
[Nel mezzo del cammino della mia vita mi ritrovai in una selva oscura di significati, la porta dell’Hotel Astoria n. 88. Entrai.]
Giorgio Linguaglossa
Stanza n. 88
«Non sono morto?», chiesi all’ospite.
«No, sei un quasi-vivo o un quasi-morto».
«Dovrei esser morto?». K. fece una piroetta.
«Perché, dovresti essere vivo?», replicò la Figura.
«Non so, ci sarà pure una differenza,
suppongo», insinuai.
K. non replicò. Sprangò tutte le porte, le sigillò con lo scotch,
le chiuse a chiave, a doppia mandata.
Poi passò alle finestre. Le chiuse. Sprangate.
E terminò con lo scarico del water.
Si sedette sulla sedia a dondolo. Di fronte al frigorifero.
E attese.
Ero con le spalle al muro. Così, ho aperto il gas.
«Sa, preferisco una morte dolce», aggiunsi.
«L’Enel ha chiuso la corrente elettrica».
«Anche l’acqua, l’hanno interrotta…»
*
Dicevo poc’anzi: «La metafora non è l’enigma ma la soluzione dell’enigma». Ma, quale sia l’enigma io non lo so. Ad esempio, il personaggio K. delle mie poesie è una metafora, la «Stanza n. 88» è una metafora, etc. ma, se dovessi rispondere alla domanda: Qual è l’enigma?, non saprei dove andare a parare.
Penso che anche Mario Gabriele non sappia bene quale sia l’enigma delle sue poesie, però trova le metafore in quantità considerevole, sono queste ultime che illuminano quale sia l’enigma nascosto nelle profondità del nostro inconscio. Gettano un fascio di luce su quella «Cosa» che giace lì, nel fondo. Ma, non appena avviciniamo lo scandaglio della metafora, ecco che quello che ritenevamo essere il fondo si rivela uno s-fondo. E la ricerca ricomincia di nuovo.
Ma poi è così importante scoprire quale sia l’enigma nascosto? E qui la palla passa nel campo dei filosofi, sono loro che dovrebbero rispondere a questa domanda.
Penso, con Pier Aldo Rovatti, che l’enigma non ha una soluzione, può solo essere rivissuto. Penso che nella poiesis l’autore debba limitarsi ad abitare l’enigma, chiedendo con discrezione il permesso ad entrare e a prendervi dimora. Tutto qui.
Irrwegen
Stavo leggendo di un autore di poesia, un libro pubblicato in questi giorni da Mondadori (ma lo stesso discorso vale per moltissimi altri libri di poesia), e mi è venuto in mente questo pensiero: il linguaggio poetico viene pensato come se fosse uno «stato di natura» del linguaggio, come se godesse di una libertà di adozione e di fruizione di uso comune e gratuito. Quando invece quella dimensione «naturale» propria del linguaggio viene considerata da un pensatore come Giorgio Agamben in modo critico come un dispositivo biopolitico della modernità. Viene accettato in questi autori, implicitamente e senza alcuna coscienza critica, che quel linguaggio che viene adottato in una poesia o in una narrazione, è un linguaggio del biopolitico senza alcuna riflessione critica. Voglio dire, ed è bene ripeterlo, che quel genere di linguaggio poetico altro non è che un dispositivo biopolitico proprio del Moderno, e quindi non mette conto parlarne se non come un linguaggio della biopolitica e, aggiungerei estensivamente, proprio della biopoetica.
Mario M. Gabriele
caro Giorgio,
questa mattina ho letto la tua poesia e ne sono rimasto colpito. Sei uscito come il gheriglio dalla noce, mettendo in luce la tua psiche, da tempo avvolta in un cappotto, per non mostrare agli altri, la sfera emotiva di pensieri e stati d’animo accumulati nel tempo e amministrati linguisticamente con parsimonia e vigilanza.
Ti ho visto come un bodyguard intento a non far uscire allo scoperto l’aria delle tue stanze segrete, operando in primo piano sull’esterno della realtà, degli eventi, della colliquazione delle cose e degli oggetti, sulle disfanie del mondo, come il buon “viaggiatore” di Heidegger, che tra Erfahren, Irrfahren e Erkunden svuotava con “l’esperienza del pensare” le identità oscure e misteriose della vita e della metafisica che ci sono capitate sulla noce del collo, come un colpo di machete.
Tutto un bel lavoro non c’è che dire. Nei versi che hai scritto, mi pare di intravvedere il Lichtung des Seins, come sprazzo di luce che esce allo scoperto diventando rivelamento umano, e ciò non può che essere fondamento principale della nostra condivisione come poeti e lettori.
da Registro di bordo, Progetto Cultura 2020
2
Centrum Palace: Hotel notturno
ci si arrivava in ogni ora del giorno e della notte.
Denise cercava la malinconia di Molière
tra le letterature straniere nella hall.
A Giulia dicemmo di stare alla larga dalle Epifanie
e dai giorni di Palmira.
Nel bonheur du your rimasero i fogli A 4-80
e un pamphlet mai finito.
Ludmilla ama le carezze.
Questa è una città che non ha cuore.
-Cara Evelyn, sono John, ti scrivo per dirti
che sto preparando un albero genealogico.
So che i miei nonni emigrarono negli Stati Uniti
fermandosi chi a Waterbury e chi a Boston.
Se hai altri indirizzi
scrivimi al 98 Copper Lantern Drive- U.S.A-.
Passarono i trasmigranti dell’aldilà
riconoscendo la via, il numero civico, gli abbaini.
Da tempo sono fuori onda
oltre i tuberi,oltre i vasi di terracotta.
Al Berliner Ensemble tornò Brecht
con musica di Klaus Maria Brandauer.
Una pesante leggerezza si adagiò sul divano
con la psicostasia riportata da Forbes.
3
Convegno alle 20 di sera in Alba Chiara
con i primi workshops.
Weber parlò a lungo degli organismi astratti
e delle idiosincrasie puntando su una nuova Metafisica.
C’erano appunti di Extensions del mese di maggio.
Uno si fece avanti leggendo My Story.
Kriss portò le foto del Muro di Berlino
facendo il meglio di Bresson.
C’è chi ricordò i due Peiniger del III Reich
a caccia del soldato Charlie.
Ha smesso di piovere. Usciamo all’aperto.
Non ci sono le condizioni di attendere l’azzurro.
Prendiamo lo snowboard
per arrivare a Piazza dei Miracoli.
Attacco di venti gelidi dai Balcani
mentre gustiamo infusi di zenzero e curcuma.
Bussano alla porta. -Conrad, vedi chi è?-.
-Sono Giuditta, Signore, la governante dei Conti Mineo.
-Si ricorda di me?
Prendevo con ritardo il treno Berlino-Milano.
Erano anni imprevedibili.
Non sembrano che le cose siano cambiate da allora.
Preferisco lo stile gabardine,
fino a quando ne ha voglia Nostro Signore di Acapulco-.
4
Questa sera ti farò conoscere Katia Labéque
e Viktoria Mullova, con Giovanni Sollima in B For Bang.
Ti truccherai, lo so, per il nuovo anno
alla fine dei bilanci.
Il terreno dove crescevano le nespole
è diventato arido e il tuo catino non serve più.
Riaprono i boulevards. Sembra la periferia di Parigi
quando Bennard finì di tradurre Amours Jaunes di Corbière.
Il cammino è un pensiero.
Per questo Ketty si chiude in se stessa.
L’hotel Flaubert non era il luogo più adatto
per vedere l’eclissi.
Una sera, Joelle, ci prestò la casa:
il meglio delle nostre vacanze a Roven.
Ho sfogliato il dizionario per trovare “Erfahren”
con la sola luce del comò.
Il libro di Pound si è sfilacciato
al Canto LXXXIV.
.
Clara ha un’idea di come sia il viaggio
pubblicato da Klostermann.
Non ne vuole parlare. Sa che ogni pagina
è un foglio inutile nella ricerca del poema.
Giorgio Linguaglossa
Nella poesia di Mario Gabriele e, in generale, nella poesia della nuova ontologia estetica, ciò che è fondamentale è il gioco stesso, non i giocatori. La poiesis diventa il libero campo di azione del «gioco» del linguaggio. In tal senso, si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo, fintantoché lascia fuggire l’uomo nella vertigine delle significazioni che gli fanno obliare il rischio e la posta in gioco del suo rapporto con il linguaggio.
È nota la diffidenza di Heidegger nei confronti del linguaggio ordinario. È per questa ragione che le sue riflessioni sul linguaggio non coincidono in ultima istanza con la teoria ermeneutica della «metaforicità fondamentale» del linguaggio elaborata da H.-G. Gadamer.
È nella misura in cui la poiesis riesce a prendere le distanze dal linguaggio ordinario che può ritrovare il gioco del linguaggio e con ciò il gioco della metafora. Nel linguaggio compreso come Sage, il mostrare prevale sempre sull’indicare. Ora, questo privilegio del mostrare (die Zeige) implica una nuova valutazione della polisemia. Il pensiero essenziale, quello dell’Ereignis, è essenzialmente polisemico. La messa in evidenza della polisemia non significa la confessione dell’impotenza di un pensiero che avrebbe fallito a dirsi nell’univocità del concetto o nell’univocità “canonica” di una logica.
La polisemia non è un in-differente, non è una proprietà neutrale del linguaggio ma ha la funzione di preparare a quell’Inatteso («Bereitschaft für das Unvermutete» di Heidegger) che è eliminato dal linguaggio ordinario, che da questo punto di vista, è interamente subordinato all’impero dell’opinione e del «si dice».
In una poesia devi poter avvertire lo stillicidio dello sbattere sul niente. Quello sbattere, quell’affondamento è la felicità della poesia, la sua continua incompiutezza e inadeguatezza, il suo costante periclitare e incespicare. Mario Gabriele, dopo tanti anni, corre il rischio di ritrovarsi nello stesso luogo di Marina Petrillo, di Marie Laure Colasson ed Ewa Tagher. Che quella inoperosità dovesse realizzarsi in un amplesso senza gioia di generare e dove solo il contatto, puntuale e disperato col nulla, portasse testimonianza dell’esserci qui, in questo tempo senza disperazione e senza felicità non lo avremmo mai creduto qualche anno fa.
Dopo Heidegger, nell’ipermoderno, l’ontologia si definisce non più come il fondamento del soggetto ma come una macchina linguistica, pratica e condivisa, come tessuto della praxis, ed il dispositivo ontologico come asse di ricomposizione costituente dell’operare e del linguaggio nel comune. Questa riqualificazione dell’ontologia porta a tutt’altro che al nulla. Una schiera di filosofi, da Nietzsche a Benjamin a Foucault e Agamben ha cominciato a leggere questo nuovo rapporto ontologico come decisivo sull’orizzonte dell’operare. In questa nuova accezione il nulla è nient’altro che un facere, un operare destituente, un operare decostruttivo, un operare istitutore di quel facere che è il nulla.
1 M. Heidegger, Was heisst Denken, cit., p. 83. («Se tuttavia qui è possibile parlare di gioco, il gioco non sarà un gioco di parole, perché è l’essenza del linguaggio che gioca con noi», Che cosa significa pensare II trad. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1988, p. 15).
Carissimo Giorgio, seguo il tuo signor K da molto tempo e mi è sempre piaciuto: figura misteriosa, enigmatica, fatta di metafora, la tua poesia, quella di Mario Gabriele mi piace meno, viene a mancare la poesia, è fatta di nomi, priva di quel fascino che la poesia deve avere.
