Mario M. Gabriele POESIE SCELTE da “L’Erba di Stonehenge” (Progetto Cultura, 2016) pp. 90 € 10 con un Commento di Letizia Leone “Questi suoi versi, a dir poco stranianti e sovversivi, tesi a smantellare tutto l’apparato sensistico-sentimentale, biografico-intimistico, allusivo-simbolico post-novecentesco”; “Il mondo della globalizzazione, cloaca immensa di merci e rifiuti non riciclabili, si nega alla possibilità di una narrazione/rappresentazione totalizzante ma si offre, inerte, allo sguardo feticistico del collezionista”

mario gabrieleMario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014 e L’erba di Stonehenge (2016). Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

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Commento di Letizia Leone

Come collocare nello scenario poetico attuale la poesia lavata da ogni emozione di Mario Gabriele? Questi suoi versi, a dir poco stranianti e sovversivi, tesi a smantellare tutto l’apparato sensistico-sentimentale, biografico-intimistico, allusivo-simbolico post-novecentesco esulano da categorie di appartenenza, canoni o mini-canoni poetici e confinano con esperienze artistiche di matrice neo-concettuale come certi esperimenti di Anish Kapoor, si pensi alla monumentale messa in opera del vuoto delle sue sculture per esempio.
In un certo senso questa è una poesia concettuale, dal forte impianto estetico-filosofico, “metapoesia” come è stata definita e scrittura superficiaria dove “la parola non esplode, non fruga, non le è data la funzione di levarsi in armi di fronte all’oggetto per cercare nel vivo della sua sostanza un nome ambiguo che la riassuma: il linguaggio non è qui violazione di un abisso ma dispiegamento sopra un’intera superficie”: così riferisce Barthes in merito all’opera di Robbe-Grillet, con il quale Gabriele ha sicuramente almeno un punto di contatto fondamentale, la “promozione del visivo”, l’oggettività, la “resistenza ottica” del rappresentato svuotato completamente dal “focolaio di corrispondenze”:

Oh le vocali di Rimbaud: A, come Allegory,
E, come Enjambement, I,come Ipèrbato, O,come Ossimoro,
U, come Underground!
Avevo una volta, mani dolci e cuore gentile,
le azioni Generali finite male nel Mercato Globale,
gli ossi di seppia, le seppioline al sauvignon.

Versi che funzionano come grandi specchi deformanti. Rifrazioni, pulsioni, allucinazioni, Gabriele scherza, si diverte in modo sapiente accumulando sulla superficie specchiante del suo verso i frammenti della Storia, le schegge di un immenso patrimonio letterario e poetico. Ma i “frammenti-citazioni” isolati, strappati alla dialettica del racconto, diventano cassa di risonanza di una Storia che ha perso la sua funzione di magistra vitae, di messaggera dell’antichità dato che, nel momento stesso in cui ne viene negata la funzione pedagogica, smarrisce oltre all’autorevolezza della testimonianza perfino la sua aurea.
Il mondo insensato e indifferenziato della globalizzazione, cloaca immensa di merci e rifiuti non riciclabili, si nega alla possibilità di una narrazione/rappresentazione totalizzante ma si offre, inerte, allo sguardo feticistico del collezionista.
Il frammento è come l’oggetto da collezione di una società “estetizzata” che ha spezzato ogni linea di trasmissibilità con la tradizione e procede per accumulazione seriale.
La collezione infatti privando l’oggetto del suo valore d’uso, lo archivia ed espone dietro una vetrina quale numero di serie in una carrellata ottica di modelli, codici, segni.
Non a caso lo sviluppo del museo è fenomeno della modernità. I grandi poli museali contemporanei sono le nuove cattedrali per la celebrazione di un culto laico in grado di pilotare le “grandi transumanze” del turismo culturale: “Il museo guadagna terreno un po’ allo stesso modo che cresce il deserto: avanza laddove la vita si ritrae e, pirata animato da buone intenzioni, saccheggia i relitti da essa lasciati”. (Jean Clair)
Accumulazione ed enciclopedia si rivelano i termini di un estetismo atemporale ed extraterritoriale: il flusso della versificazione nei testi di Gabriele sembra, in un certo qual modo, ricalcare lo stesso sogno enciclopedico giocato sull’orlo del non-senso di Bouvard et Pécuchet (1881). In una sorta di astrazione le citazioni, quali apparizioni spettrali, assumono la valenza di segni efficaci:

…Bauli aprivano al passato.
Good Morning Mister President! Good Morning Bagdad!
I crani della storia luccicano sotto i campi di baseball,
come le cupole dorate nei giorni dell’ashura.
……………………………………………………
Burano d’arte e di vetro soffiato da guardare in silenzio
Come le stelle di Natale dai balconi dell’Occidente:
…………………………………………………………
L’occhio non andava oltre la grigia muraglia.

Onto mario Gabriele_1

Già Benjamin aveva capito il potere della citazione di “far piazza pulita, di espellere dal contesto e distruggere”, attimo di straniamento, epifania che si avvale di un meccanismo di riciclaggio degli elementi dormienti del passato come nel caso di Gabriele dove entrano in gioco tutti gli ingredienti dell’attualità in totale promiscuità.
E se ormai ci si può parlare solo per citazioni, questo ininterrotto dèjà-vu attiva una significazione secondaria, carica la scrittura di stimoli e irradiazioni atte a sollecitare un continuo feedback, una multistimolazione che richiede la partecipazione attiva del fruitore. I frammenti lanciando appelli al lettore rendono il testo un sistema aperto.
Il frammento-citazione assume il ruolo di simulacro di un nuovo feticismo culturale e promuove una vertigine di superficie dove non ci sono pieghe in cui infilare lo sguardo perché ormai l’azzeramento di ogni metafisica ha liberato l’oggetto da ogni prospettiva illusionistica, da ogni profondità legata alla percezione promuovendo l’immanenza “poliziesca dello sguardo”, il disincantamento radicale, o come direbbe Baudrillard uno “stadio cool e cibernetico che succede alla fase hot e fantasmatica”.
“Effetto di superficie” è stato definito questo stile che si avvicina molto alla tecnica dell’iperrealismo, alla “reduplicazione minuziosa del reale, di preferenza a partire da un altro medium riproduttivo – pubblicità, foto, ecc. – di medium in medium il reale si volatilizza, diventa allegoria della morte… Il progetto è già di fare il vuoto intorno al reale, di estirpare tutta la psicologia, tutta la soggettività, per restituirlo alla pura oggettività”.
L’iperrealismo, afferma Lyotard, è al di là della rappresentazione soltanto perché è completamente nella simulazione.
E se l’arte si assume il compito di liberare o straniare lo sguardo sul mondo, è pur vero che da tempo ha prefigurato questa completa “estetizzazione” della vita, una sovraesposizione dove “tutto si duplica in se stesso, anche la realtà quotidiana e banale” e tutto si confonde con l’immaginario, si spettacolarizza.
La seduzione estetica permea ogni aspetto della realtà, la “carrellata dei segni, dei media, della moda e dei modelli, dell’atmosfera cieca e brillante dei simulacri”. Iperrealismo come allucinazione estetica della realtà.

