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Adam Vaccaro: Le questioni aperte dall’Antologia di Poesia Italiana Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura Giorgio Linguaglossa, Roma, Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18

Fiera del Libro Milano

Fiera del Libro Milano 20 aprile 2017 Presentazione Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo

Nuovi Paradigmi

Nella Prefazione all’Antologia, Come è finita la guerra di Troia non ricordo, il curatore ribadisce in forma quasi di manifesto la propria concezione della poesia, riproponendo alcune questioni cruciali. Ma, prima di entrare in queste, è bene citare il passaggio con cui Giorgio Linguaglossa dà senso al titolo della Prefazione, Il cambiamento di paradigma della forma-poesia: “Cambiamento di paradigma è dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario nell’ambito della scienza”, locuzione, ricorda, “coniata da Thomas S. Kuhn” in “La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) e che Linguaglossa trasferisce in ambito letterario, ricordando l’opera Paradigm (2001) di Alfredo de Palchi”. Opera che colloca opportunamente tra forme pre-sperimentali e sperimentalismo, e esempio dei “più importanti mutamenti di paradigma della poesia italiana” che “avvengono a cavallo degli anni cinquanta e sessanta”. È peraltro un trasferimento non pacifico, in quanto lo stesso Linguaglossa ricorda con Kuhn che, rispetto allo scienziato, “’lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione tra loro’”. Tuttavia, anche per me, il tentativo di connettere postulati scientifici e letterari è stato ed è affascinante quanto fruttuoso, anche se Moderno e Post-moderno hanno dilatato ancor più la condizione operativa di “(im)possibilità di epistemologia della poesia” (vedi in A. Vaccaro, Parte introduttiva di “Ricerche e forme di Adiacenza”, Asefi ed, 2001).

Rilievo che poi proseguendo Linguaglossa sviluppa: “Tutto sommato lo sperimentalismo era una pratica rassicurante…introduceva delle certezze”, mentre ora siamo in un universo liquido in cui “tutte le ipotesi di poetica” sono “crollate con il crollo del Fondamento e…non si danno più certezze nell’incertezza generale né alcuna stabilità nell’instabilità generale”, “un nichilismo… diventato nuda evidenza”. “La verità è che il pensiero si è polverizzato a seguito dell’eclissi di un principio fondatore, e la sfera artistica, così come l’etica, si è trovata in balia della assenza di ogni giustificazione…è venuta meno la gerarchizzazione dei linguaggi artistici e dei linguaggi tout-court”; “e quelli poetici si sono disseminati in una pluralità degli stili”, “poetiche del frammento, della duplicazione del frammento”, anche se questo “non si può duplicare né moltiplicare”. Sono rilievi inconfutabili del punto zero in cui siamo. Ma rispetto ad esso, c’è solo la resa o c’è la possibilità di un oltre, che sappia ritornare a un paradigma rinnovato capace di risalire dalle attuali macerie? È la domanda aperta che impegna il libro e giustifica il Titolo, alla quale – come vedremo – Linguaglossa non rinuncia a cercare e a dare risposte, sia attraverso gli Autori antologizzati, sia nella stessa Prefazione, su cui qui intendiamo soffermarci.

Laboratorio 24 maggio 17-1

Laboratorio di poesia, Roma, 24 maggio 2017

 Il punto di partenza

Ma argomentazioni adeguate a tale nodo complesso implicano un confronto con le proprie. Torniamo perciò alle questioni cruciali inizialmente richiamate, a cominciare dalla primissima: “La poesia, come la filosofia, non progredisce, se intendiamo per ‘progresso’ l’accumulazione di ‘risultati’ che si susseguono gli uni agli altri”; “visione…propria di un modello di Ragione di cui siamo tutti debitori”. Tuttavia, precisa l’Autore: “Ci sono momenti in cui la poesia fiorisce, dopo un lungo sonno, e ci sono momenti in cui si riaddormenta”. “Ma…il sonno della Ragione poetica” tende a produrre “un eccesso di chiacchiera e di indifferenza…e quando le domande metafisiche si spengono alla Musa viene accordato un domandare ironico-scettico, il disincanto…che elude la questione…il vero domandare”. E cioè: “Il locutore ha cessato di essere fondatore. È questa la ragione centrale che ha impossibilizzato ogni forma-poesia che stabilisca…una referenzialità diretta con il ‘reale’.”

Ritengo questo “un punto di partenza” – per Rimbaud, decisivo per il prosieguo di ogni percorso – di notevole importanza, che da gran parte dei cultori di poesia contemporanea è semplicemente ignorato (confermando quel sonno sopra ipotizzato), e che chiede invece un confronto approfondito da parte di chi, come me, ne ha fatto un punto fondante del proprio percorso di ricerca. Non posso perciò evitare di rifare, sia pure sinteticamente, alcuni passi essenziali di tale percorso per poter meglio evidenziare quelli che, per me, costituiscono il corpo, il carattere, il valore e i limiti della posizione di Linguaglossa. Posizione che parte dal punto sopra citato, problematico e stimolante, in quanto (o proprio perché) è al tempo stesso materico, anomalo e contraddittorio. La biforcazione concettuale si evidenzia tra critica della Ragione (e relativo orientamento idealistico), accanto a richiami metafisici o ontologici. Tendono tuttavia a prevalere tensioni alla matericità e alla preesistenza della cosa-in-sé (dunque non frutto di pensiero o volontà), concreta o no e a meno che non si tratti di una realtà fondata da una azione creativa/inventiva; accenti rafforzati da locuzioni quali “Ci sono momenti…”, che rientrano più in impostazioni fenomenologiche.

tempo di libri donatella bisutti e giorgio

Fiera del Libro Milano 20 aprile 2017 Presentazione Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo

Tre questioni

Il confronto con tale impostazione è per me interessante per varie ragioni, relative alla mia visione di idee (sintetizzo) materialistica e fenomenologica. Una visione che, come già evidenziato in precedenti scambi con Linguaglossa sul Sito-Rivista “L’Ombra delle parole”, ha punti decisivi di condivisione che credo siano tra le motivazioni, sia del mio inserimento nell’Antologia, sia del mio coinvolgimento nella sua presentazione a Milano del 20 aprile scorso, nell’ambito della Prima Fiera milanese del libro.

A tale proposito, richiamando alcuni dei 27 Autori inseriti, Linguaglossa afferma che, pur nella loro diversità, hanno “consapevolezza della frammentazione dei linguaggi e della dis-locazione del soggetto poetante. Essi sanno, o intuiscono, che non sarà più possibile ripristinare le fratture che l’epoca del Moderno ha inferto alle categorie un tempo ritenute stabili quali il soggetto, i linguaggi e il reale.”

 L’analisi linguaglossiana coinvolge dunque tre questioni, intrecciate e anche per me fondanti, come è noto a coloro che hanno avuto interesse e occasione di leggere i miei saggi di analisi, sia testuale che di ricerca teorico-pratica – anche attraverso le molte iniziative di Milanocosa: 

  • Il soggetto e la sua identità
  • Il Tempo
  • La Realtà

Ognuna di tali Cose è mobile, metamorfica e molteplice. Ognuna di esse, senza le altre, cadrebbe nel nulla e tutte e tre diventano Cosa attraverso i linguaggi di cui siamo costituiti. Un nulla che non rientra in impostazioni ontologiche, o nel pensiero dell’essere “quando non è” (Severino). Per me il nulla corrisponde alla percezione della non-vita o all’impossibilità/incapacità della mente di elaborare un senso, un evento, un dato, relativi a una entità soggettiva singola o collettiva. Tale nulla riguarda, dunque, sia l’operatore sia il dato/entità operato. Anche se quest’ultimo esiste in sé, per un operatore esiste e diventa reale, solo in quanto   è capace di collocarlo in un processo relazionale e quindi di attribuirgli un senso. Senza di ciò l’oggetto rimane non-vita (per il soggetto) e lo stesso operatore precipita nel nulla di senso e di realtà rispetto alla cosa in-sé, che diventa cosa, reale, solo se diventa parte dell’universo mentale.

Un processo che può avvenire solo attraverso i linguaggi di cui gli esseri umani dispongono. E sono proprio questi linguaggi – che i linguisti tendono a ridurre ad unum, cioè a quello algoritmico fatto di segni-parola, dimenticando tutti gli altri, dei sensi, altrettanto fondamentali per rendere reale in noi questa o quella cosa – struttura di un soggetto e della sua identità. Mente e linguaggi sono quindi funzioni e software corrispondenti a l’hardware di tutto il soma e non del (solo) cervello. Funzioni di quel “cervello bagnato” di cui parla Rita Levi Montalcini, comprensivo di tutti i fasci nervosi e sensoriali, senza i quali il cervello e la mente rimarrebbero sconnessi e incapaci di dire/fare alcunché rispetto al reale.

Non a caso, il primo atto pubblico con cui ho avviato nel 2000 Milanocosa è stato il Convegno (con scrittori, poeti, artisti visivi, filosofi, giuristi, musicisti, psicoanalisti ecc) intitolato “Scritture/Realtà” (Atti, Milanocosa, Milano, 2003), nel corso del quale quanto sopra sintetizzato è stato analizzato da molteplici approcci e linguaggi, proprio in coerenza con tale punto di partenza.

Il mio intervento a tale convegno – dal titolo: “Quale tempo: tempo fermo, tempo reale e tempo mentale”, anche in Parte introduttiva, op. cit. – entrava nell’intreccio tra identità soggettiva ed elaborazione dell’oggetto spazio-tempo, nel processo interminabile di conoscenza della realtà. Con quell’analisi coinvolgevo anche la teoria dell’Autopoiesi dell’identità soggettiva, (dalle ricerche in campo biologico e neurofisiologico di Francisco Varela e Maturana), “fondata su più livelli via via più complessi: immunitario, psico-motorio e socio-linguistico. Ognuno di questi livelli si definisce solo nell’interazione con l’ambiente”. Per cui “Ripetere che ogni identità è determinata dall’Altro, che è quindi (anche) l’altro, può apparire persino banale”. Sono esempi di approcci interdisciplinari, che già nell’antichità hanno fatto intuire quell’unità mobile (poi divisa dai platonismus perennis in tanti doppi, corpo e anima, fisico e spirito ecc) di ogni identità soggettiva.

Diventa perciò “centrale la concezione del soggetto, o del rapporto tra unità e totalità. A tale proposito il modello che ho trovato più corrispondente all’Adiacenza è quello quantistico”, con cui “venne fra l’altro confermata, sin dal livello di particelle subatomiche, l’intuizione di Epicuro di 2.300 anni prima, sulla capacità di movimento spontaneo (clinamen) di ogni corpo (infimo, singolo o collettivo), il quale non ha un’energia data, ma la esalta o la deprime in relazione ai rapporti che sviluppa o meno con altro/i”.

Tutto dunque nasce dalla relazione, che si fa musica, immagine e parola, che si fa pensiero, cosa e mondo. Come ogni forma di vita, anche ogni campo espressivo o di ricerca esclude perciò “sia la totale autonomia che la completa dipendenza”. Ma è da tale possibilità di esaltare o deprimere la (propria) energia, che questa si fa autopoietica e reale, fonda la realtà. Per questo, il punto di partenza condiviso con Linguaglossa, implica, per me, che anche per la poesia l’altro extraletterario arricchisce la realtà e il valore estetico. Per il quale, senza cadere in impegni d’antan, non bastano solo analisi tecniche e formalistiche.

Laboratorio 24 maggio 17

Laboratorio di poesia 24 maggio 2017, Steven Grieco, Antonio Sagredo, Sabino Caronia

Il tempo mentale

“Dunque, senza l’attenzione all’Uno il Tutto ci sfugge, perché la pluralità dell’Uno non è che una forma della pluralità del Tutto; e l’uno molteplice implica la pluralità di senso di ogni termine, come ad esempio quello di realtà e di quelli, a quest’ultimo intrecciati, di spazio e di tempo. Entro la complessità delle varie galassie che costituiscono l’universo mentale dell’identità soggettiva, la categoria tempo è infatti percepita ed elaborata in modi completamente diversi.”

“C’è la galassia (riferibile alle modalità operative dell’Es) in cui il tempo è percepito come un immobile  lago nero…che richiama l’ossimorico oscuro chiarore di Corneille. È insomma il luogo dell’ombra che consente alla luce di essere luce. Non è solo l’inconscio, ma è il nostro accumulo di affettività e di memorie. È anche il luogo dove la soggettività sfuma in quella collettiva, nel patrimonio comune di immagini – archetipiche e no. Più che un tempo perduto è, a mio avviso, un tempo fermo” o “ruotante su di sé: sempre presente e sempre passato. Nella pluralità intra-soggettiva è l’Altro già dentro di noi, disinteressato a ogni norma morale, ma del senso del limite, quindi della necessità etica, è fonte profonda; è il referente mentale sia della nostra corporalità, materiale e immaginale insieme, sia della indefinibilità e irraggiungibilità della poesia, dell’amore e dell’odio, del sesso, dell’insieme, infine, della Cosa che è la vita nella sua totalità.”

“C’è poi la galassia (riferibile all’Io), che agisce nel presente ed elabora invece il tempo come astratta sequenza lineare: è il luogo mentale per eccellenza dell’ossimoro realtà virtuale. Ossimoro che trova dunque dentro l’universo mentale l’incrocio di un bel paradosso: l’area dominata dal passato (assente) tende a operare con modalità più materiali e reali di quella prevalentemente interessata alla realtà del presente.”

  “La quantità di stimolazioni audio-visive del mondo contemporaneo tende in sostanza a una sorta di ingorgo sensitivo mai risolto, perché non attraversa la totalità dei tempi mentali… rimane somma di meteore virtuali, che anziché aiutarci riducono la nostra capacità di vedere, e producono facilmente stati passivi di meraviglia angosciata, se non di depressione.”

Con modalità tendenti ugualmente alla temporalità lineare opera, infine, la galassia (riferibile al Superìo) volta a proiettarsi e a progettare il futuro, che ci aiuta a capire (anche) che non possiamo beatamente naufragare nel visionario, nell’onirico, in fascinose sonorità di effetti-eco, se queste fonti di piacere fruitivo di un qualunque sistema di segni non ci trasmettono una visione di idee – oltre sia il candore ingenuo di una funzione salvifica e consolatoria dell’arte, sia della sua funzione catartica – capace di rafforzare una interazione adiacente che aiuti a farci sentire meno separati e alienati.

Sul punto, vedi anche: https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/09/07/adam-vaccaro-quale-tempo-tempo-fermo-tempo-reale-tempo-mentale-quale-poesia-linterazione-con-laltro-da-se-la-questione-del-so

Laboratorio 24 maggio Roma

Laboratorio di poesia 24 maggio 2017, Roma Libreria L’Altracittà via Pavia, 106

 Quali forme

 Non possiamo perciò alonare di ridicolo una Cosa che tenda alla forma di poesia, immaginando di salvare la vita (propria o di altri) con essa, ma è inevitabile che “l’area mentale del Superìo tenda a costruire un atto critico verso l’orizzonte sociale, se è vero che ‘L’orizzonte sociale è connaturato all’atto critico’ (Francesco Leonetti)”. Il che non vuol dire inventare forme di “‘politicizzazione dell’arte’”, contrapposte alla “estetizzazione della politica” (Benjamin), vuol dire porre il problema del vuoto di “progettazione alternativa”; da cui forse nasce un eccesso di tensione verso l’innovazione (solo) tecnico-formale.

“Ammal(i)arsi di nuovo può portare a stare sulla coda dell’esistente convinti di inventare, come la famosa mosca, mille movimenti di opposizione. Si finisce per immaginare che il mezzo – sia esso la penna, il computer o il linguaggio nel suo insieme – possa essere fonte magica, mezzo che diventa generatore autonomo. Come ho già detto altrove, la lingua che parla da sola è un mito visionario lacaniano, di una lingua-soggetto che non esiste. La mia ricerca è perciò fuori da ogni fuoco chiuso nell’esercizio linguistico, in autoappagati jeu de mots iperletterari, con correlativa ideologia del testo per la quale “il testo è tutto”.

Il testo è parte (della vita) che, come ogni altra cosa, non basta a se stesso. È una linea anomala e minoritaria, dantesca, rispetto a forme più consone a petrarchismi o a impostazioni ontologiche astratte, spiritualismi di qualunque tipo o separatezze insormontabili tra arte e vita.

Per me Poesia, non ha a che fare con l’Essere, che agnosticamente non conosco, ma con gli esseri che vivono o sono vissuti dando sangue, emozioni e pensieri al flusso incessante della vita. Per me il fare del poièin è qualcosa di materico e fortemente innervato nell’esperienza dolorosa-gioiosa che ognuno fa nel corso della sua esistenza. Anche la poesia non è niente di diverso da ogni processo di metamorfosi che prende e restituisce qualcosa del processo vitale. Riproporre dunque la questione del soggetto, entro una identità soggettiva stratificata, proteiforme, autopoietica e mai conclusa nella sua incessante interazione col Resto, implica superare l’incrocio Jakobson-Lacan tra Semiotica e Psicoanalisi, utilizzando col senso di galassie mentali la individuazione freudiana di tre fondamentali ambiti/spazi costituenti l’identità soggettiva. 