Un abbraccio. Lidia
Sia chiaro che non si dà una «verità metaforica» così come non si dà una verità tout court, la metafora non è nient’altro che una tensione tutta interna al verbo essere, incarna una doppia dimensione: una relativa alla sfera del semantico e un’altra propria della sfera dell’esistenza. È la oscillazione simultanea dell’ “è” e del “non è”, insita nel cuore dell’ “è” metaforico e appartenente non solo all’ambito semantico ma anche a quello dell’essere, a costituire la «verità metaforica» che buca la superficie linguistica per portare alla presenza qualcosa della realtà e del nostro essere nel mondo.
Il “come che cosa” viene alla presenza per merito dell’enunciato metaforico
e non è riferito ad un referente posto al di là del linguaggio ma funziona all’interno del linguaggio medesimo. La verità metaforica non dice ciò che l’essere è in modo letterale, bensì lo dice come “è e non è”, lo esprime in modo indiretto. È così che la sospensione del linguaggio strumentale e del suo relativo mondo oggettivo e manipolabile consente di portare alla presenza della linguisticità nuove dimensioni esistenziali, nuove dimensioni del mondo.
La stessa nozione di realtà che ci è nota attraverso il sistema dei segni del linguaggio non è l’unica nozione di realtà che ci possiamo formare. Ricoeur vede nel linguaggio poetico sorretto dalla metaforicità una strategia linguistica in grado di giungere ad una diversa modalità di dire la realtà e a un diverso concetto di essa. Mario Gabriele adotta una sorta di epoché, sospende il modo ingenuo e comune di cogliere la realtà al fine di far emergere il proprio sentimento ontologico.
La sovversione dell’ordine grammaticale, sintattico, categoriale stabilito nel linguaggio ordinario ne è la premessa metodologica. Nella poesia di Gabriele si dà tensione tra i due poli della significazione, e, in questo campo di tensione si dispiega la metafora, proprio perché si dà tensione tra l’ “è” e il “non è”.
cara Lidia Are Caverni,
penso che la strategia poetica di Mario Gabriele sia quella di lasciare ogni enunciato in sospeso, non dà mai un termine significazionista ai suoi enunciati; il poeta molisano abbandona il lettore a se stesso in una continua disillusione. Gabriele fa per un attimo balenare il significato che il lettore si aspetterebbe, per poi ridicolizzarne l’attesa per quel finale interrotto. È Godot che non arriva, è il Registro di bordo che non può essere terminato, è l’opera infinita nel senso che non può mai finire ed esser definita una volta per tutte. In questo modo sospende il linguaggio ordinario, lo consegna agli arresti domiciliari. Ed anche l’interpretazione viene consegnata agli arresti domiciliari. Così, Gabriele ribalta il noto assioma di Nietzsche: «Non ci sono fatti ma solo interpretazioni». Verrebbe da dire: ci sono solo interpretazioni interrotte, produzione di enunciati sghembi, interrotti, Irrwege.
Quella di Gabriele non è più una strategia oppositiva come avveniva nello sperimentalismo di Sanguineti di Laborintus (1956), ma è una strategia di sospensione di tutto ciò che nel linguaggio ordinario rimanda ad un referente stabilito dall’ordo rerum e dall’ordo idearum. Ed è una strategia davvero inusitata. Gabriele persegue questa strategia della «dis-attenzione» e della «dis-trazione», direbbe Gino Rago, in modo radicale, senza fare concessioni al comune senso poetico.
Scrive Mario Gabriele:
Non ne vuole parlare. Sa che ogni pagina
è un foglio inutile nella ricerca del poema.
La tensione riguarda in primo luogo la copula “è” dell’enunciato metaforico. L’è dell’enunciato metaforico è al tempo stesso un non è.
.
Nel saggio La mythologie blanche (DERRIDA, 1971), Derrida fa emergere
che alla base delle costruzioni metafisiche della filosofia occidentale c’è la
rimozione della dimensione metaforica dai propri enunciati.
I concetti filosofici sono sorti sulla base di metafore usurate, morte. Derrida ha dimenticato, rimosso, tale origine così da credere che i concetti siano in grado di esprimere in maniera appropriata la realtà. Mostrando il movimento e la funzione del metaforico nell’ambito del filosofico, Derrida descrive la traccia rimossa, la quale consiste nella metafora morta. “La metafora – dice Derrida – ha cancellato in se stessa la scena favolosa che l’ha prodotta e che resta comunque attiva, in movimento, inscritta con l’inchiostro bianco, disegno invisibile e ricoperto nel palinsesto”. (DERRIDA, 1971, p.4)
L’usura della metafora rimane celata all’interno del concetto filosofico; quest’ultimo ne costituisce il“superamento”. Con “superamento” (relève), osserva opportunamente Ricoeur, “Derrida traduce in modo assai corretto l’Aufhebung hegeliana. Per conseguenza, ravvivare la metafora vuol dire smascherare il concetto” (RICOEUR, 1997, p.380). È sulle ceneri della metafora che sorgono concetti metafisici come teoria, eidos, logos, ecc.
Si sedette sulla sedia a dondolo. Di fronte al frigorifero.
In questo momento non ne ho altri sottomano, ma sono questi i versi “secondari” di Giorgio Linguaglossa che preferisco. Ho ricordi di pareti bianche e pavimenti, e a destra e a sinistra… come qui la sedia è a dondolo.
Pare una normale descrizione in stile nominale, e in questo caso lo è, ma come nelle sue poesie nessun altro riesce a farmi accorgere della mancanza degli aggettivi. Forse da qui lo straniamento… dal nominale onirico. In questa scrittura l’isolamento di un subacqueo in terraferma. Illividisce ogni presenza, che, scandita, ne risulta evidenziata…
Quanto alla metafora non saprei dire, sospetto che sia un lasciapassare sottobanco del pensiero metafisico. E non ci troverei nulla di sbagliato, anche perché l’altro sospetto che ho, è che il giudizio sulla fine del pensare metafisico altro non sia che un prodotto derivato dallo stesso pensare metafisico… Un bluff, in attesa di eventi.
Una componente pop intererisce del tuo K. caro Giorgio.
Un sentimento di umana compartecipazione.
Il dondolo sublime, l’accenno subito spento di una intrigante trama. Appunto pop. Facilmente riconoscibile. La sottintesa poetica che ci fa Ombre. Un barlume di speranza. “Zona gaming”
direbbe il prof. Giuseppe Gallo.
In altre parole un dispendio di energie alla canna del gas che sia almeno riconoscibile.
Le didascalie che diventano interventismo poetico a me divertono un po’ meno.
Ma questo è il mio limite.
Grazie OMBRA.
Ohhh come mi piace, Mauro, quando scrivi così. Sensatamente. E quel La sottintesa poetica che ci fa Ombre… Ombre: bel titolo per una antologia!
Il giorno dopo.
Credi che sia pomeriggio ed è invece il giorno dopo. Ha senso.
Una scorribanda in quattro su le righe del tramonto. Quei tre
che mi accompagnano; e il senso dove ogni fiume scorre
lasciandosi dietro l’intera memoria. Tra pomeriggio
e il giorno dopo. Mentre qui, una bagarre sulla fonetica.
Viene carnevale. S’intrecciano cose su per il camino.
Tracce di metafora, il calvario di poesie su l’autunno
dove rami uggiosi sono me, prima che venissi al corpo.
Il quale a ben vedere nulla sa della morte, né si spaventa.
L’animale.
– May
…mi piace pensare che sia così la nostra poesia, alla Mario Brega.
Un abbraccione Lucio Mayor Tosi!
Grazie OMBRA
Cosa hanno in comune le poesie di Mario Gabriele & Giorgio Linguaglossa presentate su questa pagina de L’Ombra?
Hanno in comune, alla mia lettura, l’inclinazione a trasformare l’immaginazione (non la fantasia, che è altra cosa rispetto alla «immaginazione») filosofica in immaginazione poetico-letteraria, uno stile di scrittura nella quale coabitano l’arte della riflessione, la forza della memoria e la potenza della speculazione filosofica.
Tutto questo la chiamerei, proprio come indica nel suo commento Giorgio Linguaglossa (“[…] Ed è una strategia davvero inusitata. Gabriele persegue questa strategia della «dis-attenzione» e della «dis-trazione», direbbe Gino Rago[…]) «Estetica della distrazione».
Ma il lungo lavoro sul logos ( come insieme di retorica, fono-prosodia, lessico stile) dei due poeti Linguaglossa & Gabriele ha spinto il loro fare poesia verso la «Poetica dell’archeologo», ovvero verso l’arte dello scavo da strati esterni verso strati interni alla ricerca del nucleo essenziale non di una storia di personaggi veri o inventati ma del loro destino.
Ma sia Mario Gabriele, sia Giorgio Linguaglossa, custodiscono direi gelosamente quella che una volta si chiamava la «Wunderkammer».
Ovvero la camera delle meraviglie verso la quale spingono il lettore, ma tenendolo sempre distante quanto basta dalla loro Wunderkammer dove custodiscono le loro intime collezioni….
A Giorgio Linguaglossa che scrive:
“[…]
Poi passò alle finestre. Le chiuse. Sprangate.
E terminò con lo scarico del water.
Si sedette sulla sedia a dondolo. Di fronte al frigorifero.
E attese[…]”
fa eco Mario Gabriele:
“[…]
Attacco di venti gelidi dai Balcani
mentre gustiamo infusi di zenzero e curcuma.
Bussano alla porta. -Conrad, vedi chi è?-.
-Sono Giuditta, Signore, la governante dei Conti Mineo.
-Si ricorda di me?
Prendevo con ritardo il treno Berlino-Milano[…]
Nei versi di Linguaglossa&Gabriele il lettore è sempre in procinto di entrare nella loro Wunderkammer ma i due poeti lo sospendono sempre sulla soglia, davanti alla porta sbarrata.
Gino Rago
caro Gino,
le tue dissertazioni critiche fanno di te un esponente di rilievo nell’ambito della Nuova Ontologia Estetica, lasciando a me il compito di replicare a Lidia Are Caverni e al suo sintetico giudizio bio-iconico sulla mia poesia, che ovviamente può essere giudicata da chiunque, ma quando i pareri rivelano immature esposizioni estetiche, prive di qualsiasi esperienza semiologica, allora non solo si rischia la personalità, ma anche la sfera volitiva fatta di azioni e omissioni, per determinati fini.che consentono al soggetto in questione di essere al centro di una baraccopoli novecentesca, di cui oggi si raccolgono solo detriti. Non a caso la replica di Giorgio Linguaglossa alla Caverni è come sempre esemplare quando si affrontano casi di incapacità tecnica nel riferire sul mondo della poesia.
Ho letto e riletto più volte Stanza n.88 di G. Linguaglossa. Sono entrato e uscito da quei distici come da un tunnel “scenico”. Perché di questo si tratta. Di una “stanza” teatrale, o “treatrale” avrebbe suggerito Derrida e qualche altro. Linguaglossa ha la capacità di scrivere come se tutto potesse essere rappresentabile, da Uccelli a Blumenbilder… Gli occhi seguono i personaggi sulla scena, le orecchie ne percepiscono i borborigmi e lo spettatore è già preda del disorientamento… 88! Perché 88 e non 87? Ha quel numero attinenza con qualche altra ambiguità? C’è congruità e pertinenza tra il Soggetto parlante, il signor K e la Figura? Sono essi due, tre o uno solo?