Dunque una poesia che modula la crisi della modernità, questa di Mario Gabriele. E che la poesia inoltre non potesse eludere la rivoluzione della fisica Einsteniana non era sfuggito ad Oscar Milosz: “la poesia di domani nascerà dalla trasmutazione scientifica e sociale che si sta compiendo sotto i nostri occhi”. Infatti da quando il pensiero scientifico, forte del principio di Indeterminazione di Heisenberg, ha aperto la via alle “relazioni di incertezza” un profondo cambiamento è intervenuto nell’approccio gnoseologico alla realtà. Se l’io che giudica o contempla costituisce una modificazione dell’oggetto in sé, l’intervento dell’osservatore non è più rilevante nella definizione o rappresentazione dell’oggetto, lo è invece la consapevolezza delle molteplici relazioni, dei molteplici condizionamenti che ad esso ci legano.
Ecco, la poesia di Gabriele parte proprio da questa ridefinizione dei rapporti tra soggetto ed oggetto… Heisenberg è stato molto chiaro in proposito, quando afferma che “per la prima volta nel corso della storia l’uomo ha di fronte a sé solo se stesso”.

Strilli Gabriele2 Mario M. Gabriele da “L’erba di Stonehenge” (2016)

(10)

Il riverbero delle ghirlande sulla tastiera
mise in un angolo il Cantico dei Cantici.
Ci furono sismi e allarmi nel querceto.

Uno schutzmann avvisò i fedeli nel tempio,
e quelli che costruirono palafitte
a due metri dal mare,
si accordarono con il guardiano del faro
bruciando la vita come sterpo.
Allora un sacerdote disse a noi:
-Sacrificate un agnello sull’altare di Dio-,
e chi rimase in città,
salì sui monti con il raccolto del mese.
Sulla scrivania c’erano i libri di Bauman
E l’Urlo di Ginsberg.
Abbiamo ridato corda ai violini,
ricaricati gli orologi,
verniciate le imposte.

Era così soave settembre
A pochi passi dall’autunno,
che neanche il gospel turbò la tristezza
degli amici di Praga e di Vienna.
Non di rado, ma a giorni alterni,
la madre di Joe canta: La vie en rose.

.
(15)

La casa era piena di arredi
come l’aveva lasciata la ragazza Carla.

Miriam curava le piaghe
Con l’erba mèdica e il miele d’acacia,
e ogni volta che tornava al Majestic,
gli amici del club le donavano fiori di pesco
e cioccolato allo sherry.

Angela Adònica è un dolce poema,
ma al n.5 di rue de Pigalle
i bouquinistes regalano coupon
per “Una stagione all’Inferno”.

-Ci sarà pure una dacia
o un ostello a Smolenskoe-,
disse Karima, stanca di inutili attese
e delle storie infantili di Grigorev.

Restavano i colori del Domuspark.
Ma era tutto un tacito andare
per vicoli e strade
senza sbocchi nella fioriera.

Ora nessuno può dire
che ci sia stato un disastro tra noi,
se la vita è sempre stata la stessa
mentre cresceva l’erba
nel cerchio di Stonehenge.

helmut newton modella

helmut newton modella che fuma

(17)

Finita l’aspra contesa
tornammo a Thomas Kinsella
in Un altro settembre,
senza deliri e metafisiche accensioni.
Mister God, da tempo,
non butta più acqua nei pozzi,
lascia stare le cose così come sono.

Un battito d’ala è sempre un battito d’ala,
come la preghiera di suor Evelina
che è un mistico dire.
La luna ha rinunciato a specchiarsi nel mare
lasciando le ombre attaccate alle mani.
Povera Ketty, senza lo sguardo delle mimose!
Ludmilla porterà di sicuro una nuova stagione.
La sarta ha fatto un vestito a punto-croce.
Principessa, è tempo di fermare l’autunno,
restituire agli alberi le foglie cadute.

 

(22)

La speranza giaceva nel cassetto.
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera,
lo beviamo al meriggio, al mattino,
lo beviamo la notte,
ai tavolini de la belle Epoque a Parigi.

-Papà modan, papà Modan-, gridava Joelle
al primo allarme nel querceto,
quando scendeva le scale zittendo i suoi cani.

Al Bristol Hotel c’era gente
Venuta ad ascoltare Save the children.

Candy temeva i mesi più della bufera.

Ma questo è un altro dire, Margot,
un altro soffrire,
e so di fiumi che offuscano il cielo
e di gente alla riva che aspetta Godot.

 

helmut newton coppia che fuma

helmut newton coppia che fuma

(23)

Torna aprile sui monti innevati.
Nietzsche, perdute le scarpine,
se ne sta solo nell’aldilà
senza Cristo ed Ezechiele.

Mary nel Getsemani
cerca il pane dell’Ultima Cena.
Ma è dai Crawford che verrà la Pasqua,
quando si parlerà di Cynthia e di Karen,
passate tra le comete.

Proprio come dice padre Arnold
nella messa di fine aprile ai suoi fedeli.

Venerdì di luglio e poche astrazioni nella giornata,
se non fosse per Matisse entrato nella stanza
con il Nasturtiums With The Dance del 1912:
un secolo di croci contorte
e false primavere se mai tu le avessi viste, Dorothy,
dal tuo lettino a Farmerhouse.

.

(24)

Tardiva la tua risposta portò
il ricordo di Srebrenica e Zepa,
riformulando metafore e lessemi.