L’intreccio tra queste diverse modalità operative produce perciò una cosa che chiamiamo (anche) realtà (ma stesso discorso può valere per bellezza, verità, ecc.): spazio mentale fatto di tempo unitario – cioè di una percezione con-fusa e fraterna (adiacente) di passato, presente e futuro. Non può che essere una contemporaneità effimera, fatta di serie di punti di sutura del processo autopoietico, momenti di orgasmo mentale e di una casa del tempo, di spazio fatto di tempo, quale immagine mobile dell’eternità (Platone).

Il piacere del testo (di scrittura e di lettura) sta in questa esperienza di recupero di tempo mentale, quale combinazione tra tempo fermo/circolare (area dell’Es) e tempo lineare (aree dell’Io e del Superìo). Da tale combinazione non ne viene forse una forma di elicoide, quale quella delle colonne del Bernini o del DNA, quale insomma quella citata da Gio Ferri, nella sua ricerca della cosa biologica alla base o al cuore della ragione poetica? (Gio Ferri, La ragione poetica, Milano 1994).

La realtà  – e in particolare la realtà creativa o poetica – è perciò frutto di un’operatività dell’identità soggettiva, che è se costruisce adiacenza tra le varie aree dell’universo mentale. Piacere del testo e comunicazione, purché intesa come mettere in comune (Antonio Porta), sono i ponti possibili di dinamica autopoietica, senza i quali l’energia poetica si deprime e cade in una di quelle fasi di cui parla Linguaglossa all’inizio della sua Prefazione. Le dinamiche di intreccio adiacente tra le varie aree mentali non sono perciò analisi fini a se stesse, ma anche l’ante-rem, o la condizione intra-soggettiva e pre-testuale più adeguata alla costruzione di un testo che voglia tendere al massimo di comunicazione inter-soggettiva, a essere in re, luogo che esalta creatività e intreccio tra estetica e ricchezza di funzione antropologica e socioculturale, tale se vissuto da una comunità e non solo esercizio intimistico. 

Postulato ancora più rilevante in una fase di cambiamenti epocali che tendono a distruggere e a far cadere nel nulla la percezione di una comunità solidale, avvertita e persino decantata (come ad esempio dalla Thatcher) solo come somma di soggetti singoli chiusi nell’individualismo imperante.

Fiera del Libro Milano 20 apèrile 2017

Fiera del Libro Milano 20 aprile, 2017, Lucio Mayoor Tosi legge le poesie

I mondi che siamo

 Sono considerazioni che ho ritrovato in termini calzanti nell’ultimo libro della saggista multidisciplinare Eleonora Fiorani, che nel suo ultimo libro “I mondi che siamo – Nel tempo delle ritornanze” (Lupetti, Milano, 2017), dice: “Viviamo in un’epoca in cui si susseguono profonde metamorfosi e…contraddittorie trasformazioni del mondo che…credevamo di conoscere“. “Diversi sono perciò i modi di vivere il trapasso epocale della seconda modernità a una nuova epoca che non ha ancora trovato una definizione dopo quella di postmoderno di Lyotard…perché ogni nuova concezione della storia implica una visione del tempo”. Aggiunge Fiorani: “nell’intreccio dell’’adesso e del già stato’ – la definizione è di Didi-Huberman – oggetti, avvenimenti, modi d’essere, sensibilità estetiche si inabissano e scompaiono e poi ritornano”, cambiando “il loro uso, valore… statuto antropologico”, insieme al “nostro sguardo”.

Una visione del tempo…mette in campo non solo…presente-passato e futuro, ma i molti e diversi tempi che convivono e anche si intrecciano  o si oppongono in uno spazio dilatato all’intero globo”. “È…un aspetto che ci ha lasciato il Novecento nei modi in cui…ha posto come centrale la questione del tempo, della memoria e della storia, facendo emergere la sua complessità tra “presente attivo…passato reminiscente, sul tempo delle ritornanze…sulle fratture, sui processi inconsci che li accompagnano”. “Già Nietzsche, da cui è partita l’analisi della crisi dei valori nella cultura occidentale, con l’eterno ritorno aveva messo in discussione il tempo cronologico…ed era ritornato sulla circolarità del tempo e sulla ripetizione della cultura. E lo ha fatto ponendo anche il passaggio dall’ontologia all’estetica”. Con “Un nesso stretto” che “collega…Nietzsche e il disagio della civiltà di Freud. Tutto ciò ha posto implicitamente la necessità di un rinnovamento delle metodologie” di analisi “del testo visivo e della critica estetica” con i contributi di Bataille, di Leiris, di Einstein…e ora da Didi-Huberman…del potere delle immagini… intrecciando diversi ambiti disciplinari…antropologia, archeologia, estetica, filosofia perché “’in ogni oggetto storico tutti i tempi si incontrano, entrano in collisione, oppure si fondono plasticamente, si biforcano o si combinano gli uni agli altri’”. Talché “‘futuro passato’ è definizione e oggetto di analisi di Koselleck (1986) della presenza nel presente…del passato e del futuro”.

Questo fa “interrogare il corpo di carne e dei sensi e i suoi nessi con i territori e i luoghi in cui…si iscrive l’abitare”. Dunque “accanto ai concetti” il “potere delle forme e delle immagini di inabissarsi e poi riapparire sotto altra forma”, l’azione de l’”inconscio visivo”, genera “la più profonda o ampia comunione dei contemporanei, aprendo il campo al massimo di senso” attraverso “opere multimediali, di video arte, di narrazioni che intrecciano immagini, suoni, simboli, di nuovi e vecchi media…il linguaggio che tutto parla”.

È l’apertura interdisciplinare di Eleonora Fiorani la fonte di una tensione espressiva e di ricerca – anche per me fondativa – di un fare cultura, arte o poesia che non si rassegnano a ruoli ancillari, ornamentali o parnassiani, per cercare di essere strumento di ricostruzione di senso e pensiero forti, quanto più viviamo una fase epocale che li distrugge e tende a farli cadere nel nulla.

Fiorani ripropone sempre – con tutti i suoi libri e anche con questo – la necessità di rielaborare in questa epoca di decadenza una cornice proposizionale, metodologica  e visionale-concettuale, quanto più viviamo in un contesto che ci fa fare l’esperienza opposta, di una disgregazione e frammentazione socioculturale arresa alla perdita di senso, per me il fondamento del nulla. Ma anche il nulla non ha un significato univoco, può avere tanti livelli e declinazioni, con sapori magici o terrificanti e tragici, con momenti che possono essere connessi a esperienze e momenti sia d’amore che di violenze. Esperienze di attimi d’infinito (Platone) in cui possiamo annientarci o rinascere con moti di Araba Fenice. Dipende da noi – sempre ovviamente nello spazio possibile, tra depressioni e deliri di onnipotenza, di né totale dipendenza, né totale autonomia.

Fiera del Libro Milano, 20 aprile, 2017 Stand di Progetto Cultura

Fiera del Libro Milano, 20 aprile, 2017 Stand di Progetto Cultura

Conclusioni aperte

Sia il mio percorso di ricerca intorno al concetto di Adiacenza, sia le formulazioni interdisciplinari di Eleonora Fiorani hanno in comune il bisogno di ripensare il proprio fare culturale in relazione all’epoca storica che viviamo. Ed è la stessa tensione che trasmettono le proposizioni critiche di Linguaglossa, che, seppure già note, sono dis-piegate e strutturate in forma più organica  e – come ho detto, quasi di manifesto – in questa Antologia. 

Sono posizioni anomali rispetto alle tendenze prevalenti, in cui prevale una sorta di catatonìa sonnolenta e passiva (che non è solo della poesia), denunciata nelle formulazioni iniziali della Prefazione. Lo sviluppo delle argomentazioni successive, che abbiamo ripreso in alcuni nodi e passaggi essenziali, conduce a punti di arrivo che cercano anch’essi moti di risalita dallo stato delle cose.

Ogni termine o oggetto viene alla fine indagato in cerca di una apertura e moltiplicazione di sensi: “così c’è un nichilismo inconseguente e acritico che presta fede alla parvenza di un soggetto che si è eclissato, e c’è un nichilismo forte, che Roberto Bertoldo chiama ‘nullismo’, di chi ritiene che siano ancora possibili le narrazioni autentiche…Il logos di chi accetta e prende in consegna la disseminazione dei linguaggi…è il logos forte che segna una risalita dal profondo della scomparsa delle fondamenta sgretolatesi”. Possiamo aggiungere che anche il frammento non implica un senso univoco: c’è il frammento insignificante di un coccio di bottiglia, e c’è il frammento di cristallo o di diamante che apre a mille sensi e riflessi.

Se il destino del frammento tende a cadere nell’abisso della perdita del senso, la creatività poetica degna di questo nome è la sua vendetta, utilizzando e rovesciando anzi quest’ultimo, per farne il piede del Tutto. Senza la tensione ad esso, non c’è possibilità di ricostruire un senso, non il Senso ma un senso, che non è mai dato una volta per tutte, da rifare con il letto ogni mattina. Illusoriamente o meno, non ha importanza, ma senza quel gesto tutto quel che siamo non riuscirà ad alzarsi e a procedere. Il poièin sta qui e anche Linguaglossa lo dice e lo fa. Gli oggetti non attivano da soli quella interazione complessa che chiamiamo esperienza. E la Cosa si accende se condivisa in relazioni con l’Altro, e quanto più viene coinvolto il livello inconscio, talchéi l’oggetto poetico rimane progetto ignoto anche per chi lo costruisce.  

Per questo, “La forza della nuova poesia italiana sta proprio qui, in questo punto, nel prendere in consegna il testimone di una eredità infranta per ricostruire la forma artistica e riposizionarla”. È la sfida e il merito di questa proposta antologica.

9 maggio 2017

Da Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo

Renato Minore

La piuma e la biglia

1)

C’erano quattro biglie colorate pronte a partire,
ma lo sparo fu rinviato
da sempre. Da sempre le biglie
formavano un quadrato
immaginario e al centro
c’era l’invisibile punto
di convergenza di tutti
i loro colori.

La pista allungata, infinita,
era una distesa
di acqua o di sabbia,
ma senza acqua né sabbia.

2)

Rossa la prima e potevi
aver voglia di spaccarla
per trovare i semi
come dentro la melograna.
Verde la seconda come
quando saltella la capra
sopra i prati e i prati
hanno il luccichìo
della pioggia appena velata.
Bianca era la terza
ed era neve, neve
coagulata o neve sparsa
o cielo torbido che vela
le forme perché cancella
luce e ombra.
Nera la quarta ed era
specchio quasi opaco, l’immagine
riflessa era dietro
la superficie, non dentro,
come se il vuoto fosse
pieno di quel vuoto
nero nerissimo.

3)

Immobili le biglie attendevano
che dall’una venisse
la mossa per la prima partita.
Ma il silenzio
non faceva scandalo, era
il colore naturale,
rosso o verde bianco nero
come le biglie che non partivano.

Ubaldo de Robertis

Il dipinto e la realtà
Deluso dalle imitazioni, belle figure, luoghi ordinari,
forme, colori per niente naturali, un di fuori che ti assale,
fatto di segni che lo spazio modella con emozione lirica.
Il dipinto è meno di quanto si manifesta nella Natura.
Nessuna cosa è più viva di quel puntino rosso che brilla là,
nell’angolo grigio della stanza, o di quella porta
che potrebbe aprirsi, ad un tratto.
Che ti salta in mente di rivelare certe cose in poesia?
Nel silenzio si sente un tic-tac ordigno ad orologeria.
E’ il cuore.
Stranamente ha tre uscite questa stanza,
una celata dalla specchiera dà verso l’esterno,
il vuoto e lo specchio che ti guardano,
che ti scoprono la faccia, denudano la maschera
se dalla feritoia si infiltra il tenue azzurro cielo.
Che cosa altro pretendi di vedere da una finestra?
Cos’altro vuoi che appaia ancora?
La tragicità della vita si nasconde dietro l’immagine
più misteriosa e lieta. Brilla, qui, in primo piano
l’astro di Thérèse vista di spalle che indossa
la robe rose a strisce verticali argentate e un tablier noir,
lo sguardo in direzione delle case, non degli alberi
che Bazille ritrae in secondo piano.
Dramma della quiete, della serenità.
Sembra essere proprio questa la realtà.
La figura virtuale rimanda all’esistente.
Dove è dunque la poesia?
E’ nel modo con cui si divide lo sguardo
tra lo spazio racchiuso dalla cornice, Thérèse, colori, ombre,
o le cose viste nella coscienza della luce azzurra
che manifesta l’astronomia del cielo in una piccola camera?
Ma non è lì che ti senti testimone, spettatore gettato,
dimenticato
bagliore di un Sole già crudelmente
tramontato?

Alfredo de Palchi
                 a Roberto Bertoldo, alla sua onestà

Di sabato notte
scendi dall’ultimo piano
e controlli chi esce e chi rientra
sostando al piano appena sospetti
che un inquilino aspetta
la tua presenza

sdentato, biascica litanie
al crocifisso alla cabala alla mezzaluna
all’ultimo istante chiede perdono
per aver tradito tutti
e incassato ricchezze rovinando famiglie
e aziende in crisi

così alla domenica
il palazzo dorme di inquilini
reduci da Wall Street,
a mezzo giorno scendono in mutande
e salgono con il giornale per leggervi
gli annunci funerari e varie notizia
mai a corto di brutture

la sola giustizia che ho io
sei tu che lo spacci senza perdono
e senza aspettare una risposta –
te la dò io che nulla mi appartiene:
entra nei palazzi e
liberaci dal male.

20 luglio 2008

Onto Vaccaro

Adam Vaccaro Grafica di Lucio Mayoor Tosi

 Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare (Studio Karon, Novara 2002) e Labirinti e capricci della passione (Milanocosa, Milano 2005) con acrilici di Romolo Calciati. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, Terziaria, Milano 2001.  È stato tradotto in spagnolo e in inglese. Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), Associazione con cui ha curato varie pubblicazioni, tra cui: Poesia in azione, raccolta dal Bunker Poetico, alla 49a Biennale d’Arte di Venezia 2001, Milanocosa, Milano 2002; Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto, Atti, Milanocosa 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, Milanocosa, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo, Roma, Progetto Cultura, 2016. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.

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LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Mario M. Gabriele: Una poesia testamentum. Inedito. Le parole con le quali è scritto questo rogito testamentario sono fantasmi linguistici, rottami, spezzoni, frammenti che un tempo hanno abitato l’universo mediatico – Il Fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa significata», al declassamento ontologico del Soggetto parlante

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Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Dieci sue composizioni sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016) a cura di Giorgio Linguaglossa. Sempre nel 2016 è stata pubblicata la raccolta di poesia L’erba di Stonehenge (Progetto Cultura). Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

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Mario M. Gabriele

Mario M. Gabriele

Inedito da In viaggio con Godot
(di prossima pubblicazione nelle edizioni Progetto Cultura di Roma)

Il Decalogo è chiaro, il Codice pure.
I convenuti furono chiamati all’appello.
Chiesero perché fossero nel Tempio.
A sinistra del trono c’erano angeli e guardie del corpo.
Solo il Verbo può giudicare.
L’occhio si lega alla terra.
Non ha altro appiglio se non la rosa e la viola.
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
separava la pula dal grano,
chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777.
Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time.
– Quella punta così in alto, che sembra la Torre Eiffel cos’è? -,
chiese un turista.
– È la mano del mondo vicina all’indice di Dio -, rispose un abatino.
Allora, che salvi Barbara Strong,
e il dottor Manson, l’abate De Bernard,
e i morti per acqua e solitudine,
e che non sia più sera e notte finché durano gli anni,
e che ci sia una sola primavera
di verdi boschi e alberi profumati,
come in un trittico di Bosch.
Ecco, ora anch’io vado perché suona il campanaccio.

Ci furono mostre di calici sugli altari,
libri di Padre Armeno e di Soledad,
e un concerto di Rostropovic.
Usciti all’aperto prendemmo motorways. .
Nella terra di miti, dove ci si scorda di nascere e di morire
c’erano cartelloni pubblicitari e blubell.
A San Marco di Castellabate
la stagione dei concerti era appena cominciata.
Il palco all’aperto aspettava il quintetto Gospel.
Si erano perse le tracce del sassofonista del Middle West.
Il primo showman raccontò la fuga d’amore di Greta con Stokowski.
Le passioni minime vennero con gli umori di Medea,
di fronte alle arti visive di Cornelis Esher.
Un relatore rimandò ad una nuova lettura
I Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez.
Quest’anno il postino non suonerà più di tre volte.

Et c’est la nuit, Madame, la Nuit!. Je le jure, sans ironie.

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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa.
Il declassamento ontologico del «Soggetto parlante»

  L’io è letteralmente un
oggetto – un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria

J. Lacan – seminario XI 

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.

J. Lacan – seminario XI

L’idea del «Soggetto parlante» è qualcosa che è in viaggio, qualcosa di inscindibile dal linguaggio, anch’esso sempre in viaggio nell’accezione mutuata dalla linguistica e in particolare da de Saussure, di un soggetto nel linguaggio, ovvero di quel soggetto colto nella sua inferenza con il significante in quanto condizione causativa del Soggetto. Questa premessa, se ricondotta nel campo psicoanalitico, implica che non vi sia ambito del desiderio, e che dunque non si possa dare propriamente parlando alcun  fenomeno dell’esistenza, se non all’interno di una dimensione che potremmo definire con Lacan «originariamente linguistica», determinata cioè dall’«Altro» come luogo della parola fondata così sulla totalità dell’ordine simbolico in quanto ordine causativo del Soggetto.