La rappresentazione si svolge sotto una luce radente, misteriosa, fatta di penombra o è in pieno sole? Io credo che sia al buio. I gesti sono soltanto evocazioni mentali, memorie dissanguate, larve oniriche che tentano l’impossibile. Di asservire e sottomettere il reale. Lo dice, con l’acume che gli è proprio, M. Gabriele, quando afferma per questi versi: “Caro Giorgio,…Ti ho visto” operare “in primo piano sull’esterno della realtà, degli eventi, della colliquazione delle cose e degli oggetti…”. Questa colliquazione, fusione e scomparsa, è ciò che unisce e distingue la vis poetica di Gabriele e Linguaglossa. Gabriele ha fagocitato tutto! È un mostro che ha divorato e continua a divorare libri, paesaggi, bufere e isole, capitalismo e consumismo, ideologie e sentimenti, approdando alla loro rappresentazione linguistica sotto il segno della evanescenza e della perenne perdita; Linguaglossa cerca la radice di quell’esserci individuandone lo sfondo oscuro, la trama di pensiero che ne sostiene il desiderio, attraverso l’Enigma, l’Evento e la grande Metafora…
Carissimo Gino, se veramente potessimo giocare ancora con quella «Wunderkammer» che evochi! Purtroppo, e ce lo ricorda Linguaglossa, anche se abbiamo superato molto del nostro cammino, siamo ancora immersi nella selva oscura dei significati… e di chi sa cos’altro!
Ottima dissertazione critica, questa di Giuseppe Gallo, che omologa e mette in rilievo psicoestetico le identità poetiche mie e di Linguaglossa. Ai critici, così responsabili e maturi nell’analisi dei testi, non può che dispiegarsi l’azione del sapere, come punteruolo sul mistero delle metafore.La questione si pone quando l’epistemologia non è compresa da soggetti avulsi da ogni tipo di cosmologia poetica che li allontana dal pluralismo ontologico. Questo è il vero vulnus di lettori abituati a un intimismo elegiaco sempre conflittuale con chi si fa in quattro, non per esibizionismo, ma per necessità storica, nel rinnovare la poesia.
Nell’accingersi a iniziare un nuovo lavoro, Nietzsche si premurava di chiudere soprattutto i libri. Doppia mandata. Così da poter dire, come Giorgio: “Ero con le spalle al muro”…
L’opinione di Lidia Are Caverni su la poesia di Gabriele, rientra secondo me nella normalità del giudizio italico. Ed è assai prevedibile.
“Viene a mancare la poesia”, perché “fatta di nomi, priva di quel fascino che la poesia deve avere”. Mi limito a sottolineare quel DEVE. Il resto appartiene al tempo.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/02/17/ritrovarsi-in-una-selva-oscura-di-significati-stanza-n-88-di-giorgio-linguaglossa-e-tre-poesie-da-registro-di-bordo-di-mario-m-gabriele-lo-stato-di-natura-dei-linguaggi-irrwegen/comment-page-1/#comment-63002
caro Giuseppe Gallo,
tu scrivi:
«C’è congruità e pertinenza tra il Soggetto parlante, il signor K e la Figura? Sono essi due, tre o uno solo?
La rappresentazione si svolge sotto una luce radente, misteriosa, fatta di penombra o è in pieno sole? Io credo che sia al buio. I gesti sono soltanto evocazioni mentali, memorie dissanguate, larve oniriche che tentano l’impossibile.»
In effetti, io volevo fare una poesia di solo «parlato», alla maniera del poemetto di Brodskij “Teatrale” pubblicato pochi giorni fa su queste colonne. L’adozione del «parlato» e dei dialoghi in poesia è uno strumento utilissimo e pochissimo impiegato dalla poesia accademica, ma per la NOE è di primaria importanza. La moltiplicazione dei personaggi cui tu fai cenno (soggetto parlante, K., la Figura) non è altro che il risultato, fattuale, della de-soggettivazione del soggetto plenipotenziario, che oggi non ha più alcuna ragione di essere. Anche la tua “Zona gaming” è uno spazio aperto dove si scontrano e si incontrano forze espressive diverse ed allogene che devono trovare una coabitazione (forzosa e forzata ma non impossibile) all’interno del testo.
La nuova poesia è attraversata da forze trasversali e centripete che conducono la forma-poesia verso la soluzione del «polittico». Nel «polittico» queste linee di forza possono trovare una coabitazione, non dico una soluzione, ma, almeno una provvisoria com-posizione tra equilibri divergenti e dissonanti.
In fin dei conti, il «polittico» è un «sistema instabile» in sommo grado, formato da una materia verbale e iconica altamente infiammabile…
È necessario non cessare mai di problematizzare la soggettività, anche e sopratutto quando gli esiti di questa operazione critica ci conducono lontano da quelle che sembravano le nostre certezze. La soggettività, come la sfera della verità e quella del gioco, è una questione politica, è una costruzione della polis; ed è ovvia la considerazione secondo cui la soggettività nel «polittico» sia cosa diversissima dalla soggettività come quella che vediamo in opera nella poesia di Bertolucci o di Fortini. È ovvio che ogni forma poetica adotti un determinato paradigma della soggettività, quello che consente una migliore omogeneizzazione rebus sic stantibus delle linee di forza stilistiche di un campo di forze storiche.
In fin dei conti, il polittico è un sistema di sovra impressione di segni sul corpo martoriato e finito della tradizionale poesia del panopticon. Nella forma-polittico è scomparso l’io panopticon, l’io plenipotenziario che ordina il logos. Il «polittico» è un sistema di segni che si presenta tale che, per apparire, non deve essere affatto visibile. Il trucco c’è ma non deve essere visibile, in tal modo appare alla luce della visibilità come un fenomeno della natura.
«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una», scrive Charles Baudelaire. Nel suo Éloge du maquillage (1863), indica, infatti, la necessità di utilizzare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare artificio, mero artificio prodotto da un homo Artifex, ultima emanazione dell’homo Super Faber, Super Sapiens.
Il «polittico» è il nuovo, originalissimo, modo di pensare il «politico» oggi, cor-risponde agli «spazi interamente de-politicizzati delle società moderne» ad economia globale (Giorgio Agamben), è quindi una forma d’arte integralmente politica, che fa della politica estetica, che ritorna a fare della politica estetica, cioè un’arte della polis per la polis.
la globalizzazione è un processo ancipite, in cui agiscono vettori anche contrastanti: non vi è solo sconfinamento e apertura al globo, ma vi operano anche dinamiche di collocazione e localizzazione. Ci si muove nel quadro dell’Europa, che di per sé è uno spazio impensabile prescindendo da conflitti e polemiche: le assonanze, le linee di convergenza tra le varie tradizioni presentano la peculiarità di essere in se stesse complesse. Non esiste, in questo senso, «la filosofia europea» in quanto oggi può esistere soltanto una poesia europea, che abbia una cognizione del quadro storico-stilistico europeo. Pensare ancora in termini di una «poesia italiana» che si muova nell’orbita: dalle Alpi al mare Jonio, permettetemi di dirlo, è una bojata pazzesca. La globalizzazione è un processo macro storico che attecchisce anche alla poesia.
Oggi si richiede la ri-concettualizzazione del paradigma del politico operata da ottiche differenti e tuttavia caratterizzata da una comune o convergente fuoriuscita dallo schema classico: Avanguardia-Retroguardia, Poesia lirica- Poesia post-lirica. Oggi occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, Avanguardia-Retroguardia. Da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dismettere per ri-fondare una nuova Ragione pensante del poetico. Dopo Fortini, l’ultimo poeta pensante del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta pensatore, un poeta in grado di pensare le categorie del pensiero poetico del presente. Quello che oggi occorre fare è riprendere a ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico del presente. Dopo Fortini, la resa dei conti poetica è rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione.
Carissimo Giorgio, grazie per i chiarimenti, le suggestioni e le sollecitazioni epistemologiche…Tu scrivi che oggi “occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute…” e ricordi anche quanto scrive Baudelaire: «Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una». Oggi il trucco è innestato a quel corpomacchina che siamo ognuno di noi, come “ultima emanazione dell’homo Super Faber, Super Sapiens.” ecc.
Posto, a proposito, qualcosa, chiedendo venia ai lettori dell’Ombra di questa mia improvvida incursione.
1.(La cosa)
fuerunt filamenti caudali di lepisma o acciughina o pesciolino pendulo
vacui su croste notturne di carta acida a insediamenti mentali
fuit homunculus logonico
acerbo nespolo di giugno, come “il dio degli artefatti”,* come
MACHINA in F A B R I C A
(ergo non sum)
perché se fossi avrei almeno un nome come conseguenza rerum.
* G.B. Vico
2
“L’uomo è una cosa, il punto è una cosa, l’amore è una cosa…” *
Senza corpo nessuna domanda. Nessuna scienza dell’interno e dell’esterno.
Riposa l’Io senza dolore: fu scialbatura d’alba sull’erba mattutina.
Tutto al di là: lo stato acerbo del nespolo, giugno che annuvola, il naufragio dell’infinito…
Cos’è una C O S A?
PHILOSOPHIA perennis.
Ciò che si vede e non si vede.
O ciò che possiamo pensare e penserò.
*Silvio Ceccato, La terza cibernetica, Feltrinelli, 1974, p. 22.
3
Perenne stato di rovina del paesaggio che siamo noi e dunque quel silenzio
che precede il ronzio, in questa nuvola di giugno
acerbo salto quantico
del ripiegamento neurale nell’innocente
FABRICA
MACHINA
HOMUNCULUS energetico
a funzione attenzionale, categoria a cui difetta il nome.
Numeri a memoria propulsiva telematica. Solo i morti qubit non sono…
senza vento notturno la C O S A artefatta analizza le condizioni esterne
a programmazione cibernetica:
o vivi in rebus o non…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/02/17/ritrovarsi-in-una-selva-oscura-di-significati-stanza-n-88-di-giorgio-linguaglossa-e-tre-poesie-da-registro-di-bordo-di-mario-m-gabriele-lo-stato-di-natura-dei-linguaggi-irrwegen/comment-page-1/#comment-63005
Ingehaltenheit in das Nichts, mantenersi nel Nulla, per Heidegger è la condizione dell’EsserCi.
La nuova poesia, la nuova arte è questo periclitante mantenersi nel Nulla proprio in quanto mantenimento nei limiti e nella circonferenza del finito.
Costitutiva della verità dell’essere è per Heidegger la sua finitezza, o il fatto che l’essere è finito, il che ha sollevato un mare di discussioni sull’ateismo di Heidegger, sulla morte di Dio, come morte del Dio della metafisica tradizionale. Il che ha sollevato un mare di eccezioni. Che l’essere sia finito significa per Heidegger che la verità dell’essere si manifesta all’esserci dell’uomo solo sulla base del nulla. Se Dio fosse l’essere assoluto, sarebbe limitato dal nulla al quale si deve rapportare nella creazione del mondo. Occorre quindi ammettere che il nulla si manifesta come appartenente all’essere stesso. Ergo, l’essere è nella sua essenza finito in quanto si manifesta soltanto nella trascendenza dell’ esserci che si mantiene nel nulla.
