[Un Nemico intelligente, un Estraneo, si aggira per le nostre città, per le nostre metropolitane, per le strade, ovunque… si chiama Covid19, ovvero, Coronavirus. Si tratta di un micro organismo intelligente, scaltro, rapace che si mimetizza in alcuni umani non manifestando alcun sintomo della sua presenza, sono i cosiddetti asintomatici, è aggressivo, mutante, subdolo, è stato creato dal modo di produzione capitalistico. Paradossalmente ciò è avvenuto in un paese che si auto definisce “comunista” ma che è governato con polso di ferro da una autocrazia. Il Covid19 può prosperare soltanto in una natura che si fa incessantemente attraverso i suoi escrementi; una natura che si conosce, mediante l’accumulazione degli escrementi, dei profiterol dell’immondizia, delle merci invendute e obsolete, del trash, dello spam. La natura infatti è benigna, ci propina dei profiterol, ci prende sul serio, crede che all’homo sapiens piacciano gli escrementi e ci ha propinato l’Ebola, la Sars, il Covid19. La natura fa sul serio. Infatti, non agisce per paradosso ma per contiguità e coerenza della parte con il tutto, e delle parti con altre parti]
Gino Rago
Poesie da I platani sul Tevere diventano betulle, Progetto Cultura, Roma, 2020 pp. 176 € 12
È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.
Il poeta vede ciò che il filosofo pensa
“Cara M.me Hanska, lasci in pace il poeta delle ombre.
Herr Cogito, i gerani, la veranda, il giardino,
La copia della Gioconda, il lilla
E la Sua stanza ammobiliata possono aspettare,
Abbiamo altro da fare, per esempio
Ascoltare il canto degli uccelli
O il ronzio della Storia
Nei bassifondi di Vienna,
Ma la gioventù negli ori della Grecia e di Troia
E quelle teste calde di Achille, Ettore e Patroclo
La smettano di fare baccano,
Coprono il canto delle allodole di tutto l’occidente.
Anche gli dei imparino a tenere il becco chiuso,
Sono sull’Olimpo grazie alla poesia.
Cara M.me Hanska,
Dalla stanza dell’insonnia sulla macelleria
il poeta vede tutto ciò che il filosofo pensa”.
Il liquido reagente
Cara Signora Jolanda W.,
Il mio Amico di Istanbul
dice che possediamo il Liquido Reagente.
Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma
[dell’Occidente
e il messaggio di aiuto nella bottiglia?
Lei parla con saggezza del Prodotto Interno
[della Felicità,
del fatturato della Felicità in vigore nel Butan.
Forse nel Butan era un sogno
e il rompicapo di misurare il PIF
non finiva con la luna piena.
Anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle
[scarpe
che si toccano sotto il tavolo.
Sa, il motore della sofferenza dei poeti gracchia
sempre nello stesso istante del mondo,
questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”
perché se ne infischia delle nostre domande.
Il bacio
Cara Signora Lipska,
oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.
Il tram ferma la sua corsa,
dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka,
è in polemica con Schiele per« ll Bacio» di Klimt,
l’aria d’autunno si guasta.
Il mio amico* ha scritto:
«[…] due specchi si specchiano nel vuoto,
illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno […]»
Il vuoto dentro lo specchio è assenza o cruna nell’ago
verso la più alta conoscenza?
Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.
Dal vaudeville in fondo alla locanda:
«un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo
è già luce dello sperma siderale».
La Paradeplatz non ricorda più l’Impero, né Sissi.
Francesco Giuseppe. A Trieste, a Piazza dell’Unita,
fin dall’alba lascia il Castello di Duino,
tracanna Campari e spritz al Caffè degli Specchi.
A Vienna la principessa balla con un uomo senza qualità.
*È Giorgio Linguaglossa
10 – Le città
Cara Signora Jolanda,
ieri ho fermato quell’uomo che mi tormenta.
Passa da qui ogni mercoledi,
mi fissa negli occhi e prosegue:
«Chi sei? Cosa porti nella borsa?»
«Sono un poeta. Nella borsa porto il mio destino
per indirizzi ignoti, letti d’alberghi, strade spaventate.
Anch’io avevo un nome ma non lo ricordo più,
il destino ha lasciato quel nome sull’acqua del fiume.
Nei caffè di Cracovia ora tutti mi chiamano
“il-poeta-santo-bevitore”.
Questo nome ora è il mio destino».
[…]
Se non a Lei a chi potrei dire
che le città che lasciammo ci inseguono.
Il passato
Cara Signora Jolanda W.,
Portiamo in giro il nostro passato
in una busta di plastica del supermercato.
Nessuno saprà che un tempo fummo nella fabbrica dell’amore.
I testimoni che possono affermarlo sono tutti morti.
Lei, da poeta lo sa:
i morti ai processi dei vivi
si avvalgono sempre della facoltà di non rispondere.
Il nostro amico di Cracovia si spoglia in un pied-a-terre
con la sua donna.
Aprono insieme una bottiglia di Coca-Cola,
si guardano negli occhi.
Si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso.
Giorgio Linguaglossa
Ho tra le mani il libro di Gino Rago, I platani sul Tevere diventano betulle. Conosco Gino Rago dal 1989. Lui, di Trebisacce, un paesone al confine tra la Calabria e la Basilicata. E voi sapete quanta forza, quanta tenacia, quanta dedizione alla poesia occorra per sopravvivere, come poeta, in quelle lande. Un poeta deve trovare in sé una forza micidiale per sopravvivere senza chiudersi nel proprio scrittoio come fanno tanti provinciali e tanti burocrati, ma è che in quegli anni di trapasso la Musa non concedeva tregue e doni a nessuno, la poesia era ancora di là da venire, la poesia italiana dormiva sonni tranquilli tra una promesse de bonheur, tra una antologia Mondadori e le migliaia di antologie amicali e redazionali che si facevano e si fanno oggidì come caramelle incartate. Una volta ebbi l’imprudenza di chiedere ad un autore di antologie quale fosse l’idea guida della sua proposta di antologia. Per risposta ebbi un improperio.
È che in tutti quegli anni è apparso sempre più chiaro che la poesia italiana è diventata una questione privata, alcuni «poeti» si erano installati nelle redazioni delle più grandi case editrici , e di là dirigevano il traffico. Erano diventati dei semafori a loro insaputa (ma io sospetto che loro ne avessero una qualche cognizione).
Ecco, Gino Rago è dagli anni novanta che cercava una propria strada, una strada lastricata di pensiero poetico, per sortire fuori dalla nebbia del minimalismo e dai gerghi letterari in vigore nel nostro paese. Io nel frattempo chiudevo l’avventura del quadrimestrale di letteratura “Poiesis”, avvenuta nel 2005 con cinque anni di ritardo perché avevo preso atto della inutilità di fare una rivista di poesia. Una volta, nel 1996, ricevetti una cartolina postale da Zanzotto il quale mi scriveva: «l’indirizzo preso dalla rivista non mi interessa». Quella frase per me fu una lezione di vita, il poeta di Pieve di Soligo era interessato soltanto alla propria auto storicizzazione e non aveva tempo da perdere. Ne presi atto.
Ecco, Gino Rago nel frattempo continuava a cercare ma aveva davanti a sé una strada tutta in salita, avrebbe dovuto saltare a piè pari tutta la poesia del Sud del secondo novecento, avrebbe dovuto fare i conti con la poesia «fondazionale» e topologica del Nord e del Centro (cioè la poesia che prendeva congedo dall’impegno e da una poetica per diventare atto privato, personale, individuale, edonistico). La strada in salita diventava sempre più ripida. Nel frattempo, i nostri contatti rimanevano in vita, ma restavano sporadici per via della lontananza di Trebisacce da Roma dove abitavo e abito, quella distanza non ci consentiva un rapporto più stretto. Poi, in questi ultimi anni c’è stata la rivoluzione telematica, internet, e questo ha reso possibile un fitto scambio di idee sulla poesia e sul mondo come prima non era possibile. E così, con la nascita de L’Ombra delle Parole la frittata era fatta, la rivista on line ci consentiva un interscambio quotidiano, una formidabile sollecitazione quotidiana. Era un acceleratore di particelle e di idee. E questo ha permesso la nascita di una nuova piattaforma di poetica, la nuova ontologia estetica, con l’apporto di altri poeti, ciascuno ha portato il proprio contributo di idee.
