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Sandro Montalto, Bianciardi una vita in rivolta, Mimesis 2019, pp.140 € 6, Una vita per la ribellione

Luciano Bianciardi Milano, anni '60

Luciano Bianciardi, Milano, anni Sessanta

Riportiamo qui alcuni stralci della monografia di Sandro Montalto su Luciano Bianciardi, uno degli intellettuali e scrittori italiani più originali degli anni Cinquanta e Sessanta, in quanto utilissima per ricostruire e comprendere non soltanto il valore in sé dalle opere bianciardiane ma il rapporto intellettuali-società dell’Italia provinciale e bigotta di quegli anni, retrospezione indispensabile per poter comprendere il cattivismo normografico della nuova destra conformista e razzista dell’Italia di oggi.

Ecco l’incipit  di un capitolo significativo della monografia:

Nel 1952 Luciano Bianciardi era alle soglie dei trent’anni, e agli inizi di una ampia e onnivora collaborazione ai giornali che lo avrebbe occu­pato fino agli estremi giorni della sua troppo breve vita. Si sarebbe detto un pacifico letterato di provincia: l’anno precedente, dopo la parte­cipazione alla guerra e la laurea in filosofia, e dopo essere stato per breve tempo insegnante di inglese alle medie e di storia e filosofia al Li­ceo classico, era stato nominato direttore della Biblioteca Chelliana di Grosseto, semidistrutta dalle piene del fiume Ombrone e dai bombar­damenti. In precedenza, come volontario e poi come dipendente, aveva già lavorato sodo per salvare dal fango e dai detriti migliaia di volumi 1:

No, hanno ragione quelli che dicono che io sono rozzo, che non mi so muovere. È vero, io non so nemmeno camminare, e una volta mi arrestarono per strada, soltanto perché non so camminare. E poi mi licenziarono, per lo stesso motivo. Così come licenziarono Carlo, mio nobi­le amico e vero signore, soltanto perché, diceva­no gli altri, gli attivisti, non sapeva parlare, era lento di pronuncia e rallentava il ritmo di tutta la produzione. Io non cammino, non marcio: stra­scico i piedi, io, mi fermo per strada, addirittura torno indietro, guardo di qua e guardo di là, an­che quando non c’è da traversare. Sorpreso in at­teggiamento sospetto, diceva appunto al telefono quel maresciallo del buon costume, dopo che mi ebbe fermato, caricato sul furgone nero e porta­to in questura. “Come atteggiamento sospetto?” chiesi io un po’ risentito. “Allora lei vuoi fare il furbo, nè?” disse. “Lei camminava lentamente, e si è fermato due volte. Dove andava?”. “A passeg­gio”. “Ah sì, a passeggio? Lei va a passeggio sen­za cravatta? Da solo? E non tira dritto per la sua strada? Va così lentamente? E si ferma?” Mi ten­nero chiuso a chiave una nottata intera, e intanto presero informazioni, ma non risultò nulla e mi rimandarono a casa con tante scuse. “Ma anche lei, benedetto ragazzo” concluse il maresciallo del buon costume, paterno adesso. “Anche lei, girare così”1.

Commenta Sandro Montalto:

Bianciardi subito (avendo la sensazione di parlare nel deserto) si rende conto che lo svi­luppo dell’industria culturale nell’Italia degli anni Sessanta avrebbe presto preso una deriva drammatica: la simbiosi (confusione, spesso) tra lavoro e comunicazione. Il modello lavora­tivo di Bianciardi era la fabbrica, i badilanti, o i minatori. Un modello che nasconde una qual­che forma di nostalgia e che può essere forse il limite che impedì a Bianciardi di «giocare fino in fondo la carta del cambiamento»24. Per fare un esempio, cercava probabilmente segni a suo avviso palesi di cambiamento nella socie­tà senza talvolta rendersi conto che il cambia­mento della società portava ad una evoluzio­ne dei segni stessi, così mentre si preparava la stagione delle lotte operaie lui scriveva in una lettera che aveva notato «l’assenza, palese, degli operai. Gli operai non ci sono almeno in quella Milano che è compresa nel raggio del movimento mio e dei miei colleghi, non entrano mai nel nostro rapporto di lavoro»; e gli intellettuali ci sono solo «come singoli, ma mai come gruppo», mentre «l’intellettua­le diventa un pezzo dell’apparato burocratico commerciale, diventa un ragioniere» in quella Milano che «non produce nulla, ma vende e baratta».

Milano Quartiere Quarto Oggiaro

Milano Quartiere Quarto Oggiaro, periferia nord, un condominio

Scrive Gian Carlo Ferretti:

Si può dire fin d’ora che in articoli, lettere e racconti-saggio Bianciardi non vede o non vuol vedere la vivacità e creatività della vita intellettua­le, letteraria, teatrale, cinematografica degli anni Cinquanta (e poi Sessanta) a Milano e in Italia, perché continua più o meno consapevolmente a vivere in una dimensione provinciale arroccata, perché restando fedele alla sua natura irregolare disprezza le corporazioni e le figure intellettua­li istituzionali, perché si sente più a suo agio nel mondo eterogeneo dei giornalisti, fotoreporter, pittori, cabarettisti, fuori da schieramenti e clan. E si può dire altresì per contro che Bianciardi, at­traverso le sue personali vicende esistenziali e pro­fessionali, arriva a vedere, e con grande acutezza, i segnali dei guasti, prevaricazioni, mistificazioni, stravolgimenti, appena emergenti dal nascente boom economico, e li vede in anticipo sulla stes­sa Vita agra, che del boom nel suo pieno sviluppo condurrà un disvelamento ancor più esaustivo […]. Bianciardi a livello pubblico resta sempre al di qua di una vera opposizione, ribellione e prote­sta. Non è casuale che il tono polemico-divertito degli articoli 1955-56 sull’“Unità”, sia fondamen­talmente analogo a quello degli articoli 1952-53 sulla “Gazzetta”: che cioè i bersagli metropolitani siano trattati come i bersagli provinciali. Mentre la stessa collaborazione all’“Avanti!” del 1959-60, resta nell’ambito dell’analisi ironico-critica. […] la vera rabbia, denuncia, accusa, erompe dalle lettere e conversazioni private, o dalle opere in volume che sono in certo senso al riparo dal più diretto impatto dell’attualità, della contingenza, e perciò anche dalla compromissione, con tutte le relative conseguenze.

Ed ecco le vicende legate alla traduzione e pubblicazione di Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno di Henry Miller. In una importante testimonianza sollecitata da Irene Gambacorti, Valerio Riva, allora direttore della collana in cui apparve l’opera milleriana, scrive:

Era una traduzione difficile, anche per problemi di censura, perché bisognava evitare infatti di essere accusati di aver calcato la mano su frasi od espressioni che potessero essere considerate offensive della morale corrente, o, come si diceva allora, del comune senso del pudore. Ma noi non volevamo fare una edizione corretta, volevamo invece che fosse il più possibile scrupolosamente integra ed assolutamente, assolutamente aderente al testo originario. […] Nella traduzione invece Bianciardi era stato molto libero, così la traduzione fu mandata, d’accordo con lo stesso Bianciardi, a Mario Praz, il maggior anglista dell’epoca, per la revisione. Ad ogni blocco di pagine, Praz mandava le sue osservazioni in fogli dattiloscritti fittissimi e disseminati di grande cultura: purtroppo molti di quei fogli sono andati perduti, e pochi rimangono nell’archivio Feltrinelli. Io e Veraldi trasportavamo sul manoscritto di Bianciardi le correzioni di Praz e qualche volta risolvevamo i dubbi, perché Praz a volte indicava due possibili traduzioni, e a noi toccava decidere, il lavoro ci prese, se non ricordo male, quasi tre mesi. Ogni tanto Bianciardi passava in redazione e guardava il nostro lavoro un po’ infastidito, ma consenziente: del resto questo era stato l’accordo fin dall’inizio. Al momento di pubblicare il libro io preparai tre grossi folder per circa mille pagine di documenti, articoli, giudizi critici ecc. per gli avvocati Tesone e Broc che consigliavano Feltrinelli in merito ai pericoli della pubblicazione del libro: materiale che ho poi pubblicato a parte in un volume dei Narratori Feltrinelli intitolato Prefazione ai Tropici, che uscì nel ‘61. […] Nonostante le prove a favore del libro, gli avvocati sconsigliarono Feltrinelli di pubblicare il libro in Italia, e Feltrinelli, che era un uomo coraggioso, decise per la pubblicazione, ma con l’accorgimento di fingere una pubblicazione all’estero. Era lo stesso trucco usato durante il Risorgimento dai patrioti italiani e durante il fascismo dagli antifascisti.

I Tropici in realtà furono stampati a Varese, con un marchio prestatoci da un gentile editore svizzero, mezzo clandestino pure lui. Le copie erano immagazzinate in Italia, in un capannone, non ricordo più bene se a Monza o a Sesto. La distribuzione avveniva attraverso una serie di accortezze e con qualche prudenza, ma non più di tanto: i librai lo vendevano sotto banco e l’edizione fu esaurita quasi subito. Insomma, la nostra non era proprio una vera edizione clandestina, era un po’ uno show: proprio per dare l’impressione di una edizione alla macchia, la copertina fu disegnala da Steiner in modo diverso dalle solite copertine dei Narratori. Poi il tribunale ci dette ragione e per l’occasione facemmo venire anche Miller dall’America, e fu finalmente possibile ripubblicare i Tropici nei Narratori di Feltrinelli nel 1967.

Nel 1962 esce con buon successo La vita agra, che racconta di un traduttore che lascia la pro­vincia per andare a vivere a Milano, e cova l’in­tenzione di far saltare in aria il “torracchione”, ossia il palazzo della Montecatini (e non, come diversi scritti riportano, il Pirellone), in una sorta di contrappasso delle esplosioni di grisù che cau­sarono la morte di 43 minatori della Montecatini a Ribolla, una tragedia che lo scrittore si troverà a documentare, seguendone anche i tristi sviluppi, e che lo segnerà per sempre. A Ribolla, Bianciar­di era arrivato con il bibliobus. L’azienda stava smobilitando la miniera, tre pozzi su cinque non erano più in funzione; nell’aprile 1953 durante uno degli scioperi contro i licenziamenti quaran­tacinque operai che si erano barricati per pro­testa furono portati via, ammanettati, dai cara­binieri. Bianciardi correva qua e là, intervistava, annotava. Pochi mesi dopo, l’esplosione55. Nel 1956 presso Laterza uscirà, a firma di Bianciardi e Cassola, il libro-inchiesta I minatori della Marem­ma, un vigoroso quanto documentato atto d’ac­cusa. Sei persone, direttori e capiservizio della Montecatini, furono arrestate e indagate, ma nel novembre 1959 la Cassazione li prosciolse: tutto era in regola, si trattò di pura fatalità. È da se­gnalare come nel 1960 Bianciardi avesse tradotto Ragazzo del Borstal dell’irlandese Brendan Behan (1923-1960) la cui trama ricorda molto da vicino quella di La vita agra (ma come è ovvio la cosa più importante del romanzo bianciardiano non è la trama, volutamente esile, bensì il linguaggio usato e la critica sociale). Montanelli dedica al romanzo una pagina entusiasta sul «Corriere della Sera» che fa im­pennare le vendite; poco dopo il noto giornali­sta propone a Bianciardi di collaborare a quel­lo che era pur sempre il più diffuso quotidiano d’Italia, ma lui rifiuta: aveva capito che, inevi­tabilmente, la grande macchina cerca ciò che funziona e tenta di inglobarlo, metabolizzarlo. Ma c’è anche un’altra motivazione: aveva capi­to che scrivere sul «Corriere» sarebbe significa­to non essere mai veramente libero, mentre ac­cettare, come fece, di collaborare a una testata più giovane come «Il Giorno» gli avrebbe ga­rantito un contesto più aperto e libero, senza contare che su quelle pagine scrivevano anche nomi come Giorgio Bocca, Gianni Brera, Ot­tiero Ottieri, Umberto Eco, Alberto Arbasino e il suo amico Cassola. Rifiutare, quindi, era necessario. La motivazione si può capire anche ripensando a certe riflessioni fatte ai tempi in cui girava l’Italia per promuovere La vita agra: quel libro è «la storia di una incazzatura in pri­ma persona singolare» e anche i lettori avreb­bero dovuto incazzarsi, invece è un «tripudio di applausi»56. Forse il suo lavoro non è servito a nulla. Scrive in una lettera:

Ormai poi sto girando come un rappresen­tante di commercio, ho battuto i marciapiedi dell’Emilia e adesso mi preparo a fare la mede­sima cosa nel Veneto. Viene con me Domenico Porzio e a volte sembriamo due comici da avan­spettacolo: sempre le stesse battute, e sempre la faccia di chi le dice per la prima volta. […] L’ag­gettivo agro sta diventando di moda, lo usano giornalisti e architetti di fama nazionale. Finirà che mi daranno uno stipendio mensile solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano. Il mondo va così. Cioè male. Ma io non ci posso fare nul­la. Quel che potevo l’ho fatto, e non è servito a niente. Anziché mandarmi via da Milano a calci in culo, come meritavo, mi invitano a casa loro e magari vorrebbero… Ma io non mi concedo.