Il museumshop non era il luogo
per aprire reperti fonici,
fare da ponte ad ogni intruso della realtà,
coordinare le latitudini dei ghiacciai,
senza bussole e fischietti di richiamo,
anche se poi di tutto si può parlare
rifacendo i passi nel deserto,
fino al silenzio di Majakovskij
e “niente pettegolezzi”*
per un passaggio discreto a Novodevicij,
senza avvisi di uccellacci e uccellini.

*Frase scritta da Majakovskij su un foglietto, prima del suicidio.

.
(26)

Questa strada di industrie in disuso
non ha più profumo di alloro e ligustri.

Cacciato dal cielo, un angelo azzurro
Prese alloggio nella casa di Piera.
Ci fu un discorso su lemmi e stilemi:
carcasse di lingua sepolte nel tempo.

Spuntarono fiori nei vasi.
Biorin, uscito da un triste calvario,
si fermò davanti a un quadro di Bruegel,

La notte ci fece uguali.
Tornò Gardel con paso doble e caminito.

Violini accennarono arie discrete.
-È una cosa molto rara-, disse il concertista in prima fila.
-Ma seguiamo lo spartito-.

Nel backstage, accanto a prove di fiato e solfeggi,
tornarono di nuovo le violette di marzo.

 

helmut newton in mostra a Roma part

helmut newton in mostra a Roma, particolare

Glossario

«Uno squilibrio in ragione del quale la letteratura si assume il compito di fare vedere il mondo con occhi nuovi, di “straniare” il nostro sguardo per renderci di nuovo reali e presenti gli oggetti più banali e quotidiani». Significativamente, anche nella teorizzazione di Viktor Sklovskij tale compito viene formulato attraverso una serie di metafore visive.
Il potere dell’immagine viene qui assunto in chiave positiva, liberatoria ancora una volta, eppure…

Il sogno di un’Enciclopedia in un’era che ha perso il senso, e forse la possibilità, di una rappresentazione totalizzante:

Se Il titolo, infatti, come diceva Marcel Duchamp, è una parte fondamentale dell’opera.
Tutto ciò che è scritto è in “carenza di senso” secondo l’eccellente espressione di Levi-Strauss. Ciò non vuol dire che la produzione letteraria sia semplicemente insignificante. Essa è in “carenza di senso”. Non c’è il senso, ma c’è come un sogno del senso. È la perdita incondizionata del linguaggio che comincia. Non si scrive più per questa o quell’altra ragione, ma l’atto di scrivere è gravato dal bisogno di senso, ciò che oggi si chiama la significanza (signifiance). Non la significazione (signification) del linguaggio ma proprio la significanza.[4] [4] BARTHES Roland, Magazine littéraire, n°108, gennaio 1976.

Il citazionismo diventa accessorio citazionistico di una merce letteraria andata a male e stipata in immensi magazzini, una collezione di schegge narrative strappate alla loro funzione narrativa, versi denervati, nuda oggettività antipoetica

Il Capitale costatando che “la ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico. 
Poetica dell’ Iperreale.

L’erba di Stonehenge è il libro della deflagrazione….

Giocando con l’immaginazione si potrebbe indovinare la risposta che darebbe Brodskij se gli si sottoponessero alcuni versi di Mario Gabriele “La periferia non è il luogo in cui finisce il mondo, – è proprio il luogo in cui il mondo si decanta”, naturalmente qui si parla di periferia poetica.

Letizia Leone diwali

Letizia Leone

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”).
Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera –Versi erotici delle poetesse italiane- (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.

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29 risposte a “Mario M. Gabriele POESIE SCELTE da “L’Erba di Stonehenge” (Progetto Cultura, 2016) pp. 90 € 10 con un Commento di Letizia Leone “Questi suoi versi, a dir poco stranianti e sovversivi, tesi a smantellare tutto l’apparato sensistico-sentimentale, biografico-intimistico, allusivo-simbolico post-novecentesco”; “Il mondo della globalizzazione, cloaca immensa di merci e rifiuti non riciclabili, si nega alla possibilità di una narrazione/rappresentazione totalizzante ma si offre, inerte, allo sguardo feticistico del collezionista”

  1. La «traccia», scrive Emmanuel Lévinas, è «un passato che non è mai stato presente», cioè la dimensione di un Altro che non si è mai presentata né potrà mai presentarsi, che Derrida non esita ad assimilare alla nozione psicoanalitica di inconscio: «con l’alterità dell’inconscio abbiamo a che fare non con degli orizzonti di presenti modificati – passati o a venire – ma con un «passato» che non è mai stato presente e che non lo sarà mai, il cui “avvenire” non sarà mai la produzione o la riproduzione nella forma della presenza. Il concetto di traccia è dunque incommensurabile con quello di ritenzione, di divenir-passato di ciò che è stato presente. Non si può pensare la traccia – e dunque la différance – a partire dal presente, o dalla presenza del presente» (Derrida in La diffèrance).

    Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di traccia assume una funzione antifenomenologica, nel senso che costituisce un ordine di alterità per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso un insieme di sostituzioni: «e per descriverle, per leggere le tracce delle tracce “inconsce” (non c’è traccia “cosciente”), il linguaggio della presenza o dell’assenza, il discorso metafisico della fenomenologia è inadeguato».

    La citazione presso la poesia di Mario Gabriele è un «frammento». Ma «frammento» sta qui a significare una nozione analoga a quella di «traccia». Se c’è un ordine del senso, è la traccia, il frammento, la citazione che possono condurci in prossimità di esso; l’ordine del senso della coscienza, della presenza, e di tutto il sistema concettuale da esse regolato, cioè l’insieme stesso della metafisica, non corrisponde affatto alla verità delle cose, esso è semplicemente falso. È proprio la «traccia», la «citazione», il «frammento» che ce lo dicono, al di là di essi c’è la «non-presenza», un ordine sostitutivo della metafisica tradizionale basata sulla presenza dell’essere, e quindi del senso delle cose.