Ecco, questo I platani sul Tevere diventano betulle, è «libro di viaggio», un viaggio di progressivo allontanamento dalla poesia epigonica e caudataria che si fa in Italia da molti decenni e di progressivo approdo ad un nuovo genere di poesia, una poesia anedonica che presuppone un nuovo «modo» di porre l’istanza del poetico; detto in una parola, la poiesis viene vista da Gino Rago non più come rappresentazione ma come presentazione. Sono molti anni ormai che ci stiamo girando intorno, con contributi filosofici ed ermeneutici di tutti i partecipanti a questa avventura, e questo libro di Gino Rago segna un punto di svolta e di non ritorno. La poesia italiana ha svoltato e non può più tornare indietro. Se questo è avvenuto è un merito anche e in particolare del poeta di Trebisacce che ha saputo sviluppare la propria poetica in direzione di una relazionalità orizzontale e verticale tra tutti gli attori e gli attanti che in questi anni hanno preso parte a questo processo di crescita, infatti nel libro sono nominati, con nome e cognome, insieme a nomi e personaggi di fantasia anche le persone che in carne ed ossa hanno abitato la ricerca della NOE. Il risultato è un libro di straordinaria densità e complessità. Ci sono voluti trenta anni per uscire dalla palude della poesia italiana, ma Gino Rago c’è riuscito. Ed è arrivato alla «forma-polittico» della poesia, la più alta e problematica forma di poesia che oggi è possibile esperire. Penso che il «polittico» sia la forma più idonea per raffigurare, in poesia e non solo, il mondo moderno con la sua complessità, con la sua politticità, con la sua elliticità, con la mancanza di un centro su cui fare riferimento. Poiché il mondo ha perduto il suo centro stabile e il fondamento stabile, la poesia questo «fondamento» deve costruirselo da sé, e così ricorre al postulato della instabilità generale di tutte le forme artistiche e di tutti gli atti percettivi, ad un fondamento meta stabile, ad un fondamento che adotta il limite ed il finito come propri della propria ontologia positiva.
Gino Rago ha compreso che la promessa di bonheur della poesia epigonica è una promessa fallace e fedifraga, che l’oggetto dell’estetica è qualcosa che non sta né qua né là. E l’arte non ha modo di acciuffarlo, se non con l’accalappiacani, o l’acchiappafarfalle. In ciò, il concetto di arte è affine a quello delle nuvole. È un concetto rarefatto. È un concetto meteorologico.
L’arte che vuole essere fondazionale, si ritrova ad essere funzionale, perché l’arte non fonda più alcunché tranne la propria metessi con lo spirito fatto di immondizia. Così, l’arte scopre la propria natura meteorologica e merceologica. L’arte suprema è la forma suprema di merceologia dello spirito.
L’arte di Baudelaire ha mostrato che quella «promesse du bonheur» che essa promette è, in realtà, una truffa, in quanto essa è sempre meno sicura della propria esistenza e della propria sopravvivenza nella società signorile di massa, quella delle merci. L’arte però risponde alla propria insussistenza con il ritorno del rimosso, ripresentando ogni volta quella promessa fedifraga sapendo della menzogna ma tacendo. Ed ecco come il silenzio si insinua nella sua struttura con il ritorno del rimosso. Baudelaire ci ha mostrato in maniera indiscutibile quanto quella promessa di felicità sia una truffa dello spirito servile e quanto la pacchianeria sia vicina all’arte nella sua più alta espressione.

da sx G. Linguaglossa e Gino Rago, Ostia, 2017
Gino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e residente a Trebisacce (Cs) dove è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, dove si e laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005) e I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019). È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole” e redattore della Rivista on line lombradelleparole.wordpress.com”.
Leggo con grande ammirazione caro Rago.
…e solo tu sai quanto è vero.
Rasenta il piano, come un confluire di sostanza
che ci fa strisce pedonali dell’asfalto,
Il bricco disegnato sulla piastrella, l’ordine di un dipinto senza dimensioni. Si, la tua poesia sta
rasoterra come le stelle imprescindibili,
la via della resurrezione non ha dimensioni!
Con grande stima caro Rago.
GRAZIE OMBRA.
La gioventù negli ori della Grecia e di Troia, gli dei che sono vivi solo grazie alla poesia…Il poeta trae vigore dalla consapevolezza della sua sussistenza, dalla capacità mai dismessa di procrastinare la realtà come nel genio di Kavafis… Una consapevolezza del poeta moderno e contemporaneo che sembra dire:”E’ morta la poesia? Viva la poesia!”.
da http://philosophykitchen.com/2020/03/mariano-croce-postcritica-asignificanza-materia-affetti/?fbclid=IwAR1UluUBnsSi_I1NLR7f7jtRSckIoU2w0B_i6-1xGbR7yr7klZTwlMv3Joo
POSTCRITICA. ASIGNIFICANZA, MATERIA E AFFETTI
Recensioni / Marzo 2020
Nel testo di recente pubblicazione per Quodlibet, Postcritica. Asignificanza, materia e affetti, Mariano Croce si inserisce nel dibattito contemporaneo sul tema della postcritica, ambito trandisciplinare degli studi umanistici, che coinvolge non solo la riflessione filosofica, ma anche l’antropologia, la sociologia, la critica letteraria, la linguistica e i cultural studies. Il termine postcritica fu coniato negli anni Cinquanta da Michael Polanyi, scienziato e filosofo; esso designa una posizione teorica che si propone di andare oltre l’orientamento della filosofia critica, il cui paradigma epistemico coincide con la ricerca di un rapporto obiettivo con la realtà e più nello specifico con la lettura, possibile solo nella misura in cui si utilizzano le lenti del dubbio e dell’epoché, scavando nelle profondità occulte e nascoste del reale e dei testi. La postcritica supera quest’esigenza “paranoide” che culmina nella cosiddetta “ermeneutica del sospetto”, presentandosi piuttosto come un’attitudine di incontro con il mondo e la lettura, che ne metta in luce gli aspetti fenomenologici, estetici ed affettivi.
Come nota Eve Kosofsky Sedgwick in Paranoid Reading and Reparative Reading, uno dei testi fondativi della postcritica: «il sospetto guarda solo al generale, ai grandi apparati nascosti e affoga il singolare, le relazioni locali, contingenti in un episteme che ritiene onnicomprensiva» Sedgwick, 2003, pp. 123-151). Allo stesso modo per Rita Felksi, Elizabeth S. Anker, Bruno Latour o Laurent de Sutter, esponenti di spicco del movimento postcritico, gli strumenti critici “hanno esaurito il loro vapore”, secondo un’incisiva espressione di Latour (Latour, 2004, p. 225), lasciando il posto ad una diversa immagine della lettura e della nostra interazione con la realtà. Per gli autori sopracitati in quest’ottica non c’è nulla da indagare oltre e al di sotto degli a/effetti che il mondo e l’esperienza dell’incontro con i testi producono.
Postcritica. Asignificanza, materia, affetti.
ll libro di Croce si presenta come un contributo originale rispetto alla letteratura del campo nella misura in cui offre al lettore tre nuovi strumenti concettuali per fare postcritica. Attraverso le nozioni di asignificanza e materia, nonché tramite una specificazione del concetto di affetto, l’autore segue infatti un percorso logico-argomentativo che porta a definire lo spazio pratico, poietico e vitale della postcritica. Essa si mostra come un esercizio, un movimento o un’attitudine. Scrive Croce: «vorrei poter dare un senso di ciò che la postcritica fa anziché ciò che dice. Il mio dire sarà quindi un mezzo per fare postcritica» (p. 7).
Il primo capitolo del testo si apre tramite una riflessione da parte dell’autore sul concetto di asignificanza, tesa a dimostrare l’importanza di un ripensamento dell’idea di matrice logocentrica in base alla quale la realtà risulta accessibile solo nei suoi effetti epifenomenici linguistici e nelle sue trame segniche. Croce sostituisce a questa visione l’ipotesi di una fuoriuscita dal regime della significazione, per approdare ad «un linguaggio asignificatorio che tracci connessioni e crei legami tra le cose, anziché imporre loro un significato» (p. 20). Per l’autore la fascinazione profondamente antropocentrica per il significante si correla all’esigenza di un apparato critico, dal portato normativo. Criticare, seguendo l’etimo greco di krino, è infatti sempre sinonimo di creare confini rigidi, stabilendo crinali non oltrepassabili e giudizi che sanciscono limiti monolitici.