Il frasario:

«Solo il Verbo può giudicare»

indica sardonicamente il tema della poesia e della intera raccolta di Mario Gabriele, il dogma implicito del «Verbo» unico depositario del «giudizio». L’autore capovolge sardonicamente questo assunto dogmatico sul quale si è retto il potere dell’Occidente con il semplice indicare a dito il «Verbo», il vero falsario della storia degli uomini. Il soggetto quindi parla metonimicamente in quanto pronuncia una ordalia, scopre la nudità del «re», di che stoffa è fatta la sua menzogna.

Ormai non c’è più da aspettare Godot, siamo già da un pezzo in viaggio con Godot, solo che non ce ne siamo accorti; o meglio, le belle anime della poesia non ne hanno voluto prendere atto. Ormai il «Verbo» è un involucro vuoto, un significante con dentro il vuoto.

Il linguaggio, ci dice Agamben, deve necessariamente presupporre se stesso. Il linguaggio, ci dice Mario Gabriele, è fatto con la stoffa di un altro linguaggio, è linguaggio di linguaggi, frantumi di linguaggi rottamati. Non c’è meta linguaggio se non nel linguaggio. Non c’è linguaggio che non sia metalinguaggio sembra dirci Gabriele.

Gif lichtenstein peace through chemistry.jpgIl Parlante è il Soggetto declassato

il quale tiene in piedi le fila del proprio discorso rispetto all’indicibilità come condizione assoluta  della dicibilità. Non si dà indicibilità senza dicibilità. Essa dà, per così dire, figura alla «Cosa significata», le dà una struttura narrativa, una scena in cui possa apparire come oggetto perduto. Perché è il Soggetto ad essere perduto per sempre, che si è smarrito nella selva oscura della linguisticità della civiltà mediatica.

Il linguaggio del fantasma di Mario Gabriele rappresenta la finzione che dischiude la verità del soggetto come mancanza, vuoto, abisso, finzione attraverso cui si articola quell’al di là del desiderio – desiderio di nulla e nulla del desiderio al contempo – che Lacan designa, sulla scorta della nozione freudiana di istinto di morte, come «godimento», la beanza irraggiungibile della identificazione tra la parola e la cosa.

Mario Gabriele presta moltissima cura alla messa in scena del testamentum.

Una sorta di testamento. Come in un testamento che si rispetti c’è di tutto, c’è tutto l’essenziale: i beni immobili e quelli mobili, i beni materiali e quelli immateriali, il tutto riunito in una sola composizione. Un Aleph. Che brilla di luce sinistra, spettrale. Fermo restando che una poesia così è simile ad un rinvenimento di un cratere istoriato di epoca ellenistica o più antico ancora, e il critico deve vestire i panni dell’archeologo per riportare in vita una parvenza di ciò che tutti quei frammenti richiamano alla memoria. Più che lavoro di restauro (e non solo) qui occorre un lavoro di ricostruzione di tutti quei frammenti sparsi e disarticolati che un giorno lontano significavano qualcosa…

Le parole con le quali è scritto questo rogito testamentario sono quei «fantasmi» che un tempo hanno abitato l’universo linguistico mediatico e il nostro immaginario e che, in quanto tali, prendono possesso della pagina bianca.

«Il linguaggio del fantasma»

Nel «linguaggio del fantasma» noi vediamo allestita la messa in scena del venir meno del soggetto-autore di fronte al mancare della «significazione», quella sorta di estrema quanto inconscia riparazione simbolico-immaginaria a un cedimento strutturale avvenuto a livello ontologico, cedimento da cui proviene ciò che Lacan chiama, nel suo significato più generale, il «soggetto parlante». Il fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa significata» come fondamento dell’esserci del soggetto, ma anche un «venire in presenza» di qualcosa che dimorava nel regno delle ombre dell’inconscio. Ciò che qui importa è proprio  l’aspetto scenico, il luogo retorico in cui il soggetto si ritrova come osservatore e autore (assente), regista e attore (assente) al contempo di quello che può a tutti gli effetti essere definita la  narrazione della sua mancanza. Il «fantasma» è infatti, in ultima istanza, una frase. A livello linguistico, simbolico, si presenta come una proposizione; a livello immaginario, si presenta come una scena. Il «linguaggio del fantasma» è legato a una dimensione liminale, una sorta di sipario chiuso oltre il quale resta velato quel nulla dell’infondantezza del soggetto, quel vuoto di significanti in cui si manifesta  l’abisso del metalinguaggio di Gabriele.

Siamo qui davanti ad una esemplificazione tra le più brillanti della poesia contemporanea che abbiamo definita «Nuova poesia ontologica», indicando questo tipo di poesia come appartenente alla «Nuova ontologia estetica» che stiamo investigando da qualche tempo su questa rivista.

L’inconscio del fantasma linguistico di Gabriele si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, citazioni, frammenti; il suo manifestarsi consente di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi. Tuttavia è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote il soggetto, o sarebbe forse meglio dire lo coglie a tergo nel suo discorso cosciente, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di superficiale ma lo concerne e lo coinvolge nel suo stesso, nel suo più radicale essere.

L’inconscio del fantasma linguistico di questa poesia è un inter-detto, esso non ha nulla della oscurità, dell’abissale o di una qualsiasi sorta di magma pulsionale. L’inconscio pensa cose e le pensa linguisticamente agghindate.

gif-xmas2011_keith-bates_peace_through_christmas_treeIl disorientamento

Ho scritto in altra occasione riferendomi ad alcune eccezioni sollevate da Claudio Borghi:

«comprendo molto bene il tuo «disorientamento» dinanzi alla nostra ricerca di una nuova ontologia estetica, io è dall’inizio degli anni Novanta del Novecento che tento di indagare la crisi della forma-interna della poesia, l’ho fatto con la rivista “Poiesis” che avevo fondato nel 1993 e tenuta in vita fino al 2005. Complessivamente ne sono usciti 34 numeri. Ma è accaduto che in questi ultimi 29 anni la crisi delle forme estetiche (e non solo) si è andata aggravando, la crisi ha impresso una accelerazione forsennata al crollo delle forme estetiche tradizionali, non è affatto colpa mia e dei miei compagni di strada se la crisi si è abbattuta come un maglio sulle forme estetiche che abbiamo conosciuto in poesia. Così, è avvenuto che quell’endecasillabo della tradizione che va da Bertolucci de La camera da letto al Bacchini degli ultimi libri, ormai non ha nulla da offrirci, è una forma estetica del passato e noi non possiamo restare fermi a dirci come erano belli i tempi nei quali scrivevamo e vivevamo come Attilio Bertolucci e Bacchini, con tutto il rispetto per quelle forme poetiche e la loro poesia.

Del resto, oggi, non vedo in giro in Italia ricerche alternative a questa che abbiamo messo in campo. Tenterò di spiegarmi. La «nuova ontologia estetica» è nata da una presa d’atto della crisi irreversibile della forma-poesia che abbiamo conosciuto nel secondo Novecento e in questi ultimi anni del nuovo secolo, è una risposta che è partita dai «fondamenti» della scrittura poetica, e, in particolare, da un nuovo concetto dei due elementi fondanti la forma-poesia: la «parola» e il «metro», entrambi visti non più come «contenitori» di grandezza fissa ma come entità a grandezza variabile; sia la «parola»che il «metro» sono entità elastiche, mutanti, noi percepiamo queste unità come enti dotati di tempo e di spazio «interni», non solo «esterni» come intendeva la poesia tradizionalmente novecentesca ed epigonica.

Che cosa voglio dire? Che spetta a ciascun poeta offrire una propria soluzione a questa crisi della forma-poesia e interpretazione a questi nuovi modi di intendere sia la «parola» che il «metro», e si tratta di quello che abbiamo denominato «tempo interno», che non è da intendere come un tempo interno fisso valido per tutti ma come una temporalità interna all’oggetto e al soggetto e una spazialità interna al soggetto e all’oggetto, per dire così.

Non era Tynianov che 100 anni fa ha scritto che «si può scrivere poesia anche senza una unità metrica»?

Cito a memoria. se noi accettiamo questo assioma possiamo concludere che oggi si può parlare non più di unità metrica ma di «unità metriche», ciascun poeta ha il diritto di sperimentare nuove e diverse «unità metriche», non dobbiamo farci intimidire da coloro i quali stigmatizzano che la nostra non è poesia ma prosa travestita da poesia, questi rilievi li restituiamo volentieri ai mittenti.
È di questi giorni la scoperta scientifica di una nuova forma di esistenza della materia: un «cristallo temporale» che ha una struttura atomica che cambia nel tempo: l’itterbio. Incredibile, vero? la scienza ci viene in aiuto mostrandoci che anche la materia può avere una struttura atomica mutagena. E perché non possiamo pensare allo stesso modo la poesia? Perché non possiamo pensare ad una poesia che è retta non più da una struttura atomica fissa ma da una mutabile nel tempo? (esterno ed interno?)».

Il frammento e la citazione nella poesia di Mario Gabriele rappresentano, in quanto finzione, il limite dell’ordine simbolico, un ordine simbolico che abita la zona anestetizzata dall’esistenza dell’universo mediatico.

Ecco la ragione della assoluta modernità della poesia di Gabriele.

Sul «Frammento»

Riporto un frammento di una mia riflessione già apparso su questa Rivista sulla poesia di Mario Gabriele:

“Mario Gabriele utilizza il «frammento» come una superficie riflettente, un «effetto di superficie», un «talismano magico», una immagine di caleidoscopio, un «cartellone pubblicitario»; impiega il «frammento» e la composizione in «frammenti» come principio guida della composizione poetica; ma non solo, è anche un perlustratore e un mistificatore del mistero superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente proprio della civiltà cibernetico-tecnologica. È una poetica del Vuoto, una poesia del Vuoto. E il Vuoto è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti» fa esplodere. La sua poesia ha l’aspetto di un fuoco d’artificio  che si compie in superficie; si ha l’impressione, leggendola, che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione e della dissimulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione e della dissimulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La poesia diventa un gelido e algebrico gioco di simulacri, di simulazioni e di dissimulazioni, una scherma di sottilissime simulazioni, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo utilizzati come se fossero del quaternario. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket dell’Amministrazione globale, ed è legata da analogia e da asimmetria al telemarket, danza apotropaica di scheletri semantici viventi…

Ricevo da Ubaldo de Robertis questa citazione di Osip Mandel’stam sulla poesia. Credo che si attagli perfettamente alla poesia di Mario Gabriele e alla nostra sensibilità:

“Non chiedete alla poesia troppa concretezza, oggettività, materialità. Questa pretesa è ancora e sempre la fame rivoluzionaria: il dubbio di Tommaso. Perché voler toccare col dito? E soprattutto, perché identificare la parola con la cosa, con l’erba, con l’oggetto che indica? La cosa è forse padrona della parola? La parola è psiche. La parola viva non definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato. […] I versi vivono di un’immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta. Non c’è ancora una sola parola, eppure i versi risuonano già. È l’immagine interiore che risuona, e l’udito del poeta la palpa.

(Osip Mandel’stam, in La parola e la cultura).

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Il treno del tempo: successione, salto in avanti, salto all’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/23/la-nuova-ontologia-estetica-mario-m-gabriele-una-poesia-testamentum-inedito-le-parole-con-le-quali-e-scritto-questo-rogito-testamentario-sono-fantasmi-linguistici-rottami-spezzoni-frammenti-che/comment-page-1/#comment-18242

Torniamo alla lettura della poesia. Precisamente a questi versi della poesia di Mario Gabriele:

Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
separava la pula dal grano,
chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777.
Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time.

In questo testo poetico la profondità del tempo è diventata profondità dello spazio. Il treno del tempo: successione, salto in avanti, salto all’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità etc., è diventato il treno dello spazio. Il lettore nell’atto della lettura è costretto a cambiare continuamente il suo registro temporale, con l’effetto che il tempo diventa, magicamente, spazio. Il tempo si è spazializzato, ha assunto profondità spaziali. E lo spazio si è temporalizzato.

L’esperienza umana del Soggetto è scomparsa, è uscita fuori dell’orizzonte degli eventi della poesia. La poesia di Gabriele si è liberata del pesante fardello di un orizzonte di lettura unilineare e unitemporale, qui si aprono diversissime direzioni temporali che diventano direzioni spaziali. La spazializzazione del tempo è una delle caratteristiche precipue di questo tipo di poesia che io ho indicato con la denominazione di Nuova Ontologia Estetica perché i suoi assunti sono, in guise diverse da ogni autore, adottati da vari poeti che seguono questa nuova ontologia ciascuno con modalità stilistiche proprie. Così, il tempo diventa visibile attraverso lo spazio. Accostare tessere diversissime in un insieme, in un mosaico, diventa un puzzle, un Enigma che può anche non essere interpretato perché è prioritario per l’Enigma essere vissuto. Per sua essenza, l’Enigma rifugge da atti di padronanza categoriale, e rifugge da letture unidirezionali. Il «tempo interno» è nient’altro che questo processo che interviene tra l’autore e il lettore, ma è anche una caratteristica di ogni singola «tessera» o «immagine»; in fin dei conti, ogni «immagine» è analoga all’altra, c’è nell’orizzonte degli eventi del mondo e non ha bisogno di essere spiegata ma è un darsi e un moltiplicarsi di superfici riflettenti nelle quali l’uomo contemporaneo può riflettere la sua Assenza, la sua mancanza ad essere. Una problematica di carattere squisitamente esistenzialistica..

Il tempo può essere percepito ed esperito soltanto come una delle dimensioni dello spazio, ed esso spazio è la modalità con la quale l’esistenza è stata vissuta ed esperita. Dunque, l’esistenza è dentro lo spazio e dentro il tempo come una serie di scatole cinesi.

Qui siamo davanti ad un «tempo interno» che è diversissimo dalla visione retrospettiva e memoriale di un Proust, ma più simile a ciò che nel romanzo hanno fatto narratori come Salman Rushdie con i suoi romanzi Versetti satanici (1988) e Midnight’s children (1981) e Orhan Pamuk con Il mio nome è rosso (2000) e Il museo dell’innocenza (2008). L’utilizzazione dei frammenti nel romanzo moderno è una procedura assodata da tempo, in poesia l’accademismo e la tradizionalizzazione delle forme estetiche ad opera di letterati conservatori, in poesia dicevo questa nuova forma di pensare la scrittura letteraria qui in Italia è stata osteggiata e ritardata.

Platone nel Timeo parla del Tempo Cronos come di una «icona in movimento di Aion, come di una «immagine mobile dell’eternità». È singolare che Platone per indicare il «Tempo-Cronos» ricorra alla parola «immagine». Singolare ma significativo in quanto noi possiamo afferrare qualcosa intorno al «tempo» soltanto se ce lo rappresentiamo come una «immagine», cioè attraverso una figurazione spaziale.

Chi sogna ad occhi aperti sa molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto ad occhi chiusi. La poesia di Mario Gabriele è simile ad un sogno ad occhi aperti. Ne L’interpretazione dei sogni Freud ci dice che il sogno «è una messinscena originaria», anteriore alla stessa distinzione tra «soggetto» e «oggetto». Le immagini mobili che fluttuano sulla superficie riflettente degli attimi temporalizzati della poesia di Mario Gabriele sono messe in scena sostitutive di quella originaria, sono la traduzione di concetti temporali in figurazioni spaziali.