Il romanzo sembrò portargli sfortuna anche sul fronte famigliare. Maria Jatosti ricorda che la lettura del romanzo la fece stare malissimo: «Lessi il dattiloscritto subito prima che andas­se in stampa e stetti malissimo. […] So che è un modo sbagliato di leggere un libro, che è romanzo, invenzione… Ma quelle pagine rac­contavano la nostra vita, la nostra battaglia, in un modo che mi offendeva profondamente. Leggendo, provai una stretta al cuore e tanta rabbia. Il libro era fatto di tante storie vere, ma tutte filtrate dalla sua visione malata. Era una storia di angoscia senza scampo, senza vie d’u­scita. Non c’era solidarietà per nessuno, era una tremenda farneticazione sulla solitudine. La donna del protagonista non fa che dormire, leggere, passeggiare, mentre lui è solo contro tutti. Lei si svaga e lui soffre. Lei non capisce e lui combatte. Lei si addormenta e lui veglia sui mali della vita. Ma soprattutto lei si riposa, gio­ca, si annoia e lui lavora, lavora, lavora. Da solo. Ma come? E io dov’ero? Le mie angosce, la mia fatica, dov’erano? […] Quando finii di leggere il libro mi misi a piangere, mi sentivo crollare tutto il passato, cominciai a pensare che lo avrei lasciato […] Luciano non capì. Reagì al solito modo, cominciando a sfottermi e a dire a tutti quanti: “Maria s’è incazzata perché non le è pia­ciuta La vita agra. […] Litigammo, decisi dav­vero di lasciarlo, presi Marcellino e partii per Roma». Seguì un travagliato ritorno, ma «anche se non ci siamo lasciati, qualcosa tra me e Lucia­no, dopo La vita agra, era finito per sempre».

milano il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud

milano, il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud — milan, dry naviglio pavese channel and residence buildings of barona district at south periphery

Bianciardi si dedica, a partire dagli anni Ses­santa, alla critica televisiva diventando uno dei pionieri di questo genere così particolare1 (basti pensare alle critiche televisive di Achille Cam­panile il quale ha in comune con Bianciardi una certa insistenza sullo “specifico televisivo”, soprattutto sul valore della diretta). A partire dal 1962, per nove anni, scriverà molte criti­che per sei diverse testate (è da ricordare Mike: elogio della mediocrità, del 1959, che anticipa in molti punti il celebre articolo di Umberto Eco Fenomenologia di Mike Bongiorno), e non perderà l’occasione per alimentare l’ossessione per certi personaggi come Bistoni, il compagno “anar­chico” che cedette alle lusinghe di “Lascia o raddoppia” dove vinse rispondendo a domande sulla storia dei Longobardi. Elogia la televisione pedagogica, in primis le trasmissioni del maestro Manzi, critica i tentativi fallimentari3 e rilancia certi imprevisti fenomeni come l’esordio di un dirompente e cattivissimo Paolo Villaggio, o Dario Fo che difende dopo la sua cacciata da “Canzonissima” per aver parlato di “mafia” e di “padroni”.

Sandro Montalto nella sua ricostruzione biografica passa in rassegna i processi per oscenità e diffamazione subiti da Bianciardi nella Italia degli anni Cinquanta e Sessanta sessuofobica e conformista:

Bianciardi non era del tutto nuovo alle grane giudiziarie e alle aule di tribunale. Un processo fu intentato da un artigiano che si sentì offeso dal­la parodia che nella Vita agra si compie della sua parlata settentrionale (processo perso: l’editore è costretto a ritirare le copie in commercio e stam­pare un’altra edizione priva del breve episodio).  

Un altro [processo] gli fu intentato dall’amico Tacconi, citato col suo vero nome nel romanzo La vita agra; Bianciardi scrive in una lettera: «Oggi sono giù di morale. Tacconi Otello […] mi ha querelato per diffamazione: cioè per avere scritto che la Montecatini lo licenziò in seguito a un suo comizio di accusa contro i metodi del­la società. Io mi chiedo che mondo è questo. Ora ti lascio perché sono dagli avvocati. Sareb­be meglio piantarla di scrivere»2. È una lettera del 5 maggio 1963 all’amico Terrosi. Il processo sarà più tragico del previsto perché Otello Tac­coni, avviata la causa, muore di crepacuore, ma la vedova non molla l’osso e la causa va avanti. Ma perché Tacconi se l’è presa tanto? Perché nel romanzo l’amico Bianciardi gli ha messo in bocca qualche parolina esplosiva: Tacconi chie­de al protagonista, trasferito a Milano dalla Ma­remma, notizie del famoso “torracchione da far saltare” per vendicare i quarantatré morti della miniera di Ribolla di proprietà della Montecati­ni. Era il chiodo fisso di Bianciardi, come detto rimasto scosso dall’incidente minerario. Qual­cuno sostiene che lui è la quarantaquattresima vittima dell’esplosione, e cioè che il malessere che l’ha portato a bere fino a distruggersi e mo­rire di cirrosi era dovuto al trauma di quell’espe­rienza vissuta quasi in prima persona. In que­sto processo Bianciardi viene assolto, ma non dimenticherà facilmente l’umiliazione provata quando il giudice gli chiese se veramente voleva far saltare in aria la sede della Montecatini.

Bianciardi appare sempre combattivo, ma in realtà è sempre più deluso. Si sente anche irri­mediabilmente lontano dalla sinistra così come viene praticata: «Essere “di sinistra” non signifi­ca ormai nulla. Tutti sono di sinistra, dai cattoli­ci ai socialdemocratici, ai socialisti, ai comunisti e a quelli che si dicono con infelice neologismo “extra parlamentari” (come a significare che si son prenotati un posto in parlamento per l’indomani). Io sono anarchico, nel senso che auspico una società basata sul consenso e non sull’autorità»1. Si trova ormai alla fine di quel percorso che è iniziato con Il lavoro culturale, salutato al suo apparire come una nuova ed effi­cace espressione letteraria di quella “ribellione alla condotta burocratica” del partito comuni­sta (sono parole usate in una recensione da Vit­torio Gorresio) espressa anche in testi come La grande bonaccia delle Antille di Calvino (1957)2. Ha ormai capito fino in fondo che gli si chiede di esercitare “la professione dell’incazzato”, e che non è più un momentaneo gioco di società al quale subito dopo l’arrivo del successo ci si po­teva anche adattare un poco: ha ormai anche timore di manifestare le sue incazzature autenti­che perché potrebbero sembrare ad alcuni una posa, o l’obbedienza a una legge di mercato. Senza contare che da tempo ha smesso di crede­re che l’intellettuale libero (anarchico nel sen­so della citazione poco fa riportata) possa avere spazio e voce nella società a lui contemporanea, e scrive su questo argomento (oltre a vari con­tributi sparsi) la serie Come si diventa un intellet­tuale, pubblicata sul settimanale «ABC»4 che portò avanti numerose campagne anche co­raggiose: contro il canone RAI e gli abusi della società telefonica, a favore del divorzio e della pillola anticoncezionale, eccetera), nella quale consiglia ai giovani una certa vaghezza in fatto di politica, certi modi di parlare e gesticolare, un certo compiacimento nell’enunciazione di banalità e pseudo-verità condivise. Si tratta an­cora una volta di uno scritto divertente e tragico per quanto è aderente alla realtà, a tutt’oggi da leggere con profitto. E anche in questi anni non perde l’occasione, come ha fatto in quasi tutta la sua produzione, di rivolgere il coltello contro di sé, quindi consiglia di non perdere mai i con­tatti anche con la provincia, e ricorda: «Di che cos’altro si parla mai in provincia? Di sesso e di sport, naturalmente!». Vale a dire i due temi che più lo hanno appassionato durante la gran parte della sua ampia, spesso forsennata attività giornalistica. Continua a leggere

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Valentino Zeichen (1938-2016).UN BILANCIO Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa Alcune frasi famose di Zeichen; Intervista a Valentino Zeichen di Concita De Gregorio con DUE POESIE INEDITE del 2014

Strega: Zeichen, poeta stregato in corsa con La Sumera

Una immagine di Valentino Zeichen. Un “poeta stregato”. Valentino Zeichen si sente così nella nuova sfida che lo aspetta: Fazi Editore candida al Premio Strega 2016, ‘La Sumera’, il suo primo romanzo, presentato dagli Amici della Domenica Aurelio Picca e Renato Minore. “Non avrei mai immaginato una cosa simile nella mia vita” dice Zeichen all’ANSA, tra i maggiori poeti contemporanei, autore di numerose raccolte di poesie dal 1974 quando uscì la prima, pubblicate negli ultimi anni negli Oscar Mondadori. ANSA/UFFICIO STAMPA FAZI EDITORE +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING; NO TV+++

Valentino Zeichen è nato a Fiume (Croazia) ed è morto ieri, 5 luglio, a Roma nella casa di cura dove stava facendo riabilitazione. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Area di Rigore (Coop Scrittori 1974), Ricreazione (Società di Poesia, Guanda 1979), Pagine di Gloria (Guanda 1979), il romanzo Tana per tutti (Lucarini 1983), Museo interiore (Guanda 1987), Gibilterra (Mondadori 1991), Metafisica tascabile (Mondadori 1997), Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio (Fazi 2000), Poesie 1963-2003 (Oscar Mondadori 2003), Neomarziale (Mondadori 2006).

valentino zeichen 4Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Ieri, 5 luglio 2016 si è spento Valentino Zeichen verso le ore 15, dopo essere stato colpito nei giorni scorsi  da una ischemia dalla quale non si è più ripreso.

Valentino Zeichen (1938-2016)

È l’occasione per ricordare un poeta, se non romano, di adozione romana, che data dal 1950 quando il poeta di Fiume si stabilì nella capitale. Perché Roma ha questo di positivo: accoglie tutti coloro che la eleggono quale propria patria, a prescindere dal colore della pelle e dalla lingua che parli, a prescindere da latitudine e da longitudine. Ho riaperto il volume delle poesie di Zeichen Poesie 1963-2003 per cercare il filo rosso che segna il tratto distintivo di questo poeta nella storia della poesia italiana.

Dopo la guerra Zeichen è costretto ad abbandonare la città natale insieme ad altri profughi istriani e trova rifugio a Roma. In un certo senso, si può affermare che il profugo istriano trova nella capitale il milieu culturale e sociale adatto alla sua fisionomia intellettuale. Non è un caso l’incontro con Elio Pagliarani, avvenuto nel lontano 1967; si rivela una strana affinità tra il poeta lombardo e il poeta romano. La nota biografica che precede il volume recita: «nello stesso anno Enzo Golino inviò alcune poesie a Mario Boselli, redattore di «Nuova corrente», che le pubblicò nel n. 46-47, del 1969. La rivista ospitò altri versi di Zeichen nel n. 57 del 1972. Poi, con la nascita dell’editrice Cooperativa Scrittori, Zeichen ebbe l’opportunità di pubblicare la sua prima raccolta, Area di rigore, che uscì nel 1974, grazie all’interessamento di Elio Pagliarani (che ne scrisse l’introduzione), Alfredo Giuliani, Angelo Guglielmi e Luigi Malerba». Dunque, è fuori discussione che la fortuna critica della poesia di Zeichen abbia trovato il suo terreno di coltura nell’ambiente di quegli intellettuali legati tutti a filo diretto con la rivoluzione consapevole messa in atto dalla neoavanguardia.

L’antisoggettivismo della poesia di Zeichen intendeva strizzare l’occhio, da un lato ai reduci della neoavanguardia, dall’altro proseguiva l’intento di teatralizzazione della storia e del privato che la sua opera d’esordio aveva inaugurato. L’operazione collimava perfettamente con la strategia distruttiva della centralità epistemologica del soggetto iniziata dalla neoavanguardia, e troverà definitiva accettazione con la seconda raccolta, Ricreazione (Società di Poesia, Guanda) del 1979, dove viene portato ad esiti ulteriori il decentramento del soggetto e viene impiegato in via definitiva il commento ironico quale categoria retorica ed ermeneutica della sua poetica. Da un lato, Zeichen adotta lo sdoppiamento e l’autoriflessione quali categorie ermeneutiche centrali della propria scrittura; dall’altro, viene eliminata ogni ontologia come posizione originaria del pensiero e assunzione del dato-sotrato appartenente all’oggetto, sostituita da una ontologia del soggetto che osserva in modo ironico il reale.

Il soggetto decentrato e de-territorializzato dell’io zeicheniano opera l’applicazione alla poesia italiana della teoria economica dei giochi. Il risultato di questa impostazione lo si vedrà compiutamente in Metafisica tascabile del 1997, dove tutte le grandi problematiche della civiltà occidentale vengono miniaturizzate in motti di spirito e fraseggi ironici e istrionici, una sorta di scrittura del gioco che è il precipitato della «scomparsa» del soggetto e della dis-locazione dell’oggetto. Se la storia è ridotta ad una grande superficie, ad un grande flipper dove avvengono battaglie e disastri, la scrittura, conseguentemente al dato di partenza del decentramento dell’io, si trova allo stato virtuale, ad inseguire la pista di pattinaggio del mondo virtuale eventuale con uno stile candidamente di «superficie», dove vengono attivate le risorse della teoria del gioco ironico-istrionico. È una novità di tono e di lessico. È una novità dell’io de-ideologizzato e de-soggettivizzato È una novità anche quella impostazione a-ideologica; la poesia diventa gioco delle «occasioni» montaliane derubricate ad incontri mondani.

Giulio Ferroni nella Introduzione annota che «in questa assenza di un vero scopo Valentino ricama la sua impalpabile poesia». Ineccepibile, ma per motivi esattamente opposti a quelli assunti dal critico romano non esito a definire la poesia di Valentino Zeichen come l’espressione più matura e conseguente di una visione del mondo carente di pensiero critico. Non a caso in più luoghi Berardinelli parlerà della generazione dei poeti che faranno capo a Zeichen (Patrizia Cavalli, Giuseppe Conte etc.) come «uomini di fede», che fanno della poesia una professione fideistica. Il fatto è che dopo la generazione dei Fortini, dei Pasolini e dei Sanguineti ha preso piede una nuova intellettualità poetica rinchiusa nel mondo del privato e nel gioco ironico-istrionico. Zeichen e Patrizia Cavalli sono solo i due poeti maggiormente rappresentativi di questa nouvelle vague. Zeichen opera una de-ideologizzazione della poesia, una antiretorica, adotta uno stile cabarettistico infarcito di motti di spirito, da deraciné, dove compare una Roma, appunto, da cartellone, cartellonistica, cinica, scettica, subdola, cialtrona, nella quale si aggira un personaggio, un dongiovanni postmoderno in preda alla furia erotica dei suoi abbordaggi femminili, dove le donne sembrano uscite dalla cineteca di Cinecittà o dai programmi televisivi di Mediaset, o dai magazzini della Upim e gli eventi storici sono ridotti ad una collezione di gags da avanspettacolo o ad «occasione» ironico-scettica. È la raffigurazione della nuova società dello spettacolo e della ideologia del benessere.

Nel bene e nel male, l’opera di Zeichen è rappresentativa del passaggio della società italiana dall’epoca del disincanto e del relativo benessere di massa a quella della stagnazione economica e spirituale degli ultimi vent’anni.

valentino zeichen 3

 Ci sarà pure una ragione se critici come Alfonso Berardinelli, Giulio Ferroni e Stefano Giovanardi hanno avallato la poesia di Valentino Zeichen. In questi anni la critica prende atto della elefantiasi della poesia, si verifica, come dire, il collasso della attività critica, sostituita dagli uffici stampa degli editori. Insomma, accade che i critici istituzionali vengono messi in archivio a preparare le schedine di accompagnamento dei libri editi, non viene loro richiesta nessuna lettura critica della produzione letteraria; la loro cultura critica si rivela orfana inadeguata,  non è più possibile costruire un discorso critico su  una marea montante di produzione poetica, non ha più senso. L’abbandono della critica da parte di Berardinelli, è un dato di fatto dichiarato dallo stesso critico che lascia l’insegnamento universitario per un incarico presso una casa editrice. Per Giulio Ferroni il discorso è nominalmente diverso ma la sostanza non cambia: il critico si chiama fuori della mischia militante, e al principio degli anni Novanta, pubblica un libro sul carattere postumo dell’arte contemporanea e, in particolare, della letteratura, bollando di postumità tutta la produzione letteraria degli ultimi decenni.

