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Ladislav Fanta: I paragrafi della memoria, Try to Remember, a cura di Antonio Parente

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Domanda: Può contestualizzare per noi la sua composizione poetica ‘Try to remember’, che qui presentiamo?

Risposta: Con l’età sento una crescente riluttanza a ogni genere di puntualizzazione generalizzante. Non esiste una formula per la comprensione della vita, che sia nel tempo o nello spazio. Vale a dire: a partire da un certo punto, è meglio lasciare che le cose fluiscano liberamente, seguendo il proprio percorso. Meglio se con lo sguardo silenzioso verso il mondo che ci circonda, in modo che si possa sviluppare un flusso stratificato di idee, impressioni e associazioni, con le quali il nostro mutevole io cerca di entrare in contatto con la storia del suo tempo. Determinare o precisare quanto l’uomo si trovi fuori chiave. In questo senso, questi avvenimenti di giorni andati e dimenticati possono essere visti come un tentativo dell’autore di far rivivere il profondo sentimento di smarrimento e dissociazione vissuto nel mezzo di una piccola città dove si trasferì nel 1990 e dove trascorse alcuni anni successivi. Forse si tratta della denominazione della “tendenziosità”, sopravvissuta in noi, e sulla quale si può ancora contare, nonostante la realtà fangosa e impersonale. Con nostalgia per ciò che va allontanandosi …

*

La rivista ha pubblicato, sempre su l’Ombra, una intervista con Ladislav Fanta a cura di Antonio Parente:

Intervista al poeta ceco Ladislav Fanta (1966) a cura di Antonio Parente, Topazi e giovinezza, Composizioni in cornice di Lucio Mayoor Tosi, “linguaggio di immagini concrete, materiali, senza alcuna censura, senza stilizzazione, artificialità di stile, laconicità e antiletterarità, l’impressione di piante secche, stantie tirate fuori da un vecchio erbario, Il tempo dei manifesti, delle raccolte di firme, di sfide e dichiarazioni aperte attraverso le quali i surrealisti si pronunciavano sui problemi del tempo, devono a mio parere registrare un cambiamento di prospettiva”

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Ladislav Fanta, Try to Remember

(In memoria di Jiří Havlíček*)

… the kind of September
Harry Belafonte ft.Tom Jones

Amico, tempora mutantur et nos in illis – i tempi cambiano in modo imperativo – e noi con loro
Quando tutti vogliono avere il proprio idolo una figura amata senza spigoli
Che spuntano direttamente da noi o da qualcuno a noi vicino
La propria pietra tombale su un nobile piedistallo pieno di profondi inchini tiepidi
sul quale crescono grandi rivelazioni di granito solidificato nella flora
come un turista sperduto
Nella paglietta di spiacenti imbarazzi sopra il nastro strappato
Di Dio solo sa quanti piani quinquennali
I feticci del vecchiume nostalgico ma dove sono finiti
Sembra che siano stati bevuti come una limonata stantia e il supervisore si copre d’ortica
Piantare nuovi declamatori e attendere con curiosità che li impolverino di cenere di interiezioni indistruttibili
È una necessità alla quale alla fine in qualche modo prima o poi arrivano tutti coloro che demolirono il Muro di Berlino facendone pezzi che inviarono come ricordo di tempi passati – con magnifiche scritte e pitture – ai loro parenti
O anche li vendettero in cambio di valuta pregiata agli stranieri portati dal vento sulla vasta pianura tedesca
Sculture fantastiche che sono ormai un pezzo di folklore già passé
Come la moda fuori dal carcere
Nel tuo caso metà totem o stenogrammi di sculture animali e nel frattempo (senza sentimento) anche un pezzo di villaggio slovacco
Non li si può separare l’uno dall’altro i tuoi falò ironici ne sono prova sufficiente
Una quantità infinita di ieri smarriti – lo spazio che continua a crollare
Quando si risvegliò in te il sangue degli antenati da tempo indurito e la scultura fu solo un ritorno istintivo ai luoghi dell’antica origine
Ceppi-radici senza doversi preoccupare di come vivere
Ma anche espressioni africane di gioia dolore e degli altri stati emotivi espressi con lo scalpello intagliati in linee morbide sfumate selvagge e che si abbattono nuovamente l’uno sull’altro e l’uno contro l’altro nella schiacciante brutalità animalesca della protocreatura
Sono io stesso un primitivo che gode per la trillante tensione dei massi erratici molto più che per l’adunata di tutti i tahitiani di Gauguin
Non affrettarti rallenta ciò che in ogni caso non può sfuggire
In questo gioco all’idea della più grande comodità e utilità di ogni secondo si gioca in effetti ininterrottamente al domani
Ecco perché il tempo scorre infallibilmente a margine
E ogni poco come se nulla fosse dal caos emergono le forme del mondo originale nuovamente crollate

*

Non resta che continuare a piedi percorrere i paragrafi prolissi fino alle ultime bozze
che stridono nel dormiveglia
Voler carpire i fremiti fittizzi nelle punte dei rimbombi onirici
E cercare di tradurli in fonemi simili al volapük
Sfregare l’accendino e squadrare il presente
Col peso refrigerante del silenzio notturno
Il mondo imbevuto di fumo cinereo di un bar mal ventilato e di esalazioni
Poco inebriante come i suoi bozzetti che in questo momento nella penombra del mattino tendono l’agguato nel cassetto della cucina
Con una scorta di algen radepur e altre delizie candidi regalini tondeggianti capaci di presunti collegamenti con l’aldilà
(ammettilo, Jenda di Kozlowski, così sei convinto o almeno credi)
Al piano di sotto
Invano frughi nei tubetti vuoti dove è rimasta soltanto la fine polverina bianca delle pasticche
La tarda estate di san martino sul viso dove passano le fugaci ragnatele della stanchezza
In assenza di cristalli insaporenti degli scaramucciatori rauchi del confine
Di chimere
Il meprobamato si apre il varco con le briciole di morfina
Dal cervello una polvere infernale
A malapena riesci a tenere aperti gli occhi dai quali in perenni rivoli densi scorrono i nervi come dalla grondaia
Sui parati cancerogeni in giallo canarino
Nel caf’ conc’ con la mano volta ancora in direzione della grafica colorata dell’Associazione per la Repubblica-Partito Repubblicano della Cecoslovacchia
Quando l’oscurità ha cominciato a lacerala.

*

Sulla tela solcata da sentieri di sabbia e profumata di morbide stradine c’è quasi silenzio
Solo occasionalmente si sente un colpo cupo
Risuona il clic del bidone dell’immondizia o l’impugnatura sonante della secchia
Honza Vaidner inforna nella stufa una sfilza di mattoni di ecrasite
I colpi assordanti del silenzio assoluto
Il meriggio a Šternberk è capace di riecheggiare cavo e vuoto
Sia in vicinanza che a tiro
Tutto ciò che è stato diverso e sarebbe potuto essere il contrario
Un’estate leggermente sbiadita al chiosco con la nebulosa di vini rossi
Dalla vela sporge solo la parte superiore del manganello alleggerito dal risciò
Dagmar Močičková-Pospíšilová Ngern Kratúnek-Cambogia
Entrambi presi in custodia dopo una festa di sette ore al ristorante bangkochiano Brehmen dalla radice di ginseng come ospiti non paganti
È un’opera musicale che si compone dei diversi suoni prodotti durante la spillatura e la mescita della birra scura
Con riferimento alla testimonianza bibliografica dei randelli di bambù
Sulla spilla da balia agganciata alle labbra truccate
Sopra il cavaletto da pittore di forma insolita ma piacevole
Somiglia alle fette di torta simili ad un dolce a più piani o alla fisarmonica dei Picasso Kryvošej Pospíšil j-a-Havlíček
Abbattere le circonvoluzioni cerebrali col rum frettolosamente spruzzato sull’antichissima regione boscosa del cortile
Lasciarsi cullare dalla serenità della domenica non ancora appensantita dall’arrivo dei cambiamenti sgraditi della tinta dei capelli
Ricordare le inondazioni di formule chimiche con le quali in età adulta abbiamo imparato a dire amore
Capire perché tutto cade a pezzi sotto le mani al calore che concilia il sonno del silenzio dei fischietti di osso
Errare con lo sguardo nervoso sulle pareti vuote passare rapidamente per la stanza buia e attendere
Predestinare alla decrepitezza fisica agguindolarsi tra le cose completamente fuori campo
Poi di nuovo a sinistra qua e là scalcinare a poco a poco i muri incollare e di nuovo staccare un paio di sguardi del tutto irrilevanti
Sentire l’alcool e qualcosa che ricorda i funerali e i cimiteri che con un delicato crepitio si scioglie lentamente nelle nostre bocche
Quelle cose che vengono alla mente di quasi tutti noi solo che nessuno vuole dirle ad alta voce
L’infrangersi di cristalli ironici tra decine di isolette traslucide
Catturare l’attimo del contatto spesso appena riconoscibile che molte volte ignoriamo con una breve occhiata che non dice nulla che si attacca ai lati di un annuncio funebre appena incollato
Quelle pungenti battute ad esempio sui morenti che sfogliano sul letto di morte il catalogo delle bare o sull’impiccato ad un albero accanto al quale un’altra persona controlla se l’orologio gli funziona ancora
Poi inutilmente essere alle prese con un manoscritto spesso illeggibile dare il benvenuto allo sbandieramento
Continuare la litania in proprio tirando il fiato in solitudine e nel vuoto
Inevitabili ed anche aneddotici
Andare sempre negli stessi bar insieme a Vlad’a Mazoch sapere che Eisestein finì come un buddista
Consumare l’alloggio dell’immaginazione fino a svuotare l’appartamento
Al piano avanzato dove gli sniffatori di toluene condirono le narici con il rapporto forse incomprensibile ma comunque esistente tra l’uomo e la sostanza volatile
Come se ora mi scricchiolassero ancora tra i denti dei minuscoli granelli di sabbia penetrata anche dalle finestre ermeticamente sigillate della stanza e che in mezz’ora ha coperto l’intero pavimento con uno strato spesso

*

Dall’apertura di una tendina di perline colorate entrano i cercatori di funghi
Risolversi per un reciproco discorso emotivo e carezzare la testa arruffata
La pioggia battente
Abbiamo bisogno del polo opposto – gli ioni positivi
Crepe crostali che attraversano la calda lieve brezza notturna le dita sul corpo
Lunghe strisce di polvere e sabbia
L’impressione di pochi minuti di confidenziale sincerità cancella la rotazione con l’interruttore elettrico
Ancora una volta guardare l’eccesso di luce scintillante d’argento
Formazioni fantastiche di macchie esplose come se venissero da una bottega di arte astratta
Una voce fumosa lentamente e con chiarezza esagerata spiega come dove si calcolano i prezzi di pasti caffè tè
I nostri cuori con la loro magia
Per noi è rimasta a lungo indecifrabile come una discarica di ossa di mammut
Già di per sé in qualche modo ci avvicinava a voi e voi ancora a noi
Un gustoso ricordo – le schegge dei fiammiferi tagliate molto sottilmente
La naivité perfidamente raffinata del maestro Vojkůvka l’articolo sicuramente voluto sul mercato interno ed estero
“I flagelli semi stagionali” dello scultore Kuba che dovrebbero piuttosto essere notati dai venditori di souvenir
“I nostri semi comuni, le fiamme dalle pigne” – sono qui di nuovo come prima
“La proteina della pesantezza che scorre nel mio sangue blu con l’idea dello sfondo di Magritte”
— certo certo
Un certo signor Šabo cala sulle ginocchia dei quadrati di cartone imbrattati legati con la morfina allucinazioni ricalcate con precisione
Uno di noi o qualcun altro che conosciamo seduto nella sala al tavolino
Ai disegnini nascenti spesso dedicano un ghigno e ai loro autori assegnano gangli atrofizzati
Non è solo tirare linee geometriche e spostare strani numeri
Ciò che è sfugge o si avvicina
Scivola sulla rètina
e infine senza lasciare traccia
languisce