Scrive Giacomo Marramao:

«il tempo baudeleriano si è spogliato di tutte le prerogative spaziali. Per il semplice fatto di costituire una dimensione reale dell’esperienza umana, il tempo vissuto non può assolutamente darsi indipendentemente dallo spazio. Ed essendosi in tal modo spazializzato il tempo, tutta l’esperienza vissuta appare come spazializzata. Anzi: identica allo spazio. Lo stesso tempo può rendersi propriamente visibile, essere ‘sinestesicamente’ percepito ed esperito, solo come una delle dimensioni dello spazio, che viene pertanto complessivamente a coincidere con la stessa estensione dell’esistenza […] Questo movimento è esattamente un movimento prospettico “l’atto con cui, per giungere alla profondità, si apre nel campo visivo una strada che lo sguardo percorre”. Si spiega così il significato recondito delle “magiche prospettive” che Baudelaire dispone nelle sue memorabili descrizioni paesaggistiche e che fa corrispondere le sue analisi delle tele di Delacroix alle proiezioni che l’esperienza organizza nei “quadri” del suo vissuto: “evaporazione e centralizzazione (o condensazione) dell’Io: è tutto qui (Oeuvre, II, 642). evaporazione inebriante e condensazione nel ricordo e nel rimpianto rappresentano i confini, i termini estremi, di un movimento del vissuto che tende a coincidere con lo spazio. Un’esistenza spazializzata è un’esistenza evaporata in numero: “Il numero – sottolinea Baudelaire – è una traduzione dello spazio (ivi, 663). E poiché sempre di spazio vissuto si tratta, anche il numero andrà inteso nel senso di numero vissuto. Sta qui la chiave segreta dell’immagine baudeleriana di “ripetizione”: essa prospetta la virtualità di esperire una moltiplicazione dell’esistenza attraverso un’infinita estensione di campo delle sensazioni. La moltiplicazione dell’esistenza divenuta numero dipende così da quella misteriosa facoltà di ripetere il suo salto lungo tutta la superficie dell’essere: di rimbalzare come un’eco lungo la misteriosa curva di uno spazio tempo i cui confini non sono mai tracciati definitivamente. Non per nulla i versi più belli e significativi di baudelaire sono proprio quelli che esprimono il riecheggiamento:

Comme des longs éclos qui de loin se
confondent…
C’est un cri par mille sentinelle…

Non si dà, pertanto, né reale né possibile esperienza del tempo a prescindere dallo spazio. La grande intuizione baudeleriana circa la costruzione di una profondità di campo quale condizione imprescindibile per afferrare-insieme (null’altro se non questo è il significato di “comprendere”) gli eventi che ci accadono sopravanza, in questo senso, la nozione di “tempo vissuto” di Bergson: non più Spazio come morte del tempo, estinzione della sua fluente autenticità nel rigore esclusivo della misurazione cronometrica, ma spazializzazione come conditio sine qua non per poter fare esperienza…
[…]
Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra».1]

*
Il nostro modo di esistenza ha prodotto la moltiplicazione degli istanti, la moltiplicazione delle temporalità, la moltiplicazione delle immagini.
Che cos’è l’immagine? L’immagine è l’istante.
Che cos’è l’istante? Per Parmenide l’istante, o meglio l’istantaneo è: «L’istante. Pare che l’istante significhi (…) ciò da cui qualche cosa muove verso l’una o l’altra delle due condizioni opposte [del Passato e del Futuro]. Non vi è mutamento infatti che si inizi dalla quiete ancora immobile né dal movimento ancora in moto, ma questa natura dell’istante è qualche cosa di assurdo [atopos] che giace fra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo…» (Parm., 156d-e).

La moltiplicazione dell’esistenza tipica della nostra civiltà post-moderna ha prodotto la conseguenza di una moltiplicazione di superfici riflettenti quali sono le immagini nella civiltà telemediatica. Questo processo è esploso in questi ultimi decenni a velocità forsennata ed ha prodotto una profonda modificazione del nostro modo di percepire e recepire il mondo; il mondo si è frantumato in una miriade di spezzoni. Fare un processo al mondo per quanto accaduto non è nelle nostre intenzioni, questo della moltiplicazioni delle superfici riflettenti è un dato di fatto incontrovertibile e noi e Mario Gabriele non altro abbiamo fatto che prenderne atto e fare una poesia di superfici riflettenti. Questo processo epocale fra l’altro ha prodotto una conseguenza anche sull’idea di Soggetto e di Io (idea teologica e filosoficamente destituita di fondamento già da Freud e dal sorgere della psicanalisi). Il Soggetto è scomparso. È diventato un fonatore. Anche l’enunciato è qualcosa di diverso dal Soggetto enunciatore. Il predicato si è scollegato dal Soggetto. Si tratta di questioni che la filosofia del nostro tempo ha chiarito in modo ritengo sufficientemente credibile. Fare oggi una poesia del Soggetto che legifera nella sua sfera di influenza, è, a mio avviso, una ingenuità filosofica ed estetica. La poesia dell’Io è un falso, e una banalità.

Quanto ai concetti di armonia, di eufonia, di musica del verso musicale, di poesia e di anti poesia etc. sono concezioni tolemaiche legate ad una visione tolemaica e ingenua della poesia che ha fatto il suo tempo e verso i quali mi viene da sorridere, anzi, provo addirittura nostalgia per quell’età in cui si scriveva credendo ingenuamente in quelle categorie estetiche. La nuova ontologia estetica di cui qui si parla lascia questi concetti semplicemente come abiti dismessi sulla sedia a dondolo per chi vuole ancora dondolarsi in ozio intellettuale. Pecchiamo di arroganza? Forse. Non lo so. E neanche mi interessa.

G. Marramao Minima temporalia luca sossella ed. 2005 pp. 95 e segg.

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LETIZIA LEONE: NERA NOTIZIA DALLE METEORE – LOGOS DELLA SCIENZA E PAROLA DELLA POESIA: UNA RISCRITTURA DAL PRIMO LIBRO DEL DE RERUM NATURA di LUCREZIO. (da AA.VV. La fisica delle cose- Dieci riscritture da Lucrezio – a cura di Giancarlo Alfano, Giulio Perrone Editore, Roma, 2011)

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da cameraVersi erotici delle poetesse italiane – (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.

Dalla Prefazione di Giancarlo Alfano

“Lucrezio, o la scrittura del momento”

Il tempo non esiste in sé stesso; il senso di ciò che è accaduto «in aevo» è invece inerente alle cose. È quanto leggiamo nel primo libro del De rerum natura (vv. 459-60) dove Lucrezio dimostra la teoria atomica che è a fondamento della sua fisica e della sua complessiva concezione della vita. Non esiste un senso del tempo vuol dire che non esiste un supporto esterno che regoli la direzione delle cose. Per lo scrittore latino, com’è noto, la direzione risiede invece nel clinamen, nella declinazione singolare e casuale degli atomi, i cui aggregati si presentano nella forma di cose. Il senso è, dunque, inerente alle cose. Michel Serres apre il suo commento all’opera di Lucrezio, intitolato Nascita della fisica, ribaltando il luogo comune secondo cui «la fisica atomica è una dottrina antica, ma una scoperta moderna» e che la teoria del clinamen è una fandonia se non un’idiozia, una debolezza concettuale che non sta in piedi. Se torniamo al testo del secondo libro in cui la teoria è formulata, spiega infatti Serres, possiamo renderci conto che Lucrezio ragiona in termini matematici, e che lo fa perché la teoria atomica proviene dai «primi saggi di calcolo inifinitesimale». Lo si può dimostrare per via filologica, riandando indietro ai maestri greci. Ma lo si può anche cogliere in alcune folgoranti battute, come ancora nel libro primo: «Ergo rerum inter summam minimamque quid escit? / Nil erit ut distet» (“che differenza si trova tra la più grande e la più piccola delle cose? / Niente vi sarà che le separi”, vv. 619-20). Inifinitamente grande e infinitamente piccolo si incontrano: ciò è possibile perché non vi è alcuna ragione esterna alle cose; il senso è interno. Ma il senso è direzione, movimento. «Mòmen (termine arcaico per momentum) – ha spiegato infatti Giorgio Agamben – è ciò su cui agisce il clinamen», sicché abbiamo a che fare con un «”momento”, anche nel senso che questo termine ha nella fisica (ciò che misura l’effetto di una forza in un certo tempo)». Di conseguenza, la declinazione degli atomi si presenta al tempo stesso, in senso filosofico, come attualità e come virtualità: essa è la disposizione effettiva delle cose del mondo, il loro prendere posizione, e di conseguenza il loro acquisire senso, il loro evolversi, muoversi in una certa direzione. È per effetto di questo mòmen che avvengono gli eventa, i fatti accidentali che affollano la nostra vita. Insomma, dire che le cose hanno senso in sé stesse vuol dire che non vi è un disegno nelle cose o per le cose; al contrario, tutto ciò che esiste, accade per ragioni inerenti: tutto c’è, attualmente, grazie al suo deposito di energia, e tutto c’è, virtualmente, grazie al movimento che riceve da questo deposito.

C’è un passaggio strabiliante in cui il nostro autore mostra come il senso delle cose sia dato dal “momento”. È un passaggio quasi casuale, un nodo che sembra essersi slacciato nella trama concettuale dell’opera, un’increspatura nella sua lucida tela argomentativa. E invece è una dimostrazione esemplare della logica che governa l’assembramento degli atomi in genera, cioè in configurazioni specifiche. “Poiché – dice Lucrezio – alle cose è dato un limite nella crescita [finis crescendi] e nel mantenersi in vita secondo le diverse specie [generatim]”, allora si capisce che secondo le leggi di natura (per foedera naturai) è stabilito che le cose non mutino: lo dimostra il piumaggio degli uccelli – continua il testo latino –, dove spiccano le «maculas generalis», le macchie dei progenitori, il segno della replica di cui gli individui consistono. Da qui, sorprendentemente, sarebbe partito anche Charles Darwin per ragionare sulla Origine delle specie animali secondo leggi evolutive che appaiono tutte interne a quella singolare combinazione di elementi abitualmente chiamata “individuo”. Strisce, ocelli, screziature sul vello e sul piumaggio – osserva il naturalista, come già il suo antico collega – sono l’incisione del seme antico nel corpo attuale, la dimostrazione che il vuoto si anima di elementa, di semina rerum per cristallizzarsi in forma singolare. Casualità, cioè declinazione individuale, e necessità, cioè schematismo delle configurazioni atomiche: è tra questi due poli che si muove il pensiero naturalistico ed etico di Lucrezio. Per l’individuo non vi è dunque alcuna libertà, alcuna possibilità di autodeterminarsi e porsi come soggetto. Allo stesso tempo, vi è però un movimento istantaneo (ancora un mòmen, col suo carico di forza) verso la comprensione. Non libertà ma liberazione, ha sintetizzato Agamben, «una prassi e un processo, non uno stato». A questo punta la grande fisica lucreziana: proporre un’etica processuale. Il processo conoscitivo ci fa comprendere che non vi è un disegno secondo il quale tutto venga disponendosi, e che dunque non vi è una ragione superiore, un dio; il movimento incessante delle cose ha ragione in sé stesso, al di là anche degli individui. Vige il sistema, non la pedina; la Natura, non la mia singola esistenza. Venere, cui il poema è dedicato, moltiplica gli esseri viventi (animantes) per cielo, in mare e sulla terra, ma non mira al soddisfacimento del singolo. Esattamente come Darwin. E poi come Freud. O, prima, Leopardi. Il modello naturale del mondo diventa una teoria del piacere (si veda la fine del libro quarto), che si volge in etica. Tutto, infine, si esprime in un’estetica che supporta lo stesso processo gnoseologico.

(…) Lucrezio «inizia a scrivere da un’epoca remota», ha scritto De Angelis, e Letizia Leone lo tratta come un poeta proveniente da lontano, come un poeta “antico” con lo sguardo fisso nei misteri (che non sono però i mysteria di un sapere iniziatico, attingibile a pochi, attraverso il quale ci si possa ricondurre al senso del cosmo). Al «maestoso ritratto dei semi» realizzato dall’autore latino la poetessa si rivolge per riconoscervi la dialettica tra gli atomi e gli eventi, quei fatti «Inani» (ancora questo termine) destinati a tornare nuovamente allo stato primitivo di «solido nudo» che è l’atomo. Evento tra gli eventi, l’uomo non predomina nel cosmo; anzi, la sua verticalità, così tipica tra gli animali, tende a disfarsi in caduta («la mia vocazione al vuoto è cedimento»), come del resto essa è il risultato di una precedente convergenza di più “cadute” di atomi. Un movimento discenditivo vi è dunque tutt’intorno e dentro di noi, in una cascata di elementi che si compongono, scompongono, ricompongono facendosi di volta in volta zampa, rosa, occhio, pietruzza.

Nera notizia dalle meteore (Riscrittura dal libro I, 483- 640)

paucis dum versibus expediamus
Esse ea quae solido atquae aeterno corpore constent,
semina quae rerum primordiaque esse docemus,
unde omnis rerum nunc constet summa creata.
(De rerum natura – vv. 499-502- Liber I)

Atomo punto

A mani nude ho conosciuto il mondo
archi di ortiche e atomi
massicci sotto lo strato goloso
delle polpe.
Questo è il maestoso ritratto dei semi
il catalogo di glorie
dei muri naturali.

È difficile credere al pensiero
delle cime, frigorifera fiamma
del piacere che fibra a fibra incarta
panorami di rose.

Stammi vicino spirito ingegnere.
Atomi contenti,
microscopiche rocce a salti interi
o i soliti soli rotti
nel solcare gas e carbone
l’alfa del vuoto, l’omega d’opaco
corporale, il patimento in croce
con l’agire.
L’atomo è avvento non visto
veliero Argo
numero re
fulgido carro che modella volando.

I primi scudi
li ho sentiti al vento
frizione dei piombi trasparenti
sulla pelle. E la cipria delle rive
raccolta sulla soglia dell’origine
era la stessa pasta di astro
e di salina scorza. Stati di aggregazione.

Guarda a quei corpi con occhi primordiali
potresti arguirne angoli o gonie
le gole gonfie di note non umane
per armonie di piume, aspre aritmie
sono mattoni vivi? Ma nell’acquario
del nulla. Io cerco prove
decisive, le cerco nell’aria di rapina
che afferra cose schianta le trascina
– trottola fantasma –
corpi forzuti nascosti bene a fondo
negli uragani e venti.

Mi basta uno sbatter d’occhi. E poi gli odori.
Una vela mi tocca
ne nasce il turbamento
perfuso tra limoni con che rapidità
qualcosa mi ha tastato, lama nel naso…

Il mantello del viaggio? steso
su riva egeria
uva umida diventa, ma se aderente al sole
panno secco e cotto: ecco
acque piccole che albergano nel grembo
vanno, acque piccole vengono.

Così dall’esordio dei mondi
non hai l’occhio per vedere il macigno
divorato, effimero che l’intemperie sguscia
la sottrazione nella pleura dei secoli
tocco di morte ruvida che scartavetra
con l’amara minerale erta immobilità
del primo corpo.
Eppure
sotto gli aratri un sangue
Orfeo freddo che risorge
nello zenzero dolce dei pistilli.

L’atomo esiste
è polvere cerniera, quasi
di sorpresa un brivido
di luce e di materia.

I solidi all’inizio

Alle cose infrante
c’è un limite
tutte le notti morire non si può
questi giochetti dell’abbandono
no

i resti
sono grani d’ancoraggio robusti
col tempo sopra e sotto sparso
e a grappoli setacciati gli atomi
(che non li prende mai morte)
in questa masticazione. Le smorfie? scorticati
germogli.

Tutto ci è nascosto:
la camera piena di materiali semplici
faville informate, ori, cocci lucidi
di mare
schiocchi
ceci alieni glaciali che non vanno in pezzi

ti sto parlando di ultime macerie armate
indistruttibili
argenti
che navigano sulla coda delle comete.

Tu che attraversi il giorno in un granello.

Qualcosa non muta nella catastrofe
ignota. Un solido nudo
resistente all’erosione interna.

La perla della generazione
nel caos amaro, il tessuto
di canto profondo
stupefatto di querce
irradia e si fracassa
in tutta la bellezza (in tutta sera) si veste
della molecola d’asteria.

A volte
era una fisica del fuoco:
Eraclito pertanto.

Ma io ho un solo incanto

agli atomi agri
agli aghi
intrecciando di lancia e di danza
dei boschi freschi i pilastri e il mare imperatore
e puro di domani.
Agli atomi maghi
nevicando,

un inno

e alla fine le rose…

letizia leone

letizia leone

Inani gli eventi

la mia vocazione al vuoto è cedimento
via sacra dell’aria
dove la solitudine ha lasciato il posto
alla carne infine, dolorosa
ai rigori invernali sulle ossa, sui muri di casa
sul pomo divinato abbandonato al sole
ad asciugare.

Che le lacrime, puoi sperare, s’infiltrino
nell’odio fondente, nell’ime botti dai tronchi
dove è rimasto spazio, si abbondante ma
millimo nelle latebre (se palla di lana
pesa meno di palla di piombo)
là,
per ricaricare la sorgente.

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Claudio Borghi Il tempo generato dagli orologi – L’ipotesi di un tempo interno termodinamico – Tempo e irreversibilità – Il concetto di durata in Newton ed Einstein – Dilatazione del tempo ed effetto orologi – Il modello dello spaziotempo e la misura delle durate temporali – Spaziotempo assoluto e concetto di durata in relatività generale – Clock hypothesis – Gli orologi reali – orologio radioattivo

Connesso in qualche modo al concetto di tempo è quello dell’autenticità, sono convinto che la materia vivente, la materia biologica, e quindi anche l’uomo, sia un congegno del tipo: orologio biologico e, in quanto tale, un oggetto fatto con la stessa stoffa del tempo. Noi non possiamo uscire fuori dal tempo, perché ci siamo dentro in quanto orologi biologici temporali e il nostro cervello anch’esso traduce tutto in ordine temporale, subisce una coazione del fattore biologico temporale a decodificare tutto ciò che vede e sente in ordine temporale.

(g.l.)

L’idea di fondo de Il tempo generato dagli orologi è che sia possibile rifondare operativamente il concetto di tempo a partire da un’indagine rigorosa degli strumenti di misura delle durate. Alla luce dell’ipotesi del tempo termico (Carlo Rovelli, 2008) e di considerazioni sulla possibile esistenza di orologi reali (in particolare radioattivi) il cui periodo proprio non sia in accordo con le previsioni relativistiche, viene formulata l’ipotesi circa l’esistenza, in natura, di tempi fisici diversi e di orologi non relativistici. In particolare si ipotizza l’esistenza di un tempo interno termodinamico, di cui la relatività einsteiniana e le teorie quantistiche non hanno saputo o potuto cogliere la novità e la profondità rivoluzionaria.