    Nella poesia di Mario Gabriele siamo in presenza della non-presenza (cosa molto diversa dalla assenza); il carattere logocentrico della metafisica viene svelato per quello che è: una condizione limitata alla «presenza» delle cose. Ma, se le cose non sono presenti, il «frammento» si incarica di svelare la loro non-presenza appunto mediante la semplice denotazione di essa. Viene qui un’altra conseguenza da questa impostazione: la impresentabilità di ogni poesia che crede di abitare nel posto occupato dalle cose. Ne deriva che la coscienza non è altro che la traccia «visibile»dell’inconscio. Ed è proprio questa la funzione del «frammento», quella di rendere visibile l’orma mnestica del ricordo o del reperto quale assolutizzazione di una non-presenza. Questa filosofia del frammento è pensabile soltanto entro le coordinate di uno scetticismo assoluto circa le virtù taumaturgiche di una fenomenologia dello Spirito e del reale la cui metafisica tradizionale viene ad essere ribaltata di sana pianta. Con un gioco heideggeriano di parole direi che il «frammento» costituisce la modalità di essere dell’esserci dell’essere. Rivela la mancanza di qualsiasi fondamento, di qualsiasi Origine, la non-presenza, la non-presenza del nulla a partire da qualcosa che «appare».

    Con le parole di Derrida: «Il supplemento viene al posto di un cedimento, di un non-significato o di un non-rappresentato, di una non-presenza. Non c’è nessun presente prima di esso, è quindi preceduto solo da se stesso, cioè da un altro supplemento. Il supplemento è sempre il supplemento di un supplemento».

    Una tale «logica del supplemento» o della traccia, che noi chiamiamo «frammento» è quindi il concetto fondamentale della nuova poesia non più fondata sull’essere dell’ontologia – di “ciò che c’è” – ma fondata sull’essere di ciò che non è presente e che quindi non possiamo dire nulla circa il suo essere. Il «frammento» rivela la traccia di ciò che non c’è, che non si presenta né può mai presentarsi. L’antica ontologia dominata da sempre dal principio di identità viene sostituita da una ontologia fondata su una differenzialità originaria, sullo scarto, sulla cesura. Essa corrisponde alla forma indecidibile del “né…né… “, del tertium datur con cui viene scardinata la razionalità metafisica fondata sui principi di non contraddizione e del terzo escluso.

    Da questo punto di vista la poesia di Mario Gabriele è atetica e non-apofantica, non dichiara se questo o quello è vero o falso, ma dichiara che entrambi sono il riflesso di una non-presenza, di un senso Altro, che non ha senso dire se sia vero o falso.

    «Nella lingua non ci sono termini positivi, ma solo differenze», scriveva Saussure: è dal rapporto sincronico tra i vari termini, nel loro gioco differenziale, che si genera l’identità di una significazione. E la poesia di Mario Gabriele nel suo scetticismo integrale prende atto di questo gioco neutro delle differenze. Fa una poesia delle differenze e degli scarti, è il suo modo di costruire per «frammenti».

    Quando Salman Rushdie iniziò a scrivere il suo primo romanzo Midnight’s children nel 1981, aveva già raccolto una sterminata miriade di «frammenti», citazioni di cartelloni pubblicitari affissi in India negli anni Cinquanta, biglietti del tram dell’epoca, vecchie foto etc., e il romanzo fu una ricostruzione minuziosa della storia indiana a partire dalla storia che raccontavano quei frammenti raccolti. Così anche il celebre romanzo di Orhan Pamuk Museo dell’innocenza (2006), ha al suo centro il racconto della raccolta di una sterminata miriade di «frammenti» di oggetti femminili o che erano appartenuti alla sua amatissima Fusun poi morta in un incidente stradale. Il protagonista ricostruisce il passato a partire da quei frammenti. O meglio: crede, si illude di ricostruire il passato, ma il passato è passato e il più grande amore della sua vita, la bellissima Fusun è morta. L’unico modo per farla rivivere è, appunto, la raccolta dei frammenti, anche insignificanti di cose che avevano avuto un rapporto con la sua amata Fusun.
    Il «frammento», dunque, è una cosa ben strana, la postmodernità lo ha scoperto da molti decenni; Derrida, Levinas, Barthes, Lyotard, Baudrillard e altri pensatori hanno investigato le straordinarie facoltà di questo «talismano magico»; la poesia, il romanzo, la pittura, la scultura, il cinema, ma anche la pubblicità ne fanno larghissimo uso da molti decenni, soltanto la poesia italiana non se ne è accorta, si continua a fare poesia scolastica, accademica.

    Mario Gabriele è un rivoluzionario della poesia contemporanea, utilizza il frammento (come ha ben spiegato Letizia Leone) come un «effetto di superficie», un «talismano magico», come una immagine di caleidoscopio, come un «cartellone»; impiega il «frammento» e la composizione in «frammenti» come principio guida della composizione poetica; ma non solo, è anche un perlustratore e un mistificatore del mistero superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente proprio della civiltà cibernetica-tecnologica. È una poetica del Vuoto, una poesia del Vuoto. E il Vuoto è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti» fa esplodere. La sua poesia ha l’aspetto di un fuoco d’artificio di superficie; si ha l’impressione, leggendola, che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La sua poesia diventa un gelido e algebrico gioco di simulacri e di simulazioni, una scherma di sottilissime simulazioni, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo utilizzati come se fossero del quaternario. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket globale, ed è legata da analogia con il telemarket, una danza apotropaica di scheletri viventi…

  2. Nella poesia di Mario Gabriele non mi sembra di poter ravvisare una coerenza di fondo che resiste a qualunque frammentazione: è il dono malefico di ogni uomo troppo raffinato per poter tornare, anche solo per un attimo, alla serenità

  3. alla serenità brutale dell’uomo dell’età della pietra.
    ANNA Ventura

  4. ubaldo de robertis

    Dalla prima metà di maggio 2016 sono in compagnia del volume: L’Erba di Stonehenge.
    Qualcosa della poesia di questo importante autore avevo capito se in
    https://www.blogger.com/comment.g blogID=179103220051136801&postID=7868313321744162903
    Mario Gabriele, tra le altre cose, mi scrive:
    “ Caro Ubaldo,
    è sorprendente come un lettore come te riesca a scavare nel sottosuolo di una poesia metaforica il senso plurale di un concetto che si liquefa in tanti frantumi, ognuno con un significato diverso,che si apre a tante realtà segmentate./
    / A volte, mi chiedo, se autori, come te e me, come Linguaglossa e Steven Grieco, Rago ed altri, che hanno scelto strade diverse, ma di discontinuità rispetto alla linea tradizionale, possano essere mai tollerati da un corporativismo lessicale che escogita sempre omologazioni inalienabili. E’ qui, stanno la lacerazione del tessuto testuale, e l’esterno di una forma che non è utopia, ma ritrovato senso del fare poesia oggi. Un caro saluto a te, L’Anfora e al testo Max Frisch. Mario Gabriele./
    Ma ci è voluto, anche se devo ancora interiorizzarlo compiutamente, il presente Commento di Letizia Leone, inarrivabile come sempre, ad indicarmi i punti salienti dell’assidua ricerca condotta da Mario Gabriele, le particolarità, l’impronta del suo stile. Quella della Leone è un’esplicativa lettura volta a definire il quadro di riferimento. Mi sta aiutando, e lo farà anche in seguito, a carpire più possibile gli elementi di novità nella poesia di Mario Gabriele.
    In precedenza mi aveva colpito la determinazione di Mario, nessun scadimento, nessuna deviazione nel seguire la sua via maestra.
    Ubaldo de Robertis