*

In lontananza luccica ancora il pelo di una gatta silenziosa che fa le fusa
Qui tra la penuria e le spese impreviste da qualche parte inizia un posto desolato nell’universo
‘Lay by’ come dicono gli Inglesi
È tornato il tempo – il tempo zero
Afferrò la mano con un fiammifero bruciato e la dimezzò
Le unghie con lo smalto rosso sbrecciato
È interessante come si rievochino delle linee ondeggianti che avanzano inesorabilmente nell’acqua della teiera gorgogliante
Sono tornate le acque stagnanti
Il tempo morto alienato imbiettato sotto i coni arrotolati
di altre 24 ore su questo pianeta
Tempo zero zero nulla
Riceviamo il suo presente dai programmi televisivi
Quell’armonia incorniciata della giornata umana
Tutti i luoghi li proiettiamo nel microscopio dei ricordi
Quando come in uno stato di trance
(senza esercizi di concentrazione yoga)
premiamo le dita sulle corde dure

*

Albeggia
Negli angoli di molti luoghi scintilla ancora l’emisfero opale
delle lampade sul soffitto
E forse anche per l’ultima volta la nostra isola mitica
ricoperta dal tappeto di “cigli” d’aneto
Correr fuori per dieci minuti a comprare il giornale al chiosco
Imbucare nella cassetta postale cartoline colorate
In breve le rughe che disegnano l’estate
Prima che entri in gioco l’estremità della consunzione
Intanto tocca la liscia ringhiera lisa la cui vernice negli anni è svanita per gli innumerevoli tocchi
Risuonano i passi ma poi scende di nuovo il silenzio
Nei tubi scroscia l’acqua non potabile

*

Il giorno è iniziato
Il tempo della siesta permanente con una sensazione di fame
Fuori c’era il rifugio per il fuoco la facciata che si sfalda
La vita uguale ad oggi
Con le chiavi della porta d’ingresso e i tramonti ambrati
Abbiamo ascoltato le invocazioni dei profeti locali
grati per ogni espressione di benevolenza e comprensione
Papà dei demoni e fratelli dei rasoi elettrici
Ota Nuc circondato da un alone di stato di aggregazione solido
I quanti di esprit le materie di rum
(“Vivere l’inferno”)
Tozzo bruno la Cambogia con il volto corroso dall’acido
Con il potere e la ricchezza cresce anche il suo ego
E la paranoia
Enormi case galleggianti di mondi assenti
Giornate tristi quando ci imbeviamo di acqua che imbratta il vetro in strisce opache
Spazzatura scarabocchi sui muri
Il riverbero delle posate e dei bicchieri
non lavati
Che veleggiano verso distanze illimitate
Il kung-fu di questo recidivo ci spinge all’angolo: l’apertura di appartamenti devastati
Dove perdiamo il collegamento con noi stessi
La pompa – avvio manuale ed elevazione – un calcio o un pugno
Con la macchia di fumo di sigaretta
Quando il profumo dell’autunno si spande nella pineta
Girandola e terminale elettrico
Il flusso di molecole la fusione continua degli incastri
Ma vuoi di più
Un trattamento incerto goffo fuori dalla vita
Dove ogni anno fa ritorno
Lungo un sentiero di conifere
Dietro muri spessi incisi di ornamenti tratteggiati
E con l’intonaco imbevuto di meditazioni di molte generazioni di muffa

*

Mandala è un rimedio per la psiche e per il corpo
L’effetto alone dei riflessi insonorizzanti
dei vetri delle finestre
Quando si permette loro di diffondersi per l’intera anima
Come un’euforia pervasiva
È facile lasciare tutto e andare in lungo e in largo
Sento la tua voce dire che gli yogin a Lhasa sono in grado di distruggere e formare intere galassie
Mentre per strada corrono gli ultimi suoni senza senso
Sono quasi sul punto di andarmene quando improvvisamente dalle finestre della cucina si alza
La pelle di un flauto latteo
Da qualche recesso emerge un ricordo
Sul piano luminoso della vecchia credenza sfregiata con i calciatori della Bundesliga
incollati
Camminiamo lungo la scala e il corridoio
Senti il fruscio della carta sotto i piedi
Ma tutto è improvvisamente indifferente
Già si dovrebbe sviluppare in qualche modo
Sul lato opposto si spalanca
La porta della foresta
Rivelando che oltre non c’è nulla
Ládík, vecchio drago
La via polverosa non esiste più
Passo di là e penso chissà cosa stai facendo
I terreni di quelle case si restringono dopo la scarificazione
Vi germina l’erba sudanese
Vi passa il vapore invetriante degli sguardi con l’eyeliner pronunciato
Del mare affinché suoni come un vecchio
Com’è davvero l’attimo
In cui si passa ad altri pensieri?
L’ingiallimento del bianco degli occhi del fibroso fungo erubescente

*

Sì, era allora – allora …
Con ogni secondo che passa si ricopre in oscillazioni di angoli dentellati
E tutto ciò che è mio è vostro vicini e fratelli e tutto ciò che è vostro è mio
Si è trasferita la tomba indiana
Si è trasferito il circo della musica concreta
Una sovrapposizione ritmica di periodi sensibili
Ricordo come al servizio militare i nonni appiccicavano negli armadietti le pompe di benzina
I remi immersi in vernici di sale
La piazza d’armi dei turni del mattino
Ricordo
Sulle spalle Security
Lo chiamavamo Victor ugò in polvere
Il direttore del cimitero nel Tibet centrale tutto impettito in un metro quadro e mezzo di concentrato di morfina
Le lunghe ombre dei castani si diramavano sui lati
Le scioline spray Skare e Klister nell’impermeabile
In quel momento come se il nervosismo di qualcuno cospargesse questo luogo di impulsi elettrici
Con gli scapi cerati taglienti
delle antenne satellitari
Si è trasferito il frastuono dei bambini
Le stuoie naturali sulle sedie di plastica da giardino ingrigite del bistrò fuori sotto l’ombrellone
Dove l’aria si muove solamente in moto ondulato o deformandosi in pozzette
Proprio attraverso dei fori rinforzati per appendere gli anelli per evitare eventuali strappi delle tende
L’urto improvviso dell’angolo smussato di sbieco
Quando nei bicchieri scorreva da qualche parte il profumo di mentolo
E la presa era rilassata

*

Ci si sedeva negli angoli polverosi delle taverne
(è ancora possibile scorgerne l’acquoso contorno verde scuro)
Magari durante una piacevole domenica autunnale con le foglie ingiallite e il cielo azzurro
Nel sottoscala la corrente giocava con la porta di casa mal chiusa
Nell’arido deserto di fessure e crepe
Lentamente si zittiva il ronzio metallico
Nei raggi ultravioletti dell’energia solare ogni volta ti accoglieva l’oste Voska
anche con la corona
Di boccali spillati
Come una vibrazione appena percettibile del flusso d’aria
Gli inizi di incendio nelle pattumiere del palazzo comunale ad affitto modico
La scarica di adrenalina nel sangue
Ci si sedeva sotto un sottile e scintillante strato di polvere
Le particelle corpuscolari che spiovevano dall’abbaino ci investivano caldamente
col respiro di vecchie macchie stirate via
Il tempo dei vecchi tappi di sughero
Si trattava di fumo non ispirato
(come quando si esce sulla radura illuminata dal sole)
Nel mucchio di pietre gettate sotto la finestra
Dove i ciclisti raspano i loro cerchioni arrugginiti
Di rado parlava normalmente il più delle volte sbocconcellando come se
solo in quel momento concludesse il suo pensiero e cercasse di chiarire più a se stesso
che al suo interlocutore ciò che occupa tutto il suo tempo
Come a voler allontanare qualcosa senza senso inutile qualcosa che non c’entra
La vernice violacea sulle pareti dell’entrata
Ed era sempre così

*

Il dinner al rum di Honza V.
Toník Mangéra che leccava i sacchi da box
Fatti di sacchetti
Di sale
Mete esotiche:
Tankiš
Pálava
E con l’inizio della stagione del riscaldamento
La fine dei momenti di gioia
La vita è composta di opposti altrimenti non sarebbe
Come lo strobilo intatto delle suture craniche
Nella sala il calore del riscaldamento centralizzato col termostato
La vaccinazione antitubercolare 1 o 2 volte
I “reps” di Šternberk
Riempiti di ossigeno
Volenti o nolenti assumono la funzione simbolica del piccolo allevamento
Di votanti del partito di destra
Destinati ad una carriera in parte coperta in parte oltre
Il tetto di casa
Le bombole di nuvole di propano-butano

*

Ti vedo col ramoscello di maggio in mano che passi per la piazza superiore
Lo scorso anno vidi le tue opere nel catalogo della ditta Magnet-Camif SPA
Allora uno scoppio nella memoria
(quella un pochino consumata e coperta di terriccio)
Proprio sotto gli alberi sulle foglie cadute
Tenere sempre a disposizione una riserva di almeno due o tre soluzioni finali
In qualche momento ingarbugliato
Lavare la faccia con sverniciatori di smalti invecchiati
Tirar fuori dalla manica in compagnia di amici delle storielle e sul doppio foglio del giornale
Discutere su come eliminare la disoccupazione così come di Hegel seguire le relazioni nelle aziende apistiche determinare non so per quante volte ancora dove siamo diretti
Saper dislocare la creazione della Terra ancora più in là nel passato
Prima che il mondo si rovesci dalla curva a destra
Se si vuole col tempo abbassarsi e carezzare la sabbia lacustre finemente stratificata
nelle creme lenitive e protettive
E attraversare con lo sguardo la boscaglia bassa della rigogliosa vegetazione su entrambi i lati
delle marce tavole tarlate
Le ultime assolate ma già tristi giornate dell’estate di san martino
Che per un attimo scompare per poi subito riemergere
E perciò non resta che aspettare
Queste linee visibili come la schiuma omogenea di lunghe coperture dense di elevata stabilità
Oppure come strisce interrotte che scompaiono
veloci
Che si formano non lontano nel vapore di bicchieri con bevande calde
Il freddo inizia a irrigidirsi
La cenere si ingrigisce e si polverizza in zollette che poi si sbriciolano
Per alcune di queste cose non si può tornare indietro e io lo so bene
In principio questo bosco non aveva fine solo un santuario aperto e arioso
Su terreni di lieve calcare
Soltanto graffiare la superficie sotto la quale intendiamo penetrare
Giravamo per il nascondiglio dietro gli scuri vetri a tenuta stagna dei vuoti a rendere
Oli K. in bocca la sigaretta che dondola noncurante
Il respiro degli atleti sottoforma di pulviscolo acquoso
Si precipita lungo le calde pareti di questa preistoria
Il flusso di segnali intermittenti tra le ere glaciali ricorda ancora quelli che ci raggiungevano a nuoto
nelle rimesse abbandonate
Il twist di Popokatépetl delle conoscenze più basilari conservate nei codici genetici
Il corpo fusiforme di Tonda Ailaviù che si arrangiava nei saltuari periodi morti con i ballottini
con l’antigelo
Dietro le pareti del bianco accecante della vernice nitro
Il buio dal quale spuntano corpi variamente contorti e ritorti
Le labbra violacee che scaricano nastrini stretti di veleni azzurri
Le lunghe ore serali si trasformavano in deserti fruscianti in polvere
Míla Kučerák con i suoi indimenticabili Allora, eh?
Any evening, any day…
Lo sgorgare di bolle d’aria ad ogni passaggio degli aerei supersonici
Malakov – la torta di biscotti farciti alla crema
Allora d’estate bevemmo insieme una bottiglia di vino e la sera stessa da te esalano
descredenda di rammarico per il tuo ultimo bicchiere svuotato come nei “Cavalieri della Tavola rotonda” di Cocteau
Nel brindisi in bicchierini con scene di caccia dipinte l’hallalì
Leggermente acido sufficientemente umido diffuso orizzontalmente nella corrente gelata
Le lunghe ore serali che si trasformavano
In buchi tonchiosi
Con i loro viticci vegetativi e graticci divisori
Dei bei tempi andati dei riflessi bagnati.