Se tutto è significazione, parola, linguaggio e non si dà nulla oltre un fitto reticolo segnico, resta tuttavia un’esigenza quasi paradossale ed ossessiva (e ad avviso dell’autore nociva), di scavare al di sotto del logos per scorgere «una realtà più profonda, tacita, opaca, sede di meccanismi più pervasivi» (p. 14). Così l’ostinazione per il segno, (che si configura come una necessità imprescindibile di denominare e circoscrivere tramite la parola oggetti, vissuti ecc.), si coniuga ad un’attitudine critica, tesa a decrittare le verità che la significanza di fatto occulta e rende opache. Viene dunque esplorata l’ipotesi di un contatto con gli “effetti di superficie” che l’asignificanza produce, in contrapposizione all’inabissamento nelle profondità che avviene ad opera della critica. Croce, sulla scia di Deleuze, Latour e De Landa, definisce i presupposti teorici di un’“ontologia piatta” e immanente, un piano di consistenza orizzontale dove la vera profondità coincide con la superficie e gli oggetti non sono nient’altro che gli a/effetti che essi producono. Il processo di significazione perde quindi la primazia di unica condizione dell’esperienza, dando spazio alla realtà minuta degli interstizi topografici del non-linguistico. Ad avviso dell’autore tra lingua e topografia intercorre una distanza radicale: fuori dal linguaggio ci sono luoghi, tragitti e relazioni da mappare.
La topografia del non-linguistico è letteralmente nella sua radice etimologica (“topos”, luogo e “graphein”, scrivere), una “scrittura di luoghi”, una cartografia delle relazioni e delle connessioni che gli enti intrattengono, al di là dei confini della parola. Da questo punto di vista, se il logos de-limita una zona sostanziale propriamente umana, l’affetto invece, presentandosi come un possesso non eminentemente antropocentrico e personalistico, attraversa gli enti secondo una direttrice transpecifica e transfrontaliera, eccedendoli e precedendoli in un senso non trascendente, ma topologico e trans-individuale. L’affetto intrattiene un rapporto stretto con l’impersonale e l’anonimo, è un tramite, un vettore di scambio che intesse mediazioni connettive e disgiuntive. L’affettività è quindi un costrutto topografico, che elude il perimetro del linguaggio, nella misura in cui veicola relazioni e congiunzioni. Per sfuggire alla trappola del segno occorre in definitiva collocarsi in un regime affettivo ed asignificante, non negando in toto la funzione del linguaggio, ma facendo breccia fra i suoi intervalli, fendendolo, balbettandolo e «piegandolo ad usi non significativi» (p. 21).
Il secondo capitolo del libro è dedicato ad un itinerario attraverso varie figure letterarie che “scrivono il movimento puro” (p.49): dai romanzi di Alain Robbe-Grillet, basati su un passaggio da un uso denotativo del linguaggio al linguaggio delle cose stesse, passando per le significazioni “tentacolari” di Giorgio Manganelli, per arrivare agli esercizi di stile di Raymond Quenau, Croce traccia una cartografia di una letteratura minore, dall’eco deleuziana. Il riferimento più affascinante contenuto nel testo tuttavia è forse quello dei romanzi di Clarice Lispector, che mettono in scena, in alleanza con Spinoza, una vera e propria poetica degli affetti e del movimento. È la stessa scrittura a divenire, a prendere forma in segni che più che di voci hanno i caratteri di gesti e vibrazioni: dire significa tracciare linee, unendo enti, situazioni e cose.
Per Lispector usare la parola non comporta nessuna rinuncia alla componente materica del reale nella misura in cui attraverso di essa non si dice ciò che accade, ma si producono eventi. Gli autori citati rappresentano per Croce esempi di scrittura postcritica poiché “dissodano il linguaggio” (p. 38), scoprendo nuove alleanze tra le parole e l’esperienza, dando voce alle cose stesse, nella loro relazionalità. Ciò ad avviso dell’autore è possibile grazie all’utilizzo di procedure poetiche e narrative, quali figure retoriche come omoteleuti, onomatopee, lipogrammi etc. (nella fattispecie in Quenau) che disarticolano il linguaggio, frammentandolo e moltiplicandolo, orientandolo verso l’asignificanza, tramite enunciati che implicano l’evocazione di realtà materiche (aptiche, visive, gustative, nel caso di Lispector) o ancora, ad esempio, attraverso le “inerzie iperdescrittive” (p. 38) di Robbe-Grillet. Lo spazio che l’autore ritaglia alla letteratura è di ausilio nel definire una filosofia composta da relazioni, movimenti e flussi. Come nota Deleuze: «scrivere è una questione di divenire, sempre incompiuto, sempre in fieri» (Deleuze, 1993, p. 13). La letteratura permette inoltre di soffermarsi ulteriormente sul tema dell’asignificanza, sondandone i meccanismi e gli effetti.
Nel terzo capitolo, dedicato alle operazioni della materia, l’autore mette a tema, sulla falsariga di Karen Barad, (una delle più rilevanti teoriche femministe dei “nuovi materialismi”), la nozione di intra-azione e di agentività, ampliando il suo intento di definire nuovi strumenti concettuali per esercitare la postcritica. Per Croce, lettore di Barad, l’intra-azione si presenta come l’assenza di una preesistenza dei termini sulle relazioni. Barad sostituisce al concetto di inter-azione, da intendersi come l’entrare in rapporto di termini (di individuazione, nella fattispecie) già stabiliti, la nozione di intra-azione, che implica il costituirsi dei termini in seno a dei rapporti e non al di fuori di essi. La materia si presenta cioè come uno snodo reticolare, come un dinamismo processuale e genetico; essa ospita relazioni che producono intra-attivamente termini. (Barad 2017).
Nell’universo della materialità-flusso, simultaneamente psichica e somatica, i termini non vengono prima delle relazioni, ma ne sono gli “effetti di superficie” (p. 9) e le increspature: essi si presentano come delle agglutinazioni sempre revocabili e in divenire. L’individuazione è in questo senso una composizione, una sezione intra-attiva della materia che la delimita in maniera aperta senza mai circoscriverla definitivamente. Per Croce: «l’individuazione prende corpo sul piano o superficie in cui le cose si compongono, scompongono e ricompongono» (p. 66). Il ricco vocabolario di Croce, intessuto di suggestioni icastiche e immagini evocative, ci dice sicuramente qualcosa del tentativo filosofico e argomentativo dell’autore: la parola si piega al non-linguistico, facendosi strada attraverso l’asignificanza, cercando di restituire “blocchi di sensazioni ed affetti”, per usare dei termini deleuziani.
Dopo aver definito il concetto di intra-azione, Croce riflette sulla nozione di agentività, offrendo un percorso logico teso a mostrare come le due nozioni contribuiscono a ridefinire lo spazio di un “nuovo materialismo”. L’agentività, in questo senso non va intesa (nel senso classico socio-cognitivo) come la capacità di agire attivamente e trasformativamente di un singolo soggetto né tanto meno come un attributo che si predica di un individuo isolato, quanto piuttosto come l’energia emergente di un campo di forze metastabile e materiale, che esorbita i confini dell’Io. Croce prende a prestito dal pensiero di Gilbert Simondon il concetto di metastabilità. Per sistema metastabile quest’ultimo intende un campo di forze né stabile né instabile, sospeso in uno stato di equilibrio ricco di potenziali, che si conserva fintantoché non viene fornito allo stesso un quantitativo di energia che ne perturbi l’omeostasi. Punto d’arrivo della riflessione di Croce in questo capitolo è l’idea che l’attività agentiva ed intra-attiva della materia si presenti come un dinamismo di forze pre-personale, pre-individuale e metastabile in continua riconfigurazione, trasformativa ed affettiva.
Nell’ultimo capitolo del testo Croce mostra come gli incontri fra gli enti rispondano a dinamiche energetiche di “chemiotassi affettive”. L’autore mutua il concetto di chemiotassi dalla biologia, dove per il termine si intendono i fenomeni con cui organismi multicellulari o unicellulari direzionano i loro movimenti, a seconda della presenza di alcune sostanze chimiche. L’intento di Croce è quello di delineare (seguendo contemporaneamente la riflessione di Spinoza sulle affezioni e gli affetti) una mappatura degli incontri, nocivi o vantaggiosi, che compiamo giornalmente. “Taxis”, dal greco, è disposizione, relazionalità, ma anche allo stesso tempo, schieramento o contrappunto. L’Etica di Spinoza, nella fattispecie nella lettura che ne offre Deleuze, per Mariano Croce, si riferisce in fondo a situazioni minute e circostanziate, a grattacapi, malesseri o incontri favorevoli che accrescono la nostra potenza di agire: «un buon caffè come un amore, determinano un passaggio dello stato di potenza» (p. 79), così come, al contrario, se «ho preso un caffè in un brutto posto con una persona triste» (p. 66) non posso che intristirmi, facendomi attraversare da forze che agiscono a detrimento della mia potenza.