  5. Mario Gabriele secondo me va anzitutto letto su carta, un monitor non va bene è troppo dispersivo e induce alla fretta. I suoi interventi e i suoi lavori sono talmente “pieni” da necessitare di ritorni che forniscono ogni volta spunti di riflessione e di inatteso richiamo. La poesia di questo autore cui inizialmente mi ero avvicinato con molta di diffidenza pensando “ma cavolo qui per capirci un minimo debbo tenere il mio motore di ricerca sempre aperto” non si accontenta di essere bella anzi, forse, non ne sente nemmeno il bisogno. E’ una maroso che si frange in mille pezzi contro la costa, lo credi finito ed eccolo riproporsi ancora più forte di prima. Do atto a questo autore di avere intrapreso una ricerca piuttosto coraggiosa, e penso proprio che i suoi libri gireranno in treno con me almeno fino alla fine dell’estate. Complimenti, non è da tutti prendersi il rischio di essere emarginato tout court, d0altra parte la poesia italiana non può continuare a essere ripetitiva come il rock degli anni Settanta, che da dieci anni fotocopiava le canzoni dei Beatles prima dell’arrivo del punk. Ti offendi Mario se ti definisco Punk?

    • No, caro Almerighi. Sono stato sempre un ammiratore della musica. A cominciare dal Jazz :dalle origini alle avanguardie. Ho tanti 33 giri di Coleman Hawking, di Jack Teagarden, Erroll Garner, Woody Herman, e poi di Rex Stewart, Sidney Bechet, Dizzy Gillespie,e poi le Big Bands con Count Basie, l”avanguardia con Miles Davids, gli stilisti Benny Hoodman, i romantici con Nat King Cole, il Be Bop con Charlie Parker e poi ancora la musica pop, country, e via dicendo, fino a Bob Dylan, Billie Holiday, Ella Fitzgerald ecc. Vedi, sono malato di frammenti. Per questo ricordarli è come tornare indietro negli anni della giovinezza. Non a caso in un mio inedito, che fa parte dei CANTOS, c’è un verso che ricorda Natalie Cole con Unforgettable. Li tengo sempre presenti. Azionano in me miracoli di giornata.
      Tu sai di cosa ti parlo per avere una esperienza in questo settore. Tempo fa, Sagredo mi aveva indirizzato in un mercatino di Roma, per trovare le puntine di questi dischi, che non si trovano più in giro. Meno male che c’è You Tube! E per concludere non dimentico di ringraziarti che doveva essere la prima cosa da fare, ma che la musica mi ha detronizzato portandomi on the road. Saluti.

  6. Dunque la poesia può storicizzarsi: diversi sono i ‘luoghi’ e i riferimenti. Ciò non toglie che l’esito si misuri su qualcosa che sfugge, cioè il quid dell’invenzione poetica. Passi significativi in tal senso ce ne sono in abbondanza, Alla fine (e cito il 26) la memoria diviene presente e il presente memoria. p. s. Dopo Bruegel è giusta la virgola?

    • Giuseppe Panetta - Talìa

      No, né virgola, né punto, né punto e virgola. A limite due punti, ma da usare con parsimonia.
      E la virgola alla fine del verso solitamente spezza la frammentazione inducendo un continuum discorsivo.
      (Quid)

    • Caro Giorgio,
      non solo sei uno dei pochi critici come Patrizia Leone ed altri, che si contano sulle dita, ma che addirittura riesci ad armonizzare versi e poesia, che sono in fondo un unico spartito.Bella la voce di Billie Holiday. Ti suggerisco di abbinarla al sax di Lester Young e alla canzone:” The very thought of you” inserita in un noto film di Mel Gibson.Fuori onda ti comunico di aver ricevuto l’Antologia della Poesia Italiana Contemporanea di Progetto Cultura.

  7. L’uomo che guarda in camera è il poeta John Giorno, un altro temerario

  8. La lettura critica di questi testi porta inevitabilmente allo Strutturralismo e alla Psicoanalisi, ma soprattutto a Saussure quando rileva nel linguaggio un armonico sviluppo paragonato a un sistema in cui tutti i termini sono solidali fra loro. E ciò che Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa si sono impegnati a illustrare, tentando di aprire un varco al linguaggio poetico e ai mezzi che lo sorreggono, perché la logica e la scienza del sapere, applicate all’esame analitico dei testi, non deflagrassero in una lezione universitaria. Direi, e ne sono particolarmente convinto, che la sensibilità critica nasce nel momento in cui l’apparato linguistico sotto esame richiede collageni volti a fissare proiezioni diverse prima e dopo l’estetica della parola che, alla fine delle varie metamorfosi, si integra in un unico elemento. Credo che un buon poeta debba agire, rimuovendo la terra lessicale che sta al centro della germinazione, per riportare alla luce e in superficie il primo granello, ossia la materia stessa che è la sostanza originaria, necessaria ad essere l’Uno e il Tutto del linguaggio, per poi ricadere nel giro di un nuovo circuito dove il disvelamento, e l’identificazione della parola interagiscono fino ad annullarsi e a riprodursi ogni volta. Considerare questa rete di connessioni, e di interazioni, presupponendo per un istante che il frammento non è il transitorio elemento del dire linguistico, né il trapianto di un organo vitale, in attesa del rigetto, ma la particella essenziale, che è il mistero stesso della poesia, e della sua evoluzione, significa dare infusioni vitali per esistere al di là di ogni naufragio della parola. Finito il tempo degli intellettuali, organicamente inseriti nelle grandi Case Editrici, oggi assistiamo al risveglio della critica nel Sud, come un buon segnale di speranza, dopo il crollo del Grande Potere del Nord, che ha rinunciato a posizionarsi sui territori culturali, a suo tempo conquistati con grande autonomia e facilità. Un grazie sincero va a Letizia Leone, a Giorgio Linguaglossa a Flavio Almerighi, a Ubaldo De Robertis, e chi ha voluto inserirsi brevemente, in una partitura poetica fin dentro le sue fondamenta.