*

Tutti ormai commerciano in tessuti svizzeri di seconda mano
In fusti speciali mescolati a palline di naftalina
a ritmo sostenuto fa ritorno il primo tocco del metallo freddo
Altre volte apri la portiera della macchina
Ti togli l’uniforme la getti sulla bastionata
Tutto è mimetizzato dai seni acuminati dei cespugli
Una grande crosta tutto ciò che non è possibile scansare né dimenticare
Qualcosa che comprenderai in una frazione di secondo
E il seguito continua a rimanere sconosciuto
È durato a lungo la muffa rodeva adagio la temperatura corporea
I Lebensborn manageriali nei locali di uffici di granito lucidato
Descredenda di rammarico
La vaga consapevolezza dell’infiammabilità del legno dal quale aleggia un fumo
leggermente tiepido
Piuttosto che lasciarla per principio senza risposta
Stop
Il Mahatma Gandhi lentamente si dilegua per via Sokolská
Toni – Musica – Buddha
E la gelatina per alimenti che non si rafferma altrimenti se lo facesse tutto il lavoro precedente andrebbe a farsi friggere
Fuori continua a piovere
Potrei raccontare a lungo di queste cose ma finirei solo per ripetermi
Fin dall’inizio ho la sensazione che sia un “testo – verità” o che almeno
con notevole successo cerca di farlo credere
Sì qualcosa del genere è dovuta realmente accadere
Quelli di domani difficilmente si lasceranno scappare qualcosa
Nemmeno se adesso ad un tratto si alza e dice che è tutto un nonsense che non è affatto
morto e non morirà che ha fatto soltanto uno scherzo stupido perché voleva verificare
come si parlerà di lui dopo la sua dipartita
Non possiamo mica fermarci dopo un inizio così ben riuscito, scemi
I fluidi contorni di poltrone pronte a gettare le impronte di altri sederi
Come Robert Graves nei Miti greci
Una formidabile opportunità di scorgere un’ultima volta il cielo
Ancor prima dell’importo annuale della luce solare

*

Come è strano che una decisione cambia tutto
La linea di vita: qualcuno è venuto e sei qui
Sei tu
Agente segreto Lemmy Caution alias Eddie Constantin
Che in un vecchio film di Godard insegna ai residenti dell’irreale Alphaville a spremere da se stessi la vitalità umana
Un ultimo sguardo alla brasserie e ai buffet degli agglomerati urbani
Dove nel fruscio della pioggia molto oltre la mezzanotte in qualche modo tutto cominciava a ingrigirsi
I volti di piombo ma gli sguardi del tutto normali nessuna pupilla dilatata come dopo aver ingerito oppiacei
Prendi per la maniglia ciò che solleva col gancio
La casa anche con i cavi dell’alta tensione
Un groviglio di corridoi comuni e spazi abitati per la dipendenza di molti di noi alla quotidiana
scatola di dolci sigarette cubane
Abitudini molli come frutta
Da qualche parte risuona la tipica tosse da fumatore
Il prezzo del dettaglio risiede in ciò che erige di continuo sotto gli occhi
Come rinvenimento della prova qui ci sono stato
Nelle stie separate dei cubicoli dei caffè
E dei loro grembi imbottiti

*

Ora già non più forse ma certamente
Dici tutto si è vissuto profondamente
Dal rinfrescante crepuscolo primaverile affluiva un viluppo di felci e equiseti
Come se qualcuno miracolosamente lo ravvivasse e gli infondesse una memoria prodigiosa per il viaggio di ritorno
Il tempo era più caldo brillante e speciale
Un movimento nelle crepe dei muri
Quando nella stanza si diffonde la penombra che gradualmente poi sprofonda nel buio e invano svanisce per la scala a chiocciola
I muretti serpeggianti che si estendono dal giardino verso il basso
Dove un venticello fonde la superficie dei mattoni
Come il bucato che si appende da solo sui fili
Diritto alle radici delle piante
Quando crescono tutto è cambiato

(1996, 2014)

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* Nota dell’autore: Jiří Havlíček (30. 3. 1948 – 2. 5. 1997), creatore di encausti, decalchi, mandala … Ma anche, come si legge in un articolo su di lui: “… Ribelle e stolto in Cristo. mistico e profeta traviato”, descrizione certamente calzante. Così l’ho conosciuto io. Amico-iniziatore più anziano con un senso dell’assurdità della vita e del tempo. Curato come schizofrenico sempre trimestralmente, quando apparivano episodi di questa malattia. Sembra fosse originario di Příbram. In seguito si spostò permanentemente a Olomouc. Non si sa molto degli ultimi suoi anni di vita, a quanto pare viveva nei boschi, e scendeva tra i comuni mortali alla maniera dello Zarathustra di Nietzsche … circondato da un branco di cani randagi (“Quest’albero è solitario sul monte; esso crebbe alto sopra gli uomini e gli animali”). Morì di appendicite perforata quando, nonostante le sue gravi condizioni, chiese ai medici curanti di firmare la lettera di dimissioni…

.

Ladislav Fanta nasce a Uherské Hradiště nel 1966. Completata la scuola elettrotecnica, lavora come giornalista e operaio. Importanti per la sua formazione furono gli incontri con gli artisti Jaromír Čechura, Hynek Šnajdar, Leonidas Kryvošej e con i surrealisti Jiří Koubek, Pavel Řezníček e Milan Nápravník. A cavallo degli anni 1980 e 1990 prese parte alle attività del gruppo informale di giovani artisti e scrittori attivi nella città di Šternberk, accomunati oltre che dalle percezioni ed espressioni legate alle tendenze mondiali, anche dalla necessità di ricollegarsi agli impulsi del movimento surrealista. Questa generazione di autori nati tra il 1964 e il 1966 rifiutò di accettare in bianco la democrazia esteriore e commerciale, che iniziava allora a far sentire la sua rumorosa presenza in Cecoslovacchia. La coulisse del paesaggio di una piccola città e i banali “utensili” della vita locale, così come gli originali personaggi che la popolano, saranno per lui fonte di ispirazione anche in seguito, in testi che inventariano il passare irreversibile del tempo. Insieme allo scrittore e poeta surrealista Pavel Řezníček prese parte alla pubblicazione degli almanacchi inediti del più antico samizdat ceco, Doutník (Sigaro), presentando una stretta cerchia di autori (K. Šebek, E. Válková ed altri). Sempre con Pavel Řezníček, è anche autore di una raccolta di prosa grottesca, Miss Mléko a jiné burlesky (Miss Latte e altri burlesque), scritta utilizzando il metodo della corrispondenza.
Il suo interesse per la storia moderna e più recente, unito a quello per la psiche umana, lo capitalizza in una vasta ricerca teorica, che si tradurrà in una serie di analisi storico-sociali, in pubblicazione. È anche coautore, insieme a Jiří Koubek, del libro intervista Ne Deník: k 70. výročí založení Skupiny surrealistů v ČSR (Non Diario: per il 70° anniversario del Gruppo surrealista cecoslovacco), sulla crisi del surrealismo e sulle sue prospettive dopo il 1989. È anche curatore delle opere inedite di Milan Nápravník, raccolte, per il momento, in un primo volume intitolato Prokletá slast a jiné eseje (Piacere maledetto e altri saggi, 2019)
(Estratto del servizio pubblicato su Poesia, n. 314, 2016.)

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Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa e Promenades nocturnes, Collage 30×40 cm, 2023, I collages vogliono accompagnare il passeggiatore durante una passeggiata notturna al lume dei fanali e delle ombre di una città. Il solitario passeggiatore è un cittadino anonimo di una città anonima, è un senza nome, è privo di identità, non sappiamo da dove viene né dove va, Analogamente, le sue poesie kitchen sono esercizi, ghiribizzi di personaggi solitari, di avatar che «passeggiano», schermidori che si atteggiano in atti di scherma… cioè esseri anonimi e eteronimi che «consumano» il tempo e lo spazio in quanto non hanno nessuna occupazione lavorativa. Il lavoro, sembra dirci la Colasson, è la Cosa che rende schiavo l’uomo, l’unico momento di libertà e di jouissance è l’atto gratuito della promenade, È lo stato di Emergenza che produce lo spazio

Promenade notturna 7 Collage 40x40, 2023

Promenade notturna 6 Collage 40x40, 2023

Promenade notturna 4 Collage 40x40, 2023

Promenade_nocturne_14 collage 50x50, 2023

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collages denominati promenades nocturnes di Marie Laure Colasson vogliono accompagnare il passeggiatore durante una passeggiata notturna al lume dei fanali e delle ombre di una città. Il solitario passeggiatore è un cittadino anonimo di una città anonima, è un senza nome, è un privo di identità, un immigrato, un clandestino che non sappiamo da dove viene né dove va. Analogamente, le poesie kitchen  della Colasson sono esercizi, ghiribizzi di personaggi solitari, di avatar che «passeggiano», schermidori che si atteggiano in atti di scherma… cioè esseri anonimi e eteronimi che non-consumano il tempo e lo spazio in quanto non hanno nessuna occupazione lavorativa. Il lavoro, sembra dirci la Colasson, è la Cosa che rende schiavo l’uomo, l’unico momento di libertà e di jouissance è l’atto gratuito della promenade nocturne senza capo né coda, senza «finalità» o telos, con il solo scopo di liberarsi dalla schiavitù del lavoro e dalla ideologia del liberalismo, come anche di quella del socialismo che vedono nel lavoro la massima realizzazione dell’uomo-cittadino, al pari della religione che vede nel lavoro dell’anima e nella liturgia dell’anima la massima realizzazione della interiorità religiosa. Il «lavoro» è un concetto della teologia trasposto e transvalutato nella economia del Capitale. Nulla di tutto questo nell’atto kitchen di Marie Laure Colasson e in quello della poiesis kitchen, qui c’è l’irrisione e la derisione per ogni atto che provenga dall’«io penso dunque sono» o dalla «interiorità» di Ignazio di Loyola; l’atto kitchen respinge il «lavoro» con le sue ideologie d’accatto (politiche e religiose) e le spedisce indietro, nell’aldi qua della vita terrena. Il kitchen è l’atto di non-compromissione, di rigetto della seriosità tutta ideologica dell’atto del «lavoro» e della sua autoconservazione intese in accezione teologica e in quella politica. Il Kitchen che dice «Preferirei di no», apre uno spazio di profanazione e di liberazione. E si ferma lì.

Promenade_nocturne_15_collage_50x50_2023

Promenade notturna 3 Collage 40x40, 2023

Promenade notturna 8 40x40 acrilico 2023

Promenade notturna 9 collage 30x40

Promenade nocturne 10 collage 30 × 40cm 2023

Marie Laure Colasson Ordo Rerum Struttura dissipativa

[Marie Laure Colasson, acrilici, Struttura dissipativa 50×50 cm, 2020 – «Io dipingo gli oggetti come li immagino, non come li vedo»]
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È lo stato di emergenza che produce l’immagine. È l’immagine che produce lo spazio. L’immagine fa lo spazio, fa spazio per altro spazio, rende possibile allo spazio di farsi spazio. Di più: l’immagine è la configurazione con cui si dà lo spazio nei linguaggi artistici, come avviene per le composizioni spaziali dei quadri di Marie Laure Colasson. Provate a togliere l’immagine dei colori dai quadri della Colasson, e tutto cade di colpo nella insignificanza amorfa.
La pittura della Colasson non è pittura astratta ma figuralità dello spazio, figuralità delle forme nello spazio, ricerca dello spazio mediante delle forme che emergono da un luogo di cui non sapevamo nulla. Delle forme abnormi, raccapriccianti sono sorte da uno stato di emergenza. L’inconscio che vive in un continuo stato di emergenza. Forme abrupte insorgono e lacerano il tessuto delle relazioni spaziali dello spazio che precedeva l’istante del loro insorgere distruggendo i fragili equilibri architettonici sui quali si reggeva la precedente costruzione spaziale. Queste Strutture dissipative indicano una emergenza, raffigurano questo insorgimento di forme abrupte che non conosciamo, di cui non ne sappiamo nulla e di cui non sospettavamo neanche l’esistenza. L’insorgenza dell’Estraneo è la tematica di questa pittura. Di qui il dis-equilibrio, il dis-formismo, il cataclisma, l’apocatastasi. Queste Strutture dissipative sono la raffigurazione dell’istante in cui una forma estranea irrompe nel nostro ordinato universo percettivo e ne diffrange il lessico e la sintassi, producendone l’implosione, la erogazione di un dis-servizio che viene ad infirmare la struttura di forme in equilibrio che preesisteva all’atto dell’insorgimento dell’Estraneo. Accade il trauma. L’insorgere dell’abrupto ci respinge, volgiamo lo sguardo altrove. Non possiamo guardare più oltre, cerchiamo inavvertitamente il corrimano della distanza, siamo costretti a prendere le distanze dall’abrupto. Ci accorgiamo di essere prigionieri di una contraddizione. Non possiamo avvicinarci a qualcosa che deve, per ora, rimanere a distanza, e non possiamo anelare alla latenza di ciò che vorrebbe manifestarsi nella illatenza. Mettiamo in atto istintivamente un distanziamento sociale.