Affettare ed essere affetti è dunque una scienza delle composizioni, “un’alchimia” delle connessioni, non antropocentrica, ma orizzontale: «che si tratti di un libro, di una pianta, di un minerale, di un individuo, di un gruppo di individui, di una comunità – si forma un’alchimia affettiva che elimina qualsiasi pretesa di distanza e neutralità» (p. 24). La dimensione affettiva della realtà materica implica dunque un concetto di ontologia che ospiti fra le sue pieghe un nuovo lessico, composto da termini aperti e smarginati, che rispecchino l’operatività energetica e sempre diveniente dell’essere metastabile. Per Croce connettori, reagenti, tensori, torsori, vettori (e,e,e…) abitano il piano di immanenza, popolandolo di molteplicità, intensità e variazioni.
In definitiva l’autore presenta la necessità di risemantizzare i termini tradizionali dell’ermeneutica, ridisegnandone i confini: al segno corrisponde il dominio dell’asignificante, all’atteggiamento interpretativo una collocazione affettiva, mentre la materialità orizzontale sostituisce le profondità di un atteggiamento critico. È in quest’ottica e da questo vertice osservativo che occorre attraversare il testo di Croce, misurandosi con una lettura che sia anch’essa affettiva, seguendo in ciò Deleuze, per il quale è necessario restituire «un’immagine pratico-affettiva della lettura, trasversale e non intellettualistica» (Deleuze e Guattari, 1972, p. 156). L’auspicio è dunque che l’impatto con il testo si configuri esso stesso come un’ermeneutica dell’incontro.
di Silvia Zanelli
Bibliografia
Barad, K. Performatività della natura (2017), ETS, Pisa
Deleuze, G. & Guattari, F. (1972). L’anti-Edipo. Capitalismo e Scizofrenia. Torino: Einaudi
Deleuze, G. (1993). Critica e clinica. Milano: Raffaello Cortina
Latour, B. (2004). Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, Critical Inquiry 30, N.2
Sedgwick, E. (2003). Paranoid Reading and Reparative Reading, or, You’re so Paraoid, You Probably Think This Essay Is About You, Durham: Duke University Press
https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/03/19/28954/comment-page-1/#comment-63329
Alla post-critica penso corrisponda la nostra post-poesia.
Stanza n. 81
Si chiama Covid19
Un nemico intelligente, un Estraneo si aggira per le nostre città.
Per la metropolitana, per le strade, sulle montagne russe.
Si chiama Covid19.
Il Pappagallo becca sempre due volte nel pastrengo
«Pastrufazio è morto di sonno, lo sa?», insinuò il mago Woland.
«Inoltre, il cortile litiga sempre con il ricordo.
Cosa del tutto inammissibile. Che vuole, non c’è più etichetta,
caro amico».
Un corvo col telecomando accese il televisore
e si accomodò in poltrona.
Le banconote sortirono dalle cassette di sicurezza
per rifugiarsi tra le nuvole.
Il mago Woland porta al guinzaglio un rottweiler
perché Behemoth è dal parrucchiere
per la messa in piega del nuovo mondo.
Il bacio si staccò dalla cartolina
E andò a posarsi sulla guancia di Gino Rago
che stava prendendo il caffè.
Mariano Croce
Postcritica
Asignificanza, materia, affetti (Quodlibet, 2019, pp. 96 € 10)
dal catalogo Quodlibet:
Scrivere un libro contro la critica non avrebbe alcuna importanza, perché solo importa ciò che crea concetti capaci di tracciare nuove linee. Queste pagine segnano invece il primo gesto postcritico della postcritica, ovvero la rivendicazione del “post”: essa reagisce all’inflazione di un suffisso con un esercizio deflattivo. E se la deflazione è la diminuzione del livello generale dei prezzi, la postcritica svaluta sé stessa senza clamore. Essa guarda infatti al minuto, all’interstizio, ai legami che intessono la trama della vita ordinaria, e rifiuta la “proiezione strutturale” delle teorie generali. Ma non è certo una propensione all’agone con la più blasonata delle creature filosofiche, la critica, che fa caricare la postcritica di un suffisso così compromettente. Il “post” non evoca un prima e un dopo, né calca il congedo da una genitrice indesiderata; è piuttosto un “segno”, un “cenno”, un “signpost”, che richiama l’attenzione sul “dove si sta”. Siamo in un mondo che certo non abbisogna dell’addio alla critica, ma che alla critica richiede di fermarsi un istante, di accorciare le distanze tra teoria e pratica, di collocarsi sulla superficie dove le cose accadono e si compongono. La postcritica di cui questo libro parla vuole inaugurare un maggese del pensiero filosofico, fatto di contaminazioni disciplinari con l’antropologia, la sociologia, la letteratura, la fisica, la botanica e tante altre, che possano indicare alla filosofia, plenipotenziaria della teoresi, come ascoltare, leccare, odorare e toccare.
[Mariano Croce, nato a Roma nel 1979, insegna Filosofia politica presso il Dipartimento di Filosofia della Sapienza Università di Roma. Dopo aver conseguito il dottorato in Filosofia, ha lavorato come ricercatore alla School of Law della School of Oriental and African Studies a Londra e come Marie-Curie Fellow alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Anversa. Collabora stabilmente con l’Università di Anversa e la Charles University di Praga, dove coordina progetti di ricerca sulla formazione delle identità sessuali e sul riconoscimento giuridico dei modelli relazionali non-convenzionali. Tra le sue pubblicazioni recenti, The Legacy of Pluralism (con Marco Goldoni, Stanford University Press, 2020) e The Politics of Juridification (Routledge, 2018). Per Quodlibet ha inoltre curato le nuove edizioni di Santi Romano, L’ordinamento giuridico (2018) e Frammenti di un dizionario giuridico (2019).]
Scrive nel suo libro Mariano Croce:
«il semiologo Algirdas Julien Greimas scrive:
“Ogni volta che ci si pone a riflettere sulla situazione dell’uomo, si resta ingenuamente stupiti nel rendersi conto che questi è letteralmente assalito da mattina a sera e dall’età prenatale alla morte dalle significazioni che lo sollecitano da ogni lato e sotto tutte le forme. Le pretese di certi movimenti letterari che vorrebbero fondare una estetica della non-significazione appaiono stranamente ingenue”1.
Greimas registra l’onnipresenza di un processo significatorio che non dispone né di ingresso né di uscita. Il significante è la condizione primigenia dell’esperienza umana.
In modo grossolano ma funzionale, la significanza può essere quindi definita come la serie di pratiche con cui si produce quel reticolo di segni che consente all’essere umano di esperire un oggetto cosicché esso abbia un significato stabile su un piano diacronico (ossia per il soggetto conoscente nel corso del tempo) e sincronico (ossia per gli altri soggetti). Perché io possa dire “sedia” in modo tale che mi venga passata una sedia quando dico “passami una sedia”, deve darsi un significato stabile, ossia una relazione sedimentata, pubblica e reiterabile tra il significante “sedia” e l’oggetto che esso significa. La dimensione di significanza, al contempo, ha un precipitato normativo: quando a una persona presento la mia compagna dicendo “questa è la mia compagna”, la cognizione mediante parola segna e delimita il ventaglio di azioni possibili tra la mia compagna e l’ascoltatore»
Ineccepibile.
Il problema è che nell’arte moderna e nella poesia moderna, quando viene scritto «passami una sedia», ciò non significa che voglio che una seconda persona mi porga gentilmente una sedia, ma significa «altro». Su questo fondamento stabile si fonda (scusatemi il gioco di parole) la nuova ontologia estetica.
1 Algirdas Julien Greimas, Semantica strutturale. Ricerca di metodo, trad. it. Italo Sordi, Rizzoli, Milano 1969, p. 9.
TREND
“questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”
perché se ne infischia delle nostre domande.”
(Gino Rago)
Il crocevia in mano ai brokers.
Fioritura di Azioni nei polmoni.
C’erano quattro secoli tra asfalto e marciapiede.
L’efficienza pagava in manifesti listati.
In molti però pensarono che l’occasione fosse ghiotta.
Alle stelle i film di Stanlio e Ollio.
Quelli che muovevano la gru non erano uomini.
Il resto si teneva alla casualità.
E se si posava un corvo sull’antenna
era perché non sapeva da che parte stare.
A quando la prossima mossa?