La trascendenza dell’esserci rispetto all’ente nel suo tutto è radicata nella sua finitezza, che è al tempo stesso la finitezza dell’essere, cioè la coessenzialità dell’essere e del nulla.
L’esserCi non è semplicemente nel tempo, ma il tempo è piuttosto il senso dell’esserCi. Le cose sono nel tempo, scorrono nel tempo, ma il tempo è intemporale. Le cose scorrono nel tempo proprio in quanto hanno un luogo dove stare, e questo luogo è il tempo.
La temporalità è la dimensione fondamentale dell’esserci, che è l’essere dell’uomo come esistenza, come essere gettato nel tempo e come progetto. L’esserci è il terreno su cui basare la domanda della ontologia fondamentale. 2
1 Cfr. Was ist Metaphysik?, trad. it. Che cos’è Metafisica, cit., p.15.
2 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, 1927
Ecco l’ennesimo rifacimento di una mia poesia.
Stanza n. 13*
Agenti della Vopos con impermeabili scuri.
camminano rasente i muri.
Torrette di avvistamento. A sinistra, il muro. A destra, il muro.
Una scala a chiocciola. In ferro.
Prigionieri. Gendarmi. Hangar. Corridoi. Cancelli.
Uniformi. Celle. Sbarre. Cancelli.
Pavimento epossidico color ambra. Materasso. Tavolo.
Lampadina. Soffitti. Oblò. Cortili.
Cellule fotoelettriche. Torce elettriche. Riflettori.
K. con i tacchi a spillo fuoriesce dalla finestra
Ed entra dentro la cella del filosofo.
«Veda Cogito, i marziani hanno occupato lo stabilimento balneare.
Si arrenda. Non ha più scampo ormai».
Ma io sapevo che il filosofo avrebbe vinto la partita,
sarebbe andato fino in fondo.
Che cosa aveva da perdere ormai…
Ma scacciai subito quel pensiero. Lo sostituii con una sigaretta elettronica.
Per paura. Forse.
Per disperazione. Per dissipazione. Per distrazione.
Per dimenticanza.
[…]
Il Re di Denari bacia la dama in maschera.
Un quadro del Tiepolo. Il cicisbeo accenna un inchino che non avviene.
La dama con l’orecchino di perla manda un sms a Vermeer,
c’è scritto: «Voglio anch’io un ritratto come quello che ha fatto
A quella sguattera con l’orecchino di perla…».
Il pensiero impresentabile mi sorprese all’angolo di via Gaspare Gozzi.
Pietro Longhi ritrae la damigella col guardinfante
in posa col papà nello studio del pittore, al Cannaregio.
Mozart compila il 740, si reca al Caf per la denuncia dei redditi.
Mangia un gelato italiano alla panna. Ride.
Ma dimentica qualcosa, ordina al calessino di tornare indietro.
E si perde nel traffico della Vienna imperiale.
[…]
A destra, la scala a chiocciola. Di fronte, il vano dell’ascensore.
Rumori di ascensore. Ottusi.
Fantomas imbracciò il piede di porco e sollevò la saracinesca
«La metafora non è l’enigma ma la soluzione dell’enigma».
I cristalli della vetrina splenderono di luce abbagliante.
Poi si pulì i guanti con lo spazzolino da denti.
E prese congedo.
*
*Ecco qui un «polittico» composto con spezzoni e frammenti di altre poesie distrutte dall’hacker e da me miracolosamente ripescati dalla memoria. Quindi, si tratta di duplicati di scarti e di frammenti che forse non hanno né capo né coda, o forse hanno una coda, ma senza alcun capo… Lo stile è nominale; ho eliminato tutti i verbi inutili e gli aggettivi esornativi. Ho lasciato i nomi e le immagini.
Il «polittico» abita la pluralità dei tempi e degli spazi. Più spazi e più tempi convergenti costruiscono la casa del «polittico», altrimenti non si ha «polittico». C’è un filo conduttore che unisce quei tempi e quegli spazi, ma non è neanche detto che ci sia. Molto probabilmente ci sono una molteplicità di fili conduttori che si dipanano dal «polittico», c’è un tessuto di fili che tiene insieme il «polittico». Ma, anche se non ci fosse, non importa, perché l’arte è finzione, finzione che qualcosa accada; e finzione significa rappresentazione.
«Vero è che la permanenza è propria del tempo considerato nella sua totalità. Come tale il tempo non scorre, non cambia. Cambia, scorre, ciò che è nel tempo».1]
1] V. Vitiello, op. cit. p. 203
Il moto entropico perpetuo in Registro di bordo di Mario Gabriele e lo spaesamento europeo contemporaneo in Giorgio Linguaglossa, Carlo Livia e Lucio Mayoor Tosi
di
Gino Rago
“[…]Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni […]”.
Poco più giù, nello stesso polittico, il lettore, già tramortito dalla valanga di immagini-parole-metafore cinetiche che Mario Gabriele crea e intreccia, con la maestria e la sapienza dei vecchi cestari, si imbatte in un altro distico non meno spiazzante del primo
“[…]C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire[…]”
Lo spaesamento dell’uomo d’occidente è totale: le stagioni è possibile rinvenirle nella discarica e tra il “nascere” e il “morire” del secondo distico manca ciò che si verifica o che dovrebbe verificarsi tra le due polarità estreme del nascere e del morire: vivere, semplicemente vivere.
C’è tutto, anche se mai viene nominato, ciò che non riesco a dire diversamente il dolore dell’uomo d’Occidente nella gabbia filiforme di una Europa ipermoderna cristallizzata in quello che Zygmunt Bauman ha saputo indicare come “il-tempo-di-mezzo”, tra un “non più” non ancora concluso e un “non ancòra” do in nuovo che stenta ad albeggiare; e il poeta d’avanguardia come Mario Gabriele avverte la lacerazione tra “cosa” e “parola”, lacerazione ribadita da Giorgio Linguaglossa: “Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire…”, e rimangono le interferenze, le ibridizzazioni, le immagini metaforiche, gli sparpagliamenti, le dissipazioni: una entropia di linguaggi in un moto entropico perpetuo…
Per questo forse
“[…] Marisa riordinò gli arredi
lasciando al gatto Musumeci i residui di Gourmet […]
mentre in altra parte dello spirito d’Occidente, benché ad altre latitudini e ad altre longitudini:
“La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.”
Il congedo qui si è fatto definitivo dai direi «topoi» di tantissima nostra poesia: le discariche, i residui di Gourmet, il matrimonio con la tristezza della sposa americana, le foglie del bonsai, gli arredi da riordinare, e altre immagini metaforiche nel Giornale di bordo, prendono il posto definitivamente, e in un altro «luogo poetico» delle linee-luoghi comuni del petrarchismo-umbertosabismo-cardarellismo “fiore-sole-cuore-luna-amore…”.
Qui, lo spaesamento dell’uomo d’occidente convoca altri approdi, in questo Giornale di bordo l’estraneazione richiede altre poetiche, un’altra estetica, una altra morale, un’altra etica, qui siamo alla «Poetica della indignazione morale», alla «Estetica della disperazione»….
E cosa fanno anche il Carlo Livia di questi versi:
“[…] Era prima del tempo, del pensiero. Quando i gigli non sapevano separarsi dalla luce, e gli angeli spiavano i gemiti delle alcove.
Quando il cielo era nudo di sguardi, e un orfano piangeva fra le acque indivise. Le sue lacrime tracciavano le strade dei millenni.
Prima del senso, del lutto, dell’addio […]”
E il Lucio Mayoor Tosi di Nautilus, uno dei componimenti più completi dell’intera esperienza poetica della NOE:
(Nautilus)
“Le parole che ci dicemmo e quelle
rivolte al finestrino. La famiglia numerosa
di aironi che d’improvviso prese il volo.
Non so se spaventa l’automobile futurista,
oppure sono i pensieri. Quei due
che passano[…]”
se non pro-porre, come Linguaglossa&Gabriele, e dunque come in tutta la poesia-polittico degli ultimi recentissimi tempi, il colloquio permanente tra “parola filosofica”, “parola scientifica” e “parola poetica” , colloquio permanente tra filosofia, arti non verbali e poesia, un colloquio ininterrotto nel quale Heidegger legge Hölderlin e Trakl e viene a sua volta interrogato da Celan, una NOE del frammento e del polittico di “pensatori che parlano poeticamente” e di “filosofia che parla attraverso le immagini create dai poeti”?
Cosa hanno in comune le poesie di Mario Gabriele & Giorgio Linguaglossa presentate su questa pagina de L’Ombra? Hanno in comune, alla mia lettura, l’inclinazione a trasformare l’immaginazione (non la fantasia, che è altra cosa rispetto alla «immaginazione») filosofica in immaginazione poetico-letteraria, uno stile di scrittura nella quale coabitano l’arte della riflessione, la forza della memoria e la potenza della speculazione filosofica.
Tutto questo la chiamerei «Estetica della distrazione». come indica nel suo commento Giorgio Linguaglossa…,
Ma il lungo lavoro sul logos ( come insieme di retorica, lessico, fono prosodia, stile) dei due poeti Linguaglossa & Gabriele ha spinto il loro fare poesia verso la «Poetica dell’archeologo» ovvero verso l’arte dello scavo da strati esterni verso strati interni alla ricerca del nucleo essenziale non di una storia di personaggi veri o inventati ma del loro destino.
Mario Gabriele&Giorgio Linguaglossa custodiscono direi gelosamente quella che una volta si chiamava la «Wunderkammer», ovvero la «camera delle meraviglie» verso la quale spingono il lettore ma tenendolo sempre distante quanto basta dalla loro Wunderkammer dove custodiscono le loro intime collezioni….
In un’antologia della poesia svizzero-tedesca contemporanea la prefatrice Annarosa Zweifel Azzone fu indotta a parlare delle categorie dell’assenza e dell’esclusione per giustificare la persistenza dell’idillio nelle voci poetiche di quell’area linguistica di un cantone svizzero. Ricordò Max Frisch che scrisse:«Noi non abbiamo avuto la profondità del dolore subito. Vivevamo sulla soglia della stanza delle torture, sentivamo le grida , ma non eravamo noi a gridare». Non c’era il bisogno di placare in poesia come invece avveniva nella poesia tedesca (Celan, Rosa Auslander, Nelly Sachs…) le ombre imploranti del genocidio, sulla Svizzera neutrale-isola-felice non gravava il peso delle ceneri di Auschwitz ed ecco l’idillio…
La NOE registra invece da noi la frattura fra parola e cosa e fa poesia che non vuole testimoni.
Ecco perché, parafrasando Kommerel, Linguaglossa scrive:
«La poesia è un qualcosa che non ha testimoni. Nessuna sa perché è nata. Nessuno sa a che cosa serve. Non ha mittente e non ha destinatario, ha però la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti linguistici coi quali essa s’intende con i suoi lettori o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stessa. Spesso una poesia sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari». Perché noi non siamo esonerati dalla storia.
*
Mario Gabriele
Sei rimasta come le foglie del bonsai.
Mi scrivi: – salutami Stella e le amiche di Parma. –
Esco di rado. Qualche volta mi fermo al Cabaret.
Riapre il Nasdaq di Londra con le start-up a 10 Buy.
Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni.
Ci riserviamo le prognosi future
e le segrete stanze dell’illusione.
Rispuntano gli ologrammi.
Stasera ci fermiamo con i turisti by night.
Leggo e ripongo After Strange Gods
dopo una giornata di meteo invernale.
