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Franco Falasca, malinconie smargiasse, poesie 2011-2022, fabio d’ambrosio editore, 2023 pp. 180 € 15. Lettura di Marie Laure Colasson, i lettori sono evaporati, adesso preferiscono attività redditizie come passeggiare nei giardinetti pubblici, fare shopping o guardare lo smartphone o dedicarsi allo sci a Bardonecchia con la neve artificiale sulle montagne calve

Franco Falasca

Franco Falasca, poeta romano, ha fondato nel 1973 l’“Ufficio per l’Immaginazione preventiva” e, dal 1973 al 1979 l’Ufficio realizza pubblicazioni tentando di ampliare o indefinire la nozione di arte e letteratura: S.p.A., Roma; Imprinting, 1975-79, Roma, rivista di sperimentazione e linguaggio. Falasca giunge da lontano al nessun luogo di oggi; si è interrogato, ha fondato riviste, pardon, “Uffici”, ha sperimentato linguaggi, ha messo in discussione la nozione di arte e di letteratura, e tanto altro ancora e di più per approdare oggi, a cinquanta anni di distanza, ad una poesia sibillina, disillusa e perplessa che oscilla tra la conversazione ordinaria e un aforismario culto. Falasca nel 2008 fa propria la triplice parola d’ordine del gruppo de  “I Catamoderni”, secondo i quali “la modernità è andata a fondo/ si intende andare al fondo della modernità/ essere moderni “fino in fondo”.

nel fodero della giacca

E certo che Falasca reca cucito nel fodero della giacca della sua memoria storica gli eventi della storia d’Italia e della storia della poesia italiana di questo cinquantennio, ha soppesato, problematicamente, tutte le sue onorevoli sconfitte e anche quelle disonorevoli, non si è mai posizionato tra i vincenti, ma ha scelto deliberatamente e consapevolmente di optare per una poesia che prendesse le distanze da ogni posizionamento centrista e/o opportunista, che non facesse sponda al cliché della poesia del cliché maggioritario. Il fatto è che la sua poesia vive bene quando sta nel paradosso, come quella di un suo illustre compagno di strada, Mario Lunetta (1936-2017), anche lui romano, che abitava in via dell’Accademia platonica, poeta materialista, paradossale, fustigatore dei costumi della poesia e del mondo letterario e politico dell’ancien régime e contro corrente tout court; ma il corto circuito non finisce qui, la verità è che un poeta scomodo come Franco Falasca, così poco emotivo e così impoetico, che non ama gli emozionalismi, i patetismi e il poetico, e per giunta ateo che fa una poesia priva di codice, in specie il codice dei sentimenti, come acutamente annota Francesco Muzzioli nella post-fazione (essendo la poesia di Falasca un gioco retorico e per giunta ossimorico e antinomico che si posiziona agli antipodi della facile digeribilità o riconoscibilità, essendo Falasca un poeta affatto emotivo e niente affatto fideistico), non può trovare certo sollievo nelle belle di notte e nelle margherite, nelle anime belle e straziate di dolore che oggi abbondano nelle sillogi maschili e femminili. In questa raccolta di testi che svariano dal 2011 al 2022 si può notare il girovagare testamentario e calvo dei testi alla ricerca di se stessi, come attori alla ricerca del proprio personaggio, come se ogni volta la pagina vergata si rivelasse insufficiente a trovare una collocazione stabile sul foglio di carta. Falasca è di là, in cucina, a preparare una lasagna, mentre il testo è in corridoio, bussa a tutte le porte alla ricerca di un lettore ermeneuta che lo dichiari quale testo poetico, ma non lo trova perché non lo riconosce. È un mero luogo comune quello che vuole che un testo poetico trovi il suo lettore nell’orizzonte di attesa, meglio non trovarlo che sopportarlo-supportarlo in cattiva coscienza direbbe Franco Falasca. Damnatio della poesia moderna rimasta senza lettore (e senza autore) e che continua a vivere come nel mare le alghe che vivono il loro letargo.