  9. E’ poesia che pesca abbondantemente nella prosa, e si diverte… molti romanzieri non sanno distaccarsi dai verbi al passato.
    Chissà quale autore avrà amato di più, Gabriele.
    Quel che conta è che la prosa venga condotta dalle mani sicure di un poeta: uno a cui le parole escono a grappoli, non una alla volta.
    Se Gabriele ha sempre scritto così, col frammento, non ha nulla da invidiare a De Palchi: l’esito del loro lavoro ha raggiunto lo scopo, si sono stabilizzati su una terrazza di Manhattan, non senza prima aver gettato una bomba nella rampa dell’ascensore. Gabriele scrive in modo contagioso.
    Per me è stato un godimento leggere queste poesie.
    Pop art allo stato puro. Ma tanto nuovo da poter reggere qualsiasi cosa, anche il vintage. Sorpassato – nello stile – vi compare anche Allen Ginsberg. Mi son detto: ecco un altro artista, Mario Gabriele, pronto a lasciare si sé soltanto iris e cieli turbinanti.

  10. Giuseppe Panetta - Talìa

    Nel backstage, sull’altra faccia della luna, quella non visibile, misteriosa, è guerra grande. Ma io metto sempre fiori nei cannoni. Vanno bene anche le violette.

  11. antonio sagredo

    E si che qui ci vuole un bel bagaglio culturale per comprendere a fondo e anche bene i vari riferimenti “cultuali” di cui i versi di M:M:Gabriele non posso no fare a meno. Detto questo, e detto genericamente il punto non si è esaurito affatto, anzi è l’inizio di uno spettacolo raffinato che si dà in pasto sia al volgo come pure all’intellettuale. Se il primo si diverte senza capirci nulla, il secondo resta piccato per la quantità e qualità di personaggi, di citazioni che scorrono come didascalie sotto una serie continua di cartelloni in bianco-nero (e associo a questi colori l’americanismo del poeta simile per tratti a quello sovietico degli anni ’20) e a colori (e penso a quei manifesti cinematografici degli anni ’50). Dunque è un carosello che va vanti non in circolo ma al contrario, un cartellonismo che si snoda ben tenendo presente i tempi storici di ogni personaggio e eventi entro i quali si sviluppano. (sarebbe piaciuto tanto al Ripellino!) Le citazioni (e ogni citazione è un cartone!) originari del mondo slavo – in specie da quello russo – mi fanno piacere e non certo mi sorprendono anzi mi divertono per la manieristica ammiccante, e conosco bene quel mondo degli artisti russi (slavi in generale) che rivoluzionò l’arte dalle fondamenta… che questo mondo poi venga associato a quell’americanismo primitivo e naive in voga a Mosca e a Pietroburgo (prodotto da quegli stessi artisti e poeti assatanati di conoscenze non russe, ma americane e anche di esotismo universale), e che poi si sarebbe sviluppato trionfalmente nella propria terra (vedi l’elenco fornitissimo datoci dallo stesso MMGabriele) tanto da spostare l’asse culturale mondiale negli Usa (poi che quello russo distrutto da Stalin per favorire invece i suoi piani quinquennali – tra l’altro realizzati con l’apporto di ingegneri e tecnici proprio americani!). per riprenderci un po’, dichiaro che la poesia del MMG è un quadro riassuntivo ben riuscito, che scorre senza mai ritornare indietro – non è sentimentale! – ma talvolta nostalgico nelle definizioni-citazioni, ma scritto con agevolezza e abilità e perizia… si devono leggere questi versi (fortunato chi già conosce nomi, eventi, personaggi, le varie correnti ecc.; e non fortunato chi come l’Almerighi ha bisogno di un “motore di ricerca”!)… si devono leggere con scioltezza col riso e con la serietà dovute, indirizzando i propri occhi sullo scorrere di questa cinematografia cartellonistica; ed è una impresa non peregrina per il poeta essere riuscito in versi a farci godere questi cartoni binaco-neri-colorati che ti assaltano, e che potevano essere “cineticamente muti” come una volta con le didascalie anch’esse cinetiche.
    Mi sono divertito perché anche la decantazione dello sguardo e occhio di bue del poeta che mi han fatto pensare agli spettacoli musicali anni ’20 americani e parigini; a quelli circensi russi degli anni ’10 fino alle fine degli anni ’20. Ovviamente questo sguardo e occhio sono rivisitati da una mente dell’inizio di questo secolo che ritorna ad un inizio già trascorso da un secolo esatto… questi trionfale nelle rivoluzioni e innovazioni artistiche; questo… tutto l’opposto che nega un ideale di futuro…. quello di futuro campava!

    ———–

    • Nelle parole di Sagredo compare finalmente la parola “didascalia”. Lo scrissi un anno fa: “Sarà poesia quel che diventerà voce e commento di molte immagini”. L’attenzione si sposta, dalla centralità della parola all’immagine. O meglio, dovrei dire che la parola non è più lasciata a dover fare tutto da sola; senza muovere un passo esce, va a teatro, al cinema, si lascia abitare da infinite situazioni e paesaggi che coesistono. Dentro e fuori non sono più separati: la psicanalisi si ritrova ad operare in uno staff di abili parrucchieri, di straordinarie maestre d’asilo, di eremiti, monaci e condottieri rivoluzionari; da nomi altisonanti e altri sconosciuti. E’ storia che vede tutte le storie. Poesia diventa didascalia del mondo, dell’universo. Poesia che queste cose le fa da sempre, chi meglio di lei? Al cinema, senza guardare o chiudendo gli occhi, quante volte ho sentito la sua presenza nelle voci degli attori protagonisti ; e così ascoltando musica, soppesando un libro ancora da leggere…

