà di interpretazione dei suoi testi poetici che il poeta riconosce e lascia ai suoi lettori i quali così giocano, quasi sono invitati o chiamati a giocare lungo la linea autore-poesia-lettore un ruolo non meno «creativo» di quello dello stesso autore.
E’ poesia che vuole un tête à tête con l’uomo cui Mario Gabriele si rivolge, vuole con l’uomo del nostro tempo rapporti diretti, senza intermediari di nessun genere nei tre modi a noi noti della cognizione, modo analitico, modo intuitivo, modo epifanico-rivelatore, tre modi compresenti nella poesia di Mario Gabriele, in accordo pieno con la idea di “libro” di Brodskij:
“[…]Nella storia della nostra specie, nella storia dell’ homo sapiens, il libro è un fenomeno antropologico analogo in sostanza alla invenzione della ruota.”
*
(gino rago)
carissimo Gino Rago,
trovo il tuo intervento critico di acuta sensibilità interpretativa che non lascia vuoti di nessun genere..Le tue riflessioni si sviluppano verso dopo verso, tracciandone i collegamenti psicologici come passepartout per il lettore.
.E’ una testimonianza veramente particolare ed esemplare, per il modo chirurgico di aver affondato il bisturi critico, non lasciando da parte nessun vuoto, aprendo una porta a immagini psicoesistenziali come punto di contatto fra linguaggio letterario e linguaggio dell’inconscio.
La destrutturazione del testo ha messo in evidenza il messaggio poetico, nell’ampia rete di realtà multiple,che si proiettano nella vita comune di tutti noi. E’ in fondo ciò che si chiede alla poesia e in questo transito paradigmatico ed estetico con la NOE, che sta dimostrando ulteriori percorsi di tracciabilità trovando in Giorgio Lingiuaglossa un sostenitore favorevole a questi avanzamenti estetici. Grazie, e con i migliori auguri di buon lavoro.Mario.
caro Mario,
la tua poesia, e quella della nuova ontologia estetica è una forma programmaticamente aperta alla disponibilità di rinnovamento, è una forma temporalizzata… non è una poetica normativa o chiusa come ancora molti erroneamente la intendono.
La pagina elettronica ha le sinapsi allungate
una silhouette a basso costo,
le code dei cavalli arrugginite.
La scopa, Hansel,
ha in dotazione un aspiratore elettronico
ed un pettine per crani calvi
e sdentati.
Grazie Ombra.
Questa ultima poesia postata da Mauro Pierno mi convince in pieno. Più che di poesia completa, parlerei di un frammento di poesia, che forse verrà in seguito o forse non verrà affatto e rimarrà allo stato di frammento, Mauro riesce bene a mio avviso quando si limita a fare dei frammenti. Da questa poesia quello che è scomparso è il famigerato Soggetto. Non ce n’è più traccia.
Il secolo che da poco si è concluso non ci sta alle spalle, ma ci viene incontro, nel nuovo millennio che si annuncia, con l’onda d’urto delle questioni che in esso sono giunte a conflagrazione. Il Novecento non è solo il nome di un periodo storico segnato da eventi dirompenti: l’affermarsi dei totalitarismi, Auschwitz, l’arma atomica, la cortina di ferro, il crollo del muro di Berlino, la globalizzazione, la crisi del Politico e il disastro della comunità, le sfide della tecnica e del post-umano, la devastazione ambientale, una costellazione cui, ancor prima di profilarsi all’orizzonte, con grande preveggenza, Nietzsche diede il nome di nichilismo, «il più inquietante degli ospiti».
Il Novecento è il nodo inestricabile di tutti questi problemi, e di quelli ad essi strettamente intrecciati, in primo luogo la crisi irreversibile del Soggetto moderno,che oggi con urgenza chiedono di essere pensati, tornando a scandagliare quella che indubbiamente è stata una straordinaria stagione
del pensiero, di cui non possiamo non riconoscerci gli eredi e la cui potenza di interrogazione è ancora ben lungi dall’essersi affievolita.
Il Novecento non allude alla mera delimitazione di un arco temporale, aperte e ineludibili rimangono le sue domande, alle quali la poesia non può sottrarsi.