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Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023, Poesie kitchen, La foto di due anonime gambe con calze rosse tratta da un manifesto strappato e desfoliato. La foto, ritoccata con colori in acrilico, è diventata un’opera «ibrida», «ultronea», astigmatica, daltonica, anedonica, inabitata e inabitabile, né pittura, né collage, né fotografia ma tutte queste cose assieme e nessuna cosa. Un manufatto senza identità è quello che meglio contraddistingue l’arte di oggi e l’uomo del contemporaneo che si limita a frequentare il tempo ma non lo abita, che frequenta lo spazio ma è un senza-spazio, che frequenta una fisionomia ma non possiede una identità, che è un senza-luogo, un senza-utopia, un atopos, un atomo che presto scomparirà nel nulla che si porta dentro di sé

Marie Laure Colasson Les choses de la vie
[Marie Laure Colasson, Collage, foto e acrilico, 20×30, 2020]
La foto di due anonime gambe con calze rosse tratta da un manifesto strappato e desfoliato. La foto, ritoccata con colori in acrilico, è diventata un’opera «ibrida», «ultronea», astigmatica, daltonica, anedonica, inabitata e inabitabile, né pittura, né collage, né fotografia ma tutte queste cose assieme e nessuna cosa. Un manufatto senza identità è quello che meglio contraddistingue l’arte di oggi e l’uomo del contemporaneo che si limita a frequentare il tempo ma non lo abita, che frequenta lo spazio ma è un senza-spazio, che frequenta una fisionomia ma non possiede una identità, che è un senza-luogo, un senza-utopia, un atopos, un atomo che presto scomparirà nel nulla che si porta dentro di sé… Ecco perché la migliore arte contemporanea è un senza-identità che rammenta una identità scaduta, come un medicinale scaduto, come un reato caduto in prescrizione che non è più perseguibile; l’arte di oggi rappresenta un androide che un tempo lontano era purtuttavia un umano, un mortale che aveva un destino… Le tesi Sul concetto di storia di Benjamin si concludono con una frase paradigmatica: “ogni secondo […] era [per gli ebrei] la piccola porta attraverso la quale potevaentrare il Messia”. Questo significa che ogni momento di ogni giorno, in questa vita e in questo mondo, è il momento (“cairologico”) delladecisione e dell’azione, il presente, e non il futuro, è il tempo della storia.
(g.l.)

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Gli esseri umani posti in determinate condizioni storiche percepiscono una certa rarefazione, un assottigliamento delle essenze, delle cose, quello che Heidegger chiama il nulla (Nichts) nel quale è immerso l’EsserCi, in questa particolare condizione avviene una dis-proprietà, una Uberwindung, una Gelassenheit, la poesia acquista una sorta di tonalità di fondo (Grundstimmung), una particolarità dell’essere-nel-mondo, uno stato emotivo proprio. Il “nulla” (Nichts) sarebbe il vero motore non visibile della poesia che avviene allorquando il poeta va oltre l’ente, eccede l’ente. È essenziale che l’autore faccia un passo indietro rispetto alle parole, le parole se verranno, verranno da sé, saranno loro a guidare l’autore. E con ciò l’autore sottoscrive la fine della sua autorialità. La «nuova poesia» reca il contrassegno della fine della autorialità, del soggetto plenipotenziario e della pratica discorsiva fondata sull’io.
Se leggiamo la prima strofa di una poesia di Marie Laure Colasson scritta prima del suo incontro con la poetry kitchen, nel 2019, ci troviamo di fronte ad una serie di tocchi da pittrice, ad un quasi impressionismo post-lirico, ma il passo successivo verso la poetry kitchen è stato subitaneo, perché era già inscritto nell’ordine del giorno. È importante questo mettere a raffronto una poesia pre-kitchen con una poesia kitchen, si avverte che è intervenuto un Evento imprevisto e imprevedibile, e il linguaggio è saltato via da tutte le pareti con tutti i suoi bulloni e chiodi che lo tenevano malamente malfermo. (g.l.)

Marie Laure Colasson

Roulement de tambour
La pluie
Une fleur rouge
Ses pas verts
Un envol cinématographique

Entre deux hommes
Un mort un vivant
Si différents
Comparaison confusion
Charlotte enfourche son Harley Davidson
S‘échappe

Les oiseaux
Flèches du ciel

Tanti tocchi che introducono ad una tonalità emotiva, ad un concerto di suoni e di parole che non hanno alcun rapporto tra di essi, ma che, tutti assieme costituiscono una «questità di cose», quella cosa complessificata che conforma una Grundstimmung, una tonalità emotiva di fondo. Ed è appunto questa la caratteristica della nuova poesia. In realtà questo «Nulla» è pieno di cose, di momenti, di esperienze, di sensazioni, di cose di cui non sapevamo di sapere.

Promenade nocturne 10 collage 30 × 40cm 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023

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Marie Laure Colasson
(da Les choses de la vie, 2022, trad. di Edith Dzieduszycka)

Roulement de tambour
La pluie
Une fleur rouge
Ses pas verts
Un envol cinématographique

Entre deux hommes
Un mort un vivant
Si différents
Comparaison confusion
Charlotte enfourche son Harley Davidson
S‘échappe

Les oiseaux
Flèches du ciel
Revêtent leurs combinaisons spatiales
Pour affronter les astres

“fleurs de nénuphars”
Dans la poitrine
Zaza enfile des vérités
Comme des perles
Avec humour

Sœur Candida de la perversion
Droguée de Sporanox
Pourtant la nuit …………

L‘astrophysicien
Observation au télescope
Couleurs et ombres
Changeant selon les heures
Se gratte le crane

Barbara et Rimbaud
Un voyage à travers les océans
“ allèrent (….) à la plage
Et firent beaucoup d‘enfants “

Langueur et envolées des violons
Cristallisations les yeux clos
Méditation de Massenet

Miss vitamines
A B C D E
Quatre-vingt milliards de probiotiques
Transformation subite
En poupée gonflable

Rullio di tamburo
La pioggia
Un fiore rosso
I suoi passi verdi
Un volo cinematografico

Tra due uomini
Uno morto uno vivo
Così diversi
Confronto confusione
Charlotte cavalca la sua Harley Davidson
Scappa

Gli uccelli
Frecce del cielo
Indossano le loro tute spaziali
Per affrontare gli astri

“fiori di ninfea”
Nel petto
Zaza con umorismo
Infila verità
Come fossero perle

Sorella Candida della perversione
Imbottita di Sporanox
Però di notte………

L’astrofisico
Osservazione al telescopio
Colori e ombre
Mutanti a secondo delle ore
Si gratta il cranio

Cambiano secondo le ore
Si gratta il cranio

Barbara e Rimbaud
Un viaggio attraversando gli oceani
“si recarono (…) in spiaggia
E fecero molti figli”

Languore e voli di violini
Cristallizzazioni ad occhi chiusi
Meditazione di Massenet

Miss vitamine
A B C D E
Ottanta miliardi di probiotici
Immediata trasformazione
in bambola gonfiabile

Promenade notturna 9 collage 30x40

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023

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E adesso una poesia kitchen inedita del 2022

2.

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[Umwelt fait en 2004, durée 1 h et 6 mn coreografie Maguy Marin
musique Denis Mariotte pour le Festival Equilibrio 2022]

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Panneaux miroir et six personnages
son musical assourdissant répétitif
infernal le souffle du vent entre les panneaux

Fragments du tourbillon de la vie
une pomme croquée à pleines dents
un sandwich dévoré
une serpillière esclave de la propreté
une defécation de 3 pantalons abaissés
des lampes électriques qui fouillent le sol
des fesses de femmes éclairées à cru
de dos 3 chadors orangés
des bretelles de salopettes que l’on replace
des sacs poubelle
les couronnes du pouvoir
des chapeaux pour toutes saisons
des robes insolentes unisexes rouges jaunes blanches
des disputes des viols
des actes amoureux sexuels
des déchets jetés sur scene

Le tout le peu le rien
les mâchoires grincent

2.

Pannelli a specchio e sei personaggi
suono musicale assordante ripetitivo
infernale il soffio del vento fra i pannelli

Frammenti del tourbillon della vita
una mela morsicata a trentadue denti
un sandwich divorato
uno strofinaccio schiavo della pulizia
una defecazione di 3 pantaloni abbassati
delle lampade elettriche che frugano il suolo
delle chiappe di donne illuminate a crudo
di schiena 3 chador color arancia
delle bretelle di salopette che si aggiustano
dei sacchi di immondizia
le corone del potere
dei cappelli per tutte le stagioni
dei vestiti insolenti unisex rossi gialli bianchi
delle dispute degli stupri
degli atti amorosi sessuali
dei rifiuti gettati sulla scena

Il tutto il poco il niente
le mascelle digrignano

Promenade notturna 8 40x40 acrilico 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023

6.

“Le concret – dit la blanche geisha –
c’est d’utiliser un parapluie
lorsqu’il pleut sous les peupliers au printemps”

Eredia qui savourait un hamburger d’insectes
répondit: “ou bien du gel dans chaque artère
mais également l’intelligence qui tombe dans une poussette d’enfant”

Les têtes d’abricots se foutent totalement
du bleu et du vert lorsque l’orage éclate”
répliqua Madame Green en fumant sa cigarette électronique

Le noir de Londres simulation vêtue de son contraire
prétendit “qu’au Musée Grévin l’on trouve
des phénomènes inanimés comme un piano liquide
des porte-jartelles de lézards en mutation
des masques qui se soufflent le nez sans faire de bruit”

“Et l’abstrait?! demande Bellmer
la réponse resta suspendue avec des poupées
démembrées au centre du temple de
Ramsès II où aboyait Kandinsky

6.

“Il concreto – dice la bianca geisha
è di utilizzare un ombrello
a primavera quando piove sotto i pioppi!