  12. Quando Salman Rushdie iniziò a scrivere il suo primo romanzo Midnight’s children nel 1981, aveva già raccolto una sterminata miriade di «frammenti», citazioni di cartelloni pubblicitari affissi in India negli anni Cinquanta, biglietti del tram dell’epoca, vecchie foto etc., e il romanzo fu una ricostruzione minuziosa della storia indiana a partire dalla storia che raccontavano quei frammenti raccolti. Così anche il celebre romanzo di Orhan Pamuk Museo dell’innocenza (2006), ha al suo centro il racconto della raccolta di una sterminata miriade di «frammenti» di oggetti femminili o che erano appartenuti alla sua amatissima Fusun poi morta in un incidente stradale. Il protagonista ricostruisce il passato a partire da quei frammenti. O meglio: crede, si illude di ricostruire il passato, ma il passato è passato e il più grande amore della sua vita, la bellissima Fusun è morta. L’unico modo per farla rivivere è, appunto, la raccolta dei frammenti, anche insignificanti di cose che avevano avuto un rapporto con la sua amata Fusun.
    Il «frammento», dunque, è una cosa ben strana, la postmodernità lo ha scoperto da molti decenni; Derrida, Levinas, Barthes, Lyotard, Baudrillard e altri pensatori hanno investigato le straordinarie facoltà di questo «talismano magico»; la poesia, il romanzo, la pittura, la scultura, il cinema, ma anche la pubblicità ne fanno larghissimo uso da molti decenni, soltanto la poesia italiana non se ne è accorta, si continua a fare poesia scolastica, accademica.

    Mario Gabriele è un rivoluzionario della poesia contemporanea, utilizza il frammento (come ha ben spiegato Letizia Leone) come un «effetto di superficie», un «talismano magico», come una immagine di caleidoscopio, come un «cartellone»; impiega il «frammento» e la composizione in «frammenti» come principio guida della composizione poetica; ma non solo, è anche un perlustratore e un mistificatore del mistero superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente proprio della civiltà cibernetica-tecnologica. È una poetica del Vuoto, una poesia del Vuoto. E il Vuoto è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti» fa esplodere. La sua poesia ha l’aspetto di un fuoco d’artificio di superficie; si ha l’impressione, leggendola, che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La sua poesia diventa un gelido e algebrico gioco di simulacri e di simulazioni, una scherma di sottilissime simulazioni, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo utilizzati come se fossero del quaternario. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket globale, ed è simile al telemarket, una danza apotropaica di scheletri viventi…

  13. Steven Grieco-Rathgeb

    Poesia del labirinto culturale del XI° secolo:
    Avete mai notato che quando andate in un dizionario a cercare la radice etimologica di una parola, a un certo punto il dizionario ha come un mancamento, uno smarrimento, e ammutolisce?
    Direi che qui abbiamo il Derrida di “ciò che non ha mai avuto inizio.”
    E quindi la mirabile poesia di frammenti di Gabriele non si ferma allo stato di frammento tout court. Non si ferma a non voler dire niente. Tutto il contrario! E’ un po’ come la figura del manichino nel quadro “Il ritorno di Ettore” di Giorgio de Chirico. Va un passo avanti, per compiere l’ineluttabile trasformazione in poesia auto-consapevole che ogni scienza, ogni arte, ogni “conquista” umana sono destinate ad evocare la labirintica realtà in cui ci troviamo immersi da sempre. E quindi è una poesia che dice, eccome dice. Che il labirinto è senza fine, poiché l’inizio non c’è mai stato.
    Il labirinto invece c’è sempre stato. L’abbiamo solo dimenticato per qualche secolo in Occidente, da quando cioè il Medioevo e il Rinascimento hanno innalzato il Dio cristiano a supremo fattore di una harmonia mundi in qualche modo comprensibile all’uomo, che lui avrebbe un giorno seppure lontanissimo potuto raggiungere, conquistare. L’Illuminismo del 700, e il positivismo e determinismo dell’Ottocento hanno poi fatto una operazione molto simile, postulando che la mente umana potesse raggiungere quegli stessi risultati senza l’intromissione di fattori esterni (divini o altri).
    C’è voluto il 20° secolo, con le sue guerre cruenti, i suoi orrori, stermini, l’industrializzazione della morte umana, animale e vegetale, fino alla sistematica distruzione dell’ambiente di oggi, per riportare l’uomo a capire la natura labirintica ed estremamente problematica dei suoi processi mentali. E che forse al di fuori di quei processi non esiste niente.
    Certo, l’uomo cerca sempre anche di istituire un ordine, specie nel tempi in cui il senso del disordine preme più forte. E l’arte, la poesia, hanno bisogno sempre di rigore, disciplina, ordine per funzionare. (E qui ritroviamo Gabriele, attentissimo, geniale, machiavellico puzzlemaster.) Però le espressioni artistiche, a differenza di altre attività umane astratte, lasciano aperto lo spiraglio, la fessura sull’Assurdo Irriducibile. L’arte ha la coscienza che ogni cosa, analizzata all’indietro fino “all’origine”, porterà ad una corsa verso il nulla, verso l’ammutolimento. Ecco perché la vera opera d’arte rimane indecifrabile. Andate a leggere in “Scolpire il tempo” di Andrey Tarkovsky, cosa il regista e autore di questo meraviglioso libro sulla cinematografia dice del “Ritratto di donna” del 1474 di Leonardo da Vinci.
    Questa è la bellezza della poesia di Gabriele. Non posso che complimentarmi vivamente con lui per queste poesie, d’altronde leggibilissime, godibilissime per l’humour, la straordinaria inventiva, la ricchezza della cultura che stanno alla loro base.
    Molto bella la 22, con i versi della Todesfugue. Ma tutte sono eccezionali.
    E’ una poesia in cui il (forse) duro lavoro compositivo ha partorito un essere strano, angoscioso, perfettamente consono con il mondo di oggi, e non con quello degli anni 1970, 1980, 1990, 2000 – ma con il nostro inquietante Oggi.
    Bene ha fatto Giorgio Linguaglossa a mettere quella bella foto del waterfront di New York di notte. L’ordine apparente del Grande Disordine.
    Comunque questa di Gabriele è il tipico caso della poesia che è più grande della somma dei suoi componenti. Nasce un nuovo essere, oltre l’iperrealismo che ormai ha fatto il suo tempo. Oltre il frammento.
    Aspettiamo poesie di Giorgio Linguaglossa su questo blog.