…
Piovvero i lampioni.
La consegna di luce senza destinatari.
Una volta trascurato il fattore M
Era difficile prevederne le mosse.
Entrato nella psiche senza preavviso
pretendeva colazione su prato.
Il fascicolo dei conti diviso tra sinapsi.
Il Sole protestato.
…
Un agente delle imposte entrava e usciva dai nervi.
Senza maschera, diffondendo viole.
C’era muffa di almeno sei millenni.
Si astenne davanti ai Tutankhamon.
Il corvo prese la decisione giusta
Volò da uomo, con comodità.
Azionò il telecomando per muovere le ali.
E in tutta allegrezza gracchiò paurosamente.
(Francesco Paolo Intini)
Nell’Agamben di Stanze (1977), emerge il ruolo determinante che il filosofo assegna a Mallarmé nello sviluppo della poesia moderna, la quale viene posta a confronto non con la produzione della poesia del mondo pagano, ma con la lirica medioevale.
A giudizio del filosofo romano, nella poesia amorosa in lingua d’oc e d’oïl, così come nei testi dei siciliani e degli stilnovisti, si realizza qualcosa di assolutamente singolare: «Il vincolo pneumatico, che unisce il fantasma, la parola e il desiderio, apre infatti uno spazio in cui il segno poetico appare come l’unico asilo offerto al compimento dell’amore e il desiderio amoroso come il fondamento e il senso della poesia». In questo «vincolo pneumatico» e fantasmatico, la lirica amorosa del Medioevo «celebra, forse per l’ultima volta nella storia della poesia occidentale, il suo gioioso e inesausto “unimento spirituale” col proprio oggetto d’amore».
Il lettore si chiederà: che cosa c’entra la lirica medioevale con la nuova ontologia estetica? Ed io rispondo che anche nella NOe si stabilisce una consonanza circolare tra le parole mandate in spam, le parole di plastica, quelle dell’immondizia e le parole del «vincolo pneumatico», quelle dell’immondizia, delle parole-spam, della «poesia» e del discorso poetico NOe. Nella NOe non c’è più alcuna gerarchia tra le parole-spam e le parole del pneuma poietico, non c’è più alcun abisso. Le parole del nostro mondo si sono definitivamente staccate dai loro referenti, dal significato convenzionale proprio come è accaduto alla poesia di Mallarmé. la NOE si limita a prenderne atto. E questo è evidente nella poesia di Gino Rago e, in modo ancor più radicale, nella poesia di francesco Paolo Intini, il quale scrive:
Il corvo prese la decisione giusta
Volò da uomo, con comodità.
Azionò il telecomando per muovere le ali.
E in tutta allegrezza gracchiò paurosamente.
Il mio “grazie” a Mauro Pierno, a Sabino Caronia, a Franco Paolo Intini, a Giorgio Linguaglossa (al suo magnifico allestimento di questa pagina de L’Ombra che oggi mi dedica) questa sorta di poesia-manifesto, con traduzione in rumeno di Lidia Popa
Gino Rago
La poesia, la caccia, la parola-preda
Caro Signor G. R.
sono Jolanda W., di nuovo irrompo nella Sua vita
senza preavviso.
La Signora Lipska è sempre in giro
ma ha lasciato un biglietto.
Mi prendo la libertà di spedirlo
all’indirizzo riservato che è qui, sulla sua scrivania.
Forse la Signora desidera dare a Lei
il suo manifesto poetico.
Lo conosco da tempo, glielo anticipo.
Per la Signora
la poesia è andare a caccia,
un’orma dopo l’altra
con i battitori dietro i latrati delle parole.
[…]
So che Lei e il Suo amico di Istanbul
seguite nei versi
la rapace fonetica del bosco,
ma con il colpo in canna.
[…]
Tenete nel mirino del fucile la parola-preda,
inseguite la lingua
ma mai nel sottobosco romano o milanese.
Riconosciuta la parola prendete la mira,
sparate, la preda mirata è là,
ridotta in polvere
(le parole non tenute sotto mira si disperdono)
*
(da I platani sul Tevere diventano betulle, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2020, pagine 175, E. 12)
**
Traduzione in rumeno di Lidia Popa
Poezia, vânătoarea, cuvântul-pradă
de Gino Rago
(traducere in limba română de Lidia Popa)
Stimate domn G. R.
Sunt Jolanda W., mă năpustesc din nou în viața Dumneavoastră
fără notificare.
Doamna Lipska este mereu în preajmă
dar a lăsat o notă.
Îmi iau libertatea să o trimit
la adresa rezervată care este aici, pe biroul său.
Poate că Doamna vrea să vă dea Dumneavoastră
manifestul său poetic.
Am cunoscut-o de ceva timp, o vă confesez în avans.
Pentru Doamna
poezia este vânătoare,
o urmă după alta
cu baterea în spate a latrăturilor de cuvinte.
[…]
Știu că Dumneavoastră și prietenul Domniei sale de la Istanbul
urmăriși în versete
fonetica prădătoare a pădurii,
dar cu cartușul pe țeavă.
[…]
Păstrați cuvântul „pradă” în vizorul puștii,
urmăriți limba
dar niciodată în subpătrunderea romană sau milaniană.
Recunoscut cuvântul vă fixați ținta,
trageți, prada țintă este acolo,
redusă în pulbere
(cuvintele care nu sunt ținute sub țintă se rătăcesc)
**
La relazione simulacrale è diventata una categoria del politico
Leggevo le poesie qui postate di Francesco paolo Intini e di Mario M: Gabriele e meditavo sul rapporto di reversibilità, non di opposizione, tra visibile e invisibile, tra il qui e l’altrove, tra presenza e assenza, tra originale e simulacro che qualificano il nostro modo di vivere e di pensare la vita quotidiana e l’arte e la poesia.
È evidentissimo che nella poesia NOE la distanza tra il visibile e l’invisibile è stata accorciata. Il visibile e l’invisibile sono diventati anch’essi dei simulacri, la relazione simulacrale ha preso luogo nei rapporti umani ed è diventata un tropo retorico, una categoria estetica, politica e psicologica. Nella NOE, oggetti, icone, personaggi, simulacri e relazioni del visibile si trovano gomito a gomito con oggetti, personaggi, icone, simulacri e relazioni dell’invisibile. In proposito, si veda anche, di Merleau Ponty, Il visibile e l’invisibile, trad. it. a cura di A Bonomi, Bompiani, Milano, (1969), in quest’opera si pongono le !asi per una riabilitazione ontologica del sensibile ispirata, come commenta M. Carbone, dalla configurazione senziente e sensibile del corpo.
Una studiosa italiana ha coniato una nuova parola: iconomia per indicare questa economia della relazione tra i rapporti intersoggettivi, concetto che può essere applicato anche alla diagnosi di un testo poetico quale noi lo intendiamo. Lasciamogli la parola:
«Con il termine iconomia, parola che intendo derivata dalla contrazione di icona e nomos, voglio indicare un modello concettuale, un paradigma di senso applicabile a varie espressioni della cultura contemporanea, riferibili all’affermarsi del concetto di icona come ordine di pensiero, cioè come modo di guardare la realtà e le sue strutture di concepibilità e di interpretazione in-centrato sulla superficie. La logica dell’iconomia, infatti, è riconducibile al rovesciamento della categoria di maschera-persona e all’affermazione della maschera come superficie senza permeazione di senso o di alcuna essenza retrospettica. Nell’iconomia della relazione, dunque, ogni rapporto tra significante e significato è ricondotto ad un legame di corrispondenza speculare, mimetica, reiterando, sotto varie forme, il primato della parvenza e della impermeabilità dell’immagine alla visione.
[…]
il segno è ulteriormente impoverito del suo rinvio significante: le relazioni iconomiche si appiattiscono in una presentazione di immagini che, solo in quanto tali, riescono a dire qualcosa, appunto perché non resta molto da dire al di là della superficie inerte del loro darsi. La deriva iconomica instaura una iconocrazia, cioè il potere dell‘icona come metron di lettura e di relazione gnoseologica con il mondo percepito e pensato, anch’esso svuotato da ogni rinvio che lasci intravedere un fondo, un ulteriore piano di referenza semantica che non sia il solo presentarsi alla vista, il solo es-porsi delle cose, dei segni, delle significazioni, che pretende di saturare ogni allusione e illusione con una logica di positivizzazione totale. La deriva iconomica è quindi da pensare anche come scivolamento di ogni segno-simbolo a simulacro. Nel modello iconomico, insomma, prevale l’immagine, l’icona non come costrutto mentale o strumento del pensiero,come aveva affermato Aristotele, ma come assolutizzazione della percezione visiva, metafora di un assottigliamento totale della complessità dei piani costitutivi della realtà e della sua comprensione ed interpretazione: ciò che si offre nel suo apparire immediato e cartilagineo, ha la pretesa di saturare ogni altro rinvio o ricerca di verità. Anzi, il nomos dell’icona fa dell’icona, cioè della pura immagine simulacrale, la verità, ossia il primato dell’apparente sull’intelligibile nello svuotamento di ogni altro.