Questa la pagina da cui si può scaricare (gratuitamente) il testo completo dell’articolo:

http://isonomia.uniurb.it/node/33

Quisi può scaricare (a pagamento) il mio ultimo lavoro Physical time and thermal clocks, pubblicato in Foundations of Physics:

http://link.springer.com/article/10.1007/s10701-016-0030-y

Introduzione di Claudio Borghi

 Questo articolo intende mostrare in una nuova cornice teorica il problema della natura del tempo fisico. L’elaborazione concettuale è costruita intorno ad una nuova interpretazione dell’effetto orologi come un effetto di potenziale gravitazionale e pseudo gravitazionale: il semplice fatto che si disponga solo di misure effettuate con orologi reali in moto curvilineo (un esempio significativo è il GPS), ai quali un osservatore corotante associa sia un potenziale gravitazionale che centrifugo (da cui il ritmo di marcia dell’orologio dipende), ci consente di avanzare l’ipotesi concreta secondo la quale gli orologi atomici (e pochi altri ad essi equivalenti) siano gli unici dispositivi che forniscono misure in sintonia con le previsioni della relatività generale, in quanto il loro periodo proprio dipende dal suddetto potenziale in accordo con la teoria. Non possediamo in effetti alcuna prova sperimentale che consenta di affermare che la diversa velocità di due orologi in moto rettilineo, inizialmente in quiete relativa, causi un rallentamento di quello che, avendo accelerato, sta viaggiando a velocità maggiore. Lo sviluppo dettagliato di tali ipotesi, senz’altro non allineate con l’interpretazione corrente dell’effetto orologi, porta a concludere che il problema del tempo vada necessariamente affrontato a partire dagli strumenti di misura, laddove troppo spesso si è pensato di risolverlo nella diatriba tra teorie relativistiche antagoniste. Le considerazioni conclusive intendono sviluppare le conseguenze epistemologiche della probabile esistenza di tempi fisici diversi, che si configura come potenzialmente rivoluzionaria.

Il concetto di durata in Newton ed Einstein

Nella meccanica newtoniana il tempo è una variabile matematica, a cui è utile riferire la variazione delle grandezze fisiche. L’utilità di una variabile, tuttavia, non implica che si riferisca a qualcosa di reale: le astrazioni, in quanto ideali, non scorrono. Nell’universo newtoniano la simultaneità e le durate dei fenomeni sono assolute: la vita di una particella radioattiva è compresa tra due istanti matematici misurati da un orologio universale. La durata newtoniana è una astratta proprietà dell’universo nella sua totalità, laddove i corpi si trasformano come accidenti di una sostanza che, nelle sue parti, cambia e si muove, ma senza la necessità di doverne quantificare, se non idealmente, il divenire. Lo spazio newtoniano è il luogo di movimenti ed evoluzioni di corpi contrassegnati da istanti e durate estrinseci ad essi: gli orologi possono solo simulare il flusso del tempo per mezzo del moto. Rispetto alla meccanica newtoniana, la relatività einsteiniana propone una rivoluzione radicale del concetto operativo di durata. In sede di relatività ristretta, la novità generativa del nuovo concetto di tempo è il postulato dell’esistenza di una velocità limite e invariante, da cui si deduce la relatività della simultaneità: due osservatori inerziali in diversi stati di moto non concordano sugli istanti che corrispondono a due eventi che delimitano l’intervallo di tempo che li separa. Istanti e durate sono, nel quadro teorico della relatività speciale, relativi all’osservatore e l’universo fisico è spaziotempo, uno spazio privo di materia-energia che possiamo immaginare riempito di orologi ideali. Tali orologi vengono sincronizzati da ogni osservatore, che di un fenomeno misura la durata (ad esempio la vita di una particella instabile) localizzando, in corrispondenza degli eventi iniziale e finale, due degli infiniti orologi (posizionati rispettivamente nel luogo della nascita e del decadimento) di cui si è servito per riempire il continuo. Poiché sulle coordinate spaziotemporali di tali eventi non concorda un altro osservatore inerziale in moto relativo rispetto al primo, uno stesso fenomeno risulta durare diversamente: la durata della vita di una sostanza radioattiva non è assoluta.

Dilatazione del tempo ed effetto orologi 

 L’effetto noto come dilatazione del tempo consiste nella diversa durata di uno stesso fenomeno osservato da riferimenti inerziali in moto relativo, laddove per uno di essi (O’) gli eventi iniziale e finale si producono nello stesso punto dello spazio, mentre per l’altro (O) si producono in punti diversi. L’effetto è simmetrico, nel senso che se la coincidenza degli eventi estremi è tale per O, è O’ che misura un intervallo di tempo dilatato rispetto a quello misurato da O. Tale effetto non testa il comportamento degli orologi, che in relatività ristretta si assumono essere dispositivi idealmente puntiformi e sincronizzati. Come rileva Basri (1965, p. 302), laddove si voglia allargare il quadro di indagine dalla relatività ristretta alla generale assume particolare interesse l’effetto orologi, noto anche come effetto gemelli. Nel secolo scorso sono stati effettuati solo due esperimenti del genere: uno da Hafele e Keating (1971), con quattro orologi al cesio in volo su aerei commerciali intorno alla Terra (due verso est e due verso ovest), e uno da Alley et al (1979), con tre orologi al rubidio in volo lungo un circuito chiuso locale. In entrambi i casi gli orologi in volo hanno misurato durate diverse rispetto a quelli rimasti a terra, con cui sono stati sincronizzati alla partenza e confrontati al ritorno. L’effetto è stato analizzato teoricamente, nei lavori citati, rispetto a un riferimento inerziale (con origine nel centro della Terra) e si è ritenuto che, per ottenere predizioni in accordo con la relatività generale, fosse necessario descrivere il fenomeno rispetto a un qualsiasi riferimento inerziale nel quale entrambi gli orologi (a terra e in viaggio) sono in moto, in quanto le durate misurate dagli orologi non risultano dipendere dalla velocità relativa, ma dalla velocità rispetto al riferimento inerziale scelto. E’ significativo rilevare che, volendo privilegiare l’analisi di un osservatore inerziale, si genera una sovrapposizione di due effetti, uno di dilatazione del tempo (noto come effetto di velocità, secondo la relatività ristretta) e uno di red shift gravitazionale (spiegato nel quadro teorico della relatività generale): ne consegue un procedimento ibrido, visto che la dilatazione del tempo, secondo la procedura descritta nel precedente paragrafo, costituisce un effetto legato alla diversa quantificazione di una durata effettuata da due riferimenti inerziali in moto relativo, quindi concettualmente e operativamente distinto dall’effetto orologi. Riteniamo quindi necessario, anche alla luce dell’analisi teorica di Basri, ma senza entrare nel dettaglio della sua complessa elaborazione matematica, proporre una spiegazione dell’effetto orologi come un semplice effetto di potenziale, nel senso seguente. Ammettiamo, come necessaria conseguenza implicita della definizione, che un tempo proprio debba essere misurato da un osservatore solidale con l’orologio. Operativamente questo significa che ogni orologio misura, rispetto ad un osservatore nello stesso stato di moto (co-movente), che quindi può essere non inerziale, un tempo proprio legato al suo periodo proprio: una durata propria si ottiene moltiplicando il periodo proprio dello strumento per il numero di oscillazioni del dispositivo che ne costituisce il cuore vibrante. Poiché il periodo proprio dipende dal potenziale gravitazionale o pseudo gravitazionale, la misura della durata propria di un fenomeno, che si produce tra due fissati eventi estremi (partenza e ritorno dell’aereo), risulterà dipendere dal potenziale in cui l’orologio è stato immerso, secondo l’osservatore co-movente, durante lo svolgersi del fenomeno. Poiché un osservatore a terra e uno sull’aereo, ai quali sia assegnato il compito di effettuare misure ciascuno con un proprio orologio, rileveranno durate diverse, essi spiegheranno tale diversità come semplice conseguenza dei diversi potenziali in cui gli orologi sono stati immersi. Il problema diventa quindi: se due orologi atomici, a terra e sull’aereo, misurano durate in accordo con le predizioni teoriche, in quanto il rapporto tra tali durate risulta in accordo con la relatività generale, tale rapporto si otterrà anche con orologi di diversa costruzione, ad esempio con orologi radioattivi? Se cioè un orologio radioattivo viene osservato a terra e su un aereo, il rapporto tra le durate misurate risulterà essere uguale a quello ottenuto con due orologi atomici, rispettivamente a terra e su un aereo? La domanda cela una problematica di profondo significato fisico, in quanto la possibile non equivalenza degli orologi, che verrà indagata nei paragrafi seguenti, mette in discussione l’esistenza di tempi di natura diversa, di cui il tempo relativistico potrebbe essere solo uno dei tanti possibili.

Il modello dello spaziotempo e la misura delle durate temporali

 L’universo einsteiniano, quale emerge dall’articolo del 1905, è un modello di spaziotempo implicito, in cui un continuo tridimensionale (lo spazio) è riempito con un reticolo di orologi ideali sincronizzati, supposti puntiformi, che rilevano gli istanti corrispondenti agli eventi spaziotemporali. Nel 1908 Hermann Minkowski formalizza la relatività speciale nei termini di una teoria dello spaziotempo quadridimensionale, idealmente vuoto, secondo la quale la durata di un fenomeno, che caratterizza un corpo-particella-orologio, è la lunghezza della linea di universo che tale corpo misura come un tempo proprio. Per quanto apparentemente si tratti solo di una diversa formalizzazione matematica di una stessa interpretazione teorica dei fenomeni fisici, Minkowski compie un passo avanti concettualmente decisivo, in quanto implicitamente considera le durate misurabili direttamente dagli orologi, da intendersi come strumenti reali in grado di misurare la lunghezza delle linee di universo comprese tra gli eventi estremi. Einstein, nel 1916, con la teoria della relatività generale, facendolo proprio, amplia il modello minkowskiano di spaziotempo piatto interpretando l’effetto della presenza di materia-energia, che ne determina, a seconda della densità locale, la curvatura, quindi la metrica. L’analisi seguente intende mostrare che la teoria dello spaziotempo, di cui la relatività generale è la formulazione più completa, si risolve in un’astratta teoria dell’assoluto spaziotemporale, in quanto la teoria einsteiniana non presuppone il concetto di divenire, consistendo in un modello geometrico in cui le durate, che dovrebbero misurare il cambiamento intrinseco dei corpi-orologi, sono scritte nelle linee di universo, indipendentemente dall’evoluzione interna degli strumenti di misura che le percorrono.

Spaziotempo assoluto e concetto di durata in relatività generale 

In relatività generale occorre distinguere il tempo coordinato, che compare, ad esempio, come argomento della variabile campo , dal tempo proprio misurato da un orologio lungo una data linea di universo. Laddove nella teoria di Newton gli orologi reali forniscono una misura relativa, approssimativa ed esterna, della durata assoluta, quindi della variabile t, nella teoria di Einstein gli orologi misurano la lunghezza τ della linea di universo, quindi non t, che figura essere una semplice etichetta matematica senza significato fisico. La mancanza di un riferimento temporale assoluto fa sì che in relatività generale l’evoluzione non sia funzione di una variabile indipendente e preferenziale come, invece, accade col tempo newtoniano, che gioca il ruolo di parametro indipendente dell’evoluzione stessa. La relatività generale descrive l’evoluzione di quantità osservabili una rispetto all’altra, senza isolarne alcuna come indipendente: secondo Carlo Rovelli (2008, p. 2), dati due orologi, uno a terra e uno su un satellite, su cui si leggano rispettivamente le coppie di valori ((, ecc., corrispondenti ai tempi propri che ciascuno di essi misura lungo la sua linea di universo, la teoria di Einstein prevede i valori di  che devono essere associati ai corrispondenti valori di, senza dover considerare alcuno di essi come variabile temporale autonoma. Dall’esempio, che può essere esteso a svariati altri casi sperimentali, si deduce che in relatività generale esiste una pluralità teoricamente infinita di variabili ognuna delle quali, di volta in volta, assume convenzionalmente il ruolo di variabile temporale, senza dover ammettere l’esistenza oggettiva di una grandezza fisica chiamata tempo. Per quanto la teoria einsteiniana possa essere interpretata come un superamento di quella newtoniana, alla luce dell’inesistenza del tempo assoluto condiviso dai diversi osservatori, il problema del significato fisico della misura delle durate effettuata con orologi reali non viene in effetti superato. Nell’analisi di Rovelli, seppur inattaccabile sul piano della coerenza formale e del rigore matematico, l’evoluzione è limitata alla variazione della posizione reciproca dei corpi, che senz’altro può essere interpretata in senso relazionale senza dover introdurre esplicitamente una variabile temporale. Rovelli, in sostanza, trascura una grandezza che di per sé, all’interno della meccanica, ha sempre svolto un ruolo (assoluto o relativo, poco importa) solo convenzionale, in quanto riducibile, sia in Newton che in Einstein, a utile variabile matematica. Laddove Newton, esplicitamente, definisce il tempo assoluto un’astrazione concettuale (la durata) che deriviamo dal movimento, la natura matematica delle durate relativistiche, misurate dagli orologi lungo le linee di universo, era di fatto già presente nel quadro teorico della relatività generale, in quanto, come hanno recentemente osservato David Malament e Tim Maudlin, ogni corpo-orologio, qualora descriva linee di universo non equipollenti tra due fissati eventi estremi, registra durate diverse solo se lo si concepisce come orologio ideale,  alla luce di quella che tali autori, come vedremo in dettaglio nel prossimo paragrafo, definiscono clock hypothesis. L’effetto della rivoluzione teorica einsteiniana è stato traumatico: il concetto di tempo, oltre a quello di spazio, è stato relativizzato (in questo è stata colta la novità rivoluzionaria rispetto all’assolutismo newtoniano), a prezzo di assolutizzare lo spaziotempo: in questo senso la novità della rivoluzione relativistica si direbbe consistere nella scoperta di un nuovo assoluto, seppur di natura diversa, da porre a fondamento dei fenomeni reali. In sede di riflessione epistemologica si è tentato di differenziare lo spazio dal tempo come variabili fisiche aventi diverso valore intrinseco, laddove, nella formulazione della teoria, sono sostanzialmente sullo stesso piano. Il tempo relativistico viene chiuso in una struttura geometrica, come appare chiaramente dalla seguente analisi dei fondamenti logico-operativi sui quali Malament e Maudlin hanno costruito la loro sintesi della filosofia relativistica dello spazio e del tempo, fondata sul modello della teoria einsteiniana.

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

Clock hypothesis

Per quanto sia attualmente opinione largamente condivisa che gli esperimenti effettuati nel secolo scorso abbiano fornito prove praticamente definitive circa la correttezza delle leggi relativistiche, riteniamo necessario esaminare l’effettiva consistenza delle conclusioni degli esperimenti tramite i quali la teoria relativistica del tempo è stata confermata. Come riferimento ci serviremo dei recenti trattati di David Malament (2006) e Tim Maudlin (2012), che ricostruiscono l’edificio della filosofia relativistica dello spazio e del tempo a partire da semplici considerazioni teoriche di natura geometrica. In relazione alle durate temporali cosa misurano, secondo tali autori, gli orologi relativistici? Malament definisce orologio ideale un oggetto puntiforme che registra il passaggio del tempo proprio lungo una linea di universo:

One might construe an “ideal clock” as a pointsized test object that perfectly records the passage of proper time along its worldline, and then (…) assert that real clocks are, under appropriate conditions, to varying degrees of accuracy, approximately ideal.

In accordo con Malament, Maudlin formula la seguente definizione di orologio ideale:

An ideal clock is some observable physical device by means of which numbers can be assigned to events on the device’s world-line, such that the ratios of differences in the numbers are proportional to the ratios of interval lengths of segments of the world-line that have those events as endpoints.

Riteniamo che la possibilità di approssimare ogni orologio reale a ideale costituisca il punto critico più delicato della teoria dello spaziotempo. Non è ben chiaro, in effetti, se Malament intenda riferirsi a particelle elementari come impliciti orologi intrinseci in grado di registrare il flusso del tempo lungo la linea: laddove fosse possibile considerarle tali, occorrerebbe individuare il meccanismo evolutivo che consente a una particella elementare di ottenere una misura di durata legata a un fenomeno che si produce al suo interno. Un orologio reale, per essere tale, deve consentire una misura di durata o sfruttando un fenomeno periodico o un suo cambiamento interno, come potrebbe essere il decadimento radioattivo. Se, come si deduce dalla definizione di Maudlin, una verifica sperimentale dell’effetto orologi richiede che il rapporto tra le misure fornite da due orologi di identica costruzione, lungo due linee di universo non equipollenti comprese tra gli stessi punti-eventi p e q, sia uguale al rapporto tra le misure fornite da qualunque altra coppia di orologi, fra loro equivalenti ma diversi dai precedenti, la teoria relativistica del tempo non può, evidentemente, essere testata solo con orologi ideali. Laddove Malament suggerisce, senza indagarla, l’ipotesi di orologi puntiformi, Maudlin, riprendendo un’idea di Einstein, si limita a studiare il comportamento degli orologi a luce. La sintesi della filosofia relativistica dello spazio e del tempo proposta da tali autori, costruita a partire da semplici quanto limpide ipotesi di natura esclusivamente geometrica, assume la forma di una teoria dello spazio-tempo e del tempo-luce, in cui non viene indagato il comportamento degli orologi reali. Malament osserva che l’apparente paradosso degli orologi gemelli nasce dall’ignoranza circa il diverso comportamento degli orologi in free fall (quindi lungo un arco di geodetica) o sottoposti ad accelerazione e risolve il problema all’interno del modello geometrico dello spaziotempo, servendosi di un’argomentazione logicamente inconfutabile. Secondo Malament il malinteso nasce dal fatto che, erroneamente, qualcuno possa ritenere che la teoria della relatività non distingue tra moto accelerato e di caduta libera: la soluzione di Malament, condivisa da Maudlin, consiste nell’ammettere che le due situazioni non sono simmetriche e che i due orologi debbano quantificare durate diverse in quanto misurano la lunghezza della linea di universo che percorrono (clock hypothesis). La teoria di Einstein, interpretata da tali autori come filosofia dello spaziotempo, presuppone un modello di universo assimilabile a un fluido perfetto quadridimensionale: il tempo, secondo tale filosofia, è contenuto implicitamente nelle linee di universo, indipendentemente dal tipo di orologio reale che quantifica la durata. Si rinnova, in tale contesto teorico, l’innocua quanto immediata obiezione sollevata in precedenza: poiché gli orologi reali non soddisfano la definizione di orologio ideale di Maudlin e Malament,  possono, perlomeno, essere considerati un’approssimazione empirica di tale definizione? Volendo precisare più in dettaglio tale obiezione, proponiamo i seguenti due nodi problematici, legati rispettivamente all’effetto di velocità e all’effetto di red shift gravitazionale.