Qui prepariamo i bouquet
per i compleanni della famiglia.
– Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
così nessuno potrà dire: per chi suona la campana! –
C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire.
A digiuno ci fermammo nella certosa
ricordando Debora e Barak.
La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.
*
Giorgio Linguaglossa
Stanza n. 88
«Non sono morto?», chiesi all’ospite.
«No, sei un quasi-vivo o un quasi-morto».
«Dovrei esser morto?». K. fece una piroetta.
«Perché, dovresti essere vivo?», replicò la Figura.
«Non so, ci sarà pure una differenza,
suppongo», insinuai.
K. non replicò. Sprangò tutte le porte, le sigillò con lo scotch,
le chiuse a chiave, a doppia mandata.
Poi passò alle finestre. Le chiuse. Sprangate.
E terminò con lo scarico del water.
Si sedette sulla sedia a dondolo. Di fronte al frigorifero.
E attese.
Ero con le spalle al muro. Così, ho aperto il gas.
«Sa, preferisco una morte dolce», aggiunsi.
«L’Enel ha chiuso la corrente elettrica».
«Anche l’acqua, l’hanno interrotta…»
*
Gino Rago
Mi sa tanto che Giorgio Linguaglossa è un Angelo cacciato dal Paradiso, per le tante Verità dette con la Critica ed esternate con la Poesia. Prendo a caso la chiusa del suo ultimo commento: “Spesso una poesia sembra narrarci la storia dei suoi momenti letterari” che si avvolgono a riccio secondo la visione del mondo da parte del poeta.
Perdere questa possibilità significherebbe rinunciare all’utilità del sapere, smarrendo il senso della filosofia e della scienza ma anche del passaggio da una forma di poesia ormai superata ad un’altra innovativa e sostitutiva di quella precedente.
E’ chiaro che la Nuova Ontologia Estetica ha i numeri per formulare le condizioni tutt’altro che disgregatrici sull’uso del linguaggio che, se gestito in buona fede diventa una vera e propria teoria della comunicazione e non della deformazione del linguaggio, quantunque ridotto a polittici, frammenti, distici e quant’altro ravvisabile ad una lettura critica..
“La storia dell’uomo è cominciata con un atto di disobbedienza, ed è tutt’altro che improbabile che si concluda con un atto di obbedienza” (Fromm) e nel nostro caso di abbandono della NOE dalle presenza dell’essere.
caro Gino,
questa tua esauriente dissertazione getta un fascio di luce sulla poesia che stiamo facendo tutti insieme. I risultati, se ci sono, sono risultati di tutti, ciascuno di noi trae dai risultati degli altri compagni di strada spunti, stimoli suggestioni che si rivelano utilissimi apporti al fare poiesis. Stiamo procedendo a tentoni in una “zona gaming“, in una radura ombrosa, sempre più fitta di oscurità. Ma abbiamo con noi una torcia tascabile: un «mobile esercito di metafore» che ci illumina la strada da seguire.
Scrive Nietzsche:
La verità è «un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e che hanno perduto ogni forza sensibile,sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono quindi considerate non più come monete ma come metallo».1.
Il carattere illusorio insito nella conoscenza rimane tale per il fatto che
l’uomo dimentica i processi retorici e metaforici mediante i quali inizia la sua attività conoscitiva. Ed è per questo che le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria. Illusioni senza le quali però la conoscenza poetica non può scoccare.
Le metafore puntano a far emergere un mondo pre-oggettivo, un «luogo» a partire dal quale l’uomo può scoprire una nuova modalità esistenziale, un nuovo progetto di esistenza, etico ed estetico. Un nuovo modo di abitare il mondo. La metafora è una strategia del discorso al servizio della finzione poetica. Abolendo la modalità del discorso dell’io, il discorso metaforico introduce il piano della rivendicazione della realtà, la quale si presenta da sé, senza passare per il discorso dell’io, che è una distorsione e una falsificazione del discorso stesso. La metafora ci introduce nel piano del discorso trascendentale. Nella sostanza, parlare di verità del discorso poetico significa parlare di verità della metafora, di verità della illusione, che è l’unica verità di cui possiamo disporre, del rapporto intimo che esiste tra il reale e la metafora.
1 F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale. In: Opere di Friedrich Nietzsche, vol. III, t. II, Adelphi, Milano: Adelphi, 1980. p. 361
Grazie, caro Gino,
per le stimolanti riflessioni che proponi, insieme a Giorgio, illuminando e rendendo più consapevoli e criticamente orientate, scelte formali e strutture iconico-metaforiche che spesso sono dettate da intuito e istinto. Nel mio caso immagini e visioni nascono da un’ansia di salvezza e liberazione da quella prigione psichica che è risultanza e materializzazione etica ed estetica del nostro linguaggio formalizzato, inevitabile ostaggio e fortezza di poteri ideologici e politici, difficili da fronteggiare e smascherare proprio perché profondamente interiorizzati negli strumenti della rappresentazione.
È come nel racconto “La tana” di Kafka, in cui l’animale scava un labirinto di cunicoli per difendersi e proteggersi, ma alla fine vi resta intrappolato. Così, ipertrofia di ego e pensiero razionale, hanno esiliato l’umanità in una dimensione cognitiva priva di reale afferenza all’Essere, inteso come assoluto e trascendente, o anche solo totalità dell’Ente. Un desiderio di una nuova, più autentica dimensione esistenziale, dove tutto è ancora possibile, scaturita dalle emozioni più profonde e autentiche, è la motivazione di molta parte dell’arte contemporanea, di matrice simbolica e irrazionalistica, che definirei impregnata da un nuovo misticismo laico, o perfino ateo, ma certamente svincolato dalle catene e censure del materialismo consumistico. Che siano le anime più fragili e lacerate ad avere questa esigenza, come Amelia Rosselli, incapaci di adeguarsi, emarginate, psichicamente disturbate e scheggiate, rende più cogente e verosimile l’istanza etica e spirituale di tale esigenza.
“Everithing is cracked, that’s the way the light goes in…”
Leonard Cohen
La traiettoria conforme insinuó un quadrato perfetto. Consumato
un istinto da maitre, la pozzanghera
il mare derise.
Dove guarda l’omino di google
quando scende dall’alto del cielo?
GRAZIE OMBRA.
Dall’idillio novecentesco alla frattura, dal frammentismo all’entropia linguistica
in quattro poeti:
Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Carlo Livia, Lucio Mayoor Tosi
Brevi riflessioni di
Gino Rago
*
“[…]Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni[…]”.
Poco più giù, nello stesso polittico, il lettore, già tramortito dalla valanga di immagini-parole-metafore cinetiche che Mario Gabriele crea e intreccia, con la maestria e la sapienza dei vecchi cestari, si imbatte in un altro distico non meno spiazzante del primo
“[…]C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire[…]”
Lo spaesamento dell’uomo d’occidente è totale: le stagioni è possibile rinvenirle nella discarica e tra il “nascere” e il “morire” del secondo distico manca ciò che si verifica o che dovrebbe verificarsi tra le due polarità estreme del nascere e del morire: vivere, semplicemente vivere.
Anche se mai viene nominato, c’è tutto, ciò che non riesco a dire diversamente, il dolore dell’uomo d’Occidente nella gabbia filiforme di una Europa ipermoderna, cristallizzata in quello che Zygmunt Bauman ha saputo indicare come “il-tempo-di-mezzo”, tra un “non più” non ancora concluso e un “non ancòra” del « nuovo» che stenta ad albeggiare; e il poeta d’avanguardia come Mario Gabriele avverte la lacerazione tra “cosa” e “parola”, lacerazione ribadita da Giorgio Linguaglossa:«Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire…», e rimangono le interferenze, le ibridizzazioni, le immagini metaforiche, gli sparpagliamenti, le dissipazioni: una entropia di linguaggi in un moto entropico perpetuo…
Per questo forse
“[…] Marisa riordinò gli arredi
lasciando al gatto Musumeci i residui di Gourmet […]
mentre in altra parte dello spirito d’Occidente, benché ad altre latitudini e ad altre longitudini:
“La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.”
Il congedo qui si è fatto definitivo dai direi «topoi» di tantissima nostra poesia: le discariche, i residui di Gourmet, il matrimonio con la tristezza della sposa americana, le foglie del bonsai, gli arredi da riordinare, e altre immagini metaforiche, nel Giornale di bordo prendono il posto definitivamente, e in un altro «luogo poetico», delle linee-luoghi-comuni del petrarchismo-umbertosabismo-cardarellismo “fiore-sole-cuore-luna-amore…”.
Qui, lo spaesamento dell’uomo d’occidente convoca altri approdi, in questo Giornale di bordo l’estraneazione richiede altre poetiche, un’altra estetica, una altra morale, un’altra etica, qui siamo alla «Poetica della indignazione morale», alla «Estetica della disperazione»….
E cosa fanno anche il Carlo Livia di questi versi:
“[…]Era prima del tempo, del pensiero. Quando i gigli non sapevano separarsi dalla luce, e gli angeli spiavano i gemiti delle alcove.
Quando il cielo era nudo di sguardi, e un orfano piangeva fra le acque indivise. Le sue lacrime tracciavano le strade dei millenni.
Prima del senso, del lutto, dell’addio[…]”
e il Lucio Mayoor Tosi di Nautilus, uno dei componimenti più completi dell’intera esperienza poetica della NOE:
(Nautilus)
“Le parole che ci dicemmo e quelle
rivolte al finestrino. La famiglia numerosa
di aironi che d’improvviso prese il volo.
Non so se spaventa l’automobile futurista,
oppure sono i pensieri. Quei due
che passano[…]”
se non pro-porre, come Linguaglossa&Gabriele, e dunque come in tutta la poesia-polittico degli ultimi recentissimi tempi, il colloquio permanente tra parola filosofica, parola scientifica e parola poetica, un colloquio permanente tra filosofia, arti non verbali e poesia, un dialogo ininterrotto nel quale Heidegger legge Hölderlin e Trakl e viene a sua volta interrogato da Celan, una NOE del frammento e del polittico di “pensatori che parlano poeticamente” e di “filosofia che parla attraverso le immagini create dai poeti”?
Cosa hanno in comune le poesie di Mario Gabriele & Giorgio Linguaglossa presentate su questa pagina de L’Ombra? Hanno in comune, alla mia lettura, l’inclinazione a trasformare l’immaginazione filosofica (non la fantasia, che è altra cosa rispetto alla «immaginazione») in immaginazione poetico-letteraria, uno stile di scrittura in cui coabitano l’arte della riflessione, la forza della memoria e la potenza della speculazione filosofica.
Tutto questo la chiamerei «Estetica della distrazione», come indica in un suo commento Giorgio Linguaglossa…«”[…] è una strategia di sospensione di tutto ciò che nel linguaggio ordinario rimanda ad un referente stabilito dall’ordo rerum e dall’ordo idearum. Ed è una strategia davvero inusitata. Gabriele persegue questa strategia della «dis-attenzione» e della «dis-trazione», direbbe Gino Rago, in modo radicale, senza fare concessioni al comune senso poetico».
Ma il lungo lavoro sul logos (come insieme di retorica, lessico, fon- prosodia, stile) dei due poeti Linguaglossa & Gabriele ha spinto il loro fare poesia verso la «Poetica dell’archeologo», ovvero, verso l’arte dello scavo da strati esterni verso strati interni alla ricerca del nucleo essenziale non di una storia di personaggi veri o inventati ma del loro destino.