Non è una contraddizione quindi il fatto che entrambi i critici romani si siano dichiarati esegeti della poesia di Valentino Zeichen da essi considerato come un poeta emblematico. L’abbandono della critica militante affonda piuttosto le radici nella nuova situazione di politica culturale nell’ambito più vasto della comunicazione nell’universo della globalizzazione mediatica. La critica della poesia nelle nuove condizioni della società globale non ha più le prerogative e le credenziali di cui godeva la «vecchia» critica militante nell’ambito della «vecchia» società letteraria. Nelle nuove condizioni della società mediatizzata, la critica militante di poesia è un fatto del paleolitico superiore.

La poesia di Zeichen può essere veramente considerata emblematica dell’età della transizione dalla Italia della affluent society degli anni Ottanta a quella della stagnazione economica e spirituale degli ultimi venti anni ma per i motivi esattamente opposti a quelli da enucleati dai critici citati. A mio avviso, la poesia del poeta di Fiume può essere considerata l’esemplificazione più appropriata e pertinente di quel fenomeno estetico (e non) che va sotto il nome di proto minimalismo. Il discorso può essere riassunto, per sommi capi, in questi termini: è dagli anni Ottanta che si  adotta il termine «scrittura poetica», di post-romanzo e di post-poesia, quasi per nascondere il fatto che si parli di «poesia». È la cattiva coscienza di un’epoca che intende la post-poesia come quel manufatto linguistico che intende porsi «fuori» dalla poesia. I critici dianzi citati parlano della poesia di Giancarlo Maiorino e di Valentino Zeichen come di una metanarratologia, una narratologizzazione del poetatum, di un «superamento» della poesia attraverso la retorizzazione dell’antiretorica. Una sorta di teatralizzazione del testo, di personalizzazione e di ironizzazione del mondo. Accade così il fatto paradossale che con la loro attività critica Berardinelli, Ferroni, e Giovanardi contribuiscono alla legittimazione del modello di poesia che gli uffici stampa degli editori fornivano.

Zeichen elegge il luogo della poesia quale laboratorio della desublimazione, della diseroicizzazione e della ironizzazione. A furia di diseroicizzare, desublimare e ironizzare, Zeichen è finito nella post-poesia cabaret, siamo approdati allo stadio terminale di una cultura epigonica. Non è un caso che lo stile non-stile di Majorino e Zeichen abbia ormai raggiunto il punto di fuga della propria completa autonomia, un non stile che corrisponde alla nuova formulazione della post-poesia come una sorta di Gestalt linguistica che consente la produzione di una poematologia.

Ovviamente, nella nota della bibliografia del volume mondadoriano delle poesie di Zeichen non compaiono l’articolo critico di Giorgio Linguaglossa contenuto in Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte, (2003) e la recensione a firma di Domenico Alvino apparsa sul n. 16 del quadrimestrale di Letteratura “Poiesis” nel 1998. Nel nuovo abito intellettuale gli articoli scomodi vengono espunti.

Quando Adorno nel capitolo finale di Dialettica negativa, dedicato alla «Metafisica», scrive che «Hitler ha imposto agli uomini nello stato della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro agire e pensare in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile»1, dice qualcosa che per le generazioni di poeti venute dopo il 1970 non ha più alcuna risonanza. Quando il filosofo scrive che «il processo, attraverso il quale la metafisica si è ritirata incessantemente a ciò, contro cui essa un tempo fu concepita, ha raggiunto il suo punto di fuga. La filosofia del giovane Hegel non ha potuto reprimere quanto essa fosse scivolata dentro i problemi dell’esistenza materiale…». Ecco che siamo arrivati al problema che qui ci riguarda: il nesso che lega il poeta «cortigiano» alla funzione oggettivamente servile di quel ruolo, il non potervisi sottrarre in alcun modo, nemmeno con il denunciare la pacchianeria di ogni poesia struggevolmente eufonica; voglio dire che non basta una poesia smaccatamente cortigiana a denunciare il fatto della condizione servile del cortigiano. La poesia di Zeichen resta cortigianesca al di là dell’apparenza e al di qua della propria oggettiva funzione decorativa. La stessa «tascabilizzazione della metafisica» che rammento nell’articolo ha il suo risvolto negativo nella prassi poetica, si rivela nella farcitura frastica rendendo la poesia affine al gioco con spunti ironici e motti di spirito, con filastrocche da cabaret. Accade che ogni volta che si espunge la «metafisica» dalla poesia e la si rimuove dalla vita quotidiana degli uomini, si va a finire nella poesia da intrattenimento e decorativa. Il gioco della poesia cosiddetta giocosa ha questo di vero, che ci ricorda il gioco di società delle signore borghesi che chiedono al poeta «cortigiano» di giocare con rime euforbiche e transmentali. Insomma, voglio dire, per chi non l’avesse ancora capito, che il gioco delle rime è parente stretto del gioco con le non rime. Quello duro, che si fa con le divise monetarie.

Emanuele Severino nella sua opera monumentale del 1958, discettando su «La struttura originaria» dell’essere, parla della «immediatezza e incontraddittorietà dell’essere». Non entro qui nel merito della discussione filosofica perché sarebbe pleonastico e non ho le chiavi filosofiche per entrare nei dettagli, ma è chiaro che qui Severino mette in opera un pensiero «metafisico». Il che non vuol dire campato per aria, pensa su «qualcosa» che sta a monte di tutto ciò che appare alla coscienza come «essere». Del resto, questa è anche la posizione di un Heidegger. A mio avviso, la parte centrale di Essere e tempo, l’analitica dell’esserci, rischia di periclitare in una psicologia applicata all’essere, con il rischio che può essere liquidata come una indebita intromissione della psicologia nella metafisica dell’essere. Resta il fatto che se il pensiero vuole tentare di afferrare l’essere, ecco che questo gli sfugge di mano, si dilegua, si ritira, quella immediatezza che a noi sembrava così vicina, si dilegua, si rivela fugace, insostanziale.

Perché questo discorso?, per dire che tutta quella «poesia» che si accontenta di fare una «analitica dell’esserci», in realtà fa della psicologia, psicologia applicata alla poesia. Abbiamo a che fare con un nuovo genere: la poesia psicologica; così come c’è il romanzo psicologico, la pittura psicologica, la fotografia psicologica etc.

Lasciatemelo dire: per questa via si fa una poesia, un romanzo, una pittura, una fotografia, un cinema etc. di superficie, si va con la slitta sulla superficie ghiacciata, si scivola, si va veloci, si fanno le piroette… ma, a mio avviso, non si va da nessuna parte.

Ecco, il problema io lo porrei così: ogni qual volta che la metafisica viene fatta uscire dalla vita degli uomini, o si crede di averla espunta dalla vita degli uomini, ecco che essa nella veste di falsa metafisica o di metafisica religiosa, si attacca come un francobollo agli uomini e alla loro produzione artistica. Ritengo perniciosi i tentativi di espungere la metafisica da ogni atto della vita degli uomini. La filosofia che lo dice e l’arte che lo dice, fanno cilecca, dimostrano la loro corta gittata, mostrano il loro lato cortigiano. Direi che la poesia di Valentino Zeichen pecca proprio da questo punto di vista, che ha creduto in modo filosoficamente ingenuo che fosse possibile espungere la metafisica dalla vita quotidiana degli uomini e dalla poesia. Errore madornale perché ha condannato la sua poesia e quella dei suoi epigoni a fare le veci del cabaret, una poesia di motti di spirito, da deraciné, da bohemien. Poesia auto pubblicitaria Così, ne è venuta fuori una poesia di superficie, che ben si adatta all’uditorio mediatico delle superfici riflettenti. Con Zeichen tutta una certa impostazione culturale tutta italiana e romana in particolare, ha fatto fiasco, ha finito per fare poesia superficiaria.

Alcune frasi famose di Zeichen

 1.«non ho nulla. vivo in una capanna».
2. «dai vari salotti sono stato schierato a tavola come un trofeo: “abbiamo con noi anche il poeta”. e io sono stato al gioco. arrivavo, mangiavo, sparivo nella notte».
3. «senza tessera del partito non mangiavi. e parliamo di mezza letteratura italiana o almeno di tutta quella parte che ha avuto successo. non c’era concorrenza, solo spartizione. io sono apolitico. non ho mai avuto nessuna voglia di essere comunista».
4. «b. sarebbe stato un grande statista, ma perse l’occasione di passare alla storia».
5. «Alberto Sordi. un campione. un genio. un comico del cazzo che senza tante sovrastrutture capì l’italia meglio di chiunque altro, anche da regista».

dalla Intervista a Valentino Zeichen di Concita De Gregorio

 «Valentino Zeichen sembra un adolescente che si è lasciato pettinare dalla mamma con l’acqua di colonia e invece ha quasi settant’anni, sessantotto. Non gli va via col tempo quell’aria di «guarda cosa mi tocca sopportare», la ribellione imminente che spinge sotto pelle ma che forse – dicono gli occhi – da qualche parte di nascosto si è consumata già. Un adolescente di ritorno, un diciottenne con cinquant’anni di esperienza. È sommamente educato e strafottente. Elegante ma sgualcito. Paga il conto e viaggia in autobus. Ride sincero a volte si imbarazza e quando è contento si vede che è contento davvero.  Vive in una baracca abusiva ormai a Roma leggendaria e dice «io sono uno spirito che rispetta la legge perché la teme», lo dice convinto. Si professa povero, probabilmente lo è. «Sono un cortigiano – dice anche – vado dove mi danno da mangiare e da vivere, lavoro su commissione». Degli editori, dei mecenati, delle ricche signore che amano la sua conversazione e (meno) di una sofisticata committenza che ordina poesie come fossero ritratti da appendere in salotto: «La piccola borghesia fa fotografare i figli, l’alta borghesia si fa ritrarre a olio. L’aristocrazia del sapere commissiona poesie dedicate. Io le scrivo. Alcune mi vengono bene, altre no, comunque loro non se ne accorgono». Diversi anni fa, quasi venti, Moravia consigliava un suo libro di poesie (Museo interiore) dicendo «vi si può riconoscere un’eco Marziale della Roma moderna». L’ultima sua raccolta, pubblicata da Mondadori, s’intitola Neomarziale. Poetica delle cose quotidiane, poesia della vita vera e perizia suprema del verso. Grande ironia. «Nessun altro poeta avrebbe avuto il coraggio di intitolare un libro così. Io sì, credo dipenda dal mio sense of humour».

1 T.W. Adorno Dialettica negativa trad. it. 1970 p. 330

valentino zeichen 2

Alcune frasi famose di Zeichen:

1.“non ho nulla. vivo in una capanna”
2. ”dai vari salotti sono stato schierato a tavola come un trofeo: “abbiamo con noi anche il poeta”. e io sono stato al gioco. arrivavo, mangiavo, sparivo nella notte”
3. “senza tessera del partito non mangiavi. e parliamo di mezza letteratura italiana o almeno di tutta quella parte che ha avuto successo. non c’era concorrenza, solo spartizione. io sono apolitico. non ho mai avuto nessuna voglia di essere comunista”
4. “b. sarebbe stato un grande statista, ma perse l’occasione di passare allo storia”
5. Alberto Sordi. un campione. un genio. un comico del cazzo che senza tante sovrastrutture capì l’italia meglio di chiunque altro, anche da regista”

valentino_zeichen_romaIntervista a Valentino Zeichen di Concita De Gregorio

Valentino Zeichen sembra un adolescente che si è lasciato pettinare dalla mamma con l’acqua di colonia e invece ha quasi settant’anni, sessantotto. Non gli va via col tempo quell’aria di “guarda cosa mi tocca sopportare”, la ribellione imminente che spinge sotto pelle ma che forse – dicono gli occhi – da qualche parte di nascosto si è consumata già. Un adolescente di ritorno, un diciottenne con cinquant’anni di esperienza. È sommamente educato e strafottente. Elegante ma sgualcito. Paga il conto e viaggia in autobus. Ride sincero a volte si imbarazza e quando è contento si vede che è contento davvero.

Vive in una baracca abusiva ormai a Roma leggendaria e dice “io sono uno spirito che rispetta la legge perché la teme”, lo dice convinto. Si professa povero, probabilmente lo è. “Sono un cortigiano – dice anche – vado dove mi danno da mangiare e da vivere, lavoro su commissione”. Degli editori, dei mecenati, delle ricche signore che amano la sua conversazione e (meno) di una sofisticata committenza che ordina poesie come fossero ritratti da appendere in salotto: “La piccola borghesia fa fotografare i figli, l’alta borghesia si fa ritrarre a olio. L’aristocrazia del sapere commissiona poesie dedicate. Io le scrivo. Alcune mi vengono bene, altre no, comunque loro non se ne accorgono”. Diversi anni fa, quasi venti, Moravia consigliava un suo libro di poesie (Museo interiore) dicendo “vi si può riconoscere un’eco Marziale della Roma moderna”. L’ultima sua raccolta, Mondadori, s’intitola Neomarziale. Poetica delle cose quotidiane, poesia della vita vera e perizia suprema del verso. Grande ironia. “Nessun altro poeta avrebbe avuto il coraggio di intitolare un libro così. Io sì, credo dipenda dal mio sense of humour”.

valentino zeichen 6

La invitano ancora molto a cena?

Parecchio. Sono sobrio e autosufficiente. So lavare e cucinare. Non impegno. Sono un buon conversatore, per questo mi invitano.

Com’è un buon conversatore?

Uno che ascolta, che guarda. Uno che nota il disagio e la noia dell’interlocutore. Allora cambia argomento. Taglia.

Seduce, anche?

Non più. Sono un pensionato della vita ormai. Un vecchio cortigiano. No, non è questa l’età in cui si raccolgono i frutti. A volte i frutti marciscono sugli alberi.

Non l’annoia il mondo colto e un poco snob, non la stanca?

No. Frequento tutti, anche i salotti letterari. Non ho pregiudizi. La gente mi interessa, mi piace. Poi mi serve. Studio quello che vedo e ne scrivo. L’ispirazione mi viene sempre a tavola.