In primo luogo, consideriamo due orologi di identica costruzione che, inizialmente in quiete relativa e sincronizzati, percorrono linee di universo non equipollenti, su traiettorie rettilinee, a causa della diversa velocità acquisita, dopo un breve quanto trascurabile tratto di accelerazione, da uno dei due rispetto all’altro: dopo aver percorso diversi tratti rettilinei, i due orologi si ricongiungono a causa del rallentamento di quello che si è allontanato. Poiché il loro periodo proprio è rimasto invariato, per verificare sperimentalmente se effettivamente essi misurano diverse durate, come sostengono Maudlin e Malament, basta contare il numero di battiti scanditi nei tratti percorsi di moto rettilineo uniforme: poiché negli esperimenti finora effettuati, in cui sia stato testato l’effetto con orologi in moto relativo (gli unici sono quelli di Hafele e Keating e di Alley), gli orologi in volo non hanno descritto traiettorie rettilinee, riteniamo che non sia disponibile, a tutt’oggi, alcuna prova sperimentale della diversa misura di una durata a causa del solo effetto di velocità su traiettorie entrambe rettilinee. La verifica diretta di questo, apparentemente semplice e innocuo, fatto sperimentale riveste in effetti un importante significato, in quanto consentirebbe di provare o meno se, come coerentemente sostengono Maudlin e Malament, l’effetto orologi su traiettoria rettilinea (in cui siano trascurabili i tratti di accelerazione e decelerazione di quello che si allontana e poi si ricongiunge col gemello) sia una semplice conseguenza della diversa lunghezza delle linee di universo che i due orologi descrivono, per cui quello che ha percorso la linea più breve deve aver scandito, senza variare il periodo proprio, un numero minore di battiti.

In secondo luogo, consideriamo due orologi che percorrono linee di universo non equipollenti a causa del diverso potenziale gravitazionale in cui sono immersi: ad esempio due orologi che, inizialmente sincronizzati nello stesso laboratorio, vengano separati in modo che uno rimanga al livello del mare e l’altro sia portato su una montagna, quindi siano riportati nel laboratorio di partenza e confrontati in quiete uno rispetto all’altro (come nell’esperimento di Briatore e Leschiutta (1977), in cui si è testato l’effetto su una coppia di orologi atomici). Nel caso in cui si osservino, nelle condizioni sopra descritte, due coppie di orologi di diversa costruzione, ci chiediamo: i rapporti tra le durate misurate dalla prima coppia, ad esempio di orologi atomici, sulle linee 1 e 2, sarà uguale al rapporto tra le corrispondenti durate misurate sulle stesse linee da una seconda coppia, ad esempio di orologi radioattivi?

Giuseppe Pedota acrilico, Trittico Civiltà extra solari anni Novanta

Giuseppe Pedota acrilico, Trittico Civiltà extra solari anni Novanta

E’ prevedibile quanto scontata la seguente obiezione contraria alle due illustrate qui sopra: non è forse un fatto, sperimentalmente acquisito in modo definitivo, che la sincronizzazione degli orologi atomici del GPS (Ashby, 2003) viene spiegata in modo rigoroso dalla teoria di Einstein? Ci limitiamo a osservare che nell’analisi teorica di Ashby, in cui sono stati considerati sia l’effetto di velocità (interpretato come effetto di dilatazione del tempo), sia l’effetto di red shift gravitazionale, non si è valutato con attenzione il fatto che gli orologi in orbita descrivono traiettorie curvilinee, per cui il loro periodo proprio è variato a causa del diverso potenziale, sia gravitazionale che pseudo gravitazionale, rispetto a quello degli orologi a terra. Poiché è possibile spiegare la diversa misura degli orologi alla luce di un solo, e più semplice, oltre che teoricamente più elegante, effetto di potenziale, si apre il seguente problema, concettuale e operativo. Per quanto sia incontestabile che la sincronizzazione degli orologi del GPS è stata effettuata in accordo con la teoria della relatività, della cui coerenza logico-matematica a tutt’oggi costituisce una delle prove più convincenti e decisive, le obiezioni critiche sollevate in questa sede non mettono in discussione la capacità predittiva della teoria di Einstein su particolari tipi di orologi, bensì le possibili generalizzazioni in materia di misura delle durate temporali che ne è stata implicitamente derivata. Poiché il GPS è un sistema di orologi atomici sincronizzati, non siamo in alcun modo autorizzati a trasferire su orologi aventi diversa struttura interna quanto finora è stato provato su una limitata categoria di orologi reali. Ne segue che, se dall’analisi degli orologi reali dovesse emergere un’incongruenza palese rispetto alla clock hypothesis su cui, secondo Maudlin e Malament, la teoria è stata fondata, sarebbe necessaria una rifondazione critica del problema del tempo in fisica. E’ quello che ci proponiamo di fare nei prossimi paragrafi.

Gli orologi reali

I dispositivi sperimentali utilizzati per misurare intervalli di tempo, distinti in base al meccanismo di funzionamento, sono in gran parte riconducibili alle seguenti tipologie:

orologi gravitazionali, in cui la misura di una durata può essere ottenuta: a) indirettamente sfruttando una scala temporale dedotta dalle posizioni di determinati corpi celesti (tempo delle effemeridi); b) direttamente sfruttando il moto, approssimativamente armonico per piccole oscillazioni, di un pendolo, che può essere considerato, insieme alla clessidra, uno dei più semplici ma efficaci orologi gravitazionali;

orologi a bilanciere, in cui l’organo motore è composto da una molla, arrotolata su un asse, che tende a svolgersi trasformando l’energia potenziale elastica in energia cinetica rotazionale: in linea di principio, il fenomeno è equivalente all’oscillazione armonica lineare di un sistema massa-molla, il cui periodo proprio dipende solo dalla massa e dalla costante elastica della molla;

orologi al quarzo, in cui il periodo è determinato dalle oscillazioni di un cristallo di quarzo: un risuonatore al quarzo, dal punto di vista elettronico, è equivalente a un circuito RLC, con una frequenza di risonanza molto precisa e stabile;

orologi atomici, in cui il periodo proprio è direttamente legato al dislivello energetico tra due fissati stati quantici in un atomo;

orologi radioattivi (Borghi, 2012), in cui il decadimento di una sostanza instabile produce una quantità di sostanza figlia a partire da una data quantità di sostanza madre iniziale: occorre precisare che, laddove gli orologi gravitazionali, atomici, al quarzo e a bilanciere fanno riferimento a fenomeni implicanti l’alternanza di fasi identiche, per cui la misura risulta legata al conteggio di queste ultime e di suoi eventuali sottomultipli, in un orologio radioattivo la misura di una durata implica, nota la quantità di sostanza madre iniziale, la quantificazione della massa decaduta in relazione al cammino seguito dallo strumento tra due fissati eventi estremi.

Orologi radioattivi

Come già ricordato in precedenza, negli esperimenti sulle particelle instabili in volo si è provato che la vita media, misurata indirettamente (calcolando il rapporto tra la distanza media percorsa prima della disintegrazione e la velocità) quando i muoni sono in volo (l’emissione e il decadimento avvengono in punti diversi), risulta dilatata rispetto alla misura effettuata direttamente in laboratorio (in cui l’emissione e il decadimento avvengono nello stesso punto) su un campione di muoni in quiete. E’ di notevole rilevanza, al riguardo, in relazione all’osservazione del comportamento delle particelle instabili in volo, l’esperimento dei muoni immessi a velocità prossime a c nell’anello di accumulazione del CERN (Bailey et al, 1977): l’elemento di novità è in tal caso la presenza di  un’accelerazione centripeta dell’ordine di 1018 g rispetto al laboratorio, quindi di un enorme potenziale pseudo gravitazionale (misurato nel riferimento del laboratorio, avente origine nel centro dell’anello) in cui le particelle si sono trovate immerse durante il volo. Il fatto che tale potenziale non abbia prodotto effetti diversi rispetto agli esperimenti con muoni in volo lineare nell’atmosfera, porta a trarre importanti considerazioni in relazione alla possibilità di considerare orologi i campioni radioattivi.

Data l’importanza, questo punto deve essere attentamente discusso.

Se definiamo orologio radioattivo un dispositivo che misura una durata propria sfruttando la quantità di sostanza decaduta in relazione a un certo fenomeno (ad esempio, la durata del viaggio dell’aereo che trasporta a bordo lo stesso campione radioattivo), possiamo chiederci se tale dispositivo, che di certo funziona anche in caduta libera, si comporta come un orologio relativistico. Il fatto che un’accelerazione centripeta dell’ordine di 1018 g non abbia alterato la struttura interna delle particelle porta a dedurre che il potenziale pseudo gravitazionale, proporzionale a tale accelerazione, di intensità enorme rispetto a un osservatore nel laboratorio, non abbia influenzato il periodo proprio dell’orologio radioattivo, producendo misure sperimentali analoghe a quelle ottenute con i fasci lineari. Ne consegue che un osservatore solidale (co-movente) con le particelle, per il quale esse sono in quiete ma immerse in un potenziale (pseudo gravitazionale) centrifugo avente lo spesso modulo di quello misurato dall’osservatore nel laboratorio, debba misurare la stessa durata rilevata, a parità di eventi iniziale e finale, da un osservatore nel laboratorio solidale con un identico campione radioattivo, avente la stessa numerosità iniziale di quello sparato nell’anello, col quale venga confrontato dopo il volo.

Questo implica che gli orologi radioattivi debbano essere indipendenti, alla luce del principio di equivalenza, dal potenziale gravitazionale e pseudo gravitazionale, quindi non siano equivalenti agli orologi atomici, il cui periodo proprio risulta dipendere dal suddetto potenziale. Ne consegue che, mentre due orologi atomici, inizialmente sincronizzati nello stesso laboratorio e separati portando uno di essi in alta quota, misurano durate diverse se vengono riportati nello stesso laboratorio e confrontati, la stessa cosa non dovrebbe accadere con una coppia di orologi radioattivi. Il comportamento degli orologi radioattivi, all’interno dei quali il ritmo di decadimento delle particelle instabili non dipende dal potenziale, implica che esistano in natura diverse possibili classi di orologi, di cui solo un numero ristretto rientra nella classe implicita degli orologi che possiamo definire relativistici. Non potendo, chiaramente, ammettere che il tempo abbia una natura indipendente dagli orologi che si usano per misurarlo, il fatto che alcuni orologi non misurino durate relativistiche assume il valore di una scoperta sperimentale e teorica, in quanto genera la possibile esistenza di tempi di natura diversa.

Tempo e irreversibilità

Se si nega il tempo assoluto in quanto non esiste un orologio che consente di misurarlo, se si riconosce che il tempo proprio relativistico non misura durate evolutive ma durate legate al potenziale gravitazionale e pseudo gravitazionale, se si riduce la realtà fisica a una rete di relazioni tra campi quantistici covarianti, come esplicitamente fa Rovelli in sede di fondazione della gravità quantistica, si trascura, in quanto non lo si ritiene fondamentale, il concetto dell’irreversibilità dell’evoluzione, che gli orologi reali registrano laddove le loro misure siano legate a fenomeni irreversibili. In tale ottica è necessario quanto concettualmente assai importante rilevare la distinzione tra evoluzione interna dei corpi ed evoluzione legata alla variazione della loro posizione relativa, quale è descritta in meccanica: riteniamo che le evoluzioni interne, descritte in termodinamica, debbano essere misurate da orologi capaci di quantificare una trasformazione irreversibile. Il tempo quantistico e relativistico è in effetti virtuale e matematico, in quanto non tocca il divenire intrinseco del reale, che viene pensato, come esplicitamente propone Julian Barbour (2008), come un insieme di istantanee senza filo evolutivo che le raccorda. La vera essenza operativa del tempo fisico non va in effetti cercata nella meccanica o nell’elettrodinamica, classica o relativistica o quantistica, in cui gli orologi sono in ultima analisi strumenti di comodo, ma in termodinamica, in cui il tempo è generato all’interno degli strumenti di misura ed è un prodotto necessario dell’evoluzione irreversibile. Il concetto di irreversibilità, al livello descrittivo fornito dalla meccanica quantistica, dalla relatività e dalla gravità quantistica, non compare o viene esplicitamente considerato non reale, in quanto a livello fondamentale la sua realtà pare essere illusoria. La descrizione dei fenomeni fisici fornita dalla termodinamica sembra implicitamente rivelare l’esistenza di una dimensione del tempo diversa rispetto a quella che emerge dalle teorie fondamentali: la seguente ipotesi, formulata dallo stesso Carlo Rovelli, costituisce il possibile atto fondativo di una nuova esplorazione concettuale del reale fenomenico e di una nuova definizione operativa di tempo. 

L’ipotesi del tempo termico

Carlo Rovelli riconosce, introducendo il concetto di recovery of time (2008, p. 7), che gli aspetti familiari del tempo, legati alla percezione del flusso, all’impossibilità di risalire la corrente evolutiva, ecc., non sono di natura meccanica ma termodinamica. In un certo senso, emergono al livello teorico in cui si descrive statisticamente un sistema fisico con un grande numero di gradi di libertà. In meccanica statistica, scrive Rovelli, è possibile introdurre l’ipotesi del tempo termico (thermal time hypothesis), secondo la quale, se un sistema si trova in un determinato stato statistico ρ è possibile individuare, a partire da tale stato, una variabile  che prende il nome di tempo termico, per quanto in natura, essendo tutte le variabili sullo stesso piano, non esista una variabile temporale preferenziale e non esistano stati di equilibrio preferenziali individuabili a priori. Considerare tempo una certa variabile, spiega Rovelli, non significa enunciare una proprietà riguardante la struttura fondamentale della realtà, bensì enucleare una proprietà inerente alla distribuzione statistica che utilizziamo per descrivere un sistema che stiamo osservando macroscopicamente. Quello che nell’esperienza consideriamo tempo è quindi il tempo termico dello stato statistico in cui un sistema (il mondo, scrive Rovelli) viene osservato, quando viene descritto in funzione dei parametri macroscopici che abbiamo scelto. Il tempo è dunque l’espressione della nostra ignoranza dei microstati, in un certo senso una semplificazione concettuale emergente da una numerosità di grandezze che cambiano caoticamente. L’attività caotica che il tempo descrive prevede un incremento irreversibile del disordine molecolare ed è questa connotazione di irreversibilità che differenzia il livello di realtà descritto dalla termodinamica rispetto a quello descritto dalla meccanica quantistica o dalla relatività, all’interno delle quali, come si è visto, il tempo non ha un significato fisico legato all’evoluzione interna di un sistema, sia esso un insieme di campi-particelle interagenti o un corpo-particella che descrive una linea di universo registrandone la lunghezza. Se la realtà viene osservata trascurando o ignorando i microstati, e si abbandona la pretesa di geometrizzare i fenomeni riconducendoli a un tessuto quadridimensionale, che contiene spazio e tempo in relazione come se le durate fossero scritte nello spaziotempo, senza effettiva evoluzione interna dello strumento che effettua la misura, emerge la natura evolutiva del tempo dei sistemi fisici, in quanto soggetti a processi irreversibili. Il fatto che tale emersione appaia con un’evidenza e una realtà del tutto diversa da quella matematica che ne caratterizza la realtà virtuale in Newton e Einstein, suggerisce di considerare la termodinamica come un’area di indagine teorica che non dovrebbe riduttivamente essere semplificata come una grossolana approssimazione statistica, in cui si riassume l’effetto globale di miriadi di grandezze e corpuscoli inaccessibili all’osservazione diretta. In termodinamica emerge, nella sua natura irriducibile, il concetto di divenire intrinseco di corpi e sistemi, in cui la meccanica e la teoria della gravitazione newtoniana, la teoria della relatività generale einsteiniana e la meccanica quantistica non hanno mai affondato lo sguardo, limitandosi a descrivere teoricamente l’evoluzione dinamica quale appare nelle interazioni che coinvolgono corpi o sistemi di cui si trascura o si ignora la struttura interna. Abbiamo visto che gli orologi radioattivi, come chiaramente provato dall’esperimento effettuato nello storage ring al CERN da Bailey et al nel 1977, sono indipendenti dal potenziale centrifugo, da cui abbiamo dedotto, alla luce dell’interpretazione dell’effetto orologi come effetto di potenziale, che le misure ottenute con orologi atomici e orologi radioattivi non possono essere equivalenti. Poiché il decadimento radioattivo è un fenomeno statistico irreversibile, riteniamo che gli orologi radioattivi siano, in accordo con la definizione di Rovelli, chiari esempi di orologi termici e formuliamo esplicitamente l’ipotesi che il tempo termico abbia natura diversa dal tempo relativistico. La realtà teorica e operativa del tempo termico, per quanto Rovelli non l’abbia ancora riconosciuto, rende quindi palese la necessità di una revisione e di una conseguente rifondazione del concetto di tempo in fisica.