Mario Gabriele&Giorgio Linguaglossa custodiscono direi gelosamente quella che una volta si chiamava la «Wunderkammer», ovvero la «camera delle meraviglie» verso la quale spingono il lettore ma tenendolo sempre distante quanto basta dalla loro Wunderkammer dove custodiscono le loro intime collezioni….
In un’antologia della poesia svizzero-tedesca contemporanea la prefatrice Annarosa Zweifel Azzone fu indotta a parlare delle categorie dell’assenza e dell’esclusione per giustificare la persistenza dell’idillio nelle voci poetiche di quell’area linguistica di un cantone svizzero. Ricordò Max Frisch che scrisse:«Noi non abbiamo avuto la profondità del dolore subito. Vivevamo sulla soglia della stanza delle torture, sentivamo le grida , ma non eravamo noi a gridare». Non c’era il bisogno di placare in poesia come invece avveniva nella poesia tedesca (Celan, Rosa Auslander, Nelly Sachs…) le ombre imploranti del genocidio, sulla Svizzera neutrale-isola-felice non gravava il peso delle ceneri di Auschwitz ed ecco l’idillio…
La NOE registra invece da noi la frattura fra parola e cosa e fa poesia che non vuole testimoni.
Ecco perché, parafrasando Kommerel, Linguaglossa scrive:
«La poesia è un qualcosa che non ha testimoni. Nessuna sa perché è nata. Nessuno sa a che cosa serve. Non ha mittente e non ha destinatario, ha però la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti linguistici coi quali essa s’intende con i suoi lettori o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stessa. Spesso una poesia sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari».
Perché noi non siamo esonerati dalla storia.
*
Mario Gabriele
Sei rimasta come le foglie del bonsai.
Mi scrivi: – salutami Stella e le amiche di Parma. –
Esco di rado. Qualche volta mi fermo al Cabaret.
Riapre il Nasdaq di Londra con le start-up a 10 Buy.
Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni.
Ci riserviamo le prognosi future
e le segrete stanze dell’illusione.
Rispuntano gli ologrammi.
Stasera ci fermiamo con i turisti by night.
Leggo e ripongo After Strange Gods
dopo una giornata di meteo invernale.
Qui prepariamo i bouquet
per i compleanni della famiglia.
– Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
così nessuno potrà dire: per chi suona la campana! –
C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire.
A digiuno ci fermammo nella certosa
ricordando Debora e Barak.
La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.
*
Giorgio Linguaglossa
Stanza n. 88
«Non sono morto?», chiesi all’ospite.
«No, sei un quasi-vivo o un quasi-morto».
«Dovrei esser morto?». K. fece una piroetta.
«Perché, dovresti essere vivo?», replicò la Figura.
«Non so, ci sarà pure una differenza,
suppongo», insinuai.
K. non replicò. Sprangò tutte le porte, le sigillò con lo scotch,
le chiuse a chiave, a doppia mandata.
Poi passò alle finestre. Le chiuse. Sprangate.
E terminò con lo scarico del water.
Si sedette sulla sedia a dondolo. Di fronte al frigorifero.
E attese.
Ero con le spalle al muro. Così, ho aperto il gas.
«Sa, preferisco una morte dolce», aggiunsi.
«L’Enel ha chiuso la corrente elettrica».
«Anche l’acqua, l’hanno interrotta…»
*
Come accostarsi alla lettura dei versi di questi quattro poeti (Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Carlo Livia)? Lentamente o velocemente? Riproporrei quel postulato di Milan Kundera che ci orienta ma non fornisce risposte secondo il quale è possibile stabilire un segreto legame fra memoria e lentezza, fra oblio e velocità.
*
Gino Rago
caro Gino, quando si hanno a portata di mano sistemi critici di interpretazione del testo poetico, che mettono in risalto gli aspetti più misteriosi e intrapsichici, come fai tu, non si può che rimanere soddisfatti di ricevere questi passepartout al contrario di certi giudizi astratti e devalorizzanti di poeti allo sbaraglio.
Allora, veramente la critica letteraria, una volta decodificata la struttura del testo, diventa occasione di significati plurimi, a volte disgiuntivi, altre volte associativi, a seconda del sistema critico preso a riferimento.
Il pensiero poetante nasce sin dai primordi dell’uomo primitivo di fronte all’Universo. Questo pensiero e la fugacità dell’Essere, ce li portiamo addosso come tanti blazer..
L’analisi critica finisce sempre con l’essere Psicoestetica, anche quando ci si trova di fronte a interpretazioni che conducono al “mito personale” di ogni Autore. E’ ciò che stai facendo tu, caro Gino, indicando ai lettori, il giusto viadotto per prendere l’autostrada della conoscenza della poesia, che non può essere liquidata, come spesso accade,con superficiali considerazioni.
Giorgio,la tua poesia Stanza n.88 è un pugno nello stomaco, leggendola mi sono sentita sprangata in casa, in quarantena per un / il terribile virus, mi sono vista, disperata, annaspare in cerca di respiro in una casa senza ossigeno e senza luce. Schiacciata anche dalla burocrazia che chiude i contatori, incurante delle necessità vitali. Per concepire un testo del genere bisogna essersi affacciati per un lungo istante da una finestra e aver contemplato, atterriti, ma con occhi asciutti, la condizione umana. Grazie .
cara Tiziana,
sono davvero contento che la mia poesia incontra il tuo apprezzamento, contento perché si tratta di un testo sperimentale, dove ho provato degli strumenti a fiato e a farli interagire e a farli suonare in una camera. Il risultato finale è ovviamente sgraziato. Il parlato è essenziale alla nuova poesia per non cadere nella solita poesia post-elegiaca che fanno un po’ tutti al di fuori della NOE.
Sarei curioso di leggere le tue nuove cose, Tiziana.
Un caro saluto.
Giorgio
L’archeologia romana, che non finisce mai di stupirci, ha da poco portato alla luce una nuova stanza, la numero 88, nei pressi di San Paolo fuori le Mura.
Si tratta della stanza della metafora. La stanza teatro. Il numero 88 pone questioni ontologiche come la natura dell’essere umano, dell’esistenza e della realtà circostante, un doppio infinito.
Il kafkiano signor K., a sua volta ecfrasi sanguinetiana, si muove nel teatro allestito nella stanza tra commedia e dramma.
Qual è l’enigma?
Essere enigma.
Leggo solo ora la stanza n. 13. Mi viene in mente
il percorso che ogni mattina abitualmente faccio
per andare a lavoro.
Attraverso la passerella Fortini sul Mugnone.
Incontro qualche Chichibbio e in primavera qualche gru.
Arrivo a Piazza della Libertà. Passo sotto l’arco
di Porta San Gallo, saluto Rolandino da Canossa.
Lungo via Palestrina l’organo del traffico suona il Magnificat.
A pochi passi da Piazza San Marco, l’ascensore mi porta
al terzo piano. Entro nell’enigma.
Ringrazio Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa e Carlo Livia per il loro, per me davvero importante, gradimento della mia lettura dei loro versi.
Propongo un mio inedito recentissimo, un tentativo di scrittura oltre-il-distico
Gino Rago
La leggenda dell’uomo-che-ha-suonato-Bach-sotto-il-muro.
Le lame della Storia con la S maiuscola
In ogni luogo, in ogni tempo
Tagliano in due le vite degli inermi.
La partita fra vittima e carnefice avrà mai una fine?
Il violoncello cominciò a suonare arie di Bach
Con accordi maggiori.
Come la Germania «dopo-il-muro»
Anche la sua vita si era riunita.
Quel muro divise a lungo l’uomo dal mondo,
Quel muro divise il dentro dal fuori.
[…]
«Per chi suoni?». «Non suono né per me né per la gente…».
«Allora perché suoni?». «Per ringraziare Dio per ciò che è accaduto.
L’Unione Sovietica mi ha gettato via come uno straccio.
Prima di questo giorno non potevo suonare a Berlino Ovest, poi non potevo andare a Berlino Est. Per suonare oggi sotto il muro in frantumi, per dire grazie a Dio con il mio violoncello a lungo senza suono ho chiesto una sedia in prestito. Ho dovuto chiedere una sedia…».
[…]
«Perché suoni un’aria di Bach in minore?».
«Perché ho guardato negli occhi quella giovane donna.
Con lei ho pensato a tutte le persone morte per il maledetto muro».
Un’aria suonata in minore.
[…]
La giovane donna si mette a piangere. L’altra giovane:«Oggi ci hai di nuovo unite. Chi sei?».
«Nei cinque continenti dove ho suonato (il mio dentro diviso sempre in due parti), in ogni teatro mi chiamavano Il Maestro.
Ora, l’undici novembre del millenovecentoottantanove qui a Berlino a ringraziare Dio voglio che il mondo mi chiami:
«L’uomo-che-ha-suonato-Bach-sotto-il-muro».
«Ma il tuo vero nome?».
« Mstislav…. Mstislav Rostropovich».
(gino rago)
Il moto entropico perpetuo in Registro di bordo di Mario Gabriele e lo spaesamento europeo contemporaneo in Giorgio Linguaglossa, Carlo Livia e Lucio Mayoor Tosi
di Gino Rago
*
“[…]Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni[…]”.
Poco più giù, nello stesso polittico, il lettore, già tramortito dalla valanga di immagini-parole-metafore cinetiche che Mario Gabriele crea e intreccia, con la maestria e la sapienza dei vecchi cestari, si imbatte in un altro distico non meno spiazzante del primo
“[…]C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire[…]”
Lo spaesamento dell’uomo d’occidente è totale: le stagioni è possibile rinvenirle nella discarica e tra il “nascere” e il “morire” del secondo distico manca ciò che si verifica o che dovrebbe verificarsi tra le due polarità estreme del nascere e del morire: vivere, semplicemente vivere.
Anche se mai viene nominato, c’è tutto, ciò che non riesco a dire diversamente, il dolore dell’uomo d’Occidente nella gabbia filiforme di una Europa ipermoderna, cristallizzata in quello che Zygmunt Bauman ha saputo indicare come “il-tempo-di-mezzo”, tra un “non più” non ancora concluso e un “non ancòra” del « nuovo» che stenta ad albeggiare; e il poeta d’avanguardia come Mario Gabriele avverte la lacerazione tra “cosa” e “parola”, lacerazione ribadita da Giorgio Linguaglossa:«Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire…», e rimangono le interferenze, le ibridizzazioni, le immagini metaforiche, gli sparpagliamenti, le dissipazioni: una entropia di linguaggi in un moto entropico perpetuo…
Per questo forse
“[…] Marisa riordinò gli arredi
lasciando al gatto Musumeci i residui di Gourmet […]
mentre in altra parte dello spirito d’Occidente, benché ad altre latitudini e ad altre longitudini:
“La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.”
Il congedo qui si è fatto definitivo dai direi «topoi» di tantissima nostra poesia: le discariche, i residui di Gourmet, il matrimonio con la tristezza della sposa americana, le foglie del bonsai, gli arredi da riordinare, e altre immagini metaforiche, nel Giornale di bordo prendono il posto definitivamente, e in un altro «luogo poetico», delle linee-luoghi-comuni del petrarchismo-umbertosabismo-cardarellismo “fiore-sole-cuore-luna-amore…”.