La mera corrispondenza del segno a significati che quasi galleggiano sulla massa acquosa e fluttuante delle rappresentazioni, li connota come
segni-sughero, percepibili proprio perché privi del peso e del rischio della profondità, e dunque senza allusione ad alcuna forma di velamento disvelante (pensiamo alla aletheia heideggeriana), che sottenda una visione della trama retrostante, e dei fili della trama stessa. In tal senso, ogni iconomia instaura l’iconocrazia di una cultura dell’immediatezza e della parvenza, in cui trova sempre più spazio la modularità e l’artificialità delle relazioni, delle identità e dunque anche dei corpi»1
1 Fiammetta Ricci https://www.academia.edu/9251324/Alterazioni_della_filosofia._Il_corpo_e_il_corpus_in_Jean-Luc_Nancy
“Guardate semplicemente la superficie…Lì sono io. Dietro non c’è nulla.” sentenziò Andy Warhol così come la ricerca Noe: profonda ricerca di superficie, volta a prelevare campioni in modo bulimico dalla realtà e i suoi scarti, dalla tradizione o dalla memoria storica e trattarli in una sorta di “passaggio di visione” ologrammatica ridondante e amplificata.
I versi di Gino Rago sono esemplari e memorabili in questo senso, nel senso di una nuova opera poetica che va ad arricchire la collana “NOE” il “Dado e la clessidra” di Giorgio Linguaglossa. Il mio augurio per tutti di una conviviale presentazione al più presto!
Giorgio Linguaglossa nel commentare l’ultimo lavoro di Gino Rago,I platani sul Tevere diventano betulle, Progetto Cultura, Roma, 2020 pp. 176 € 12; afferma che questo è “libro di viaggio”. Vero! Verissimo! Ma quante forme di viaggio? La tipologia è vasta quanto l’umanità. Ogni uomo ha il proprio viaggio. A volte si parte per restare in se stessi, a volte per perdersi, altre volte per rientrare nelle proprie origini, altre volte per sperimentare la propria “temporalità”, e così via. Il viaggio intrapreso da Gino Rago è un intenso travaso delle proprie energie, intellettuali e di sensibilità estetiche, nelle parole. Ricordate l’esule Kristoff che, abbandonando la patria con i familiari, trascinava una borsa appesantita dai vocabolari? Ebbene, Rago è sulla stessa pista. Lo certifica Linguaglossa quando specifica che il suo è anche “viaggio di progressivo allontanamento dalla poesia epigonica e caudataria” che vegeta in Italia negli ultimi decenni. E quanti viaggi ha sperimentato il nostro Rago? Quante piazze e quante città ha visitato ?Quante storie ha ascoltato? Quante signore e signori ha adocchiato? M.me Hanska, Signora Jolanda W., Cara Signora Lipska… Herr Cogito e i suoi “specchi vuoti”, “gli strilli di Kokoschka, le polemiche di Schiele e di Klimt…
Sa, il motore della sofferenza dei poeti gracchia
sempre nello stesso istante del mondo,
questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”
perché se ne infischia delle nostre domande.
E quali sono le prime risposte che il poeta ricava da queste s esperienze? Che il “mondo se ne infischia” delle domande dei poeti!
Potrebbe sembrare una risposta di montaliana memoria:
Spenta l’identità
si può essere vivi
nella neutralità
della pigna svuotata dei pinoli… (Quaderno di quattro anni, Mondadori, 2016, pag. 326), ma non è così… Gino Rago non tende alla “neutralità” del vuoto…
Anch’io avevo un nome ma non lo ricordo più,
il destino ha lasciato quel nome sull’acqua del fiume.
“Sono un poeta” e “Questo nome ora è il mio destino”
E in questo “viaggio” che continua:
Cara Signora Jolanda W.,
Portiamo in giro il nostro passato
in una busta di plastica del supermercato.
Addolorata conclusione. Non solo “il mondo se ne infischia” dei poeti, delle loro domande e del loro passato, ma ha apparecchiato per loro un ulteriore spettacolo: tutte le parole, come gli stracci, i legni combusti, i cenci, le lamiere e i materiali effimeri che ci possiedono, in quanto nostri oggetti, hanno lo stesso destino, finiscono tra i rifiuti e nell’identico cassonetto.
Ci sarà qualcuno capace ancora di rovistare fra queste macerie? Montale pensava a qualche “bambino” o a qualche “pazzo”. Ecco, carissimo Gino, io li vedo, i pazzi e i bambini, che
“Aprono insieme una bottiglia di Coca-cola”
mentre
“Si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso”
della tua immaginazione e della tua gioia.
Ringrazio con gratitudine profonda sia Letizia Leone, sia Peppino Gallo, per la finezza e la pertinenza indiscutibili dei loro commenti e
propongo una sorta di scheda tecnica per gli eventuali, futuri lettori di I platani sul Tevere diventano betulle per quando saremo usciti dal tunnel attuale delle nostre «vite sospese»:
Gino Rago
Scheda tecnica de I platani sul Tevere diventano betulle,
Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2020, Pagine 175, E. 20
Prefazione di Giorgio Linguaglossa, Postafazione di Rossana Levati
Retro di copertina a cura di Giorgio Linguaglossa, Copertina elaborata da Lucio Mayoor Tosi.
Il libro è stato da me concepito e realizzato sviluppandolo intorno a 5 Sezioni:
– Sezione 1
Il Vuoto, il Tempo, gli scampoli, la plastica,
gli stracci, gli specchi, le piazze
– Sezione 2
i poeti
– Sezione 3
Lilith
– Sezione 4
Lettere a Ewa Lipska
– Sezione 5
Ciclo troiano
*
Da un punto di vista strettamente linguistico-formale mi sono misurato con il «metodo mitico», con la poetica del «frammento», con i temi dello spazio espressivo integrale, con la idea tranströmeriana della massima densità poetica affidata non tanto e non esclusivamente alla parola ma alla rete capillarità della rete dei nessi possibili che possono stabilirsi tra le parole in una sorta di «poetica della parola implicata» la quale nella metafora cinetica e nelle immagini metaforiche ha i suoi punti di massima forza.
Poi, soprattutto nella Sezione 4, Lettere a Ewa Lipska, ho cercato di fare della «estetica della distrazione», della «poetica dell’archeologo», della «poetica della distanza e della partecipazione» le linee guida verso sempre una mia-patria-lnguistica, occupandomi di un perimetro linguistico ben preciso che chiamerei il mio-cerchio-del-dire, l’unico spazio in cui sento di muovermi soltanto fra «parole abitate». Il tutto, nel tentativo di usare prevalentemente i sintagmi nominali grazie ai quali ho potuto ripudiare da tutte le oltre 100 poesie del libro sia gli inganni e le trappole della ipertrofia dei sintagmi aggettivali sia l’autoreferenzialità dell’io poetante che narcisisticamente vede nel proprio ombelico il centro del mondo e l’unità di misura della storia, in ciò mi è venuto incontro efficacemente anche l’impiego diffuso del parlato, nel ripudio netto, totale, del linguaggio pubblicitario e della comunicazione di massa nel rifiuto della «univocità» della parola poetica cui ho tentato di contrapporre la sua «polivocità», caricando di responsabilità etica ed estetica il lettore.
Il risultato finale di I platani sul Tevere diventano betulle lo ha ben colto Giorgio Linguaglossa, il quale, condensandolo nel retro di copertina del libro, scrive:
« Il risultato è uno stile da Commedia che impiega il piano medio alto e quello medio basso dei linguaggi, con gli addendi finali di continui attriti semantici e iconici, dissimmetrie, dissonanze, disformismi, disparallelismi… il principium individuationis è fornito dalla peritropè (capovolgimento) di un attante nell’altro, di una «situazione» in un‘altra, di un luogo in un altro..