«Con questo mio io… non voglio complicità/ né comunione alcuna»

Come la filosofia non progredisce (se accettiamo per progresso l’accumulo di risultati che si susseguono), anche la poesia non progredisce né regredisce (non soggiace alla logica economica del progresso né conosce crisi di recessione ma semmai di latenza), semmai conosce tempi di stasi e di ammutinamento. In tempi di stagnazione linguistica c’è di che domandarsi: A che pro? E per chi? E perché scrivere poesie?

Fortunatamente, la crisi spinge ad interrogare il pensiero, a rispondere alle domande all’ordine del giorno. Come ogni crisi economica spinge a rivedere le regole del gioco, analogamente, ogni crisi politico-stilistica spinge a ripensare la legittimità dei fondamentali: Perché lo stile? Quando si esaurisce uno stile? Quando sorge un nuovo stile? Uno stile sorge dal nulla o c’è dietro di esso uno stile rivalutato ed uno rimosso? Che cos’è che determina l’egemonia di uno stile? Non è vero che dietro una questione, apparentemente asettica, come lo stile, si nasconda sempre una sottostante questione di egemonia politico-estetica? Non è vero che, come nelle scatole cinesi, uno stile nasconde (e rimuove) sempre un altro stile? Non è vero che l’egemonia mediatica piccolo-borghese della poesia italiana del secondo Novecento (come ha affermato di recente Giorgio Linguaglossa) «ha contribuito a derubricare in secondo piano l’emersione di un «nuovo stile» e di una diversa visione della poesia? Non sta qui una grave incongruenza, un nodo irrisolto della poesia italiana? C’è oggi in Italia un problema di stagnazione stilistica? I nodi irrisolti sono venuti al pettine? C’è stato in Italia un problema tipo collo di bottiglia? Una sorta di «filtro profilattico» nei confronti di ogni «diverso» stile e di ogni «diversa» visione?». Io direi che la stagnazione stilistica è da tempo ben visibile in Italia e si è manifestata con la spia della disaffezione dei lettori verso la poesia del minimalismo e del micrologismo. Nel frattempo i lettori sono evaporati, adesso preferiscono attività redditizie come passeggiare nei giardinetti pubblici, fare shopping o guardare lo smartphone o dedicarsi allo sci a Bardonecchia con la neve artificiale sulle montagne calve.

Fatto sta che la poesia di Falasca, dopo un lunghissimo andirivieni durato mezzo secolo è giunta alle porte di una poesia a suo modo limitrofa a quella kitchen, nei toni e nei semi toni e in certo aforisteggiare nichilisteggiante come nella poesia “tu che non esisti” che adotta una grammatica emotiva priva di costrutto, con una imagerie extra large, ultronea e quasi, direi, in modalità kitchen, oltre che in certe deflagrazioni semantiche sardoniche, autoironiche e auto derisorie che apparentano questi testi alla migliore poesia modernissima. Eccone alcuni esempi:

(Marie Laure Colasson)

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Poesie di Franco Falasca da malinconie smargiasse

Le astronavi del conscio

Un colpo di vento
fece volare le etichette
che definivano le cose
e di netto si piombò nel caso.
Un ippopotamo fu un tachimetro,
una incudine fu una allitterazione
il rame divenne un carro
l’anatomia divenne un calice
e la terra divenne una carrucola.
E irriverente
tra l’incudine e l’allitterazione
irriverente
la rosa scriveva di suo pugno
un sonetto
accatastando ossimori di cuoio
nella mente contratta
dell’indios.
Brivido di Dio
si apparenta con le mosche
e l’incudine ascolta una pietra
recitare un canto tenue
sul tavolo ricoperto
di tartarughe.
Occhio alla birra
al sonetto ed al secchio.
Rilegature navigano nell’oro dei cortili
e brividi trebbiati
si spezzettano nei cassetti
della curia.
Occhio ai brividi
e alle gioie bagnate
sotto gli ombrelli allitterati
gioiosi come le teste di bronzo
sulle astronavi del conscio. Continua a leggere

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