Eredia che assaporava un hamburger d’insetti
rispose: “oppure del gel in ogni arteria
ma egualmente l’intelligenza che cade in una carrozzella per bambini”

“Le teste d’albicocca se ne fottono totalmente
del blu e del verde quando scoppia il temporale”
replicò Madame Green fumando la sua sigaretta elettronica

Il nero di Londra simulazione vestita del suo contrario
pretese “che al Museo Grévin si trovano
dei fenomeni inanimati come un piano liquido
di giarrettiere di lucertole mutanti
maschere che si soffiano il naso senza rumore”

“E l’astratto?! chiede Bellmer
la risposta restò sospesa con delle bambole
smembrate al centro del tempio di
Ramses II dove abbaiava Kandinsky

(inediti, da Nuove poesie, 2023)

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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L’importante è essere quanto più possibile sopra le righe. Creatività sovreccitata, priva di contenuti… perché non ci si crede più, e i contenuti non ‘rendono’ nell’immediato (settore di mercato medio basso), come invece fa la brutta pittura, la quale perché sia convincente ha da essere ovunque e ovunque ripetuta. A patto che sia finta, chiaramente finta, totalmente finta, Poesia kitchen di Mimmo Pugliese, Raffaele Ciccarone, Poesia di Davide Galipò, Commenti di Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Collages di Marie Laure Colasson, collage, Complotto sul tetto del 1992

foto Complotto sul tetto collage

Foto Complotto sul tetto 3
foto Complotto sul tetto 4
Marie Laure Colasson, Collage, Complotto sul tetto, 90×18 cm. 1992

Il collage è per eccellenza un artifex del Moderno, è un vero-finto, in esso non si sa ciò che c’è di vero e ciò che c’è di finto, dove finisce il vero e dove inizia il finto; il collage nella fotografia è analogo al compostaggio in poesia, entrambe tecniche dell’artificio, prodotto seriale, serializzazione fatta in anonimato e in aenigmata; qui delle donne, presumibilmente arabe, anonime, colte di spalle, tengono un surreale colloquio in cima ad un tetto, forse stanno organizzando un complotto, forse no, stanno semplicemente conversando, ognuna con la propria solitudine, ognuna mediante discorsi criptati, messaggi in bottiglia… (g.l.)

Lucio Mayoor Tosi

Sembra che alle fiere d’arte che si svolgono ogni anno in moltissime città del mondo, i galleristi abbiano deciso che il pubblico apprezza il vero-finto; cioè, l’opera d’arte, affinché sembri tale, ha da essere totalmente finta. Da qui, dalla presa d’atto che il Reale si sottrae alla narrazione e che non sia raggiungibile dal senso, da questa rinuncia nascono immagini neo-pop il cui unico intento è quello di mantenersi sopra le righe: colori sfacciati, provocazioni fine a se stesse… scopiazzature in stile Bansky – totalmente dimentichi di Warhol o Rauschenberg – quindi un pop di finta denuncia, di ribellismo infantile, per dare un tocco di attualità all’interior design. L’importante è essere quanto più possibile sopra le righe. Creatività sovreccitata, priva di contenuti… perché non ci si crede più, e i contenuti non ‘rendono’ nell’immediato (settore di mercato medio basso), come invece fa la brutta pittura, la quale perché sia convincente ha da essere ovunque e ovunque ripetuta. A patto che sia finta, chiaramente finta, totalmente finta.

Questo dilemma, il vero/finto, è presente anche nella poesia kitchen. Alcuni praticano il tutto finto, il vero finto invece della illusione di avvicinarsi al Reale, ma ci si aspetta che il Reale possa far sentire la propria presenza tramite il totalmente inventato, il parossismo, lo sketch. Ci riusciamo? Io qualche dubbio ce l’ho. Il tentativo di abbassarsi, togliersi dal concettuale, deriva dalla rinuncia a operare entro canoni estetici e ontologici considerati obsoleti, ma ci riusciamo solo procedendo, nel deserto, con frasi gratuite e affermazioni sfumate e velleitarie, attraversando il totalmente finto. Penso che il “qui e ora” abbia poco a che fare con i messaggi in bottiglia. Purché sia qui e ora, senza l’inganno di un’altrove.

Raffaele Ciccarone

Ritagli minimi 1

Il merlo canta la Traviata alla Fenice di Venezia
Violetta incantata offre Dom Perignon ai presenti

Dopo un lungo viaggio il merlo accusa mal di gola
il tampone è positivo, il medico lo mette in gabbia per tre giorni

Robert Frost al ristorante Arlecchino mangia
bucatini all’amatriciana, un merlo recita “L’infinito” di Leopardi

dei poeti elegiaci in smoking vanno sul tapis rouge
a ritirare il premio di poesia, un merlo canta “Libiamo nei lieti calici”

tra il becchime il merlo preferisce quello biologico
shampoo d’orzo e farro perlato tra addizioni e sottrazioni di vitamine

Set 136

Si trattava di richiamare la rucola, visto che il limone si spremeva
per trattenere i pezzi di parmigiano sul carpaccio di bresaola.

La balena ingoia un rospo, lo rigetta sulla spiaggia, lo chef serendipico
prepara filetto di pesce con la coda dorata alla griglia in Piazza Castello

La bombola del gas non trova un forno a microonde a Venezia
mentre un coccodrillo litiga con un boa in gondola, nel giardino da nominare.

Il pregiato vino rosé blankpink fa due passi all’Expo Kitchen di Parigi
un bavarese offre birra parallattica bionda in assaggio.

Il fegato di merluzzo si spina per un posto al sole, il Vesuvio
gli offre crema abbronzata per rigassificare i canali di scolo.

Oltrepassati i portici una squadriglia di bombardieri lancia confetti serendipici
al cioccolato, dei merli li rubano al volo, le cannoniere fanno fuoco d’artificio

L'Elefante sta bene in salotto Cover DEF
L’Elefante sta bene in salotto. E questo è l’incipit del libro saggistico sulla Poetry kitchen (Progetto Cultura, 2022 pp. 221 € 18)

L’Elefante sta bene in salotto. Intanto, con la sua proboscide fracassa il vasellame, le suppellettili e i ninnoli; ci dice che siamo già oltre i confini del Moderno, che siamo in pieno Dopo il Moderno, nell’epoca del modernariato e del vintage come repertorio permanente di stili defunti che possono essere ripescati e riciclati; il SuperModerno ci dice che non c’è alcun elefante, che tutto è a posto, che i nostri dubbi sono in realtà miraggi, prodotto di scetticismo e di cinismo; che abitiamo il migliore dei mondi possibili e ci invita a costruire con uno stile patico le nostre abitazioni di cartapesta e i lungometraggi con i quali allietiamo le nostre solitudini sociali. Il Signor Capitale ci ammannisce la sordità e la cecità ad obsolescenza programmata, ci dice che l’ultroneo va bene per situazioni ultronee e va bannato, che il reale è razionale e che ci troviamo nel migliore dei mondi possibili e immaginabili. Viviamo come se si fosse a bordo di un sommergibile, respiriamo quanto basta, amiamo senza le isoglosse del desiderio e della passione, in realtà siamo tutti diventati apatici e atopici, cittadini di un mondo glocale e insociale. (g.l.)

Mimmo Pugliese

Uova di girasole

Dalle porte protese sul resto del mondo
una foglia sbanda sul ghiaccio

Ai cerchi concentrici lasciati alle spalle
si aggrappano tutte le membra del falco

Il respiro spigoloso trema sui vetri
motori sordi farciscono medaglie e cicatrici

Nel cerchio rosso più alto si erano radunati gli ottoni
le diatribe avevano ancora tutte le carte in mano

I sogni dei cavalli pendono dalla caffettiera
le asole sono le bocche della luna

Sulle sedie restano briciole di mercurio
ai posti di blocco derubano le zattere

Uova di girasole risolvono quiz d’intelligenza
quadrilateri sudati transitano nel cielo di Marte

Equilibri incerti si appoggiano alle pareti
alambicchi scontrosi si ribellano alle ulne

Cristalli di sale si spogliano nelle camere oscure
le nuove isole avranno dita verdi

Nelle tasche hai chilometri di cicale
in penombra vene varicose e persiane giocano a dadi

Nell’indifferenza generale

Nell’indifferenza generale il cammello scala l’Everest.
Le pentole hanno sapore di fieno bagnato
al mediatore internazionale è saltata la dentiera
e il mezzobusto sbriciola il gobbo.

Poco importa l’altezza al velociraptor
non suona mai al citofono
cura l’emicrania con il kung-fu
mentre gomme americane al gusto di vodka partoriscono amebe.

Fotoni girovaghi scolpiscono il marmo,
mettono il giorno sottochiave
nelle stanze dei carriarmati,
provvedono a dissetare l’acqua.

Il risveglio è sulle fronde delle scale,
pioppi disseminati di strade
maestri in pantofole dietro la lavagna
e la febbre che scappa dal termometro.

Greggi preparano testamento,
vanno a nozze gli ideogrammi,
allodole sulla collina sbirciano le ciminiere,
mettete al riparo i funghi.

Le barche hanno la pancia piena
non si fermano più al pit-stop,
adesso assaggiano la sabbia
è molto facile che gli dei rìdano.

Non sai mai

Non sai mai
se puoi raccogliere
stelle in una pozzanghera
comprendere il raspo d’uva
che svuota il Trasimeno
sentire il fragore di dei
che si nascondono in un menisco
e le scale musicali diroccate
uguali a tagliole
a campi minati di mirto
dissolti in un lenzuolo
con ai capi artigli
e bavero di gallio
in stagioni sfogliate al contrario
diademi di cubi cuciti sugli obici
dentro un pugno senza uscita di sicurezza
aspettando il prossimo volo
da un lato all’altro della testa
per scoprire gli angoli
di soli in esubero

foto Complotto sul tetto 2

Marie Laure Colasson, Collage, Complotto sul tetto, 1992

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Gli adulti assennati che sono stati educati alla poesia del Pascoli di Myricae (1891- 1903) avevano della poesia una rappresentazione illibata e intonsa, posizione che il Croce ha poi eternizzato nella la famosa forbice dicotomica: o è poesia o non lo è, risolvendo a suo modo, in modo semplicistico e al modo del liberalismo italiano post-ottocentesco una questione che avrebbe dovuto comportare una ben altra problematizzazione; quegli adulti poi sarebbero andati come ufficiali cadetti e soldati a invadere la Libia nel 1911 e a compiere massacri senza falsa coscienza e senza colpo feìrire… ammesso e concesso che le poesie del Pascoli avessero la funzione sanatoria di silenziare rimorsi (semmai ve ne fossero stati), le rimozioni e i dubbi sui massacri che essi stavano compiendo.
Oggi ai poeti post-pascoliani e post-minimalisti non viene certo in mente la situazione del mondo (di allora e di ora), quella cosa lì non li riguarda, infatti continuano a produrre poesie dozzinali ed epigonali che vengono incensate sul “Sole 24 Ore”; in confronto ad esse, le poesie di Mimmo Pugliese sono solo binocoli che osservano da molto lontano il mondo ridotto a fumo e cenere che il minimo alito di vento le farebbe volare via se non ci fosse il ferro di cavallo lontanissimo e quasi in disparizione della colonna sonora della poesia del Pascoli ma così scolorita da renderla irriconoscibile, e infatti irriconoscibile lo è la poesia di Pugliese, proprio come tutta la poesia della natura de-naturata e della natura de-formata della migliore e consapevole poesia di oggidì che fa capo alla poetry kitchen..

Quanto appare nel discorso poetico di Mimmo Pugliese come evidenza è questo aver superato le resistenze che il soggetto (je) pone all’oggetto, il linguaggio poetico; lavorando ad assottigliare le difese del soggetto Pugliese ha incentivato la possibilità di recepire il discorso poetico come discorso dell’Altro, discorso di un Estraneo che è entrato nella tradizione e la rilegge a suo modo e con i suoi occhiali. È questo che caratterizza la libertà del discorso poetico di Pugliese, il suo non prestare più il fianco alla vulnerabilità del soggetto, l’aver reso il soggetto (je) un Altro che rilegge la poesia della tradizione.

L’io (moi),  l’ego dell’immagine speculare, cioè quello del discorso poetico si oppone al soggetto (je) della parola degli altri, quello della tradizione; per dirla con Jacques-Alain Miller, «l’ombelico dell’insegnamento di Lacan».1 «L’io è», afferma Lacan, «letteralmente un oggetto – un oggetto che adempie una certa funzione che chiamiamo funzione immaginaria».2

Come sappiamo l’io costituisce un ostacolo al discorso del soggetto, che è il luogo in cui si esprime il desiderio. Lacan non cessa di sottolinearlo: esso è un’interruzione, un oggetto inerte che si oppone alla tenace insistenza del flusso di parola inconscio che disturba, mistifica, inquina il discorso. Nella misura in cui il soggetto trae godimento, l’asse immaginario è pensato da Lacan come un ostacolo che perturba l’elaborazione simbolica, di cui l’io non ne vuole sapere. Il linguaggio poetico avviene sempre e soltanto allorquando si verifica una smagliatura nell’ordine del Simbolico, smagliatura attraverso la quale può fluire il linguaggio poetico.