Il tempo generato dagli orologi 

Le considerazioni sviluppate nei paragrafi precedenti portano al cuore del problema: la possibilità che orologi diversi misurino tempi di natura fisicamente diversa, legati ai diversi livelli indagine della realtà fisica sondati dalle teorie fondamentali, che possiamo suddividere in: 1) quantistico; 2) relativistico; 3) termodinamico. Ogni teoria è costruita sulla base di principi autonomi, indipendenti da quelli su cui sono state fondate le altre, quindi riteniamo non sia produttivo cercare anelli di raccordo o sintesi più profonde che consentano di fonderle, al fine di attingere un definitivo sistema concettuale su cui fondare la conoscenza della struttura ultima del reale fenomenico. Quanto al tempo, per quanto nei diversi ambiti teorici venga utilizzato come grandezza fisica, un’analisi attenta porta a concludere quanto segue. Mentre in ambito quantistico le interazioni sembrano prodursi istantaneamente nello spazio assoluto (l’entanglement ne è la prova sperimentale), in ambito relativistico richiedono un tempo finito, esiste una velocità limite e invariante e i campi implicano la struttura dello spaziotempo, la cui curvatura descrive i fenomeni gravitazionali e che supporta ogni altra interazione. La realtà del tempo relativistico è legata alle misure che gli orologi effettuano in accordo con la legge che esprime il legame tra il periodo proprio e il potenziale: solo la classe degli orologi elettromagnetici (a cui appartengono gli orologi atomici ed altri dispositivi ad essi equivalenti) contiene strumenti che funzionano come orologi relativistici. La natura evolutiva del tempo emerge solo nel quadro teorico della termodinamica, in cui gli orologi registrano un fenomeno irreversibile che si produce al loro interno: il tempo evolutivo (Borghi, 2013b) è misurabile in quanto generato da orologi che registrano durate in accordo con l’ipotesi del tempo termico di Rovelli. Il tempo termico emerge a un livello di descrizione del reale fenomenico in cui il modello dello spaziotempo non è fondamentale: i modelli teorici della realtà fisica, quindi, non si implicano l’un l’altro, in quanto fondati su strutture logico-operative potenzialmente autonome. Se, cioè, scavando verso il livello quantistico appare prima evidente la realtà relativistica dello spaziotempo, che quindi svanisce per lasciare il posto, al livello dei campi quantistici, alla realtà delle interazioni istantanee, in cui il mondo pare ridursi a caos reversibile, non siamo autorizzati a concludere che la vera realtà fisica sia quella che si mostra all’indagine su scala relativistica o quantistica. La realtà operativa del tempo irreversibile rivoluziona radicalmente il quadro teorico come se, in un certo senso, su scala macroscopica il mondo mostrasse una peculiarità fenomenica che le teorie più fondamentali non riescono a spiegare.

Laddove l’evoluzione della fisica è stata segnata dalla comprensione di fenomeni empirici alla luce di principi teorici unitari (ad esempio, i fenomeni elettrici e magnetici hanno trovato una sintesi compiuta nella teoria di Maxwell), la natura pare rifuggire, in materia di tempo, alla volontà di ricondurre la complessità dei fenomeni a un quadro teorico unitario. La recente sintesi della gravità quantistica (Rovelli, 2014), pur fondandosi su un modello in cui le contraddizioni tra meccanica quantistica e relatività generale vengono, per certi aspetti, brillantemente superate, non risolve, in effetti, il problema del tempo, limitandosi a contemplarne, a livello fondamentale, l’inesistenza, e illudendosi che tale visione riduzionistica possa spiegarne la realtà fenomenica. Cercando il fondamento ultimo, le teorie devono di continuo spogliarsi e privarsi degli elementi concettuali che avevano percepito come scoperte entusiasmanti accentuando il potere risolutivo dell’osservazione e dell’intelligenza dei fenomeni e non possono spiegare, al loro interno, l’emersione dell’irreversibilità da un fondo di atemporalità reversibile. Cosa se ne evince, ad esempio, circa la realtà del tempo relativistico, visto che la teoria della relatività generale prevede diversi tempi di decadimento di campioni radioattivi, sovrapponendo due concetti che qui riteniamo di diversa natura, il reversibile tempo proprio relativistico e l’irreversibile tempo evolutivo interno termodinamico? La risposta è implicitamente contenuta nelle osservazioni sopra riportate, in quanto attualmente in fisica si confondono i livelli di indagine intorno al problema del tempo, ignorando o trascurando che ogni ambito di ricerca produce gli strumenti concettuali e operativi che consentono di verificare la correttezza delle ipotesi sulle quali la teoria è stata fondata. Se, quindi, la relatività richiede di essere testata con orologi a luce o con orologi atomici, che consentono di sondare la struttura dello spaziotempo sulla quale è stato costruito il suo edificio concettuale, i dispositivi di natura termodinamica, come gli orologi radioattivi o gli orologi termici a cui allude Rovelli, all’interno dei quali si producono fenomeni irreversibili di natura statistica che non possono essere controllati dal modello relativistico, permettono di sondare la realtà emersa del tempo che si mostra nella sua natura evolutiva, e consentono di misurare durate di processi legati a un cambiamento interno irreversibile che si produce nello strumento. L’irreversibilità è l’elemento distintivo della realtà fisica quale appare alla scala macroscopica in cui sono immersi i nostri sensi e gli strumenti di misura, che ne amplificano il potere risolutivo e la capacità di osservazione e registrazione delle proprietà dei fenomeni naturali. Il tempo termico misura la durata dei fenomeni che osserviamo su scala macroscopica, ignorando i microstati, nonostante questi ultimi, a un livello più metafisico che fisico, possano essere considerati il sostrato invisibile e ultimo su cui poggia la realtà quale si mostra all’esperienza sensibile e agli strumenti che la esplorano. Ogni idealizzazione teorica legge diversamente la realtà fisica in quanto utilizza diversi modelli matematici come strumenti di interpretazione della complessità dei fenomeni, fondandosi, da Newton ad Einstein alla meccanica e alla gravità quantistica, su un chiaro quanto indiscutibile preconcetto circa una realtà del tempo esterna ai corpi e agli orologi.

 Conclusioni.  Il mondo come realtà e rappresentazione

Le idee di tempo che emergono dalle recenti teorie fisiche generano nodi problematici, in quanto, pur ponendosi dialetticamente rispetto ad essa, si sviluppano tutte a partire dalla teoria newtoniana, in cui il tempo viene posto assiomaticamente come entità metafisica, durata matematica, quindi non reale. Il tempo relativistico non ha natura assoluta e la sua definizione operativa genera un diverso valore della misura di una durata per osservatori che si trovino in diversi stati di moto, ma si limita ad essere a sua volta un tempo matematico, che virtualmente tali osservatori misurano al variare del loro stato di moto: nella formalizzazione più completa della teoria, la relatività generale, le durate sono scritte nelle linee di universo e si prevede, in accordo con la clock hypothesis, che debbano esistere strumenti in grado di misurarle. L’analisi degli orologi reali, il cui periodo proprio non sempre varia in funzione del potenziale gravitazionale o pseudo gravitazionale in accordo con la teoria, porta a concludere che essi non siano tutti tra loro equivalenti. Gli orologi radioattivi, che misurano durate quantificando la massa di sostanza decaduta in corrispondenza di un certo fenomeno compreso tra due eventi estremi che ne contrassegnano l’inizio e la fine (nascita e decadimento di una particella instabile), con buona probabilità non funzionano in accordo con le previsioni relativistiche: i molteplici test sperimentali circa la diversa vita media di un campione radioattivo hanno solo verificato la relazione tra la misura della stessa vita media effettuata da due osservatori in moto relativo, non consentendo, quindi, di concludere alcunché circa la diversa evoluzione interna degli strumenti di misura. Non sono ancora stati fatti esperimenti per verificare se un campione radioattivo, in corrispondenza di due linee di universo non equipollenti comprese tra due fissati eventi estremi, registri quantità diverse di sostanza decaduta: solo l’esperimento diretto, quindi, che metta a confronto il comportamento di orologi reali, può dire qualcosa di definitivo circa la natura e la realtà del tempo radioattivo.

L’analisi critica ha chiaramente evidenziato che, mentre il tempo newtoniano è un insieme di istanti-universo, il tempo della relatività speciale è legato alla procedura di sincronizzazione degli orologi, che ogni osservatore ottiene tramite segnali luminosi, nell’ipotesi che la velocità della luce sia isotropa e invariante: dopo aver idealmente riempito lo spazio di orologi sincronizzati, un osservatore misura la durata di un fenomeno come differenza tra gli istanti che corrispondono agli eventi estremi. Il tempo della relatività ristretta è idealmente misurato da orologi puntiformi, il cui ritmo interno è indipendente da influenze esterne, la cui sincronizzazione è possibile grazie all’invarianza di c e allo scambio di segnali con altri orologi ideali e identici. Il passo verso la fusione tra spazio e tempo, preconizzata da Einstein in sede di relatività speciale, è stato formalizzato da Minkowski nei termini di una teoria dello spaziotempo quadridimensionale idealmente vuoto, a cui ha fatto seguito, nell’ottica di una sempre più rigorosa definizione operativa del tempo relativistico, la concezione einsteiniana della realtà fisica oggettiva dello spaziotempo, la cui metrica è determinata dalla densità della materia-energia. Il superamento della metafisica newtoniana dello spazio e tempo assoluti è quindi avvenuto, all’interno della teoria einsteiniana, generando un immanentismo metafisico dello spaziotempo assoluto, in cui gli istanti non sono scanditi da un unico orologio universale che misura la durata di ogni fenomeno e della vita di ogni corpo, bensì corrispondono a misure ottenute tramite orologi che registrano il tempo proprio come lunghezza della linea di universo. Laddove nessun orologio del reticolo, in relatività ristretta, quantifica un divenire interno reale, abbiamo mostrato, passando al quadro concettuale della relatività generale, che molti orologi reali con buona probabilità non si comportano come orologi relativistici, in quanto registrano evoluzioni interne irriducibilmente diverse.

Nell’ottica dell’ipotesi del tempo termico, come si è visto, il problema può essere posto nei termini del probabile disaccordo tra le misure sperimentali ottenute tramite orologi relativistici ed orologi termici. Si può obiettare, in accordo con Barbour e Rovelli, che si può ottenere una descrizione della fisica fondamentale, quantistica e relativistica, ignorando il tempo, ma il problema di fondo, a livello concettuale, rimane aperto e rischia di generare ulteriori contraddizioni: cosa significa prevedere diverse durate della vita di un campione radioattivo al variare della linea di  universo se si concepisce, come correttamente fa Rovelli, il tempo relativistico come una grandezza legata al potenziale gravitazionale o pseudo gravitazionale, laddove un orologio radioattivo registra un’evoluzione interna il cui ritmo è indipendente dal potenziale? Il dubbio einsteiniano, posto già in sede di relatività speciale, circa la risposta coerente degli strumenti di misura, viene quindi superato, ma non risolto, grazie alla teoria dello spaziotempo che, da Minkowski alla relatività generale, diventa il nuovo assoluto della fisica, aprendo la strada alle molteplici rappresentazioni matematiche novecentesche della realtà fenomenica in cui proliferano le dimensioni e gli spazi astratti, sempre più allontanando la mente dalla natura, o confondendo la natura con la mente che la rappresenta, come se nel mondo dei fenomeni potessimo incontrare, vedendole emergere, le realtà che l’intelletto ha ipotizzato forgiandole nel mondo platonico delle idee.

Dall’analisi e dalle considerazioni sviluppate nel presente lavoro ritengo emerga la necessità di porre un nuovo confine tra realtà osservativa e ipotesi matematica, quindi tra fisica e metafisica, a partire da incongruenze rilevabili all’interno delle teorie sulla base di oggettive risultanze sperimentali. Si può obiettare in partenza che ogni teoria fisica nasce metafisicamente, fondandosi, in quanto elaborazione dell’intelletto che per sua natura pretende rappresentare e spiegare il molteplice empirico alla luce di sintesi logiche, su assunzioni assiomatiche. L’obiezione è corretta, ma non ci impedisce di osservare, in materia di tempo, che nessuna teoria delle durate può essere fondata su ipotesi assiomatiche che non contengano necessari riferimenti alle misure ottenute da orologi reali. Gli equilibrismi fisici e filosofici in cui si sono esibiti teorici ed epistemologi, da Einstein a Malament e Maudlin, fino a Rovelli e Barbour, non possono evitare che la fisica teorica debba a un certo punto confrontarsi con la complessa fenomenologia con cui il divenire, a livello microscopico e macroscopico, si mostra agli occhi dell’esperienza.

Le conclusioni, di cui occorre sottolineare l’importanza, sono due. In primo luogo abbiamo rilevato che gli orologi radioattivi sicuramente non funzionano in accordo con le previsioni relativistiche in materia di misura di durate, in quanto gli orologi relativistici ottengono misure legate al potenziale gravitazionale e pseudo gravitazionale, alla cui variazione i campioni radioattivi non sono sensibili. In seconda istanza occorre rilevare che le teorie fisiche, pur riferendosi allo stesso materiale di indagine, non sono sempre ampliamenti le une delle altre ma, spesso, visioni della realtà fra loro in buona parte inconciliabili. Ne sono prove evidenti e indiscutibili, oltre alla limitata rispondenza degli orologi reali alle previsioni circa le misure di durate, la diversità sostanziale tra il concetto di tempo evolutivo interno (misurato dagli orologi termici) e quello di tempo proprio che, a ben vedere, essendo già scritto nella linea di universo, non contiene alcuna informazione circa il ritmo evolutivo dei corpi e degli orologi che la percorrono.

Come si è modificata, dunque, la rappresentazione della realtà in direzione delle sintesi teoriche attuali? Il tempo newtoniano lascia intatta la possibilità del divenire: il suo essere assoluto significa possibilità di evoluzione aperta, non determinata dalla struttura dell’universo. Il tempo relativistico è parte costitutiva dello spaziotempo, la cui struttura è determinata dalla densità di materia-energia: in quanto tale misura un divenire chiuso, senza evoluzione effettiva. La teoria di Einstein è in effetti fondata sull’implicita ipotesi di un tempo-movimento che, nella forma della sua sintesi ultima (la relatività generale), è scritto nei cammini quadridimensionali che i corpi-orologi percorrono. La relatività ha chiuso il mondo in un modello geometrico in cui l’evoluzione, che si produce all’interno dei corpi, si è dissolta nell’astrazione logica. La termodinamica, ancora poco esplorata o ridotta a visione grossolana in cui i fenomeni complessi vengono risolti in sintesi statistiche, è la sola teoria in cui emerge la natura evolutiva del tempo. In tale contesto, come dice Rovelli, emerge l’ignoranza dei microstati e delle strutture fondamentali su cui poggia la realtà fisica e si postula l’esistenza di un tempo interno, di cui le altre teorie non hanno saputo o potuto cogliere la novità e la profondità rivoluzionaria.

Solo da una nuova teoria degli orologi reali, quindi, che generano e misurano le durate legandole a fenomeni irreversibili che si producono al loro interno, può nascere una rifondazione del pensiero fisico intorno al tempo, da cui molto probabilmente emergerà l’impossibilità di chiudere il reale in una rappresentazione teorica riconducibile a una struttura concettuale unitaria.

Ringraziamenti. Grazie a Carlo Rovelli e Julian Barbour per aver ampiamente discusso questa analisi teorica del problema del tempo. Un ringraziamento particolare a Silvio Bergia, per la preziosa e concreta attenzione allo sviluppo di queste idee.

 

 Bibliografia

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Claudio Borghi

Claudio Borghi è nato a Mantova nel 1960. Laureato in fisica all’Università di Bologna, insegna matematica e fisica in un liceo di Mantova. Ha pubblicato articoli di fisica teorica ed epistemologia su riviste specializzate nazionali e internazionali, in particolare sul concetto di tempo e la misura delle durate secondo la teoria della relatività di Einstein. Presso l’editore Effigie sono uscite due sue raccolte di versi e prose, Dentro la sfera (2014) e La trama vivente (2016). Una selezione di testi da La trama vivente è stata pubblicata nella rivista Poesia (settembre 2015).