Qui, lo spaesamento dell’uomo d’occidente convoca altri approdi, in questo Giornale di bordo l’estraneazione richiede altre poetiche, un’altra estetica, una altra morale, un’altra etica, qui siamo alla «Poetica della indignazione morale», alla «Estetica della disperazione»….
E cosa fanno anche il Carlo Livia di questi versi:
“[…]Era prima del tempo, del pensiero. Quando i gigli non sapevano separarsi dalla luce, e gli angeli spiavano i gemiti delle alcove.
Quando il cielo era nudo di sguardi, e un orfano piangeva fra le acque indivise. Le sue lacrime tracciavano le strade dei millenni.
Prima del senso, del lutto, dell’addio[…]”
e il Lucio Mayoor Tosi di Nautilus, uno dei componimenti più completi dell’intera esperienza poetica della NOE:
(Nautilus)
“Le parole che ci dicemmo e quelle
rivolte al finestrino. La famiglia numerosa
di aironi che d’improvviso prese il volo.
Non so se spaventa l’automobile futurista,
oppure sono i pensieri. Quei due
che passano[…]”
se non pro-porre, come Linguaglossa&Gabriele, e dunque come in tutta la poesia-polittico degli ultimi recentissimi tempi, il colloquio permanente tra parola filosofica, parola scientifica e parola poetica, un colloquio permanente tra filosofia, arti non verbali e poesia, un dialogo ininterrotto nel quale Heidegger legge Hölderlin e Trakl e viene a sua volta interrogato da Celan, una NOE del frammento e del polittico di “pensatori che parlano poeticamente” e di “filosofia che parla attraverso le immagini create dai poeti”?
Cosa hanno in comune le poesie di Mario Gabriele & Giorgio Linguaglossa presentate su questa pagina de L’Ombra? Hanno in comune, alla mia lettura, l’inclinazione a trasformare l’immaginazione filosofica (non la fantasia, che è altra cosa rispetto alla «immaginazione») in immaginazione poetico-letteraria, uno stile di scrittura in cui coabitano l’arte della riflessione, la forza della memoria e la potenza della speculazione filosofica.
Tutto questo la chiamerei «Estetica della distrazione», come indica in un suo commento Giorgio Linguaglossa…«”[…] è una strategia di sospensione di tutto ciò che nel linguaggio ordinario rimanda ad un referente stabilito dall’ordo rerum e dall’ordo idearum. Ed è una strategia davvero inusitata. Gabriele persegue questa strategia della «dis-attenzione» e della «dis-trazione», direbbe Gino Rago, in modo radicale, senza fare concessioni al comune senso poetico».
Ma il lungo lavoro sul logos (come insieme di retorica, lessico, fon- prosodia, stile) dei due poeti Linguaglossa & Gabriele ha spinto il loro fare poesia verso la «Poetica dell’archeologo», ovvero, verso l’arte dello scavo da strati esterni verso strati interni alla ricerca del nucleo essenziale non di una storia di personaggi veri o inventati ma del loro destino.
Mario Gabriele&Giorgio Linguaglossa custodiscono direi gelosamente quella che una volta si chiamava la «Wunderkammer»**, ovvero la «camera delle meraviglie» verso la quale spingono il lettore ma tenendolo sempre distante quanto basta dalla loro Wunderkammer dove custodiscono le loro intime collezioni….
In un’antologia della poesia svizzero-tedesca contemporanea la prefatrice Annarosa Zweifel Azzone fu indotta a parlare delle categorie dell’assenza e dell’esclusione per giustificare la persistenza dell’idillio nelle voci poetiche di quell’area linguistica di un cantone svizzero. Ricordò Max Frisch che scrisse:«Noi non abbiamo avuto la profondità del dolore subito. Vivevamo sulla soglia della stanza delle torture, sentivamo le grida , ma non eravamo noi a gridare». Non c’era il bisogno di placare in poesia come invece avveniva nella poesia tedesca (Celan, Rosa Auslander, Nelly Sachs…) le ombre imploranti del genocidio, sulla Svizzera neutrale-isola-felice non gravava il peso delle ceneri di Auschwitz ed ecco l’idillio…
La NOE registra invece da noi la frattura fra parola e cosa e fa poesia che non vuole testimoni.
Ecco perché, parafrasando Kommerel, Linguaglossa scrive:
«La poesia è un qualcosa che non ha testimoni. Nessuna sa perché è nata. Nessuno sa a che cosa serve. Non ha mittente e non ha destinatario, ha però la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti linguistici coi quali essa s’intende con i suoi lettori o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stessa. Spesso una poesia sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari».
Perché noi non siamo esonerati dalla storia.
*
Mario Gabriele
Sei rimasta come le foglie del bonsai.
Mi scrivi: – salutami Stella e le amiche di Parma. –
Esco di rado. Qualche volta mi fermo al Cabaret.
Riapre il Nasdaq di Londra con le start-up a 10 Buy.
Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni.
Ci riserviamo le prognosi future
e le segrete stanze dell’illusione.
Rispuntano gli ologrammi.
Stasera ci fermiamo con i turisti by night.
Leggo e ripongo After Strange Gods
dopo una giornata di meteo invernale.
Qui prepariamo i bouquet
per i compleanni della famiglia.
– Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
così nessuno potrà dire: per chi suona la campana! –
C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire.
A digiuno ci fermammo nella certosa
ricordando Debora e Barak.
La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.
*
Giorgio Linguaglossa
Stanza n. 88
«Non sono morto?», chiesi all’ospite.
«No, sei un quasi-vivo o un quasi-morto».
«Dovrei esser morto?». K. fece una piroetta.
«Perché, dovresti essere vivo?», replicò la Figura.
«Non so, ci sarà pure una differenza,
suppongo», insinuai.
K. non replicò. Sprangò tutte le porte, le sigillò con lo scotch,
le chiuse a chiave, a doppia mandata.
Poi passò alle finestre. Le chiuse. Sprangate.
E terminò con lo scarico del water.
Si sedette sulla sedia a dondolo. Di fronte al frigorifero.
E attese.
Ero con le spalle al muro. Così, ho aperto il gas.
«Sa, preferisco una morte dolce», aggiunsi.
«L’Enel ha chiuso la corrente elettrica».
«Anche l’acqua, l’hanno interrotta…»
*
Carlo Livia
ANAMNESI ( DAL TEMPO OSCURO )
Entrai nel ricordo spalancato dalla musica. Assenze abbracciate, voci sfinite.
Calici di ragazze e gelsomini, da bere in piedi, fra i cespugli. Lune pallide di passione, baci, sospiri. La notte spargeva templi, covi femminili.
Nel portico, gli Dei sfiniti. Sognavano forme, corpi, amori da attraversare.
Era prima del tempo, del pensiero. Quando i gigli non sapevano separarsi dalla luce, e gli angeli spiavano i gemiti delle alcove.
Quando il cielo era nudo di sguardi, e un orfano piangeva fra le acque indivise. Le sue lacrime tracciavano le strade dei millenni.
Prima del senso, del lutto, dell’addio. Quando le nuvole arrossivano fra le dita del vento, e le creature dei boschi si affacciavano da un balcone di pioggia, a spiare il segreto sposalizio di spiriti e silenzi.
Fu allora che il primo istante dimenticò il tuo nome. Impazzì, tracciò segni, confini. Circondò il tuo corpo d’ombre, di desideri.
E il cuore che lo vide fu rinchiuso nel sogno.
*
Lucio Mayoor Tosi
Nautilus
Le parole che ci dicemmo e quelle
rivolte al finestrino. La famiglia numerosa
di aironi che d’improvviso prese il volo.
Non so se spaventa l’automobile futurista,
oppure sono i pensieri. Quei due
che passano.
Rosetta col pensiero di morire proprio qui
nel vicolo. L’animo sulla ghiaia.
Pensieri che vanno in aria allacciati con altri;
alcuni indietreggiano, poi tornano decorati
di crisantemi.
Non per me, che ho da scrivere una storia:
di lei e suo marito, dentro il bicchiere capovolto.
Casa di vetro, con giardino. Il cane Buf
che non mi può vedere. Rosetta gli dice
«Buf, smettila!»
Ma è come non ci fosse nessuno.
Le cose sembrano ferme, perché chissà
quale distanza le separa. Anni e anni luce
aggrappati agli attaccapanni, tra le maniche
delle giacche. Qualche inverno da noi,
di macchie e rattoppi.
Chi scendeva e saliva le scale, già qui
prima di arrivare. E andarsene lentamente.
(Devo ricordarmi di comprare i croccantini,
solo pollo, per il gatto di Rosetta. Dicono
che non è morta, è al ricovero).
Fa paura il tempo quando passa.
In fotografia la vestaglia di felpa. Cento,
duecento vestaglie. Estate e inverno,
Rosetta e suo marito ancora giovani,
le stanze da pitturare.
Dipingo un segno sui muri, viola che va oltre,
dietro le spalle, nell’ombra futura. Da qui
a qui. Non ha senso, Rosetta. Niente ha senso.
La scatola dei profumi – Ride. – I profumi!
Sa, io aspettai centinaia d’anni prima di nascere.
Ho rischiato di finire in una nidiata di topolini
di campagna. Tanto mi piacevano. Ti sentono.
Anche se arrivi invisibile.
– A lei questo non può succedere, facile
che sia stato ucciso dai bolscevichi. Anzi, lo so.
Quando? Alle tre del pomeriggio. Non ricorda
le foglie, quel turbine di vento?
Si guardi. – Io sono vecchia, ho smesso di guardarmi.
Allora le scarpe. E’ comunque così che doveva andare.
C’è risentimento.
Scende dal naso una goccia di mare.
Morire è inutile. Faccio le valige. Fingo di metterci
qualcosa. Recito la vita. Entro, esco. Chiudo la porta.
Calpesto l’erba che infesta a primavera.
Il tempo fa questo e altro. Ci butto l’acqua sporca
dei pavimenti, con la candeggina. Qui è pieno
di pensieri. Nessuno li toglie.
Io per questo scrivo invisibile, una storia
silenziosa. Capovolta. Col giardino, il cane Buf.
Annessi e connessi alla rete, Metro, Linea 2.
L’infinito dentale. L’Arco della Pace a Milano.
Tutto e tutti con e senza cappello, le buone idee.Un minuto di pioggia. Una scatoletta.
La picchi sul tavolo capovolta. Dai una passata
e guardi altrove. Lo stra-ba-dan dei vagoni.
*
Come accostarsi alla lettura dei versi di questi quattro poeti (Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Carlo Livia)? Lentamente o velocemente? Riproporrei quel postulato di Milan Kundera che ci orienta ma non fornisce risposte secondo il quale è possibile stabilire un segreto legame fra memoria e lentezza, fra oblio e velocità.
**Wunderkammer: in italiano suona come camera delle meraviglie o delle curiosità. E’ una espressione in lingua tedesca usata per indicare quegli ambienti particolari nei quali (dal secolo XVI° al XVIII° secolo) i collezionisti tendevano a conservare raccolte di “oggetti” straordinari sia per le loro caratteristiche intrinseche sia per quelle estrinseche per meravigliare gli ospiti.