Contrariamente a ciò che comunemente si crede, il discorso locutorio della poesia di Mimmo Pugliese è sempre la voce dell’estraneo che entra nel discorso poetico della tradizione e la stravolge. La tradizione è ciò che si oppone al soggetto (je), che fa resistenza… fino al punto di cedimento in cui accade una rottura delle resistenze del soggetto (je). Solo da questo momentum il discorso poetico può fluire in quanto ha finalmente superato la resistenza alla riscrittura che le oppone la tradizione.

1 J. A. Miller, Linee di lettura, postfazione a J. Lacan, I complessi familiari, cit. p. 86
2 J. Lacan, Seminario II, cit. p. 56

Davide Galipò

Lo spettatore è introdotto
in una sala cinematografica
senza sedie, ai cui lati
vengono disposti degli altoparlanti.

Da questi si diffonde
una serie di discorsi alle nazioni europee
dei grandi dittatori del passato:
Mussolini, Franco, Hitler, Pinochet.

Avvicinandosi agli altoparlanti
possono essere compresi
nella loro interezza.

Sul fondo della sala, su uno schermo
viene proiettato un film muto
consistente in due labbra femminili.

Il filmato presenta poi dei frame
provenienti dai CIE libici:
radiografie di fratture, contusioni, traumi
che – spesso – vengono inviate
alle famiglie per chiedere un riscatto.

Le fotografie durano pochi secondi
e non vengono percepite dallo spettatore
se non a livello subliminale.

Man mano che il filmato va avanti
il volume dei discorsi alle nazioni aumenta
fino a sovrapporsi l’un l’altro.

Un suono acuto interrompe il brusio.
Sullo schermo un veloce montaggio
delle fotografie dei prigionieri libici.

Due altoparlanti all’uscita diffondono
il plagio di massa necessario
ad abbassare presso un’intera comunità
il livello di coscienza e accettare
passivamente tale prevaricazione.

Il testo è riportato integralmente
sullo schermo e scorre
a caratteri bianchi su sfondo nero
come i titoli di coda di un film.

https://davideidee.wordpress.com/2022/10/19/discorsi-alla-nazione/

Sono nato a Torino nel 1991 e cresciuto in Sicilia. Nel 2015 mi sono laureato all’Università di Bologna, con una tesi sulla poesia dadaista nella Neoavanguardia italiana. Nel 2016 ho partecipato al Premio Alberto Dubito di poesia e musica con il progetto spoken word music LeParole, arrivando tra i quattro finalisti. Nel 2020 sono arrivato in finale al Premio InediTO con il progetto spoken word music Spellbinder, menzionato dalla giuria tra i migliori testi di canzoni. Nel 2022 ho iniziato il mio progetto cantautorale, Galipœ. Sono autore delle raccolte di poesia visiva VIC0LO (2015) e di poesia lineare Istruzioni alla rivolta (2020) e degli EP Volontà di vivere (2016), Madrigale (2020) e La Terra La Guerra E Noi (2022). Dirigo il magazine «Neutopia – Rivista del Possibile» e organizzo il festival Poetrification, nel quartiere torinese Barriera di Milano. Sono referente del Premio Roberto Sanesi di poesia in musica. Vivo e lavoro a Torino come operatore culturale.
.

Finalmente un giovane che non scrive poesia epigonale. Una eccellente composizione che sembra senza futuro e senza passato, uscita fuori da una cinepresa d’altri tempi. Dinanzi ad una poesia dobbiamo innanzitutto soffermarci sul lessico (Mussolini, Franco, Hitler, Pinochet, sala cinematografica, altoparlanti, schermo, sala, filmato, caratteri bianchi su sfondo nero, film, titoli di coda etc.); in secondo luogo, sullo stato di cose, ovvero, sullo stato del luogo (un cinema); in terzo luogo, l’azione che vi si svolge; in quarto luogo, lo stile, in questo caso dichiarativo, ovvero, nominale, cioè che semplicemente espone le cose e lo «stato delle cose»; in quinto luogo, le immagini. Tutte queste cose insieme formano una rappresentazione, ovvero, una composizione di nomi di cose messi in modo tale da dare al lettore una sensazione prima ancora che una impressione. La sensazione contagia e determina l’impressione. Nel caso della composizione di Davide Galipò abbiamo una rappresentazione neutrale e neutrofilica, come se le cose venissero viste dal di fuori dello «stato di cose» e dello «stato dei luoghi», proprio come avviene al lettore il quale vede le cose dal di fuori attraverso una rappresentazione ortogonale tutta di superficie, in piena visibilità.
È chiaro a questo punto che qui siamo fuori della ontologia negativa del novecento che perorava che l’essere è ciò che non si dice, qui siamo entrati nell’ontologia positiva per cui l’essere è ciò che si dice.

(Giorgio Linguaglossa)

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Raffaele Ciccarone, sono del 1950, ex bancario in pensione, risiedo a Milano, dipingo e scrivo. Le mie poesie sono inedite per lo più. Per un periodo ho pubblicato su una piattaforma online con uno pseudonimo, circa un centinaio di poesie, e qualche prosa. Ho partecipato a gruppi di poesia a Milano. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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“Interverrà l’autore”, Poesie di Eva Tagher, Ermeneutica di Giuseppe Gallo, Erwin Blumenfeld, Collage, Marquis de Sade,

foto Marquis de Sade 1921 collage di Erwin Blumenfeld 24, 5 × 25

Erwin Blumenfeld, Collage, Marquis de Sade, 1921 24,5×25 cm

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Poesie di Ewa Tagher
TALENT SHOW

“Karl Marx… sei stato eliminato”!
La classe operaia ha deciso:
preferisce bere sangue e fango.

Ἰώ μοί μοι

Ieri per un guizzo, l’étoile de L’Opera
ha aperto il Palazzo della Borsa
e, sulle punte, ha giocato a dadi

-Sono stata promossa?-
-m a g n i f i c ! –

ἰώ μοί μοι

Le comparse di Cinecittà
prendono a calci i cestini,
rilanciano battute scritte per altri,
bluffano in coro.

ἰώ μοί μοι

Chi lascia sola Medea,
ha perso a poker
il coraggio del tragico.

ἰώ μοί μοι

La musica è così assordante
che la pioggia ha perso volume.

La neve ha perso due toni di bianco.
Siddharta Gautama ha perso il filo:
non ritornerà più.

HIC ET NUNC

Alla Porta di Magda
non bussa più nessuno.

Solo il vento,
con un calcio,
si fa carico dell’attesa.

In fondo alla strada
i ciottoli masticano
l’ultima luce del giorno.

Gli uccelli. Hanno freddo.
-Alzati o farai tardi!

Il tempo, materiale di risulta,
annerisce i denti.

Questo istante,
un rintocco osceno.

Perfino le orecchie urlano
che è troppo.

UMAMI

Il conforto della casa
una ciotola vuota.

Dove sono finiti
gli ultimi abbracci?

Polimeri,
nelle porcellane della nonna.

Ho schegge di ricordi
nelle orecchie
lo senti, almeno tu,
il tintinnio delle posate?

Al pasto mancano gli attori.
Il dramma della tavola
è stanco di ripetersi:

ha preferito l’India
e una ciotola di riso al tramonto.

VUOTO 1

Suona il corno.

Mentre contorci la bocca,
solo parole marce.

Cosa hai detto?

Hai parlato un dialetto
che non è la mia infanzia,
sibili,
una sabba di fricative.

Banditore!
Lo sai che la parola è sacra?

Un accento, un accenno,
combatti per la resa.

Un cane ti fa eco.

“Udite!Udite!”

Proclami,
un mucchio
di lenticchie.

“Sole a tratti”.

Un nuovo ordine
sull’Olimpo.

VUOTO 2

Torniamo sul ring.

Il marciapiede gocciola
gli umori di una notte fa.

“Vorrei che mi dicessi queste cose
Con un filo di voce”.

Parte un destro.

La tua faccia,
un cuscino di lava.

Ti rialzi.

“Ho solo un desiderio: tornare a dieci anni fa
E non riattaccare la cornetta del tel…”.

Gancio.

Impara a parare,
altrimenti finisci
nell’angolo dell’usato.

“… ho due biglietti
per Berlino, ci riproviamo?”

Su un tappeto di ortiche
inizia la conta:
10,9,8,7….alzati!

Su di te non una scommessa.

Piuttosto a piedi
fino a Capo Nord.

ADDIO ROUTINE

Stamattina gli abitanti di Roma Nord
sono scesi in strada.

I letti, nella notte, hanno ingoiato
chiavi, bancomat e forbicine.

Non sono più possibili
i ritagli di tempo.

Per le strade si discute
se scendere nelle catacombe
o lasciare la città ai nuovi venuti.

Qualcuno, per disperazione,
si accovaccia sui rami della tangenziale
e batte i denti a tempo.

La Pasqua non sarà trionfo di trombe.
Cristo si rifiuta di morire.

Gli piace pensare che
gli uomini siano inutili.

Per cinque minuti.

Poi piega con cura il sudario
e lo abbandona
sui binari del tram Casaletto.

[Ewa Tagher, trapezista presso il circo di Lubiana (occasionalmente si occupa anche di riassettare le gabbie dei leoni e dei dromedari). Spesso viene inviata dalla famiglia Dzjwiek, proprietaria del circo, alla ricerca di curiosità esotiche e fenomeni da baraccone.]

.

Intenti poetici: ho raccolto residui di cuoio, di cui si è sbarazzato il mastro calzolaio dopo aver sapientemente realizzato un paio di mocassini. I pezzetti di pellame sono bizzarri da rielaborare, sfuggono a qualsivoglia volontà di dar loro una nuova forma: ognuno ha già caratteristiche proprie. Nessuno è simile o uguale all’altro. Perciò mi sono limitata a collezionarli e a provare a dar loro un’identità. Di certo vi è che nessuno di loro ha dignità di diventare calzatura: qualcuno è uno scarto di lavorazione, un altro è un tentativo venuto male, un altro ancora semplicemente un errore. Le mie poesie sono errori di manifattura. (E.Tagher)

Ermeneutica di Giuseppe Gallo

Bastano sei componimenti a delineare il campo e i confini entro cui si aggirano i pensieri e le inquietudini della pseudo curatrice di gabbie Eva Tagher?
Penso proprio di sì. Le parole abitano un luogo che è fatto di spazio-tempo e di memoria. Le parole sono entità temporali. Nel senso che hanno un senso in quanto devastate dalla nostra presenza in esse, cioè (kantianamente parlando) sono il risultato dell’esperienza dell’Io soggettivo calato nel tempo. Non possono esistere parole se non frutto della nostra esperienza che si attua in questo tempo e in questo spazio, ovvero sono state caricate di quel senso che la nostra soggettività ha sperimentato. E che si esprime, però, rappresentando, ora e qui, le parole stesse. Le parole oggetto delle parole. La scrittura, ripete continuamente Giorgio Linguaglossa, non è un vestito o “un peplo” da indossare per ogni travestimento possibile e per illudere scenicamente i lettori o noi stessi. Il linguaggio ci abita e noi abitiamo il linguaggio. E d’altronde, “Il linguaggio- ci ricorda Agamben- deve necessariamente presupporre se stesso”. Non c’è scampo! Noi siamo intessuti delle parole delle nostre esperienze. Viviamo il linguaggio che ci fa respirare la vita e la morte.
Recitava Montale in Diario del ’72: “Non si è mai saputo se la vita/sia ciò che si vive o ciò che si muore”. Però sappiamo che senza linguaggio non possiamo accedere a nessun messaggio. Il linguaggio è lo specchio di fronte al quale “non possiamo essere o crederci altri.”
Allora, queste poesie o “errori di manifattura”, viaggiano tra due estremi. Tra la certezza iniziale della prima poesia:

“Karl Marx…sei stato eliminato”!
La classe operaia ha deciso:
preferisce bere sangue e fango.

e quella finale dell’ultimo componimento:

Poi piega con cura il sudario
e lo abbandona
sui binari del tram Casaletto.