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Giorgio Linguaglossa SUL CONCETTO di HEIDEGGER di “EVENTO” (Ereignis), e sui concetti di Carlo Diano di “EVENTO”, “NOME” e “FORMA” COME CATEGORIE CENTRALI DELLA DIMENSIONE ESTETICA e LA PROSSIMITA’ DEL LINGUAGGIO ALL’ESSERE nel pensiero di Heidegger

Naike Rivelli si Difende Io Rifatta Il Seno  Sì Per Salvarmi La Vita

Naike Rivelli si Difende Io Rifatta Il Seno Sì Per Salvarmi La Vita

 Sul problema heideggeriano di Evento (Ereignis)

occorre distinguere l’Evento accidentale (la tegola che cade sulla testa di un pedone) da un Evento non accidentale (lo scontro di due corpi nella meccanica). L’Evento dell’arte è quel particolare Evento che riunisce in sé l’elemento della accidentalità e quello della necessità. L’Arte è l’unico momento che riunisce in sé queste due condizioni dell’Essere. L’Evento è dunque un «concreto»; per Marx «Il concreto è concreto perché sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione».*

* [K. Marx, Grundrisse p. 21]

Tutta l’ontologia di Heidegger non va oltre la posizione di Hegel per il quale «l’essere è l’immediato indeterminato». In realtà, Heidegger non compie nemmeno un passo (filosofico) in avanti rispetto alla posizione di Hegel. Essere e tempo è, da questo punto di vista, un documento ineguagliabile della crisi della visione del mondo borghese tra le due guerre.

Chiediamoci: che cos’è l’Evento? L’evento è sempre un qualcosa che accade (hic et nunc), per noi, in un punto  individualizzato del tempo e dello spazio, costituisce sempre una esperienza, mai un pensato, una esperienza riferita al soggetto esperiente e all’accadimento specifico di qualcosa che accade qui e ora, per me, cioè in un presente determinato e irriducibile ad altri istanti del tempo, che la descrizione matematica del mondo tende ad espungere dal proprio orizzonte teorico.

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Chiediamoci: come si forma un Evento? Un fulmine è forse un evento? Un terremoto è forse un evento? Un crollo della borsa è  forse un evento? Un incidente stradale che ci costa la vita di un figlio, è un Evento? Un terremoto che avviene nell’altra parte del mondo e uccide 100.000 persone,  per me è un Evento? Cosa fa sì che un Evento sia un Evento? Che cosa fa dell’«Infinito» di Leopardi un Evento per me che lo leggo? E così via…

 Il filologo Carlo Diano, in un suo libro ormai introvabile, Forma ed evento del 1967, sposta il baricentro del discorso dall’Essere alla nozione di Evento (Ereignis). Già Heidegger aveva accennato alla nozione di Evento come episodio chiave che consente il disvelamento dell’esperienza autentica, ma in Carlo Diano è chiaro che il concetto di Evento assume anche una funzione spartiacque tra autentico/inautentico, tra mondo di prima e mondo di poi, tra il tempo del prima e il tempo del poi; tra ciò che è significativo (per noi) e ciò che non lo è. Si tratta di una categoria centrale anche nella dimensione estetica. Che cos’è l’Evento?:

Evento è preso dal latino, e traduce, come spesso fa il latino, il greco tyche. Evento è perciò non quicquid èvenit, ma id quod cuique èvenit: o ti gίgnetai έḱάstw, come scrive Filemone, ricalcando Aristotele. La differenza è capitale. Che piova è qualcosa che accade, ma questo non basta a farne un evento: perché sia un evento è necessario che codesto accadere io lo senta come un accadere per me. E però, se ogni evento si presenta alla coscienza come un accadimento, non ogni accadimento è un evento. [] Di evento, dunque, non si può parlare se non in rapporto a un determinato soggetto, e dall’ambito stesso di questo soggetto. [] Come id quod cuique èvenit l’evento è sempre hic et nunc. Non v’è evento se non nel preciso luogo dove io sono e nell’istante in cui l’avverto. [] Da quello che precede è chiaro che non sono l’hic et nunc che localizzano e temporalizzano l’evento, ma è l’evento che temporalizza il nunc e localizza l’hic. E l’hic è in conseguenza del nunc perché è come interruzione della linea indifferenziata e non avvertita della durata – e cioè dell’esistenza come esistenza vissuta – che l’evento emerge e s’impone, ed è per essa e in essa questa interruzione che l’hic è avvertito e si svela”. [C. Diano Forma ed evento]

bello volti in serie

È l’Evento il concetto centrale sul quale incentrare una riflessione sull’estetica. Evento come apertura di orizzonti possibili, interruzione della linea indifferenziata della durata. Evento come individuazione di una esperienza significativa. Evento come esperienza di un nuovo principio fondante della comunità di un popolo. Evento come principio inaugurale. Evento come accadimento principiale. Evento come esperienza linguistica significativa che avviene per il tramite dei linguaggi artistici.

L’evento opera in modo da rompere l’omogeneità dello spazio, lo ritaglia e lo differenzia, e concentra il tempo in un singolo istante. «Ogni evento – argomenta Carlo Diano – perdendo la sua accidentalità, si inserisce nella ferrea catena provvidenziale del destino, di una necessità logicamente intesa, riscontrabile ovunque e senza eccezioni, Cade così la linea di demarcazione tra l’hic et nunc e l’ubique et semper. La tyche è solo un evento isolato di cui s’ignora la causa. Ma questa indubbiamente esiste e pertanto l’evento deve avere per forza un significato». (C. Diano op. cit.)

L’evenit proviene da una periferia spazio-temporale, da una totalità cosmica alla quale, pur staccandosi da essa, rimane legato; “la prima definizione che noi abbiamo di questa periferia è l’ἄπειρον periέcon [apeiron periechon] che Anassimandro e i teologi greci identificavano col «divino», e da cui facevano «governare il tutto». E l’intera grecità ne mantiene il concetto”. (C. Diano op. cit.)

roma La grande bellezza fotogramma Jep Gambardella in una strada di Roma

roma La grande bellezza fotogramma Jep Gambardella in una strada di Roma

 Attorno ad ogni singolo evento si apre l’infinità del periechon, il «senza limiti», un principio divino per i greci, immortale, la dynamis, come sinonimo di enèrgeia che assume nell’età ellenistica un senso che è proprio del «sacro».

La reazione dell’uomo a questo emergere del tempo ed aprirsi dello spazio creatogli dentro e d’intorno dall’evento, è di dare a essi una struttura e chiudendoli dare norma all’evento. Ciò che differenzia le civiltà umane, come le singole vite, è  la diversa chiusura che in esse vien data allo spazio e al tempo dell’evento, e la storia dell’umanità, come la storia di ciascuno di noi, è la storia di queste chiusure. Tempi sacri, luoghi sacri, tabù, riti e miti non sono che chiusure d’eventi”. (C.Diano op. cit.)

La chiusura dell’Evento è il Nome

 Per gli Stoici “il predicato è sempre un verbo, anche quando ha la forma di un nome. Socrate è virtuoso, equivale a Socrate sta esercitando la sua virtù”.

Carlo Diano nei Quaderni preparatori per Forma ed evento e Linee per una fenomenologia dell’arte (1968) ricorda che per gli stoici l’essenza della proposizione risiede nel verbo e che il nome è considerato del tutto secondario, infatti, per Aristotele «l’uomo cammina» equivale a «l’uomo è camminante». Ancora Diano:

«Nome e verbo. Difficoltà in cui si trovano i linguisti nel definirli – Con la mia teoria si spiega tutto – Il verbo è sempre τό συμπίπτον = τό συμβεβεκός  – eventum – Il nome è per eccellenza la forma, la struttura – ciò che non significa senz’altro la sostanza – o la significa in senso lato – Bisogna ritornare alla logica dei sofisti fino ad Aristotele – La logica sofistica non distingue la sostanza dall’accidente – il nome dal verbo – Ogni percezione ha una sua struttura temporale – il nome e il verbo si sono confusi: l’acqua scorre è un unico fatto – separate le due dimensioni e avrete il nome e il verbo – Ma è una separazione precaria perché il loro rapporto è dinamico».

«Il mito ha sempre forma storica, ed è nei tempi in cui l’evènit del mito si rifà èvenit nel rito, che i luoghi e gli oggetti sacri sono sentiti per eccellenza augusti. Lo stesso vale per noi: nella nostra vita i luoghi hanno tutti una data, e sono reali solo in quanto e nelle dimensioni in cui quella data è attuale e presente come evento… solo lo spazio è rappresentabile»

Ferdinando Scianna foto

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Per liberarsi dallo stupore e dall’horror generati dal trovarsi di fronte all’infinità, al gorgo in cui tutto è possibile, al fatto di sentire, dietro la cosa come evento, l’azione di una potenza inafferrabile, l’uomo cerca di superarne l’infinità, dando a essa un Nome e specificandola. Il nome  è una forma di chiusura, circoscrive la cosa e permette di individuare l’evento. Specificando la potenza che si rivela nell’evento, il nome ne supera l’infinità, rendendo così possibile all’uomo di liberarsi dallo stupore e di dare una direzione alla propria azione. Non a caso la categoria dell’Evento viene ripresa da Heidegger e posta in posizione centrale quale «struttura» del Dasein nell’In-der-Welt-sein (Essere-nel-mondo).

Il Nome è la forma eventica (l’hic et nunc) che si dà nella ripetizione (ubique et semper), come ad esempio nel rito. La ripetizione chiude la forma eventica restituendoci il Nome.

Il nome permette di riprodurre l’evento e di farlo presente (ed è per questo, sottolinea Diano, che alcuni nomi sono tabù). La ripetizione trasforma un «vissuto» in un «rappresentato»: alla fine di questo processo di trasposizione da un livello (il vissuto) all’altro (il rappresentato) la ripetizione cede il passo alla specularità che l’arresta.

helmut newton foto

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L’arte come sintesi di forma  e d’evento

«Con la Forma appaiono le “cose” e lo spazio si separa dal tempo, e, come spazio visto e non più vissuto, è definito per intero dalla figura ed è interno ad essa. Per Aristotele appunto il mondo è nello spazio quanto alle sue parti, non lo è quanto al tutto. Fuori della figura non c’è spazio se non come “intervallo” rispetto a un’altra figura… A questo spazio è ridotto il tempo, definito da  Aristotele come “numero del movimento secondo il prima e il poi“. Ora, la forma di per se stessa è immobile… L’unico moto di cui essa è capace, è la specularità con se stessa, ma la specularità è fuori dello spazio e non è un moto: perciò non v’è neanche il tempo». [C. Diano Linee per una fenomenologia dell’arte pp. 37-8]

«E però si deve dire che tutte le arti tendono alla parola, ma la parola al silenzio. Qui è l’ultimo limite e l’estremo periechon dell’arte, che però è via e non fine, ed è sempre via, come lo è la vita, che riprende sempre e non s’arresta mai, e, toccando in ogni opera il suo culmine, lo cerca ogni volta e sempre in un’altra».1)

  1. [C.Diano Linee per una fenomenologia dell’arte p. 122]

Citazione da Carlo Diano*

« Con la forma appaiono le “cose” e lo spazio si separa dal tempo.. Per Aristotele il mondo è nello spazio quanto alle sue parti, non lo è quanto al tutto. Fuori della figura non c’è spazio se non come «intervallo» rispetto a un’altra figura. A questo spazio è ridotto il tempo, definito da Aristotele come «numero del movimento secondo il prima e il poi». Ora, la forma di per se stessa è immobile: anche se occupa sempre nuove posizioni, giacché lo spazio esterno le è assolutamente irrelativo, e non è che mera possibilità.

Poiché appaia il tempo secondo il prima e il poi, è necessario che una forma, per la possibilità che ha di essere in qualunque punto dello spazio, s’incontri con un’altra forma (l’urto degli atomi di Leucippo e Democrito), ma, ogni forma essendo irrelativa all’altra… l’incontro è accidentale e il tempo è contingente. Solo questo tempo si dispone sulla linea retta, e solo esso è irreversibile (factum infectum fieri nequit), e sostanzializza l’istante.»

 *Carlo Diano da Per una fenomenologia dell’arte, 1968

La prossimità del Linguaggio all’Essere

Nel pensiero di Heidegger il linguaggio è prossimo all’Essere ma di un tipo di prossimità che si rivela lontanissima. Comunque stiano le cose, è la sola prossimità di cui l’uomo dispone. È questo il fulcro del pensiero di Heidegger sul linguaggio poetico e sulla poesia. La poesia non può che parlare da una immensa lontananza per poter giungere ad una vicinanza con l’Essere.

 «L’uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parole, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo, ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio. In un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente. Parliamo, perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà. Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito che l’uomo, a differenza della pianta e dell’animale, è l’essere vivente capace di parola […] L’uomo è in quanto parla […]

Il linguaggio fa parte in ogni caso di ciò che l’uomo ritrova nella sua più immediata vicinanza. Dappertutto ci si fa incontro il linguaggio. Per questo non è meraviglia se l’uomo, non appena prende, riflettendo, visione di ciò che è, subito s’imbatte anche nel linguaggio…». 1)

 «Il Linguaggio parla – L’uomo parla in quanto corrisponde al linguaggio. Il corrispondere è ascoltare. L’ascoltare è possibile solo in quanto legato alla Chiamata della quiete da un vincolo di appartenenza».

Il problema del linguaggio si pone in corrispondenza con il senso dell’esistere dell’esserci. Dopo Was ist Metaphysik? (1929) la filosofia di Heidegger accentua sempre più il suo carattere kerygmatico e teologico, si annuncia come portatrice di un messaggio di redenzione. All’annuncio subentra una riflessione sul modo con cui si dà l’annuncio e sul modo con cui l’Essere parla e sul modo con cui l’uomo ascolta e «cor-risponde»; così il Linguaggio (das Worte, die Sprache, die Sage) si annuncia mediante l’evento (das Ereignis) in corrispondenza con il poetare del poeta (il Dichten, il Denken, il Danken). Tutti i grandi pensatori, chiosa Heidegger, hanno pensato e detto das Selbe (l’identico), e «ogni pensatore pensa un unico pensiero» e «ogni poeta poeta un unico pensiero».

«Ma l’Essere, che è dunque  l’Essere? È se stesso… L’essere è il più lontano di ogni essente ed è tuttavia, più vicino all’uomo di ogni essente, sia questo una roccia, un animale, un’opera d’arte, una macchina, sia un angelo o Dio. L’Essere è ciò che è più vicino. e tuttavia la vicinanza rimane per l’uomo lontanissima».

heidegger nello studio

Le numerose asserzioni kyerigmatiche di Heidegger gettano luce sulla matrice religiosa del suo pensiero estetico: «noi giungiamo troppo tardi per gli Dei e troppo presto per l’Essere» e altre come «Hölderlin, rifondando l’essenza della poesia, determina e inizia una nuova età. Questa è l’età della indigenza, perché essa sta sia in una duplice mancanza e in un duplice non: nel non più degli Dei fuggiti e nel non ancora del Dio che ha da venire». E in alcuni passi posti all’inizio dello Humanismusbrief: «Il pensiero compie il rapporto dell’Essere con l’essenza dell’uomo. Esso non crea tale rapporto. Il pensiero altro non fa se non offrirlo all’Essere come ciò che a lui è dato dall’Essere. Questo offrire consiste nel fatto che l’Essere giunge al linguaggio nel pensare. Il linguaggio è la dimora dell’Essere. In questa abitazione abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa abitazione. Vegliando, essi portano a compimento il rivelarsi dell’Essere, in quanto, mediante il loro dire, portano al linguaggio e nel linguaggio custodiscono questa rivelazione».

Il Denken è Andenken (ricordo, memoria), ma anche la poesia è figlia di Mnemosyne

«La memoria, il raccolto ricordare ciò che deve essere pensato, è il fondamento e la fonte del poetare». «Il pensatore dice l’Essere. Il poeta nomina il Sacro […] Si conosce più di una cosa sul rapporto fra filosofia e poesia. Niente sappiamo del dialogo che intercorre tra poeti e pensatori che abitano vicino su monti quanto mai separati».*

«Il linguaggio è il linguaggio. Tale affermazione non ci porta a un fondamentodel linguaggio estrinseco al linguaggio, e nulla ci dice riguardo al problema se il linguaggio sia per caso il fondamento di altro da sé. L’affermazione “il linguaggio è il linguaggio” ci lascia sospesi sopra un abisso… »*

«Il linguaggio parla. Ma come parla? Dove ci è dato cogliere tale suo parlare? Innanzitutto in una parola già detta. In questa infatti il parlare si è già realizzato… In ciò che è stato detto il parlare resta custodito.

Se pertanto dobbiamo cercare il parlare del linguaggio in una parola detta, sarà bene, anziché prendere a caso una parola qualsiasi, scegliere una parola pura. Parola pura è quella in cui la pienezza del dire… si configura come una pienezza iniziante. Parola pura è la poesia […] Ascoltiamo la parola già detta:

 

Una sera d’inverno (Georg Trakl)

 Quando la neve cade alla finestra,
A lungo risuona la campana della sera,
Per molti la tavola è pronta
E la casa è tutta in ordine.

 

Alcuni nel loro errare
Giungono alla porta per oscuri sentieri
Aureo fiorisce l’albero delle grazie
Dalla fresca linfa della terra.
 

Silenzioso entra il viandante;
Il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.1)
 

1) Untervegs zur Sprache 1959, trad, it. 1973 Mursia Editore

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