Il libro di Gino Rago [I platani sul Tevere diventano betulle] è diviso in cinque sezioni, ciascuna delle quali è composta con un movimento e una tonalità diverse dalle altre, ogni sezione è composta da una lessicalità individuale, e tutte insieme rimandano alla parentela relazionale del principio della concordia discordante, della oppositività di tutto con tutto. Nulla a che vedere con gli antiquati principi della ontologia novecentesca che puntava le sue fiches sulla roulette della ambiguità dei linguaggi e sul pluristilismo; qui non c’è convergenza di stili ma semmai c’è «divergenza», «difformità» tra varie morfologie di linguaggi disparati… Qui siamo in un nuovo demanio concettuale del fare poesia».
Gino Rago
In questi cinque anni, Gino Rago è stato per me, suo lettore, un formidabile compagno di viaggio. E sempre mi sorprende la sua poesia, pure in questo gioco di pieno e vuoto che adesso si offre con certezza, quando scrive :
“Se non a Lei a chi potrei dire /che le città che lasciammo ci inseguono”.
Versi come questo io li chiamo i senza-tempo, anche se calati nel discorso, come per caso. O per meraviglia.
Un buon esercizio zen: dopo il punto, guardati attorno. Dopo il punto, guardati attorno. Dopo il punto… torna qui. Ecco infatti che Giorgio Linguaglossa scrive:
Il bacio si staccò dalla cartolina
E andò a posarsi sulla guancia di Gino Rago
che stava prendendo il caffè.
E’ ancora più forte l’artiglio, il maglio,
la componentistica dell’universo cosi estremamente fuso.
Le dita sintetiche di un sillabario muto, quand’anche la O
nella approssimazione del cerchio sovverta la sfera
e nella spirale del secolo la fusione semplice
porta dalle sinapsi ad un tasto nero. Afferrare cosi pallottole al volo,
ogive, sedersi per sempre alberi,
senza distinzione tra una panca e una air shot.
L’avverarsi di un palo esatto.
Erik Satie rincorre nella mischia il suo cilindro.
Grazie Ombra. 20/03/2020
Al fedele compagno di viaggio Lucio Mayoor Tosi, che ringrazio per il suo lirico intervento, ricordo che ho sempre sentito la poesia, confluita in gran parte nel libro I platani sul Tevere… ,sulla scia tracciata dal poeta che
«attraverso le sue immagini dense, limpide offre una nuova via d’accesso alla realtà», Tomas Tranströmer, scia indicata instancabilmente da Giorgio Linguaglossa, come un luogo di incontro e come meditazione attiva, poesia cioè che, per dirla di nuovo con Tranströmer, “non vuole addormentare ma ridestare” .
Come luogo di incontro e della meditazione attiva sono i distici di “Stanza n. 81/ Si chiama Covid19” di Giorgio Linguaglossa e i distici di “TREND” di Franco Paolo Intini, per rimanere a quelli proposti su questa odierna pagina de L’Ombra perché fra l’altro questi distici di Linguaglossa e Intini sono in grado di stabilire quei legami inattesi tra frammenti della realtà che al contrario “i modi di vedere e le lingue convenzionali” sono soliti mantenere distinti e separati.
(gino rago)
Nulla fu detto che non fosse transito veloce. Determinante avvio della coscienza bulimica in aerea sospensione.
Giacque una infiorescenza di perduta allegria tra il petulare di primule tardive. A specchio denso, il mercuriale responso illividisce altra via. Se pur data all’umano lignaggio, la vulgata spira in sillabe e vaticinio. Responso dell’Arcano in limite adiacente il subitaneo silenzio. Fummo mai umani nel gloriare dell’insulso gesto a fine….
“Si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso”.
I tuoi platani, Gino, trasmutano in betulle, alchimia del poeta delle ombre. Accede egli forse all’Ade, nel vuoto arrendersi di ogni specchio alla vita. Torneranno ad essere alberi nelle sere prossime al catarsi di un tempo degno di infinitezza, mentre ogni foglia cade e medita silenziosa. Avrà il nome di eteronimi, il poeta, nella Lisbona delle idee e porterà compassione poichè “i morti ai processi dei vivi si avvalgono sempre della facoltà di non rispondere”.
Nell’architettura dei tuoi versi coabitano microrganismi mutanti che traggono linfa da tutti i passaggi esperienziali, reazioni chimiche in dissolvenza, scissure del pensiero metafisico.
Con grande delicatezza del sentire, ti dono le sensazioni del momento, in attesa di leggere l’intera silloge poetica.
Marina Petrillo
Dico il mio sentito ‘grazie’ a Marina Petrillo per il suo penetrante, acutissimo commento alla mia poesia de I platani sul Tevere diventano betulle così:
Una poesia di Marina Petrillo commentata da Gino Rago
Marina Petrillo
Si traccia a sua somiglianza
il pallido sorgere del sole.
Tace della natura il lascito
lunare e inciampa raggi annichiliti
da brividi albescenti.
Incerto sullo splendore, annida l’ombra
in emanante abbraccio e lì si abbandona.
Eterno è il suo momento
mai avvizzito dal ciclo delle divine stagioni.
*
Commento
Scrive Andrea Sangiacomo a proposito della «Civiltà della solitudine»: «All’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria esistenza, abitare è per lui il verbo dal significato più affine a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo abita, è un abitatore di spazi. Ogni spazio è una campata di cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’orizzonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta diversa. Abitare un luogo è imparare a pensare e a pensarsi in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella con-trada il giorno conosce. Esser nati tra colli tranquilli, o tra valichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, sono diverse domande a cui ciascuno dovrà rispondere esistendo. Ma l’uomo non abita solo gli spazi e i luoghi che la natura disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi ideali che sono le parole […]». Marina Petrillo si mette in viaggio alla ricerca di una “sua” patria, di una sua “patria-linguistica”, l’unica patria dove il poeta, per dirla con Brodskij, non avverte lo strazio della condizione dell’esilio. Per la Petrillo l’unica patria è la poesia, l’unico spazio di vita è il linguaggio della poesia che per l’autrice di materia redenta diventa il suo «cerchio del dire», la porzione di spazio in cui le “cose” sono in grado di prendere la parola e di andare incontro all’uomo-poeta per raccontarsi, per farsi comprendere.
«Quando si pone la propria esistenza nel luogo del dire, nello spazio della parola, si incontrano le cose in modo diverso, non più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel mistero del loro silenzio inviolato, ma come cose-per-me, voci che prendono ad abitare con me la mia esistenza». Anche questa poesia di Marina Petrillo va interpretata come «Poetica delle parole abitate».
Perché? La risposta la affido a Giorgio Linguaglossa:
«Perché il poeta è colui che abita le parole e che si inoltra nella contrada del dire, che esplora gli Holzwege e gli Irrwege […]».
Alcune parole godono a restare come «parole scritte»; altre parole invece aspirano a esser dette, aspirano a farsi «voce», aspirano a uscire dalla bocca [una idea di Giovanni Testori, proposta da Letizia Leone su Il Mangiaparole, n.6, pag. 12] per poter dire e dare un qualcosa in più rispetto alla sola scrittura. Queste parole scelte da Marina Petrillo all’interno del «cerchio del dire» (eterno, stagioni, abbraccio, raggi, lascito, somiglianza, sole…) sono in grado di dire e di dare tutto ciò che semanticamente ed emotivamente è possible esprimere , sia che si facciano «voce», sia che restino soltanto come parole scritte, perché queste della Petrillo sono le «parole giuste».
Gino Rago
Arrivo in ritardo e me ne rammarico. La confusione e lo spezzettamento in cui ci ha gettati il Covid ha preso il sopravvento sulla mia esistenza e sugIi animali del circo, che oggi più che mai paiono spaesati. I miei vivissimi complimenti a Gino Rago: le sue buste colme di passato, la sua flanella dell’infanzia, il suo liquido reagente, le sue città segugie, non sono altro che feticci, souvenir, istantanee polaroid, cianfrusaglie che avrei tanto voluto trovare nella vetrina di una boutique, camminando distrattamente per strada, allora lì, davanti a loro mi sarei fermata, avrei dimenticato la folla, e atteso lo scorrere dei giorni.
Ewa Tagher, che ringrazio per il suo intervento assai gradito, trova la chiave d’accesso al mio bugigattolo-atelier e vi entra da fine lettrice, nomina poi le cianfrusaglie che la sua intelligenza poetica eleva a capi degni di stare in una buotique.