Ewa Tagher

Questi due momenti delineano ciò che io chiamerei la “Storia di tutti i giorni”, altro titolo di una poesia del Montale del ’75. Una storia individuale e sociale. Soggettiva e oggettiva. Tra metafore e richiami della tradizione classica: il lamento “ἰώ μοί μοι”, “Chi lascia sola Medea”, “Un nuovo ordine/ sull’Olimpo”;
della cultura laica e borghese: “Karl Marx”, “la classe operaia”, “L’Opera”, “il Palazzo della Borsa”, “le comparse di Cinecittà”,“La Porta di Magda”, romanzo della Szabò;
di quella cristiana: “bere sangue e fango”, che evoca il vino e il pane dell’ultima cena, “…un mucchio di lenticchie”, quelle dell’ Esaù biblico, “La Pasqua non sarà un trionfo di trombe” o resurrezione, “Cristo si rifiuta di morire”, “Poi piega il sudario”;
e infine anche gli inserti simbolici, o simulacri, del mondo moderno: “…ho due biglietti/per Berlino”, “fino a Capo Nord”, “ha preferito l’India”, “Siddharta Guatama” e “Umami”.
Se questi sono gli elementi con i quali si è impastata questa “storia” di ordinaria follia quotidiana, da Cinecittà a Casaletto, da Roma Nord ai rami della Tangenziale, cosa si agita nelle nervature esistenziali degli abitanti della città e dei suoi quartieri, all’interno delle sue case e delle sue “catacombe”?

Il conforto della casa
una ciotola vuota.

Dove sono finiti
gli ultimi abbracci?

Polimeri,
nelle porcellane della nonna.

Ecco, pure a volerlo, non possiamo travisare, imbellettare o nascondere “le nostre piaghe”!

Torniamo sul ring.

Il marciapiede gocciola
gli umori di una notte fa.
……………………………
Parte un destro.

La tua faccia,
un cuscino di lava.

Ti rialzi.
………………………………
Gancio.

Impara a parare,
altrimenti finisci
nell’angolo dell’usato.

Il ring su cui si combattono continuamente questi round di “cinque minuti” ha un “tappeto di ortiche”.
Anche i luoghi della città sono un ring.

……………………………………….
Solo il vento,
con un calcio,
si fa carico dell’attesa.

In fondo alla strada
i ciottoli masticano
l’ultima luce del giorno.

Gli uccelli. Hanno freddo.
-Alzati o farai tardi!

Il tempo, materiale di risulta,
annerisce i denti.

Questo istante,
un rintocco osceno.

Perfino le orecchie urlano
che è troppo.

Ma tutto è un urlo! L’urlo del vento e del vuoto, l’urlo del corno, delle bocche contorte, delle parole marce; anzi l’urlo di quel “supervuoto” montaliano “duro come un sasso” o come un sampietrino di città.

Suona il corno.

Mentre contorci la bocca,
solo parole marce.

Cosa hai detto?

Eh, sì! Ecco, finalmente, l’interrogazione! Ecco la questione!
La richiesta è lecita. Leggevo in questi giorni un post di Lucio Mayoor Tosi su “L’Ombra delle parole” che metteva in evidenza la questione delle domande in poesia.

“Il punto di domanda è piuttosto raro in poesia. In poesia le domande sono sempre assertive, e non vi è dubbio che si preferisca la grazia delle risposte. Ma è altrettanto vero che gran parte del mistero – e il fascino – di tante poesie sta nell’apertura che si crea con la domanda; è in quella inguaribile sospensione che si affaccia il vuoto, quindi l’attesa…” ( L.M.Tosi, L’Ombra delle parole, 17 dic. 2019)

Eva Tagher, trapezista, volteggiando nell’aria, ha cominciato ad assaporare l’attrazione “inguaribile” della sospensione sull’orlo del vuoto…
La domanda “Cosa hai detto?” è rivolta a tutti. In primo luogo a lei stessa. Ecco dove sta il quid di ciò che chiamiamo poesia! È in questa pausa che interroga le inquietudini degli umani e l’impassibilità degli oggetti. Pausa che si scosta dagli sguardi degli spettatori del circo e attende…
Cosa? Un’immagine! Un’immagine che riporti sulla scena dell’esistenza quello altrove indicibile, imago di un deserto punteggiato da oasi noumeniche. E ciò che colpisce è che nell’attesa di questa immagine Eva Tagher non si straccia le vesti, non lacrima, non grida alla paralisi del dolore, all’innocenza perduta, all’io defraudato da se stesso. No! La sua è una pausa deprivata di suggestione lirica, di qualsiasi compiacimento eufonico e retorico. Tra le 489 parole di questi suoi componimenti ho riscontrato solo un aggettivo espressionista: “Il rintocco osceno del tempo” e poi altri tre o quattro aggettivi, ma tutti senza un cedimento al colore e alla descrizione, tipo: “ciotola vuota”, “parole marce”, “ultimi abbracci, “Un nuovo ordine…”

Ma si può fare poesia con gli scarti, con i residui del cuoio, già trinciato, del mastro calzolaio, come vorrebbe Eva Tagher?
E forse abbiamo altro? Grandi ideali? Teorie conclusive? Soluzioni finali? No! Abbiamo solo ideologie già disfatte e una comunicazione mediatica che pullula di schiume e di rifiuti. Abbiamo solo rimasugli, spazzatura e stracci, direbbe Gino Rago, ed è con questi brandelli, tarlati, urticanti e tossici, che dobbiamo confrontarci. Eva Tagher lo ha capito così bene che ne ha fatto un intento programmatico:

“ho raccolto residui di cuoio, di cui si è sbarazzato il mastro calzolaio”, “ I pezzetti di pellame sono bizzarri da rielaborare, sfuggono a qualsivoglia volontà di dar loro una nuova forma: ognuno ha già caratteristiche proprie. Nessuno è simile o uguale all’altro. Perciò mi sono limitata a collezionarli e a provare a dar loro un’identità.”

Tentativo riuscito? Non riuscito? Purtroppo lo sappiamo bene ormai tutti: quelli che tentano un balzo e un controbalzo negli spazi enfiati dei nostri tempi non possono che concludere i propri volteggi atterrando, sempre e comunque, su un “tappeto di ortiche”!

Metrica
Tutte le poesie di questa raccolta sono componimenti polistrofici. Variano da un minimo di 6 strofe ad un massimo di 13. Moltissimi sono i versi isolati e a sé stanti. Si segnalano solo 3 strofe costituite da quattro versi. Le restanti sono o di tre versi o distici. Cosa significa tutto ciò? Che Eva Tagher ha lavorato di bulino, eliminando il superfluo, liberando la propria versificazione dalle strutture omogenee e unilineari della tradizione. E non solo… ha abbandonato anche il concetto di metro quale unità di misura fissa e statica. Gli endecasillabi e i settenari sono rarissimi e quando compaiono sono senza la ritualità degli accenti, ma appaiono come sequenza prosodica rompendo la fluidità determinata dall’endecasillabo della tradizione.
Ecco qualche esempio:

“La neve ha perso due toni di bianco”
“Il tempo, materiale di risulta,”

Anche i settenari hanno lo stesso andamento:

“-Sono stata promossa?-”
“dove sono finiti…”
“Ho schegge di ricordi…”

Il metro e “la mensura” utilizzati da Eva Tagher, quindi, non fanno altro che rompere il ritmo e la rappresentazione fonosimbolica confezionando una struttura versificatoria “segmentata” e frammentaria, a immagine e somiglianza di quei residui verbali, o di cuoio, scartati dal suo calzolaio. Non vi sembra che “il pentagramma acustico e sonoro” della lirica nazionale sia definitivamente evaporato?

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Marie Laure Colasson Notturno 4 collage 30x30 cm 2007

Marie Laure Colasson, Collage, Notturno 30×30 cm 2010

Scrive Giorgio Agamben:
«Il pensiero è vicino alla sua cosa solo se si perde in questa latenza, se non vede più la sua cosa. È, questo, il suo carattere di dettato: dev’esserci la dialettica latenza-illatenza, oblio-memoria, perché la parola possa avvenire, e non semplicemente essere manipolata da un soggetto. (Io – è chiaro – non posso ispirar-mi).»
La conoscenza è, per Adorno, questo perdersi à fond perdu negli oggetti. Noi scopriamo gli oggetti solo quando ci avviciniamo alla «cosa» che non vediamo, che non possiamo vedere. La poiesis ha sempre a che fare con la «cosa», non con gli «oggetti». Pur moltiplicando gli oggetti fino all’inverosimile, alla fin fine ci sfuggono, si confondono, si perdono in una nebulosa indistinta.
Oggi una «poetica degli oggetti» dovrebbe tenere presente questa problematica. Gli «oggetti» non sono delle cose che puoi convocare a piacimento sulla pagina bianca con un decreto prefettizio o con un Dpcm del Presidente del Consiglio.
.
Scrive Adorno in Teoria estetica:
«Il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte».
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Marie Laure Colasson scrive:
“oublions les choses ne considérons que les rapports ”.
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Il senso di questa poiesis lo si coglie se si pensa il «polittico» (in tale categoria può rientrare anche il collage) non come un manufatto che è qualcosa di evanescente e di fluttuante ma come un essere poliedrico che solo il discorso poetico può intuire, percepire e cogliere. Forse siamo ancora sotto la suggestione hölderliana dell’uomo che «abita poeticamente la terra». Un “abitare poetico”, questo della Colasson, che si configura come un esercizio del trapezista che esegua equilibrismi sul trapezio, è questo il suo modo di appartenere alla «terra». Il «progetto poetico» (dichtende) della verità che si pone in opera, avviene in una condizione di sospensione in una altezza. La terra per Heidegger è «fondamento autochiudentesi», fondo opaco e ascoso che custodisce, in contrapposizione a un mondo inascoso (fondamento autoaprentesi), che si apre e viene esposto. Ciò che è stato dato all’uomo deve essere portato fuori dal suo fondamento occultato e fatto poggiare su di esso. In tal modo questo fondamento si presenta come «fondamento sorreggente». La produzione d’opera, in quanto rappresenta un tirar fuori di tal tipo, è un«creare-attingente (schöpfen)» (Heidegger).1
L’orientamento della nuova poesia, della nuova pittura e del nuovo romanzo è antisoggettivistico. La «forma-polittico» è quella che meglio definisce e rappresenta la condizione di frammentarietà del nostro mondo. Possiamo definire il «polittico» come un mosaico di frammenti, di immagini dialettiche in movimento nella immobilità, compossibilità di contraddittorietà. Vengono a proposito le intuizioni di Benjamin sullo statuto delle immagini in movimento. Scrive Walter Benjamin:
«Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».2
La forma-poesia prescelta dalla Colasson è il «polittico» di frammenti, analogamente anche nella sua pittura è il collegamento inferenziale delle forme dei colori, il luogo dove l’artista abita in modo spaesante i linguaggio figurativo. Nei suoi «polittici» la Colasson entra da subito nelle linee interne delle cose, illustra quasi didascalicamente la condizione ontologica di frammentazione dello spirito del tempo, il quale lo si può cogliere soltanto nelle «relazioni» spaziali e temporali, nelle spazialità e nelle temporalità dei personaggi che si affacciano nella cornice della poesia. Le Figure che compaiono sono gli Estranei. La lingua impiegata è una lingua straniera, che fa a meno dei segni di punteggiatura, dei nessi causali, formali, sintattici e fonosimbolici. Nei suoi «polittici», sia in pittura che in poesia, non v’è un punto di vista ma una pluralità di punti di vista, di scorci che non convergono mai verso un focus o una identità in quanto sono eccentrici e legati da leggi di probabilità e di entanglement. Il discorso poetico e figurativo cessa di essere un discorso identitario di una identità e diventa discorso plurale della pluralità. I legami tra le forme che emergono dal fondo ascoso dei suoi dipinti sono equivalenti ed equipollenti alle singole strofe irrelate delle poesie con i loro personaggi porta bandiera del nulla da cui provengono. Emissari del nulla e Commissari dell’essere.
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1 Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio. Trad. A. Caracciolo. Mursia, 2007 – L’origine dell’opera d’arte. In: Sentieri interrotti. Trad. P. Chiodi. Firenze: La Nuova Italia,1984
2 2 W. Benjamin, I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2007, p. 516

.