    • A chiusura di questo post, desidero far pervenire i miei più sinceri ringraziamenti, in aggiunta a quelli già pubblicati, anche a Sagredo, Tosi e Steven Grieco Rathgeb , che con i loro commenti hanno ampliato una analisi critica aperta a tutto campo.

  14. Altre volte, in altri articoli e commenti, abbiamo parlato di una «poetica del vuoto»; bene, essa non è diversa dalla «poetica del frammento», vuoto e frammento vanno a braccetto, sono due facce della stessa medaglia. Abbiamo parlato di «superfici riflettenti» e di «cartelloni pubblicitari»; entrambi sono parte essenziale del «vuoto». Nel «vuoto» si nuota e ci si muove con grande agilità, con la massima leggerezza perché non c’è alcuna resistenza da parte della materia. È come se ci fossimo liberati della «materia» Nella poesia di Mario Gabriele questo è evidentissimo, considero la sua poesia oggi all’avanguardia in Italia; la sua poesia ha la scioltezza e l’agilità di un camouflage, è scherma portata alla massima espressione delle proprie possibilità; scherma di immagini, di citazioni, di reperti… scherma di «frammenti».
    Sono convinto che un novello Heidegger oggi dovrebbe occuparsi della analitica del vuoto e scriverci sopra un volume intitolato “Vuoto e tempo”. Aspettiamo con curiosità il filosofo che voglia cimentarsi con questa problematica. Oggi è il «vuoto» il nostro Godot. Finalmente il Godot è arrivato, è qui tra di noi, siamo noi, è dentro di noi, è fuori di noi, fuori del nostro universo.

    Recentemente alcuni rispettabilissimi fisici teorici hanno formulato una teoria sconvolgente, hanno scritto che il nostro universo non cesserà a causa dell’entropia (quindi per raffreddamento e dispersione) o del big crunch (che ritornerà allo stato di un punto infinitesimamente piccolo), ma che verrà inghiottito in un istante dal cosiddetto «vuoto debole». E sì, perché la caratteristica di questo «vuoto debole» è di essere «instabile» perché tende a diventare «vuoto forte», cioè stabile, e che per addivenire a questa condizione di «stabilità» esso vuoto dovrebbe inghiottire non soltanto il nostro universo ma tutti gli infiniti universi che popolano la «mente di dio», questo Aleph di cui sappiamo ancora ben poco che noi chiamiamo realtà. Beh, è sconvolgente, no? Dico sconvolgente scoprire che la «mente di dio» è malata, che sta male, che è «instabile» ed è affetta dalla malattia denominata «vuoto debole».

    Bene, io sostengo da tempo che la vera avanguardia nel nostro tempo non sono più le cosiddette avanguardie letterarie, ma che è rappresentata dai fisici atomici, dai fisici teorici che immaginano il reale mediante eleganti analisi matematiche. Sono convinto che i poeti debbano imparare molto dai fisici teorici.
    In fin dei conti, che cos’è il nuovo modo di poetare di Mario Gabriele?, intendo, da dove viene questa gigantesca forza di inessenza che permea la sua poesia? Azzardo la risposta: proviene da uno stato di «vuoto debole» della nostra civiltà, una nuova condizione esistenziale ed esperienziale; viviamo in un mondo che è cambiato in modo gigantesco, forse siamo ai prodromi di una gigantesca rivoluzione tecnologica. E la poesia? La poesia?

    • ubaldo de robertis

      Caro Giorgio,
      prendo nota del tuo orientamento verso ciò che chiami la vera avanguardia nel nostro tempo rappresentata dai fisici e dai matematici che tentano di immaginare il reale, e da te apprendo che l’ Universo verrà inghiottito in un istante dal vuoto debole, instabile. Lo inghiotte per diventare stabile.
      E’ bene ripartire da ciò che si sa sull’Universo. Esso risulta per la maggior parte Vuoto, un Vuoto “riempito” da campi quantistici e particelle virtuali, infatti la densità media della materia ordinaria, (composta da protoni e neutroni ) risulta essere estremamente bassa (dell’ordine di 10 alla -30 g/cm3).
      Questo Vuoto è un’entità fisica dinamica, sede di campi quantistici dai quali in maniera imprevedibile emergono delle onde. Il vuoto quantistico può essere considerato come un “mare di particelle virtuali che si originano dal Vuoto e in esso scompaiano dopo un certo intervallo di tempo.
      La proprietà più enigmatica riguarda però gli effetti gravitazionali di questo Vuoto quantistico.
      La dinamica delle particelle virtuali potrebbe contribuire alla forza gravitazionale dell’Universo essendo in grado di sopraffare la gravità generata dalla materia ordinaria, e cooperare all’espansione dell’Universo che può procedere per sempre, oppure raggiungere un punto di svolta e l’ Universo può ricollassare su se stesso.
      Comunque vadano le cose l’Universo che noi conosciamo è destinato a sparire.
      Io credo però che la Fine dipenderà dal fatto che il Sole consumerà via via l’idrogeno diventando sempre più fulgente, di conseguenza la temperatura della Terra salirà progressivamente. Entro un miliardo di anni il mare andrà in ebollizione.
      Intanto noi con le nostre emissioni di gas serra acceleriamo tale processo.
      E avanti così… senza cadere in depressione…
      Ubaldo de Robertis

  15. ant.sagredo@gmail.com

    La POESIA è TUTTA UNA ANTICIPAZIONE DI QUANTO HAI SCRITTO! – gentile Linguaglossa! – Inutile domandarsi “La Poesia? E la Poesia?”… che da ogni secolo e da tutti quei secoli di cui sentiamo la sua presenza ci insegna proprio questo: “lasciatemi stare in pace con le Vostre (si riferisce ai Poeti) domande che non hanno senso alcuno, pensate invece a dare delle risposte non tanto a me quanto a Voi stessi. Io (la Poesia) sono già data dall’inizio alla mia fine; Voi non avete altro da fare che raccogliermi come miele – talvolta amarissimo! – ogni giorno per onorare la mia immortalità e eternità: siatene degni ! E quanto mi basta perché Voi non siate dei sopravvissuti a causa mia”.

  16. Steven Grieco-Rathgeb

    Ottimo commento, quello di Sagredo.
    Anche se non toglie nulla alla questione sollevata da Linguaglossa.
    E cosi’ che nella poesia convivono gli opposti.

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