È un artificio, no? Un pretesto.

Molto, sì. Alimenta lo humour.

Le piace vivere in quest’epoca? Potendo sceglierebbe un passato o un futuro?

Vivere in un’epoca di pace è una grande occasione, una fortuna collettiva. Pensi a quelli che hanno avuto 18 anni nel 1915, per dire. Il passato si può leggere all’infinito, è stupendo. Il futuro è più comodo perché non si sa. Bunuel diceva: vorrei riemergere un’ora al giorno dalla morte per poter leggere il giornale. Anche io lo vorrei.

Il giornale. Solo per sapere cosa è successo?

Le pare poco? Io sono un poeta civile. Mi interessa che tutti pieghino i cartoni quando li gettano nei cassetti, non lo fanno mai li riempiono di aria. Sono preoccupato per il sottosuolo: l’inconscio della terra.

Vota?

Qualche volta. Non sono mai stato un rivoluzionario, un ribelle semmai. La ribellione è un fatto individuale. Più della politica mi interessa la geopolitica. Ci sono più cose pratiche che ideologiche da risolvere. Vicino a me c’è un albergo con una buca davanti al garage. Io andrei a comprare l’asfalto per riempirla, sono un uomo del Nord. L’albergatore non lo fa. L’uomo si misura così: c’è quello che riempie buche e quello che non lo fa.

Una poesia nel suo libro è intitolata “Manicure della poesia”. Un’altra comincia dicendo “Nel tagliarmi le unghie dei piedi/il pensiero corre per analogia/alla forma della poesia”. La poetica dell’igiene personale, si direbbe.

La poetica è un fatto igienico, in effetti. È velocità, sintesi, cura. Somiglia alla chimica farmaceutica. Deve essere rapida ed efficace come un’aspirina. Manicure della poesia ci ho messo dieci anni a scriverla. Cercavo il passo del verso, volevo che fosse perfetto. Il peggio in poesia sono gli aggettivi: la prolissità, la descrittività. Ogni aggettivo è un fulmine, invece.

Ci sono scrittori e poeti che sfornano libri sulle loro crisi di vocazione. Anche registi. Vanno molto.

È un fenomeno di massa. L’assistenzialismo alla creatività. L’autoanalisi è diventata un costume sociale. L’autore fa autoterapia, il pubblico lo assiste: nei due sensi. Assiste e lo cura.

Va al cinema?

Moltissimo. Il mio regista preferito è Cuccino, un talento assoluto. Un genio.

Lo conosce?

No, si ama sempre quello che non si conosce. Vedo i suoi film. Sono un suo fan assoluto. Su Ricordati di me ho scritto una poesia per San Valentino.

Altri?

Moretti mi piaceva prima, l’Autarchico, Bianca: quel moralismo lì. Lo preferivo alla politica. Almodòvar mi stanca, non ha la genialità di Bunuel, Tarantino è il migliore: il dialogo delle Iene è la quintessenza dell’insensatezza. L’insensatezza della realtà è fantastica: me ne alimento.

Cosa legge? Altri poeti?

Conte. Cucchi. Magrelli. Il più grande del secolo resta Montale. Pasolini non mi interessa, Le donne, poi, vedo che vanno molto di moda. Valduga, Cavalli, Frabotta. C’è la par condicio, no?

Acido. Non le giudica all’altezza?

Forse temo la concorrenza. Sarà invidia del successo.

Non dica questo. Del mercato della poesia su commissione lei è monopolista assoluto.

È un mercato povero. Non c’è abbastanza richiesta. Sono disoccupato.

Se dovesse salvare un solo libro?

Shakespeare, tutto.

Si sente sottovalutato?

 No, sarebbe un lusso. Non mi sento in sintonia con nessuno però.

Quali sono le doti di un poeta? 

Immaginazione, fantasia. Senso dell’umorismo, senso della forma, ribellione.

Però poi lavora per chi paga

È ovvio. Ne ho bisogno, come farei. Anche Majakoski d’altra parte. Anche Pindaro.

Cosa farà nei prossimi mesi? Anche domani, ad esempio

Non ho idea. Potrei cercare svogliatamente qualcuno che rappresenti l’Apocalisse nell’arte, un lavoro che ho scritto per il teatro. Tratta l’insensatezza dell’arte contemporanea. Giustamente non lo mette in scena nessuno, li capisco.

Arte figurativa?

Sì, quella. La scultura, la pittura oggi non hanno nessun codice di ancoraggio. Nessun senso, qualunque cosa vale. Siamo tutti alla mercé d’una arte moralmente irresponsabile: viviamo negli eventi e non sappiamo che senso abbiano.

Magari le viene l’ispirazione per un testo nuovo

Può essere. Anzi guardi: un testo nuovo ce l’ho già, inedito. Si chiama La refezione. Pala di cibo.

Cibo proprio cibo?

Sì, cose da mangiare, sono cinque persone che discutono di pietanze. Fondamentale. Sono anche un bravo cuoco sa? Scialoja diceva non so se sono meglio come pittore o come poeta. Anch’io: non so se mi vengono meglio le polpette o le poesie.

Le polpette come?

Fritte, innanzitutto, Manzo, non vitellone. Pane sciapo spugnato nel latte, prezzemolo, aglio battuto fino, niente noce moscata, sono contrario alle spezie. Parmigiano. Piccole però, trenta con un chilo, se no non cuociono dentro. Ci vuole del tempo ma poi durano anche tre giorni.

Le poesie durano di più

Dipende quali, comunque sì. Anche per le poesie vale la regola delle polpette: per farle bene ci vuole tempo, e poi se son venute bene durano.

valentino zeichen 1

Due poesie inedite del 2014, da http://spettacoliecultura.ilmessaggero.it

SI DICE CHE LA POESIA

Si dice che la poesia
manchi di vero slancio,
che non sappia più volare
poiché non più sorretta
dai grandi angeli alati.
Che farci? È un mondo
di poeti atei che volano
preferibilmente in aereo

.
LO SPREAD DEL TALENTO

Le anime belle ostili al patto fra Ricerca e industria
invocavano la Ricerca pura, purché universitaria,
e questa parola troppo diffusa si è persa, dispersa.
Sul trono le subentrò la nuova parola: la Crescita!
E il dogma della superproduzione invenduta, decadde.
Gli strateghi del male ci rivestono di tessuti
preferibilmente sintetici e anche tossici,
ci gonfiano d’obesità con cibi spazzatura.
E noi che scemi non siamo, più non consumiamo.
E a letto senza cena delle beffe andiamo.

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Lucia Gaddo Zanovello POESIE da Asincrono scacchiere (Poesie scelte 1962-2015) Ed. Progetto Cultura 2016 pp. 200 € 12 «Ogni scrittura floreale, e sommamente quella delle rose, eleva lo sguardo ai vertici di perfezione del mondo»; «Nel retro della scrittura poetica di Gaddo Zanovello c’è un po’ di tutto ciò, del profumo benefico della gioia e della acedia, dell’ombra, della obscuritas, e della luce dell’alba, della tristitia, della gioiosa jocunditas e della cura» Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Lucia Gaddo Zanovello foto ornamento astratto azteco

ornamento astratto azteco

Lucia Gaddo Zanovello è nata a Padova nel 1951; scrive dalla prima adolescenza e dopo un periodo giovanile dedicato a  diverse attività lavorative, ha poi impegnato la maggior parte del suo percorso professionale come docente di ruolo nella scuola media.

Appassionata di ricerca storica, di letteratura, di filosofia morale e di spiritualità, ha condotto studi, fra gli altri, su Nicolò Tommaseo e sul friulano Pierviviano Zecchini, medico chirurgo laureato a Padova nel 1825, traendo dall’ombra meriti e singolarità di questo personaggio, che si distinse anche come fervente patriota e filelleno. 

Ha pubblicato le raccolte di poesia: Porto Antico, Edigam, 1978; Bramiti, La Ginestra, 1980; Da serpe amica, Padova Press Edizioni, 1987; Semiminime, Padova Press Edizioni, 1988; Per erbe piú chiare, Edizioni Dei Dioscuri, 1988; nel 1998, per le Edizioni Cleup (Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova), la raccolta retrospettiva relativa agli anni ’88 -’98, in cinque volumi: Nóstoi (che include Fiordocuore), Fatalgía, In lúmine, La trilogia del volo, La partitura; Il sonno delle viole, Cleup, 1999; Un parlare d’acqua, Cleup, 2000; Solargento, Cleup, 2000; Memodía, Marsilio, 2003; Silentissime, Imprimenda, 2006; Ad lucem per undas, Joker, 2007; Amare serve, Cleup, 2010; Illuminillime, Cleup, 2011, Rodografie, Cleup, 2012; Buona parte del giorno (Premio Milo 2012), Incontri, 2013 e Disforia del nome, Biblioteca dei Leoni, 2014.

Nel gennaio del 2009 è uscito per le edizioni Cleup, il libro-intervista Amata Poesia: Antonio Capuzzo intervista Lucia Gaddo Zanovello.

Nel 2004 il compositore di Patrasso Sotiris Sakellaropoulos (1952-2010) ha tratto da Memodía, quarta sezione (Canto di luce) e  nel 2005 da La partitura, prima sezione,  per archi, voce e pianoforte, omonime opere musicali reperibili in CD. Nel 2010 la scrittrice Rika Mitreli ha tradotto in greco sei testi tratti da La partitura, pubblicati nel numero di maggio della Rivista “Thea” (Thèmes de Sciences Humaines) di Bruxelles, a fianco di un ampio saggio commemorativo dedicato all’opera del musicista scomparso. Nel 2016 pubblica l’antologia Asincrono scacchiere (Poesie scelte 1962-2015), Ed. Progetto Cultura.

foto vuoto con due sediePrefazione di Giorgio Linguaglossa ad Asincrono scacchiere (Poesie scelte 1962-2015) Ed. Progetto Cultura 2016 pp. 200 € 12

Il primo libro di Lucia Gaddo Zanovello risale al 1978: Porto antico, seguito da Bramiti nel 1980. Si tratta di libri ancora lirici, ma di un lirismo passato al setaccio di una vocazione autentica che in seguito la poetessa affinerà e distillerà. Viene qui presentato al lettore un percorso di circa quaranta anni durante il quale la poesia italiana ha subito profondi e irreversibili mutamenti della sua forma-interna. Dagli anni Settanta, anche il paese è cambiato, e sono mutati gli scenari interni e internazionali. È caduto il muro di Berlino, si è dato il via alla unificazione europea, nel frattempo è iniziata dal 2001 la quarta guerra mondiale ed oggi siamo entrati nella quinta guerra, quella invisibile e trasparente della competizione via internet. Nel frattempo, il capitale finanziario ha assunto la guida dell’umanità grazie ad un atto di fede nel nuovo Moloch. Mai tanti cambiamenti epocali si sono concentrati in un così breve lasso di tempo. Tuttavia, a volte la Musa sembra non accorgersene e preferisce frequentare non gli schieramenti delle fantomatiche e improbabili post-avanguardie ma i trivi e i refoli di poeti spesso perduti e dimenticati dai più. 

Sandro Montalto nella prefazione a Consapevolvenze (2015), tracciava il filo conduttore che attraversa l’intera produzione poetica di Lucia Gaddo Zanovello: «Dal punto di vista formale questa silloge ricalca sostanzialmente i moduli di tutta la produzione dell’autrice: improvvisi ed eloquenti addensamenti di rime e allitterazioni soprattutto a fine testo; vocaboli rari e preziosi; portati apparentemente opposti dal latino e dal gergo anglofono; virate ottenute grazie al cambiamento di una o due lettere; episodi aforistici; ritmo elegante ma imprevedibile; il procedere più reticolare che lineare del dettato; i momenti in cui si infittiscono i contrasti, la coesistenza dei contrari, talvolta vere e proprie sinestesie […] Si registra anche la comparsa di quelle che potremmo definire parole-feticcio, che compaiono praticamente in tutte le raccolte: “viola”, “grigio”, “oro”, “abbraccio”, “incontro”, “ombra”, “abbandono”, “sangue”. Va però sottolineato come per la poetessa il linguaggio non sia un rifugio ma piuttosto un armamentario di strumenti con i quali leggere e abitare il mondo: Gaddo Zanovello non si rinchiude dietro barriere di parole colte ma approfondisce il linguaggio per avvicinarsi il più possibile alla trama dell’esistere nel mondo. Il linguaggio è per lei gioia come lo è l’osservare i fenomeni della natura o condividere uno sguardo o scambiare un bacio […] Un amore per il linguaggio che non appare mai disgiunto dall’amore per le cose, per le persone e per la realtà quotidiana […] Infine, l’attenzione e l’amore per la natura, dalla quale imparare i cicli, l’entusiasmo della primavera e la pazienza dell’inverno […] Possiamo dire, fuori da ogni abusata e semplicistica formula critica, che, pur con le sue ovvie oscillazioni ed esplorazioni, tutta la produzione di Lucia Gaddo Zanovello (specialmente in seguito a Nostoi, della ricapitolazione in cinque volumi apparsa nel 1998) si configura come un enorme e ininterrotto poema».

Che Lucia Gaddo sia finita per approdare ad una raccolta denominata rodografie (2012), ovvero, ad un trattato sulle rose, scrittura floreale su una materia affatto floreale, a questo punto non deve sorprendere. Ecco il preambolo dell’autrice:

«Ogni scrittura floreale, e sommamente quella delle rose, eleva lo sguardo ai vertici di perfezione del mondo. L’anima s’inebria dell’ineffabile profumo di questo fiore affascinante; la forma delle sue variegate corolle, iridate dalle sfumature di colore sempre nuove… richiama per intero l’ideale di bellezza […] Ma fra gli esseri che vivono sottoposti a morte è quella umana la più tormentata e fragile delle avventure. Si viene al mondo per sottrazione dall’originario stato di compiutezza e di intangibilità nella madre, per patire subito il difetto, la vulnerabilità e l’abbandono, nella certezza di dover attraversare il dolore». Così la poesia si ritrova ad essere «un parlare d’acqua» mentre «passa la cometa di un pensiero / nel giardino delle idee», un alato alito, un effluvio di «illuminillime» (dalla omonima raccolta pubblicata nel 2011), «avverbio policorde, anche per aspetto fonico, e contraddittorio, oscilla fra un significato e il suo opposto, un minimale e un massimale insieme… Il termine riflette i toni della scala del buio e della luce, dall’apparente sua assenza (illumine, senza luce e illune, senza luna) alla sua massima brillantezza che orna il Creato che tutto illumina e riempie di grazia» (dalla nota dell’autrice al volume).

foto scala con ringhieraNella poesia di Gaddo Zanovello c’è tutta una fenomenologia di «albescenze», di «radianze», uno sfavillio di  «fiaccole», di «vivide luci», fino allo sfumare del «vespero» e, infine, si giunge alle «fiaccole stellari», alle «lunule». «È così che il brillio della volta celeste vira nell’umano prillio».