Peccato che il mio libro esca proprio al centro del tunnel delle nostre vite sospese, ma ciò non mi impedisce di ribadire a Ewa Tagher, che spero di avere a lungo come compagna di viaggio, nell’attesa di qualche ‘presentazione conviviale’ come auspicava Letizia Leone, a Roma e non soltanto a Roma,
che
-I platani sul Tevere diventano betulle (Ed. Progetto Cultura, Roma, 2019) è un libro poetico di 5 sezioni. In ciascuna di esse affronto temi ben individuati, direi imprescindibili al modo ‘nuovo’, di sicuro “altro”di tentare di far poesia, un modo teso verso nuovi paradigmi estetici e verso nuove basi ontologiche.
– Nella Sezione 1 mi confronto con il vuoto, con il tempo, con gli scampoli, con gli specchi, con gli stracci, con la plastica, con le piazze-agorà.
– Nella Sezione 2 stabilisco una sorta di dialogo a distanza con alcuni dei poeti-fiaccole sul mio nuovo cammino poetico (Tranströmer, Rózewicz, Herbert, Linguaglossa, Pessoa, Kristoff, Mandel’stam, Achmatova, De Palchi, Pecora, A.A.Alfieri, U. De Robertis, Brodskij).
– Nella Sezione 3 mi confronto con il tema davvero arduo di Lilith, la prima compagna di Adamo…
– La Sezione 4 è tutta dedicata all’epistolario con Ewa Lipska,
Per Giorgio Linguaglossa, lo dice nel retro di copertina come meglio non si potrebbe:«Il risultato è uno stile da Commedia che impiega il piano medio alto e quello medio basso dei linguaggi, con gli addendi finali di continui attriti semantici e iconici, dissimmetrie, dissonanze, disformismi, disparallelismi… il principium individuationis è fornito dalla peritropè (capovolgimento) di un attante nell’altro, di una «situazione» in un’altra, di un luogo in un altro.
Una autentica novità per la poesia italiana».
– La Sezione 5 merita un’attenzione a parte, vi si affaccia il ‘metodo mitico’.
Nella Sezione 5 del mio libro affronto il tema incentrato sul Ciclo di Troia, sulla storia scritta dai vinti e non più dai vincitori. Pronuncio la mia parola sulla sorte delle donne quando sono ridotte a bottini di guerra.
Nelle liriche, l’orrore si focalizza nella prospettiva delle vittime,dei loro corpi umiliati, spogliati delle loro identità.
Ilio in fiamme dunque è da intendere come luogo archetipico del saccheggio, della distruzione, dei crimini di guerra, della deriva di una terra devastata e di un popolo calpestato.
Il destino dei vinti, né omerico, né euripideo, viene seguito nell’articolazione di una sorta di sfilata di tre figure femminili emblematiche:
Andromaca, Cassandra e soprattutto Ecuba, su cui incombe il trauma della partenza verso un altrove di schiavitù e miseria, nella certezza che nessun tribunale di guerra potrà mai riparare la catastrofe di queste in cui i fantasmi del mito
“ripetono e insieme rappresentano le atroci esperienze di vite offese e di corpi violati” ,
al di là dei confini dello spazio e del tempo, perché il mito antico è metodo per dare significato e forma alla caotica, altrimenti indicibile, realtà del presente. Da qui, il “metodo mitico”, nel poemetto espresso per “frammenti”.
Cinque Sezioni diverse per temi e per lingua sembrano 5 libri diversi confluiti in uno stesso volume poetico.
Questo aspetto del mio libro è stato acutamente colto e interpretato come meglio non era possibile fare da Giorgio Linguaglossa nella intensa nota critico-ermeneutica che appare come retro di copertina del libro.
(gino rago)
Pubblico e con-divido con i motivati lettori de L’Ombra delle Parole e della Rivista trimestrale Il Mangiaparole la e-mail a me spedita dal prof. Francesco Solitario quale segno di apprezzamento per un mio recentissimo lavoro ermeneutico sul libro di Graziella Cinti “La lingua del sorriso” e che contiene altresì alcune meditazioni assai preziose sia su alcuni miei versi da I platani… sia sulla capacità di Giorgio Linguaglossa di interpretarli. Era un peccato che una e-mail come questa dormisse nel recinto stretto della mia posta elettronica.
Gino Rago
*
È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.
Gino Rago
Il poeta vede ciò che il filosofo pensa
“Cara M.me Hanska, lasci in pace il poeta delle ombre.
Herr Cogito, i gerani, la veranda, il giardino,
La copia della Gioconda, il lilla
E la Sua stanza ammobiliata possono aspettare,
Abbiamo altro da fare, per esempio
Ascoltare il canto degli uccelli
O il ronzio della Storia
Nei bassifondi di Vienna,
Ma la gioventù negli ori della Grecia e di Troia
E quelle teste calde di Achille, Ettore e Patroclo
La smettano di fare baccano,
Coprono il canto delle allodole di tutto l’occidente.
Anche gli dei imparino a tenere il becco chiuso,
Sono sull’Olimpo grazie alla poesia.
Cara M.me Hanska,
Dalla stanza dell’insonnia sulla macelleria
il poeta vede tutto ciò che il filosofo pensa”.
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Gentilissimo Gino Rago,
scusi se Le rispondo con ritardo, ma quando devo parlare di poesia uso sempre il tempo non usurato dalle faccende quotidiane, e libero da impedimenti.
Grazie innanzitutto per la bella e generosa espressione che ha avuto per il libro di Gabriella Cinti nella Sua mail, avendo letto ciò che ha scritto di lei, sono sicuro che non avrebbe mai usato il termine “magnifico” a sproposito, attento alle parole com’è. E grazie anche per le parole che ha usato gentilmente per la mia introduzione [al libro poetico di Gabriella Cinti].
Grazie anche per l’acume e la profondità di quelle che Lei, in modo impropriamente molto autoriduttivo, chiama “Note”, riferendosi a due “scavi” formidabili in due poesie tra le più complesse della Cinti, la seconda delle quali, “Da caos a caos”, penso anche più vicino alla Sua stessa poetica, visto che cita Iosif Aleksandrovič Brodskij, che io vedo molto affine al Suo pensiero e al Suo fare poetico.
Grazie anche per avermi segnalato il link [L’Ombra delle Parole, ] dove ho trovato le Sue poesie da “I platani…”, mi ha fatto molto piacere, Lei ha letto la mia introduzione e sa quanto approvi e sia vicino anch’io all’essenza di una “ontologia estetica” o meglio di una “ estetica metafisica”, tanto da farmi desiderare di capovolgere il titolo della Sua poesia “Il poeta vede ciò che il filosofo pensa” in “Il filosofo pensa ciò che il poeta vede”. Nel titolo originale io ci leggo una superiorità del pensiero filosofico rispetto al “vedere” del poeta, tanto che questi vede il pensiero “pensato” dal filosofo, e dunque interviene dopo, a posteriori rispetto al pensiero pensato.
Nel secondo pongo invece la superiorità del poeta rispetto al pensare del filosofo, infatti è il filosofo che pensa ciò che ha visto il poeta.
Sia ben chiaro, sia l’uno che l’altro, poeta e filosofo, fanno in fondo la stessa operazione, poiché la radice sanscrita di idea è “id”, la stessa di Video, e dunque ciò che “vede” il poeta è simile all’idea del filosofo, per questo l’espressione “ontologia (metafisica, filosofia) e estetica (arte, poesia)” si accordano perfettamente. Solo che cambia il metodo e lo strumento con cui le due discipline giungono allo stesso risultato, ma il poeta arriva senz’altro “prima” del filosofo. I Veda, gli Inni sacri dell’India, sono nient’altro che i visti, da chi?, dai Ṛṣi o rishi in scrittura devanagari ऋषि che indica in quella lingua i “veggenti” o i “cantori ispirati”, insomma i poeti, come poeti erano i primi filosofi occidentali.
Quanto detto, sia ben chiaro, vale a segnare un punto di ulteriore convergenza e rafforzamento tra la Sua poetica e il mio pensiero estetico
(-filosofico).
Scusi la divagazione, anzi grazie per avermela permessa, a Milano, in questi giorni, parlare di poesia è un lusso insperato[…].
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P.S.
La prego di salutarmi Giorgio Linguaglossa, che porta nel nome il Suo destino (come me del resto), che io stimo moltissimo, pochi, oggi, sono in grado di scrivere come lui, il Suo commento alle Sue poesie è magistrale.
Grato di tutto, La saluto caramente
Francesco Solitario
Prof. Francesco Solitario
Cattedra di Estetica
e di Filosofia dell’Arte Contemporanea
Direttore della sezione di Estetica comparata
del Centro Internazionale di Studi Comparati “I Deug Su”
Università di Siena
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(gino rago)