*
Gino Rago
18/19/20 febbraio 2020
Vorrei dire due parole su questa poesia capolavoro di Lucio Mayoor Tosi. Penso che Lucio riesca in modo magistrale quando impiega i suoi strumenti di lavoro preferiti, e cioè il principio di dis-trazione e il principio della deviazione, in una parola, il metodo metonimico. La poesia di Lucio inizia sempre da un punto casuale, o, almeno, così sembra:
Le parole che ci dicemmo e quelle
rivolte al finestrino. La famiglia numerosa
di aironi che d’improvviso prese il volo.
ma, in realtà è che tutta la costruzione sintattica in distici è un enorme castello di carte da gioco. Ne prendi una e il castello viene giù. Ma non ci sono giochi di fonologia né giochi iconici, Lucio preferisce affidarsi alla poetica della dis-trazione e alla catena metonimica che gli consentono di variare in continuazione la direzione di marcia del testo. La catena metonimica funziona qui come uno sterzo. Va ora a destra, ora a sinistra, e poi di nuovo a destra. E così via. Fino al penultimo distico, che ha il compito di riepilogare la varietà di cose e di personaggi che ci sono nella poesia:
Tutto e tutti con e senza «cappello», «le buone idee», «Un minuto di pioggia. Una scatoletta».
Tra il nulla e il «tutto», ci siamo di mezzo noi, un «cappello», «un minuto di pioggia, una scatoletta». La poesia chiude in un punto che potrebbe essere un nuovo inizio. Potrebbe riprendere di nuovo alla medesima maniera:
Le parole che ci dicemmo e quelle
rivolte al finestrino
La poesia è fittamente intessuta da questo refrain, ad ogni distico è come se si chiudesse e si aprisse contemporaneamente. La poesia percorre una strada a zig zag, è costretta a percorrere così un percorso accidentato costituito da una insanabile contraddizione; “è” che coincide con “non è”. L’esser così che coincide con il non-essere-così. L’auto contraddizione e la tautologia sembrano essere i motori segreti della poesia di Tosi.
Caro Gino Rago,
ringrazio te e Giorgio per l’apprezzamento e le riflessioni, sempre utili, anche nel merito della mia poesia “Nautilus”. Scritta due anni fa, perché alle volte scendendo dalle stelle, mi va di ritrovarmi nel paesello dove vivo, tra le risaie – due bar, una banca e un numero sconsiderato di cortili. Più, naturalmente, gli aironi… in questo periodo le cicogne. Leprotti e, insomma, fauna e cacciatori.
Poesie come questa si possono leggere velocemente, purché senza ansia e rispettando i punti, le pause. Se un fil rouge le tiene unite. Altrimenti conviene pensare all’action poetry.
Giorgio dice bene, di questo andamento all’infinito. Io mi sento un po’ nell’equidistanza, tra contraddizione e tautologia. Nel mezzo non c’è nulla, a volte un trasalire ma è parte della vicenda. Non percepisco interiormente lo “spaesamento dell’uomo d’occidente”: ho un centro di gravità permanente al quale torno sempre, in dialogo e contemplazione. I corpi fanno compagnia, ma il dato sensoriale più appagante è uno solo, ed è privo di sfumature e variazioni.
Se devo essere sincero, ma sincero, sincero, la poesia di Tosi Nautilus non ha nulla del distico. Ecco, in questo caso il distico è un abbellimento. La narrazione tra un verso e l’altro procede fluidamente tra un intimismo proclamato e acquerelli naturistici tipici di un certo paesaggio urbano di provincia. Una melancolia.
Il verso: Le parole che ci dicemmo e quelle/ rivolte al finestrino, dice già tutto ed è un bel verso.
Davvero impressionante la poesia di Giorgio. Rappresenta il punto critico che segna il confine della coscienza. Riguarda l’esistere e dunque il nascere dell’io a sé stesso, ma c’è il terrore degli occhi appena chiusi che guardano indietro ciò che hanno appena abbandonato. È il volante che gira a vuoto perché non si afferra al tempo che così gli scorre sotto e accanto ma non dentro. Il dualismo K\Figura ha la potenza dialettica di Io\non-Io. E’ sì una metafora ma di una scena assai possibile, un atto unico che fissa il tempo sull’orizzonte. L’ entrata in scena di qualcuno che defibrilla l’istante del passaggio definitivo come se fosse soggetto a reversibilità microscopica e dunque vita e morte, pesassero ugualmente sulla bilancia di un equilibrio che tutto riassume: essere = nulla.
RELOADING FAUST
[Dovrei esser morto?». K. fece una piroetta.
«Perché, dovresti essere vivo?», replicò la Figura.
(Stanza N.88. G. Linguaglossa)]
Mantenere in ordine i crani, con coerenza
Senza che sbattano però.
Cocci di sale sul lungomare.
Astice che stacca le ali al Jet delle 10,30.
Un megafono versò olio di oliva nelle orecchie
E da lì trovò la via crucis per l’anno zero.
Alcuni concetti erano stati terribili
Si erano concentrati a sobillare la luna.
Faust parlò tristemente a Margherita.
Non si era accorto che Fidel era ancora sul palco.
E qualcosa doveva all’insistenza di Wharol
Gli attacchi seriali alla primavera di Botticelli.
Rimettere i fiori di pesco in bustine
per i giocatori. Campagna acquisti 1959.
Ancora non era chiaro che certe libertà
Finiscono crocifisse sulla via Appia.
Come se la luna spostasse l’ Himalaya nell’Atlantico
e impedisse ai Barbudos di raggiungere l’ Avana.
Concentrare cellule vive sul Che.
Deviare la finanza dal trend di staminali.
Giove nacque che già pallottole imperversavano
Kronos doveva difendersi dalla concorrenza cinese.
Cose che sarebbero accadute nell’anno mille
presero a correre nel 2020.
Chi capisce la termodinamica!
…
Una notte che si fermò il cuore e più non osava Fb
intervenne Giocasta, con la bobina degli anni in mano.
Non c’è nulla da tagliare, scuotiti dal torpore del vichingo
Mezzanotte è un’invenzione della vicina di casa.
Torna a considerare la pillola dell’efficienza
Conta le bolle nel Graal.
La lavastoviglie reclamò il privilegio dello ius primae noctis
e prese a sistemarsi le forchette nel letto d’acciaio.
In fieri si procede a porte sprangate
Interessi zeri e copertura assicurativa.
Verranno a prenderti le bollette Enel
le rate del mutuo per l’ auto bianca.
La poetica inceppata si mette a seguire
un’ape regina. Rossa, agitata e feroce.
Plath in persona.
Dovevi nascere proprio poeta
o filosofo o chimico o idraulico?
Meglio poltrona telecomandata
in odore di dada e vecchiaia che regredisce.
Che malattia causa la senilità?
L’immortale rifiorisce sul sentiero del ritorno.
…
Elena recita una poesia di Paride.
Si innamorò della tarantola che ora abita il petto.
“Prima o poi scalderà il cuore”
Credi che non sia lirica abbastanza?
…
Né quasi né mai né sempre né ora né adesso
Il ritorno di crusca nel grano fu previsto.
Qui si genera segale cornuta
Chi l’ha detto al Dott. Hoffman di fermarsi
Non lo sa che mostrare i documenti
è già dipendenza da LSD.
Il suo curriculum sarà esaminato da Graffiacane
Per il momento potrà volare sulla sua bicicletta
Poi le amputeranno gli arti, le confischeranno i versi.
Un uncino farà il resto nella sua vasca da bagno.
Potrà solo mettere note esplicative alle allucinazioni.
Curare le ferite dell’ incomprensione con punti esclamativi.
…
Pillola blu o rossa davanti al frigo.
Di sotto una folla di bottiglie gestisce un bar.
Si torna ai cristalli liquidi.
Attendono boschi e problemi di innesto.
Come ghiacciare allo zero kelvin un’ idea
facendo a meno delle ricette sull’ elio.
Un ricostituente si riconosce
dai fichi che si seccano a maggio.
…
L’omino della discarica lascia impronte di santo.
Il fondo del catrame si agita con un cucchiaio da thè.
Capire come ci si comporta davanti a un becco Bunsen
È lo steso che infiammare Campo dei Fiori.
Perché la distrazione è una tattica
E il mare confonde le idee.
Partorisce schiuma da barba
e buste di cellophan.
Lanci di appestati sulle strade di Bari.
Sargassi di coriandoli nel canale d’Otranto.
Il melo muta le squame del tronco.
Anche il papavero ha i suoi tarli nel rosso.
…
La punizione per aver spostato l’interesse sul Mare Nostrum
consistette in un discorso di mezzobusto.
Impararlo a memoria e gridarlo in un Park and Ride
mentre a fianco ordinavano ad un olivo di torcersi la bocca.
Sono le idee base che fiaccano i germogli
la misura di una sfera inizia dal centro.
E poi l’ aritmetica compie il suo delitto.
Chi l’ha detto che è promiscua alla rivolta?
Potarli e addestrarli a barboncino
dargli il tempo di alzare una radice.
Non è semplice orinare linfa
e cercare una figura di uomo.
Il secolo ripercorre i suoi passi
Le infezioni spariscono, l’entropia fallisce lo scopo.
La malattia dei cartelloni pubblicitari
Guarisce spontaneamente.
Nessun bidone, però qualcuno
tira fuori la generazione spontanea
e il vaccino non balena a Pasteur.
Muore di rabbia un virus.
A metà strada ci fermammo
Né pieni né vuoti.
In vetta alle classifiche c’è una gazzella che uccide
Un bisonte intanto mira Buffalo Bill.
Cerca il cannone l’obice su Berlino
In risalita anche le bombe di San Giovanni.
Qui si è tutti metafore ma in prospettiva
ci sono leggi da ferrare.
Forse una piantagione di pomodoro
su cui passeggia un drago di Komòdo.
Vietato procedere per esempi vivi
meglio quelli della mente.
Pezzi da Experimental traboccano in cronaca
e dunque nelle lettere al direttore.
Far fesso Faust, che idea! Partire dall’ una di notte
e sbucare con il trucco del cuore fermo.
Convenevoli e infezioni tra diavoli.
Tradimenti nel salone del barbiere.
Mostrargli la chiave di volta, il saggio
di onnipotenza a portata di esperimento.
Stormiscono di tanto in tanto
mani su pruni in sangue.
(Francesco Paolo Intini, inedito)
Cose che sarebbero accadute nell’anno mille
presero a correre nel 2020.
La lavastoviglie reclamò il privilegio dello ius primae noctis
Convenevoli e infezioni tra diavoli.
… presi per sé, isolatamente, i versi di Francesco Paolo Intini sono letali come Corona Virus o Cofid19. Trattano di cose molto prossime alla nostra questione vitale. Quale sia poi la nostra questione vitale, non sappiamo più. Quelle cose per le quali però, siamo ciechi. È come se vedessimo la visibilità delle cose e non le cose nella visibilità. È che le cose sembrano essersi invertite, capovolte. Ed ecco la rivoluzione del linguaggio, rivoluzione che poggia sulla leva della metafora. Questi versi ci parlano della nostra epoca meglio di centinaia di libri di teologia e di summum bene e di Ens realissimus. La nostra è l’epoca della metafisica sguaiata: Trump, Putin Bolsonaro, Erdogan, e dei cialtroni nostrani, della fine della metafisica, se c’è mai stata. Scrivere alla maniera di Intini toglie di mezzo le mezze scritture, quelle accademiche e agiografiche che ci parlano delle cose stabili.
Davvero, penso che “Cofid 19” o “Poesia dell’Epoca Cofid 19”, sia un ottimo titolo per la nostra Antologia della nuova ontologia estetica. Che ne dite?