Ortega y Gasset definisce l’uomo un «animale fantastico-tecnologico» in quanto capace di modificare il mondo secondo i propri progetti, immedesimandosi e forgiando idee e immagini sul mondo per inventarsi un piano di attacco alla circostanza, per costruire, insomma, un mondo interiore. Per il filosofo spagnolo, i poeti sono i più adatti a costruire queste immagini del mondo interiore, essi sono gli esseri più fantastici e, fantasticando, contribuiscono a creare le condizioni per una più consona abitabilità del mondo. Questo è quanto di più vero si possa immaginare per la poesia di Gaddo Zanovello. La sua poesia, esemplarmente anti intellettualistica è, in realtà, un potente strumento «fantastico-tecnologico» perché apre nuove strade alla libertà della immaginazione.

Il titolo di questa Antologia, Asincrono scacchiere, riprende l’intestazione di alcuni inediti dell’ultimissima produzione poetica della poetessa di Padova, e vuole essere una metafora della vita traslata alla poesia: una scacchiera dove avvengono eventi asincronici, non legati alla freccia del tempo ma dipendenti da altre dinamiche insondabili e ancora sconosciute.

La jocunditas e la tristitia, sono il basso costante di questa poesia. Un inno alla gioia trattenuto e silenziato che si esprime in parole delicate e ombrose, in una versificazione gentile e suadente. La fantasia e la memoria sono le costanti di questa poesia, i due motori immobili che sovraintendono al discorso lirico di Lucia Gaddo Zanovello.

Acedia, tristitia, taedium vitae, desidia sono i nomi che i padri della Chiesa danno al senso della vanità che proviene dal pensiero della morte, con tutto ciò che questo pensiero induce nell’anima. E, insieme alla tristitia, l’acedia, l’heideggeriana «incuria», che poi è una traduzione letterale del termine greco, in-curia, ovvero, l’assenza di cura, quella «Tristitia-Acedia» opera del «demone meridiano» che lancia i propri strali e i suoi malefici influssi sulla Musa verbigratia che parla per Verba. Del resto, nella poesia di apertura de Le fleurs du mal, Baudelaire pone sotto il segno dell’acedia (sub specie di ennui) la sua opera poetica. Tutta la poesia di Baudelaire può essere intesa, da questa angolazione, come una lotta mortale contro l’acedia e, insieme, come tentativo di ribaltarla nel suo contrario. Il dandy rappresenta, secondo Baudelaire, il tipo perfetto di poeta, una sorta di misteriosa reincarnazione dell’accidioso. Forse, prefigurazione dell’essenza del nichilismo. Affettazione dell’essenza del dandysmo come cura suprema dell’arte dell’incuria, rivalutazione della acedia nella versificazione urticante che cade sotto il segno della malitia e del rancor, della pusillanimitas e della evagatio mentis, la distrazione che tanto infesta le menti dei poeti posti sotto il segno del demone meridiano. Nel retro della scrittura poetica di Gaddo Zanovello c’è un po’ di tutto ciò, del profumo benefico della gioia e della acedia, dell’ombra, della obscuritas, e della luce dell’alba, della tristitia, della gioiosa jocunditas e della cura. Lo spirito di questa poesia, nei suoi diapason, è colto come da un raptus sibillino e gioioso proprio di certe scritture poetiche inniche con la loro verbosa litania cantarellante sostenuta dalla anafora e dalla replicatio. Lucia Gaddo Zanovello incide con acribia su questo tasto il proprio stile e la propria verbositas acediosa e gioiosa. E la sua scrittura ne trae giovamento. Le poesie più belle di questa antologia sono quelle dove più intensamente la gioia equivale alla tristitia dell’umbra e si mesce con la dulcedo dello spirito querulo incantato sul «viride rigoglio» della vita.

Layout 1.

da Asincrono scacchiere (2016)

Da Porto Antico, 1978

L’appuntamento

Rode il sasso
un pesce senza fiume
piange
mulini vuoti
e parche mense
alla cascina
di muti sensi
che accecano la gloria.

.
Gloria

.

Quanto piú
l’inno
spande la gloria
nei riccioli
di una giornata
di foglie secche,
piú l’alito
squama le sue ali
ardenti.

.
Serale

.

Vesto di ghiaccio
intere ore d’inverno
struggendomi di noia
e di pensieri.
La lana ostile
mi raggrinza il cuore
di brividi.

Affiora un vapore disperato
come di gabbia.

Lucia Gaddo con L Troisio e Cesare Ruffato

Lucia Gaddo con L Troisio e Cesare Ruffato

Da “Ma il pensiero, no”

.
Novembre

.
Umili
inchineranno i petali
ai giardini
e piegheranno le ali albine
agli angeli
i nebbiosi nastri densi del mattino
che danzano filando sopra i fossi
piantonati dalle fruste rubre
del salix alba cinerino.

Tutto il respiro si è speso nelle attese
ed è cimato il sogno
dai solchi del passato,
argilloso incanto

bevuta vita rorida bellezza
sorbita di una felice
idea non corrisposta.

Cede la sabbia alla marina,
clessidra
del tempo filiforme,
lucente, vivida vetrina
che chiude tutta l’onda
dentro l’orizzonte.

.
Da “Muti e cresca dell’universo il fiore”

.
Auscultare

.
Sorvegliare
pieghi di libri,
fogli disgiunti
di espressi segni divisi,
messaggi in vetri tinniti,
nidi turriti, pigoli gridi

ammarati arrivi di viaggi longevi,
coltri lanose ai riposi festivi.

Lèggere frasi leggére salire
fra stormi di voli
e scoprire schiarite di amore
nei veli cilestri del cielo che apre
a tramonti sereni

e trovare che il tempio del tempo
s’intana nel mare
con tutto il colore del sole nel cuore
e di fuoco non muore.

Da Silentissime, 2006

.
Fialba

.
Sorge e sfavilla
una fiaba d’alba lilla
e il mar che vacilla
d’eterno canto scintilla

inestinguibile culla
creature incantate
dai raggi d’aurora
narrate.

Lieve si leva, chiara e canora
– sguardo teso di brezza –
onda amorosa, distesa carezza,
alta respira e beata
dai veli cilestri dei cirri.

Scorre albino il mattino
al solívago sfondo marino
sul colmo rotondo del mondo.

Foto Silenzio mutevole

Da Ad lucem per undas, 2007, “Per undas”

Volvenze d’acqua

I

Liquida lama permeando incide,
ogni terrena cavità seconda
e di specchiata luce inonda
con la ciclicità dell’onda

da fango a linfa, da falda a fonte
per vento che prosciuga a cielo che provvede,
risorgive nubi aduna lieve
e in piova filigrana riconcede

per dolci pozzi e per fiumi amari
per mari e umori
in murmure d’esistere giocondo,
per l’immenso fare e il suo gorgo
che immerso rugge, avaro sugge
e, disavveduto, illuta il mondo.

Da perenne lastra d’algida purezza
con passo che ruscella dirompente
corrente di torrente che zampilla
gesto che scintilla dorso e scaglie
al pesce che sfavilla
nel bagliore acuto del fragore
che dal tuono oscuro
lucido silenzio ridistilla

alle sitienti umane mani e alle ferine gole,
dalle radici avvinte nella tana
a steli di dovizie,
inizio sapiente e necessario
indizio che genera inudito.

II

Aqua agua anguis, liquida vena d’Eva,
sangue del mea culpa, vortice abisso avito
che stagni nel rogo desolato dell’abbandono
chi spianta dal libro della vita,
di assoluta neve vai
in segni di fronda sulla Terra,
per ebbro flutto che gli avelli arsi
delle umane zolle esonda.

Dilavi con le rapide mutanti della docilità
la nudità del travaglio che assolve e innalza
e rinnovando rivesti di tunica limpida
l’essenza che cura.

Goccia che bacia ogni piega
del deserto d’amore in dolere santo
con stille d’incanto e suono di pianto.

Polla sorgiva, in getto di Eternità
immergi profonda
e avis alba riemergi, a ridivenire,
l’umanità feconda.

Da Buona parte del giorno, 2013

foto sbarre nell'atmosfera

Ritorno

Non si trovò nulla al ritorno che fosse nel ricordo.
Un passato imperfetto si sgolava
dal cigno delle meraviglie
che solcava l’anima
remigando solo nel buio delle luci notturne
da poco regolate sull’acceso.

Un nuovo ieri si leggeva nelle cose
stravolte da chi non sa.
Poco resiste dell’ordine
che fu quotidiano corso,
evento noto, gesto abituale.

I morti parlano, ho saputo poi,
dalle righe vergate a mano
sugli oggetti consumati;
il tempo li ridona a chi recede
al tepore e alla carezza
del fanciullo che ignorava
il vólto esatto dei sarà.

Un solo istante e tutto muta il quadro

diverge e scosta
lo strappo al cuore della vita
che risale il cinghio della meta ormai raggiunta.

E fra gli astanti muti s’annoverano in tanti
che giú guardano
nel mare freddo e alto
dell’azione temeraria di esser sé,
nell’azzardo fiero di volere ancora
tener fede alla promessa
sorrisa dentro l’infinito abbraccio dell’amore.

da “Disonomíe”

De cantare

Quidam sulle cinque punte dei petali di un fiore in volo
è formidabile
si dice
la luce sembra di questo mondo ma ciò che vede
non è fermo come appare come lo mette a fuoco
non è che gioco
d’insieme
respiro di parti accordate a vivere
qui ora che va il battito del cuore centrifugo
che tiene i gravi in orbita segnatamente lei
transfuga nel loro
sorpresa d’anni molti trascorsi
sopra e dentro lei che perse molti amori strada facendo
nati a questa stessa vita
che morti le dicono sono
restino altri ancora a dire fare baciare
e sguardi attenti dettano a lei
che la stanchezza non tiene piú di sei ore
e poi riprova a camminare e a dire e a fare
giú e su per la via del campo santo dell’esistere minato
che l’ama e tiene divinamente
per mano in giro girotondo dentro questo mondo.

foto il vuotoda Asincrono scacchiere

Il silenzio dell’anima

Felicità è questa bonaccia piatta
umido grigiore che non è tempesta
mi basta questa
per non andare alla deriva
all’altra riva
un sole che aspetta
nel fermo della brezza
altra carezza
che chiede un po’ di sosta
un velo di pazienza

ma la bellezza è già nel nido
che emerge dal galleggio,
un infimo d’arpeggio
appena percepito.

Dove vada a parare
questo tratto di mare
non è dato sapere.
Godere intanto si deve
la stasi forzata, il beccheggio
che pare infinito,
scontato la barca si muova,
scelta dovuta
all’invito del vento.

7.9.14

Senza sponde

Le molte trascorse lune
oltre il monte nero della notte
scheletrita
atterrano
sugli oceani di sabbia
delle solitudini
immerse immense
in ogni nascita risolta.
Uno da due.
Cosí sempre si genera
ingenerosa vita
nei separati abbandoni
quando il fuoco del respiro
arde in gola
e prende a pulsare il sangue
nelle reti spinose delle vene.

Il buio che contiene
accende della luce i vivi
sul campo minato della gara,
tiene alto il nodo
scorsoio che regge
ma incatena
e lascia senza freni al precipizio
la sconfitta.
Facile scommessa di vittoria
al tempo inetto delle fiabe,
quando tutto azzurro pare il cielo
e dolce il centro dell’idea
che il vero non confonde;
il buono tace
e il bello serra fermo il filo
dell’amore, anche al cuore
che palpita e che teme
nel letto di neve
di promesse
e cede in sorte e al vento
le sue sponde.

18.1.13

 

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Sandro  Montalto AUTOANTOLOGIA (2000-2011) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “Nella poesia di Sandro Montalto si rinviene  un elemento nuovo. Fare una poesia privatistica o una pubblicistica?”

foto palazzo illuminato

palazzo con finestre illuminate e buie

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Nella poesia di Sandro Montalto si rinviene  un elemento nuovo. Fare una poesia privatistica o una pubblicistica?

.

Il problema del «Che fare?» in poesia era stato messo a fuoco, in senso privatistico, da Vittorio Sereni in senso e in chiave privatistica, quando richiamava alla necessità che il poeta «ci dica ciò che a noi veramente importa, venga incontro a domande essenziali, torni a offrirci, dietro la fuggitiva apparenza, il fondo stesso delle cose», nella convinzione che  solo nella consapevolezza che in ogni verso «de re mea agitur» sarà possibile per la poesia «ancora esercitare la sua presa di possesso del mondo». In Sereni e nei poeti della sua generazione vigeva ancora la confusione tra il «pubblico» e l’«interlocutore», che erano due concetti da tenere distinti. La dizione: «ciò che a noi veramente importa» era da intendere riferito al pubblico? Era una domanda pubblicistica? O privatistica? Contemporaneamente, anzi ben prima di questa formulazione, Sanguineti con Laborintus (1956), aveva destabilizzato il modo stesso di porre delle domande privatistiche, dimostrando, indirettamente e contro la propria volontà, forse, che il privatismo avrebbe condotto al diarismo montaliano di Satura (1971) con tanto di beneplacito e di lasciapassare per la futura democratizzazione della poesia, per la poesia di consumo rivolta al consumo dei brand che fiorirà in seguito negli anni Settanta e Ottanta. Poi, il fatto che Sanguineti nelle opere seguenti facesse retromarcia e abbandonasse la via privilegiata della de-strutturazione e della de-significazione totali per riposizionarsi, anche lui, nel solco di un diarismo illustrativo, è un problema critico e storiografico che ancora deve essere indagato e spiegato. E poiché i problemi non risolti tendono a ripresentarsi sotto altre forme e altre guise, come i nodi al pettine, ecco che anche il giovane Sandro Montalto, quando pubblica la sua opera di esordio, Scribacchino (2000), si trova a dover fare i conti con quel problema formale e sostanziale rimasto insoluto, e cioè: fare una poesia privatistica o una pubblicistica? Problema non da poco che il poeta risolve dribblando il problema: cioè facendo una poesia privatistica in forma pubblicistica, cioè posponendo il problema che il Novecento gli consegnava lindo e pinto nella sua integrale nudità. Ancora oggi io sono convinto che il suo miglior libro sia il primo libro, là dove frigge e balugina una idiosincrasia di fondo, che sta molto al fondo delle cose, una difficile e promiscua vivibilità di pubblicistico e privatistico. Quella forma che appariva debordare ed esorbitare da tutte le parti in esplosioni semantiche e scintille immaginifiche del libro d’esordio, avrebbe dovuto e potuto condurre ad una esasperazione dei conflitti semantici e delle frizioni lessicali. Così non è stato. Il fatto è che i problemi di linguaggio non si risolvono con una chirurgia sul linguaggio, questa è stata una falsa strada praticata dallo sperimentalismo italiano, ma andiamo avanti. Molto di frequente, paradossalmente, i problemi formali rimasti insoluti danno luogo ad opere brillanti; ma è vero anche che i problemi formali non si risolvono operando chirurgicamente sulla Forma. Accade spesso, invece, che le invarianti subiscano delle variazioni imprevedute e imprevedibili. Non sempre una soluzione formale conduce ad opere esteticamente ineccepibili. E così il problema delle Forme in poesia comporta anche il problema dei mezzi, dei metodi, delle scelte lessicali e stilistiche, delle scelte privatistiche e delle scelte pubblicistiche. Però, poi la Storia con la maiuscola interviene con le sue prescrizioni che il poeta non può evitare: arriva l’epoca della stagnazione economica e spirituale, un quindicennio di terrificante mediocrità italiana, un quindicennio di cloroformio e di conformismo. E la poesia italiana maggioritaria ne è lo specchio fedele, anche se ha, qui e là, come un sussulto, qualcuno sembra risvegliarsi dal coma profondo, ma la generalità continua nel coma catatonico. C’è chi va per una poesia di taglio, di diagonale, di frantumi e chi va per le poesie leggere e per le poesie gastronomiche. I critici del palazzo gridano di visibilio, i migliori mettono, come gli struzzi, la testa sotto terra. E siamo arrivati ai giorni nostri. Montalto è un poeta critico, uno dei pochissimi della sua generazione in possesso degli strumenti per una indagine della poesia contemporanea. Questo è un aspetto importante da tenere presente.È un poeta ideologo, un poeta intellettuale (secondo una formula invalsa ma non impropria). Nella sua poesia si rinviene  un elemento nuovo, frutto della crisi, non notabile prima, che si farà sempre più percettibile nella migliore poesia di questi ultimi anni, man mano che la crisi formale si aggrava: la parola tende a raffreddarsi, ad anestetizzarsi, a farsi estranea alla pronuncia, a mettere uno iato fra voce e parola, tra parola e parola. Tra pensiero e voce si insinua una disparità, una diversità, una alienazione, una preterintenzione; l’io si trova in una posizione dis-locata, de-territorializzata:

.

Pensa.
Pensa al dolore che non provi,
che non provi più,
pensa al mondo di angosciante silenzio nel quale
stai affogando mentre mani ossute ti afferrano
e trascinano in baratri senza fondo né sonno.
Pensa al dolore che fingi di soffrire, affinché essi
non capiscano che non soffri più
e non ti torturino con unghie acuminate (ed infette)
che ti dilanierebbero il cuore…

.

foto allo specchio ovale

AUTOANTOLOGIA di Sandro Montalto

REFRAIN

1.

Tutta questa carne che sta in dolorosa pena,
solenne circostanza di anziana morte preannunciata,
morte che vomita vita brulicante
(qualcosa si agita e danza,
in essa,
su di essa, forse).
Stimoli pungenti e maledicenti sollecitano l’anima
e fanno rabbrividire le membra, sussultare,
stupire, spaventare, agghiacciare, dubitare,
come un servo che implora con voce rotta
una pietà lontana vestita o rivestita di speranze
ingannevoli e malevole,
si rotola nel dubbio e ossessione:
“Perché questo corpo debole e
deforme, passeggero,
gustoso, saporito, prelibato,
perché queste membra spezzate,
questa gabbia di dolore
causa tuttavia di una feroce
punizione implacabile
come se essa fosse il peccato stesso?”
Ora dovrai pagare, subdolo pachiderma,
tu,
nonostante la scarsa
resistenza all’assalto di mille e più colpi
di falce e di spada.
Pensa.
Pensa al dolore che non provi,
che non provi più,
pensa al mondo di angosciante silenzio nel quale
stai affogando mentre mani ossute ti afferrano
e trascinano in baratri senza fondo né sonno.
Pensa al dolore che fingi di soffrire, affinché essi
non capiscano che non soffri più
e non ti torturino con unghie acuminate (ed infette)
che ti dilanierebbero il cuore,
mentre nelle loro avide gole colerebbe il tuo sangue,
come immondo pasto.

(da: Scribacchino, Edizioni Joker, Novi Ligure 2000)

NUVOLE E…

Ma al di là,
oltre, successivamente,
si nasconde un segreto più grande del mistero –
simboli ed archetipi si affollano in trama avulsa.

Le stelle
si organizzano ad inventare perimetri
dediti alla menzogna,
qua sotto
noi stiamo con il naso parallelo alla schiena
e la bocca semiaperta (come di pesce defraudato)
a chiederci un’altra volta cosa nascondano le nuvole
che si abbracciano a dispetto guardandoci per ingelosirci,
a chiederci quale segreto neghino alle nostre menti senza più nord,
a chiederci se il segreto sia più sconvolgente del mistero.

(da: Scribacchino, Edizioni Joker, Novi Ligure 2000)

.
Sandro Montalto Scribacchino copCOSI’ NON VA BENE

se guardi fuori, nei pori, fra le anatomiche fessure
non ci capisci niente
se esponi all’aria gelida e decifri le crepe epidermiche
non ci capisci niente
se appendi al muro un chiodo, se ti ci aggrappi con i denti
non ci capisci niente
se fai coincidere i pensieri con i desideri, i posti con le lacrime
non ci capisci niente

che tu sia accelerato o ovattato, che tu vada o resti inscrivendo nei cerchi
guarda:
tutto quello che vorresti dire, tutte le parole che si nascondevano
dietro all’incertezza e all’incongruenza (o quasi tutte, o quelle almeno
che ti sono sempre servite quando la gola si annodava), tutte le parti
a tessera di puzzle della tua vita oramai si incastrano con il nulla

fai mente locale:
qualcosa quelle nuvole ti avranno pur detto
nelle coniche notti insonni dai rumori che crescono mentre se ne vanno,
segreti impensabili solo tuoi ti avranno pur suggerito l’abbozzo di una chiusura
ed una musica avrà contrappuntato un tuo sospiro o gemito nel buio,
qualche luce che hai creduto di vedere avrà pur illuminato un significante

ma non va bene, e ancora non va:
una minima oscillazione, un qualsivoglia cambiamento
può far crollare la clessidra e disperdere al vento la sabbia dei giorni,
una parola al momento sbagliato (o anche al punto giusto)
può far avvizzire una gioia, dimagrire a spettro una nota di naturale
(o apparente, o autoattivante) tensione allo scherzo
e la folle cartografia della mia essenza mi è ignota, ancora non si sa
se il maestro e discepolo di se stesso abbia giustificato le assenze

qualsiasi cosa se ci penso su se ne va:
ci sono autonomi brandelli di corpi
che narrano ancora storie lunghe come serpenti
ed appare ineluttabile il cigolare delle cose che gemono la loro fine
mentre cartoline multicolori raccontano brani di felicità altrui

so che così non va:
ho fatto l’autopsia al mio me indeciso,
sono stato da un verso che mi è venuto troppo lungo pizzicato e deriso:
percuoto come gong il supremo istante e vi saluto all’improvviso

(da: Scribacchino, Edizioni Joker, Novi Ligure 2000)

.
Sandro Montalto Il segno del labirintoXIV.

(Ode)

In lode al signore del tempo
gratta la palpebra squamosa del domani
misera è la fonte della vita

paludosa sull’argilla informe
sulla terra come mica sbriciola
lontana dalla splendente rilucente folgore
un vago moto si arresta
un’intenzione di gesto si smorza
identico torna l’evento su se stesso
da se stesso generato

il barocco costruirsi del tempo come opale
orbita ancora attorno all’ombra del sé
falò della svendita di sé
con xilofona accozzaglia di scheletri
le ore contate si scagliano contro la pelle
sudore ogni sorriso sgocciolante

il mio respiro breve
l’affanno del congiungimento
estasi breve ogni estasi
viscosità del desiderio
pausa nel narrare le ore
per ribadire la precarietà dell’eterno

fra nocca ed osso, fra cartilagine e disco
si annida il minimo clocchiare di un destino
non cercare nella luce tarda imitatrice di sé
delle stelle fredde il dipanarsi di un arcano

ricca solo di onde la risacca geme
umido solo del proprio desiderio l’oceano migra
bacio è il deflagrare di corrucciate polveri nere
illusione e falsa deduzione appare il bianco
che tutto divora e spazi fra la voce genera
mimo della vastità ed in realtà famelico dirottatore
di ombre da tessere e disfare
biancheggia sulla sabbia il bianco
goccia a goccia scivola la sostanza

si aggruma la vita,
come attonito smegma resta intriso della sua morte
ogni attimo che fallisce il centro

(da: Esequie del tempo, Manni, Lecce 2006)

.
XVIII.

(lapidarium)

Assorbito nell’innegabile caducità
lentamente avanzo e retrocedo,
perso nella nebbia di ipnotico pulviscolo
nei perfetti circoli del tempo,
vago fra cartacei avelli infuocati
e fra marmorei giacigli illustri.
Un fiore piange i petali di un tempo
sulla fredda lapide, muta di un raccontare
che si perde nel passato.
Mi ricorda
che cessata la vita cesseranno il tempo
e lo spazio, per me, le mie parole
saranno alternativo sonnifero
per nostalgici votati al fraintendimento.
I miei versi più inutili, collante poetico,
saranno il mio immortale epitaffio,
mia epìtrope e lapide saranno
le mie chiose obbligate e le grida di stupore.
Niente più che muschio saranno
le mie riflessioni, i versi ispirati
di pensiero e lucida sofferenza,
il mio solo Io sperduto in parole
per sorde orecchie, per pagine troppo piccole.

“Non notare, non insegnare, non avvertire”
mi dice una voce che mi consiglia
di non credere alle voci e ai segni
“la tua polvere sarà semplice starnuto
per la gente comune, lapidi orientate
verso un unico sole, come già
la polvere di altri in passato”.

Intento a discutere mi sorprende la sera,
e mi incammino per la via sconosciuta ed antica
di pietre familiari
scritte col muschio della pazienza.

(da: Esequie del tempo, Manni, Lecce 2006)
Sandro Montalto copertinaXXIV.

(sussurri nella nebbia – kyrie)

Proprio lei che va di fretta,
e non sa che attraversa il tempo
nelle ore del mattino fino al vespro di cartone.
Scusi, non sa se qualcuno si è avvicinato
si è accostato al tempo fuoriuscito dalle assi,
non conosce il riso che ne tampona il fluire?

Giorno e notte, invenzione limata la poesia
esce da me ma subito il mondo ne fa retorica,
il mondo che la retorica l’ha obliata
e muggisce, indefesso, con garbo di diarrea
e ti fa credere eterno mentre ti fa imbalsamato trofeo.
Tutto nasce dall’uovo immortale perpetua frittata
dell’andare e stare, viaggiare diagonali nello spazio
mentre avevo perduto ancora l’attimo.

Alberi che mi tendete clorofille fanciulle
di cuccagne e frutti ne abbiamo abbastanza,
schernite con il vostro autunno-primavera temete
l’umana caducità.
Sempreverdi arroganze,
in triste colloquio con il magma marcescente
dell’ottusità nulla movente, negano il fluire
e consegnano l’uomo al limbo dello sparire.

Con giochi di prestigio la fatina brilluccichina
ha seminato incantesimi come ossa
ha acquistato al laser delle confusioni
la mia mente, distratta dall’andare del tempo.
Lanterne di opacità
ripetono che l’alba è una trovata pubblicitaria
che sul tetto del sonno vi è solo la morte
che il silenzio è muto e non sa l’eternità.

Ma che se ne fanno dell’eternità
la cosa innominata, il verbale del consumarsi,
l’interlocutore cerebrale, la ripetizione,
il nome dato per appuntare uno spillo al tempo,
la ripetizione, il destino alibi sempreverde,
i cespugli di intricati desideri,
l’uomo che si cerca in una bocca amara.

Per lande, deserti, foreste e città
unghiamo il gomitolo del tempo
e tutte le età raggrumate cicatrizzate
si strofinano le mani e soffiano
come fa lui, che se ne va di fretta
e non mi vuole dire se segna il tempo,
se va contromano, se ha ceduto
o non ha capito come il tempo sia un brodo
cui le epoche cedono il loro nutrimento.

(da: Esequie del tempo, Manni, Lecce 2006)

.
(prologo)

Ricordi il progetto di un comune ricordo?
No, trasparente come l’aria che svela
i profili delle cose lontane
fingi di guardarmi
mentre fra noi le cose si susseguono,
gli spazi ammutoliscono e mutano
e i tuoi occhi lontani nella mente
sono globi di vetro in cui mi rifletto.

Un senso mortale mi adesca,
leggo una storia già vecchia
in un libro dai caratteri increati.

Un significato più semplice si profila
come soluzione a una disperazione assuefatta,
come quando fuori il rumore muore
e lo spirito si concede a se stesso.

Ubriaco di mete informi
so buie le ore passate
e traditore il confine fra parola e parola:

e resto lì, fermo recensore di me stesso,
lo sguardo ottuso come di balena in secca.

(da: Il segno del labirinto, La vita felice, Milano 2011)

.
foto in acqua

Oppresso dai rimedi da scovare
attende il momento propizio
per scavare in sé l’animo abulico
e per cieli e mari vaga inutile il pensiero,
mentre l’essere rimanda il momento
della domanda e del vero pentimento.

Il pentimento a nulla serve,
ogni giorno è una piaga utile
ad allevare vermi per compagnia
mentre le bocche simulano incroci
di parole e invece di lingue
umide di piaceri si intendono.

I piaceri sono ricordi
di passate angosce irrisolte,
soffia una brezza che piange umori
mentre ad un tratto
– ecco! –
in dolore s’eterna.

L’eternità è la rinuncia ad ogni progetto,
i lupi ululano alla luna che costringe all’intimità
mentre grandina sugli acini dei nostri prudori
rastremati in ordinati rimpianti.

Il rimpianto è una fine troppo comune,
mescolo i dolori sperando in una reazione
che la dinamica del calore non permette.
Vascelli di nostalgia solcano pelaghi insidiosi
ed io sono il pirata che deruba la sua notte,
mentre m’invento un fato contro la vita inopportuna.

Il pirata è colui che deruba la notte,
la sua notte – e mi ripeto.

(da: Il segno del labirinto, La vita felice, Milano 2011)

.
***

Ho speso ore di vita non vissuta
– o sublimata – a dar forma di parole
alle complesse sinapsi della memoria,
ho condannato all’immobilità attimi irripetibili
per ricalcarne la perfezione, per codificarne
l’armonia e la segreta egolalia.
Ho dato vita forse malata a desideri
(non so se arcaici e ululanti
ma certo lacerati da una lama
terribile nella sua inconoscibilità)
che ora faccio tremare nel timore
che qualcosa venga a sconvolgere il tutto
e a ricreare un disordine più probabile.

Cosa devo ricordare di te, mia sagoma
di compagna in versi scritti e sussurrati,
cosa devo negare al tempo?
Ho permesso agli attimi di susseguirsi
in un pulviscolo di sentimenti taciuti:
non posso più fare nulla – ma
mai ho potuto, mi dicono suoni e ritmi –
e un sentimento superiore tenta di fugare il rimorso.

Non sono che fredda brace sotto la cenere.

(da: Il segno del labirinto, La vita felice, Milano 2011)

.
(epilogo)

Nuvole a catafascio, oggi, nell’azzurro degli occhi.

Fragili prospettive s’affastellano e fioriscono nomi rocciosi
in ogni atto germinante dissoluzioni distratte; opaca,
l’esistenza va oscillando tra fonte e fonte, verbalità
sopraffanno la confezione di petali a precipizio…
– Ecco!
qui fiorisce il mio sguardo straziato di dolcezza.

(da: Il segno del labirinto, La vita felice, Milano 2011)

Sandro_montalto

sandro montalto

Sandro Montalto è nato a Biella nel 1978, dove vive e lavora come bibliotecario. È Direttore Editoriale delle Edizioni Joker (www.edizionijoker.com), presso le quali cura collane di saggistica, poesia, aforismi e teatro. Dirige le riviste «La clessidra» (rivista di cultura letteraria) e «Cortocircuito» (semestrale di cultura ludica). È redattore delle riviste letterarie «Il Segnale» e «Poetry Wave» e consulente per l’Italia della rivista internazionale «Hebenon». Svolge inoltre attività critica su molte altre riviste nazionali e internazionali, tra le quali «Poesia», «Testuale», «Atelier», «Téchne», «Clandestino», «Cultura & Libri», «Bloc notes», «Confini», «Testo», «LN», «La Battana», «Pòiesis», «Pagine», «Alla bottega», «Punto d’incontro», «Golem», «Il Cittadino» e «Poiein»; scrive inoltre su volumi collettanei e su alcuni giornali («Corriere di Como», «Il Domenicale», etc.). Queste le sue pubblicazioni in volume:

  • Scribacchino, Joker, Novi Ligure 2000 (poesia)
  • Compendio di eresia, Joker, Novi Ligure 2004 (saggi sulla poesia contemporanea)
  • L’eclissi della chimera, Joker, Novi Ligure 2005 (aforismi)
  • Pause nel silenzio, Signum, Bollate 2006 (poesia)
  • Crolli emotivi, Lietocolle, Faloppio 2006 (prose; nuova edizione riveduta e accresciuta Cento Autori, Villaricca NA 2010)
  • Esequie del tempo, Manni, Lecce 2006 (poesia)
  • Beckett e Keaton: il comico e l’angoscia di esistere, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006, con una nota di Paolo Bertinetti (saggio; in corso di stampa negli Stati Uniti)
  • Forme concrete della poesia contemporanea, Joker, Novi Ligure 2008 (saggi sulla poesia contemporanea)
  • Tradizione e ricerca nella poesia contemporanea, Joker, Novi Ligure 2008 (saggi sulla poesia contemporanea)
  • Monologhi di coppia, Joker, Novi Ligure 2010, con prefazione di Paolo Bosisio (teatro)
  • Un grosso apostrofo (FUOCOfuochino, Viadana 2010) (prose)
  • Lentinsetti, Pulcinoelefante, Osnago 2011 (con disegno di Tania Lorandi) (poesia)
  • Ubu furioso, Edizioni del “Collage de ‘Pataphysique”, Sovere (BG) 2011 (con illustrazioni e una in oleografia originale di Marco Baj) (teatro)
  • Il segno del labirinto, Edizioni La Vita Felice, Milano 2011 (poesia)
  • Filastrocchetta, Pulcinoelefante, Osnago 2012 (con serigrafia di Ugo Nespolo) (poesia)
  • Varianti di stupro, Joker, Novi Ligure 2014, con prefazione di Lella Costa (teatro)
  • La geometria della notte, ai quattro venti, 2015, con incisione di Gillo Dorfles (poesia)

Ha curato molti volumi, tra i quali Umberto Eco: l’uomo che sapeva troppo (ETS, Pisa 2009), Fallire ancora, fallire meglio. Percorsi nell’opera di Samuel Beckett (Joker, Novi Ligure 2009), Temperamento Sanguineti (libro + DVD; Joker, Novi Ligure 2011; con Tania Lorandi), ALLARMUS Sanguineti. Edoardo Sanguineti, Francesco Pirella e l’Archivio Museo della Stampa di Genova, (Joker, Novi Ligure 2015). E’ inoltre curatore di diverse raccolte di aforismi e testi teatrali. Ha composto musiche per pianoforte, per complessi cameristici, per banda e per coro. Attivo nel mondo della ‘Patafisica, è Reggente del “Collage de ‘Pataphysique”. Ha ideato alcuni libri-oggetto tra i quali Aforismario da gioco (Edizioni Joker, Novi Ligure 2010). Ha pubblicato anche diversi scritti di argomento musicale e cinematografico su riviste specializzate («SuonoSonda», «Musicheria», «Costruzioni Psicoanalitiche», «Arts and Artifacts in Movies» etc.).

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ALFREDO RIENZI – POESIE SCELTE da “Notizie dal 72° parallelo” (Joker, 2015) “Iróstene di Sitzia”, “Terza giornata di Kristian Rosenkreutz”, “Vincent B. sceglie una fotografia per il corredo funerario”, “Una domanda di Irma C.”, “Julius, volgendo le spalle alla nave”, “Di Arcadio e di un suo pensiero fluttuante”, “Anosh riconosce l’inganno e gli ingannatori” , con un Commento di Giorgio Linguaglossa, un Appunto dell’Autore e uno stralcio della quarta di copertina di Sandro Montalto.

foto New York City

New York City

Alfredo Rienzi, nato a Venosa nel 1959, risiede dal 1963 a Torino, dove esercita la professione di Medico. Ha pubblicato in poesia: Pianeta truccato, elusioni! (Torino, 1989), Contemplando segni, silloge poetica vincitrice del X Premio “Montale”, in Sette poeti del Premio Montale, (Scheiwiller, Milano, 1993); Oltrelinee (Dell’Orso, Alessandria, 1994), poesie, Premio Città di Torino 1996, segnalato al XIV Premio Montale. Ha pubblicato Simmetrie(Joker, 2000) Custodi e invasori (Mimesis, 2005) e Notizie dal 72° parallelo” (Joker, 2015).  E’ pubblicato, tra le altre, nelle seguenti antologie: L’addomesticamento del bue (Il grappolo, Salerno, 1991); Opere d’inchiostro 1991-1995 (Assessorato alla Gioventù, Torino, 1995); Parole e forme per il terzo millennio, (Ed. Ippogrifo, Torino, 1997); Antologie de poezie piemontezâ Poeti piemontesi contemporanei, Pref. di Elio Gioanola (Ed. Studia, Cluj-Napoca, Romania, 1998); Florilegio per il terzo millennio (Campanotto, Udine 1999). Ha tradotto per il Centro per lo Studio delle Letterature e delle Culture delle Aree Emergenti dell’Università degli Studi di Torino testi da OEvre poétique di L. S. Senghor, tuttora inediti. alfredorienzi@libero.it

Commento di Giorgio Linguaglossa

Le allucinazioni ipnagogiche sono esperienze intense e vivide che si verificano all’inizio di un periodo di sonno e avvengono spesso in aggiunta alla cosiddetta “Paralisi nel sonno”. Paralisi nel sonno o paralisi ipnagogiche. È molto difficoltoso per il soggetto distinguere l’allucinazione dalla realtà.  Alcune volte le allucinazioni ipnagogiche possono costituire un’esperienza piuttosto spaventosa, specialmente perché l’illusione consiste in soggetti terrificanti. La scienza medica ci dice che nel momento in cui si vive l’esperienza, l’approccio migliore consiste nel riflettere che tutto ciò che si sta manifestando non è reale e calmare il proprio panico di fronte a queste illusioni (visive, tattili e uditive) in quanto si alimentano delle stesse paure del soggetto dormiente, e infine scompaiono lasciando il posto ad un sonno ristoratore.
Si può dire che Alfredo Rienzi ha imparato a fare tesoro di questo genere di «disturbo» e lo ha tradotto in una vera e propria poetica. Una poetica della notte. Ha imparato  a riconoscere l’allucinazione come parte integrante della condizione umana e a trascriverla in poesia. Si può affermare, con una certa approssimazione, che la poesia di Rienzi è parente del sogno e delle allucinazioni uditive e sensoriali, se poi queste sensazioni siano esperienze reali o virtuali è una materia che esula dalle competenze di un critico letterario, l’importante è averle individuate e riconosciute sul piano letterario. Poesia ipnagogica, dunque, che utilizza un piano basso del linguaggio per un contenuto alto e desultorio. Che sia Iróstene di Sitzia che parla (un filosofo inventato) o altri, non importa, nello stato di dormiveglia tra veglia e sonno, non c’è più distinzione tra il reale e l’onirico, tra il vero, il verosimile e il falso; in realtà chi parla, parla dal 72° parallelo:

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Conosco l’inganno e gli ingannatori
la frode e i frodatori
e mi lascio ingannare, e frodare
perché so stare al gioco e compiacere
il bagatto e la sua asta e la giocoleria del suo occhio alboreo.

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parla ad un ipotetico uditorio posto nel futuro passato, ad una età senza tempo e senza passato, ad una civiltà umana affetta da amnesia del tempo. C’è una «enfasi di fango» in una «città» ritrovata, c’è una «tana del gambero» dispersa nei ricordi onirici, ci sono cose irriconoscibili e dimenticate, emendate e cicatrizzate che ritornano negli incubi allucinatori… anche lo stile fonde in maniera originale il tono sapienziale con un lessico sobrio, giocato soprattutto sullo straniamento tra sostantivi e aggettivi. Direi che lo stile, affatto demotico, si adatta bene alla curvatura del contenuto piantato e conficcato bene nell’ordito di una sintassi che vuole indurre il lettore a credere nella dimensione di mezzo, nella dimensione ipnagogica, che il reale è ciò che è irreale, e viceversa. Insomma, la poesia di Rienzi, da sempre, ha lavorato in questa direzione, e in quest’ultimo libro si ha la sensazione che il poeta abbia raggiunto un risultato estetico davvero tangibile. Dopo la lettera di Alfredo Rienzi, presentiamo i brani iniziali del libro:
Evgenia Arbugaeva Weather_man_04-1

Evgenia Arbugaeva Weather_man

Torino, 17 dicembre 2015

Carissimo Giorgio
ecco, per il più vorace e acuto (e apprezzato!) indagatore e conoscitore di poesia contemporanea il mio ultimo e sofferto contributo…
Come siamo arrivati qui? Il silenzio, evidentemente, non è esercizio del quale il poeta sia capace, nonostante la consapevolezza della polverizzazione delle voci, delle forme, dei contenuti, dei linguaggi, delle occasioni, ecc ecc.
Per un certo tempo ho creduto quasi sinceramente che la Parola postuma, cui hai donato la tua preziosa prefazione, fosse davvero una dichiarazione di resa. Dire nel vociare massivo, equivale, di fatto a dire ciò che non può essere ascoltato, né letto, quindi equivale al silenzio. Ma il silenzio, sostengo da tempo, è potere esclusivo degli dei (e ben praticato!). Quindi tra la saggezza del non dire e la necessità connaturata alla parola, ecco che mi sono trovato a raccogliere, stimolato da Sandro Montalto,  materiali sparsi degli ultimi dieci anni e, scenograficamente, anziché sostenerne l’ambizione a costituire una poetica, un linguaggio, o almeno il contorno un poeta, li ho relegati a ciò che metonimicamente è la poesia di oggi, credo in maniera abbastanza vicina alla tua visione.
La voce narrante rinuncia alla sua centralità, non tanto per l’espediente, se vuoi anche ingenuo, della galleria di personaggi, ma perché non ha più, all’orizzonte, una centralità di tralicci linguistici. Subisce indifferentemente spostamenti linguistico-narrativi disparatissimi e qualsiasi progetto di costruzione è troppo alieno alla frantumazione-polverizzazione dei materiali di riferimento. Con Notizie (plurale, allusivo non a tematiche omogenee ma a, appunto, a singole annotazioni, peraltro “lontane” come a qualcuno potrà sembrare alludere il 72° parallelo che, in realtà è retto da volontarie o involontarie polisemie o da inarticolabili squarci anagogici) ho preso coscienza che non c’è più, o non c’è ora, quantomeno, la volontà di edificazione di nulla, nemmeno di un’architettura interna al libro (sezioni, linguaggi, referenti…). Chiaro che la scrittura non è anarchica o impulsiva, il verso abbastanza lavorato, la medietà linguistica aborrita il giusto e la tensione sempre abbastanza verticale e le ridondanti epigrafi vagheggiano universi poetici ai quali ancorarsi, ma non ipotizzabili ora (anche se qua e là, epigonicamente – come ti piace dire – o embrionalmente e con discontinuità qualche eccezione si può vedere).
Spero che tu riesca a darne una lettura. Con sincerità sei ancora uno dei pochi dei quali si ha certezza di avere una lettura competente e sincera. Sono molto contento di quanto il tempo ti stia rendendo in termini di riconoscimento e autorevolezza: molti pigolano e passano, tu resti e sei un riferimento ineludibile. “L’Ombra delle Parole” è veramente magnifico e pieno di rivelazioni.
(Alfredo Rienzi)

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Un appunto per una possibile Nota dell’Autore

“Si parla di ‘poetica’ di un artista, quando egli stabilmente raggiunge […] caratteri peculiari e costanti nella frequentazione delle sue opere, ossia quando egli diventa ‘riconoscibile’ nella sua arte con continuità e stabilità.”
Questa definizione di poetica, del compianto Gianmario Lucini, nell’Introduzione del I volume di Poeti e poetiche, del 2012, ha avuto il potere di focalizzare la mia cronica inquietudine per concetti quali, appunto, la ‘riconoscibilità’, la ‘cifra stilistica’ e simili. Come se nei conflitti sempre urenti che fondano buona parte della necessità poetica, il doversi preoccupare o almeno occupare del proprio abito stilistico, del replicare se stessi, potesse determinarne uno forse superfluo o implosivo. Come se nel proseguire la propria navigazione nei sicuri canali già percorsi si aggrumasse col tempo il rischio ferale della in-espressività, del plagio di se stessi. E’ probabilmente questo un mio affanno lucidamente ossessivo; è certo, invece, che in molti casi l’ossessione è quella di ripetersi, di confermarsi, di spendersi con l’invariabile moneta con la propria effigie. È probabile, d’altronde, che esista anche in questo campo dell’agire umano quell’aurea via mediana, così facile da teorizzare, quanto, nella realtà, difficile da trovare e impossibile da percorrere.
Nonostante il sistematico progetto di depistaggio e mascheramento, potrebbe anche accadere, in queste Notizie, di scorgere sedimenti e tracce che rimandino a un minimo comune denominatore del mio ascoltare e ridire, passato e presente. Se così fosse, lo considererei un piccolo passo verso il noto tempio di Delfi.
(Alfredo Rienzi)
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Evgenia Arbugaeva Slava_observatory-

dalla quarta di copertina di Sandro Montalto del libro “Notizie dal 72° parallelo” Joker 2015 pp. 72 € 13

Il vastissimo poema di Rienzi (…) ci ha abituati a un linguaggio raffinato e vario, e a una attenzione formale tanto esplicita quanto aggraziata. Una poesia di contenuto che non raramente recupera intenti a loro modo narrativi, o almeno evocativi: brandelli di sapienza antica, ma sempre verificata sotto le sollecitazioni dell’oggi, che assumono volentieri l’aspetto di apologhi di eterna saggezza. Ma questo sfondo di narratività non deve far pensare ad un cedimento verso i territori dell’abbassamento prosastico, della rinuncia alla complessità o del lavoro sulla lingua e sull’immagine: si tratta semmai di un recupero di modelli mediorientali e orientali (si cita addirittura Omar Kayyam), ma anche di certa poesia dell’Europa dell’Est, o all’esperienza di poeti come Borges (con Borges la poesia di Rienzi condivide diverse metafore fondamentali, disseminate lungo il suo percorso poetico: basti citare la rosa, il fiume, la notte, la spada, il viandante). E proprio riflettendo sull’essenza di questi modelli può risultare chiaro un certo senso di “sacro” che aleggia in questa poesia: il senso di una parola “pesante”, carica di valenze, che concretizza percorsi non di rado per aspera ad astra e nel suo farsi a tratti ieratica significa il suo non voler dimenticare la difficoltà dell’esistere. Una parola che non dimentica la sua piccolezza di fronte alle immensità che vuole esplorare, ma anche consapevole della propria forza e della dignità della propria missione…
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Evgenia Arbugaeva Weather_man

Poesie scelte di Alfredo Rienzi da “Notizie dal 72° parallelo”, Joker 2015 

Di qua scorreva lento il fiume (lo so:
la metafora è come annegata nelle sue stesse acque).
Il mare attende e la sorgente tace
non considera del tempo la linea
il cerchio o il decimale
della costante universale.
Ascoltavi di me contraddizioni
e dei flussi e con mani di rugiada
lavavi il fango dai miei piedi.

Iróstene di Sitzia

Imparo a farmi acqua
contro la lama della spada
aria al morso dei lupi che invadono le soglie del visibile
il tragitto dell’arma mi attraversa
come la mano il fumo dell’incenso
imparo a farmi chiarore
all’occhio calunnioso del corvo.

.

Beniamino ricorda invito e promesse di uno sconosciuto
nel giorno del settimo compleanno

Siedi vicino a me, nella pausa tra i tuoi giochi
ora che ti ha toccato la vergine spada del tempo
che il più immaginario tra i tuoi amici da giorni si nasconde
appena dopo averti rivelato
che le nuvole e il fiume sono la stessa cosa
la stessa cosa il pianto e il mare. Siedi
ti dispenserò il rito della nascita e dell’ascesa al monte
il nascondimento nella grotta
l’agguato al drago e il balzo
col peso come fossi sulla luna
il decollo che attende la caduta
la medicina che non guarisce la malattia che non hai.

.

St. Y. invia notizie dal 72° parallelo

Il vento qui solleva i fogli
carte come colombe, notizie decadenti
il battito d’ali è innaturale

non si compirà l’aereo tragitto

io sto, col mio debito stampato
sul petto come ecchimosi
una virgola oscena in mezzo agli occhi
un liquido indelebile di sangue
e il peso scriteriato dell’usura

a noi portatori sani dei mali
del mondo, recalcitranti ma in fondo
buoni consumatori
quale fu il dubbio non espresso,
la segreta ragione
la segreta ragione…?

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Terza giornata di Kristian Rosenkreutz

L’avvenimento ebbe remota origine
sì, c’era luce, e forse anche troppa
e rendeva incerti i bordi delle ombre
gli odori erano netti ma incoerenti
le aringhe profumavano di frutta
il latte alitava come aceto e via di questo passo

insomma c’era qualcosa nell’aria
che rendeva inconoscibile il luogo
familiare – tra la città e la torre
anche l’arco dei rondoni fletteva a formule inadatte al volo.

Come fu possibile che nessuno s’accorse dell’inganno?

Il nemico era lì, appena oltre la notte.

scoppiarono in lamenti i condannati
penosamente, in suppliche e pianti,
tardive preghiere, genuflessioni

Il barbaro mostrò la coppa d’oblivione
ma era ancora il dolore da patire
così la versò in terra (un’arida terra
che per tre giorni disconobbe l’erba).

Noi osservammo tremanti ed accucciati
all’ombra dell’acacia.

Ci volle molto tempo
prima che tutti fossero impiccati,
decapitati, affogati nell’acqua
o giustiziati in altri orrendi modi.
Il giardino, prima così affollato,
divenne sempre più vuoto
e alla fine
solo restarono, muti, i soldati.

Il tuo pianto imparò il silenzio.
A cosa servì l’orrore
l’osceno rito di sangue e fango?

Poi ci lavammo mani
e capo alla fontana.

Alfredo Rienzi

Alfredo Rienzi

Vincent B. sceglie una fotografia per il corredo funerario

È quella in cui sei tu nel campo di grano ancora verde
e il delirio di papaveri che canta il canto dell’indomata silfide
per tutte le creature visibili e invisibili nel cielo
che scende fin sulle cime dei pioppi

lo so, l’immagine è venuta un po’ sfocata
e sovraesposta quanto basta a credere che sia d’un altro luogo
dove la terra e la materia poco a poco si diradano
e il fuoco può passare oltre la pelle senza bruciare e diventare sangue

tu sei di lato e guardi in una direzione dove s’abbracciano
la vita e la resurrezione
e mostri il profilo e la sua bellezza di collina
e un’incisura che accenna ad un sorriso senza causa

riponila il giorno del passaggio vicino alla mia mano destra
che possa nei primi passi oltre il confine mostrarla ai custodi del cammino
e chiedere di aspettarti anche in quell’Oltre.

 

Una domanda di Irma C., pittrice d’alberi, a un monaco basiliano

Come puoi allo stesso modo amare
– chiedevi con le labbra appena mosse –
la vittima e il carnefice, chi dice
e chi tace, chi sceglie e chi attende
al bivio, fermo, il santo o l’uomo lupo?

Guardavo, mentre addolciva l’aria
un canto in genovese, i tuoi occhi
tra il grigio e il verde antico, né lustri né opachi.

Ti risposi non lo so, mi viene naturale e cercavo
quale mano in te fosse dell’una, quale dell’altro.

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Jan N. K. svela ipnagogie alla sua concubina

Ripensai alla tana del gambero
sulla riva del torbido fiume
e mi vidi salpare da Nantucket
dopo una notte che si denudò
dalle sue tenebre senza fare niente altro che attendere
rievocai quel calore quasi lieve del liquido che scende
dalle spine attorno al capo
e salmodiai tra me e me come l’unguento che scende lungo la barba di Aronne
finché il dolore non fu così forte da smascherare la menzogna e urlare
e tu molto ottusamente mi chiedesti
se avessi più paura a partire o a restare…

Ma tu hai conosciuto mai qualcosa vivere
e riuscire a restare immobile?

Eys, nella prima decade di maggio

Ho visto sai le querce anche fiorire
senza rumore, un grado di colore
attentamente scelto, con la modestia tipica dei forti.

… e ricordi le maschere che a caso
abbiamo scelto e posto innanzi al volto?
C’era disordine nel magazzino: tu ne prendesti una da regina
o dama d’alta corte, la mia era nera e non riconoscesti
più neanche l’occhio che ti guardava con disperso amore
la voce che sapesti distorta negli orgasmi
e il senso del mio dire, del mio stare.

.
Ingannevole epilogo del ciclo di Yibel

L’inizio fu una voce
lo schermo del sogno ancora nero
come al cinema quando il narratore
anticipa la scena che verrà
il morso del lupo fu improvviso
ma Yibel pensò che fosse ora di smetterla coi lupi
che stavano ripopolando i monti
con fatica di tutti, lupi, uomini e capre
e che non si dovesse ancora abusare
di luoghi comuni, dannosi a tutti,
lupi, uomini e capre…
Poteva bastare: il morso fu improvviso.

Poi comparve la scena, ma, si sa,
nei sogni le figure hanno spesso
contorni incerti e molli
o cambiano senza che neppure si capisca
cosa siano in origine e cosa vogliano diventare
e negli incubi il tutto è peggiorato
dal ritmo che impazzisce (troppo veloce o troppo lento)
e da un respiro che rapprende l’aria in pietra.
Allora… (io non so farlo, ma sembra
dai grimoires facile come bere un calice di birra
– la metafora con l’acqua, non stupitevi, s’userà sempre di meno…)
…allora si dispose ad osservare
come uno spettatore indifferente
quelle visioni inafferrate, quella pena
senz’occhi, e comprese come quella fosse la realtà.

.
Un ignavo rivede la propria fine

Non ci fu volontà in mezzo al fiume
le acque erano placide ed opache
nel caldo di luglio, la sponda sabbiosa

mi parve indifferente tornare a riva
o lasciarsi portare dalla liquida mano:
e l’una e l’altra parola chiedevano

di essere pronunciate, nella scelta:
ma il vero ignavo fino in fondo resta
equidistante: né dramma né commedia

fu assecondare i flussi sonnolenti…
Non ebbi certo volontà di morte
ma credo sia stata la vita, offesa, a ritirarsi.

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Julius, volgendo le spalle alla nave

«Che tu possa piangere come un violino
Ridere come petalo toccato dal raggio»
(L. Ionas)

Sto infisso nella terra
– di chiodi e arbusti, ibrida semenza –
nell’armatura esigente del mio soma
con i quindici o i cent’anni che espongo
secondo il vento o il luccichio dei fiori
nel lampeggiare d’un settembre caldo
come non ne ricordo negli ultimi trent’anni.

Sta suo malgrado intorno a me la vita.

Deanna sul treno regionale veloce 10270

Le ore furenti e umide dell’amore
le riprese accelerate sul bianco
tumulto delle nuvole e l’immobile
turchese dove s’adagiano le Dominazioni.
Le sparse tracce sulla neve, poca,
la direzione della loro lingua
in alfabeto estinto senza che pietosa mano ne avesse
indicato le curve, il loro allontanarsi
l’andare e il tornare, il puntare attorno all’asse del mondo.
I treni nella notte, le stelle (o i lampioni) nella notte
i ventosi spiriti nella notte.
Cosa salvare, cosa offrire al Moloch?
Duramente concede la domanda
scelte multiple, silenzi, attese…

.
Di Arcadio e di un suo pensiero fluttuante

Mi conosci questi pensieri
non dimeno mi parli di felicità, e io ascolto.
(M. Luzi)

Svenduta la sua casa familiare
gli somiglia di più l’attuale condizione
d’affitto, d’ospite a scadenza.
Ha nuove mura e un comodo scrittoio
i vanagloriosi o dolenti oggetti
le risorte cornici, le penne dei rapaci.
Ma cosa è suo, cosa gli è prestato?
Meglio, così, si specchia ogni mattino
il suo pensiero fluttuante d’instabilità
e il suo abitare i vani grigio chiaro
e gli scuri del cranio, del torace e
il palco d’ossa da ristrutturare:
stesse regole per l’uso e la scadenza,
sola differenza, in questa sua materia,
un prezzo più alto e un tempo meno concordato.

 Anosh riconosce l’inganno e gli ingannatori

«Lontano
si lamentano i cani e confonde
l’insonnia gli errori della vita ».
(G. Lucini, Istruzioni per la notte, I.)

Conosco l’inganno e gli ingannatori
la frode e i frodatori
e mi lascio ingannare, e frodare
perché so stare al gioco e compiacere
il bagatto e la sua asta e la giocoleria del suo occhio alboreo.

Gli alberi erano bianchi:
di neve o di fiori non importa:
dell’una o degli altri l’impermanenza
ho appreso e il trucco dell’apparire e del mutare.
Voi dite: è naturale
ma anche il tempo come il mare è a volte qualcosa di abissale.

Così l’ingannatore mi sorride
ingannato dalla mia falsa resa
e il frodatore annusa il molto nulla
che gli ho concesso, lo soppesa, mostra
ai suoi sodali quel che pensa esserne
il centro, lo stringe tra pollice e indice
si accanisce sui margini di fumo
ma non giunge a farsene un’idea
a estrarne un asterisco, un duepunti, una moneta falsa o fuori corso.

Gli alberi erano rossi:
di frutta o di sangue non importa.

.
Jazim Alahany

Osservava passare nubi
non (ripeto: non) silenziose
ogni residuo del cielo suonava
e c’era come odore di cenere
sulle città
una guerriglia oscena
per la parola non vera
ma ripulita e ornata come un’alcova

c’era al suolo un inutile sudore
una chiassosa finzione di pianto
per le strade, e una sconveniente
enfasi di fango.

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