Lucio Mayoor Tosi

A Silvia.

Ora spunta Silvia Romano. Sì, quella rubata dall’Isis.
Ma sei ancora dei nostri?

Certo, cattolica e musulmana. Come tanti non credenti.

L’affare fatto si sgrana in profili di madame al super più
della cronaca in bocca al lupo. Travaglio di mimose.

Che dire del tutto in piena autonomia e stando attenti
nel condividere il polso dove scorre segreta verità

se non che viva in pace, anche lei tra i non morti
di questa parabola di spie? Vada dal parrucchiere,

si faccia le meches, scriva un bell’articolo su Repubblica,
una lettera d’amore anche. Che tanto la gente dimentica

e muore in fretta. Cartolina: non è bello qui,
dove adesso trema l’inchiostro disoccupato sul foglio?

Le margherite scoppiano di salute, i gatti si mangiano
la spesa in tanti bocconcini, e c’è pure il Parmigiano amico,

quello delle superstar che sgambettano su allevamenti
di bestiame al massacro; ed è questa l’opera d’arte,

il fine di tutti i mezzi; quello di tingersi nei colori
della propria tribù, la sacrosanta alleanza capitanata

da Covid-19, il nuovo server delle giurisprudenze
timbro in ceralacca su promesse di mantenimento

dello stato in battibecchi di foruncolosi graffitisti
anche loro in cerca di michelangiolesca meraviglia.

Eccetera. Poi sorride lo smalto sui denti.

Gino Rago

Storia di una pallottola n. 15

All’Ufficio Informazioni Riservate di Via Pietro Giordani
intercettano questa conversazione
«Psst! Ehi! Ahò! Oh! Hum! Ouf…Eh! Toh! Puah! Ahia! Ouch! Ellallà! Pffui! No!?
Boh! Sì! Beh!? Cacchio! Mizzica! Urca!? Ma va!! Che?!! Azz!!… Te possino!!
Ma no!?. Vabbé!?. Bravo!!
Ma sì…».

Ennio Flaiano litiga con il marziano di Roma.
È che le parole scappano, se la danno a gambe, finiscono
dietro un cespuglio di Circonvallazione Clodia dove un signore sta facendo pipì
e poi scappano fino al Pincio dove assistono al funerale
della Signora chiamata poesia.

Il critico letterario Giorgio Linguaglossa convoca d’urgenza
una conferenza stampa, dice:
«Adesso basta con questa storia della pallottola e del visconte dimezzato!
Mettiamo in una busta di plastica Italo Calvino
e tutta la letteratura
degli ultimi cinquanta anni!».

Che è che non è, una pallottola entra nell’appartamento di Marie Laure Colasson.
Litiga con un quadro attaccato alla parete.
Gli oggetti discutono.
Il manico della scopa litiga con lo scolapasta, la bottiglia di Bourbon
con il cavaturaccioli.
Le voci sono quelle della caffettiera, del manichino, del marziano di cartapesta,
del visconte dimezzato e dell’abat jour.
C’è il poeta di Milano che dirige il giornale “La Padania letteraria”
il quale sorseggia un crodino al bar.

Ennio Flaiano vuole girare un film con la sindaca di Roma, Virginia Raggi in giarrettiera,
Marcello Mastoianni, Anita Ekberg e la Santanchè in mutande.
C’è anche Lucio Mayoor Tosi con la mascherina tricolore!
Entra Ewa Tagher con lo scudiscio, dice che deve ammaestrare i poeti di Milano,
che sono peggio dei leoni del Circo Togni!

Madame Colasson invia un sms al Commissariato della Garbatella:
«Intervenite! Urgente!
Ci sono i marziani!
Stanno facendo a pezzi la poesia!».

 

Marie Laure Colasson

cari Gino Ragò, e Lucio Mayoor Tosi,

che dire di questa bella pagina dedicata a me? Innanzitutto: un Grazie all’Ombra.
Dirò che tutte queste ultime pitture le ho fatte durante il corso dell’epidemia di Covid19… quanto scrive Linguaglossa è vero, probabilmente dentro di me si è mosso qualcosa, si è presentato l’Estraneo al quale ho dato udienza. riconoscere l’Estraneo è compito della poesia e della pittura, l’inconoscibile… se dovessimo trattare solo di oggetti conosciuti, a che pro fare pittura o scrivere poesie?
Condivido pienamente il vostro pensiero. E’ vero che Alain Robbe Grillet e l’école du regard siano presenti nella mia mente in qualche cassetto, non lo nego, e che il “visivo” è di grande aiuto alla poesia, la quale però, non godendo del privilegio (che ha la pittura) di rifarsi alla immagine, deve ricreare l’immagine tramite le parole e le non-parole e i non-detti. Ma le parole sono equivalenti dei colori.

A Gino Rago suggerirei di porre attenzione particolare all’Ufficio Informazioni Riservate che il suo collega Linguaglossa dirige al V piano di via Pietro Giordani. Le cose non sono chiare. Tutto questo trambusto va elucidato, e questo è il compito per il quale il commissario Ingravallo è pagato mensilmente dallo Stato, Spero che il nuovo commissario, tale Montalbano, sia più efficiente e meno dispendioso del suo predecessore.

Teniamo a mente il detto di Adorno:
«Il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte».

Io penso che dobbiamo imparare a pensare e a ragionare così:
«oublions les choses ne considérons que les rapports ».

Come scrive Michel Onfray: «siamo seduti sull’orlo di un vulcano», e non lo sappiamo, o facciamo finta di non saperlo.
Un abbraccio vivissimo ad entrambi.

Giorgio Linguaglossa

Viviamo e operiamo in una dimensione fatta da un ibrido mix tra pseudo metafisica (occultismo, pseudo scientismo, movimenti no-vax, fake news, verità fai-da-te, verità personali, religiosità regionali, ontologie regionali e provinciali, psicopatologie profilattiche, massificazione delle psicopatologie, etc.) e giornalismo.
Sarò banale quando dico che è con questa dimensione ibrida che la poiesis di oggi deve fare i conti. Sarò banale ma sono costretto ad annettere fiducia al detto colassoniano:
«oublions les choses ne considérons que les rapports».

Il che è un diverso modo di vedere le cose. Dal punto di vista dei rapporti le cose vengono derubricate in secondo piano. I «rapporti» sono opera di «artificio», e l’«artificio» è un modo di essere della tecnica.

Un aneddoto.

Un giorno, tanti anni fa, andai a sentire le poesie recitate di un poeta il quale calzava scarpe da ginnastica e tshirt con giacca alla moda casual. Le sue poesie invece erano popolate di immagini di campagna idillico-elegiache; insomma, c’era tutto il repertorio della natura com’era in un tempo primordiale. Alla fine, interrogato, commentai che c’era una discrasia tra le sue scarpe da ginnastica colorate e il mondo rurale delle sue poesie, che qualcosa non mi convinceva, che c’era una contraddizione: o era vera la sua poesia o le sue scarpe da ginnastica e la sua giacca casual.

Lucio Mayoor Tosi

 Una scopa appoggiata nel sottoscala, non problematizzata… darà sollievo a chi non ne può più di filtri simbolici e significanti, tra sé e la cosa. L’essere in campo vuole, cerca un rapporto diretto, non mediato. Non è un dramma, sembra più una resa dei conti. Già ogni giorno, sul far della sera il tramonto si presenta senza preamboli…
La mente, resa complessa e già sofferente di bombardamenti consumistici, continuamente distratta, incerta, divisa, non è in grado di darsi un’identità. Serve una cura, la qual cura è per me inizialmente un lasciare andare.
La semplificazione non è da condannare, così come non andrebbe condannato un bisogno. Ma è chiaro che alla semplificazione ci arriviamo da rovinati.
Né positivo, né negativo: è una scopa appoggiata nel sottoscala. Si ristabilisce l’amicizia, resta tempo per sentirsi infelici e felici.

*
 Non va sottovalutato l’apporto tecnologico, sia per il deposito di memoria utile, sia per i mezzi lavorativi e ricreativi. Una mente alleggerita da fatica, stress da responsabilità, non può più essere la stessa, nemmeno di appena cinquant’anni fa. Questo non comporta che si arrivi a totale disimpegno culturale, al contrario: proprio la sfera intellettiva e sensibile avrò bisogno di adatto nutrimento. Uscire ed entrare dal linguaggio con inserti creativi, per così dire nano-culturali, è quel che abbiamo anticipato noi della NOE in questi ultimi anni. Niente di simile era ancora stato fatto. Quale sia il posto della filosofia, non so. Ogni risposta filosofica è al tempo stesso nuova domanda…

Giorgio Linguaglossa

Con questi frammenti abbiamo puntellato la nostra poesia

 «Il nostro tempo non è nuovo, ma novissimo, cioè ultimo e larvale. Esso si è concepito come poststorico e postmoderno, senza sospettare di consegnarsi così necessariamente a una vita postuma e spettrale, senza immaginare che la vita dello spettro è la condizione più liturgica e impervia, che impone l’osservanza di galatei intransigenti e di litanie feroci, coi suoi vespri e i suoi diluculi, la sua compieta e i suoi uffici. […] Poiché quel che lo spettro con la sua voce bianca argomenta è che, se tutte le città e tutte le lingue d’Europa sopravvivono ormai come fantasmi, solo a chi avrà saputo di questi farsi intimo e familiare, ricompitarne e mandarne a mente le scarne parole e le pietre, potrà forse un giorno riaprirsi quel varco, in cui bruscamente la storia – la vita – adempie le sue promesse.»1

1 G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009.

 Sono propenso a pensare che tutta la nuova fenomenologia del poetico è, in certo modo, non solo una citazione senza virgolette (non c’è bisogno che sia necessariamente virgolettata) di altri poeti dell’età del modernismo e dell’umanesimo, o auto citazioni ma anche un montaggio, un compostaggio incessante di tutto ciò che può essere montato,  compostato, una costellazione di appuntamenti segreti, ricordi, parole trovate, parole dimenticate, di fotogrammi, di lapsus e, perché no, delle nostre ossessioni. Una «pallottola» che rimbalza qua e là e che produce una sequenza impensabile di disastri, un commissario inconcludente, un misterioso Ufficio di Informazioni riservate, un Faust che colloquia con Mefistofele, la vita come «Registro di bordo». Ci guida una idea di poesia ma non possediamo alcuna poesia.
Con questi frammenti abbiamo puntellato la nostra poesia.
Che male c’è?.

Marie Laure Colasson Notturno 1 collage 30x30 cm 2007

Marie Laure Colasson, Collage, Notturno 30×30 cm 2010

Gino Rago

 Cari Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa, 

in una delle Storie di una pallottola, mi pare la n.12, la stessa Madame Colasson pronuncia queste parole, precise, chiare, dirette a Italo Calvino:

“Marie Laure Colasson:
«La ringrazio, le farò sapere.
C’è un agente degli Affari Riservati che mi pedina,
e poi le sue Lezioni americane, sono banali, tristi,
le preferisco Queneau».”

Con queste parole sulla bocca di Milaure io dico da che parte mi sono collocato:
– dalla parte della sperimentazione senza limiti dello stesso Raymond Queneau la cui ricchissima produzione nasce dalla vastità dei suoi interessi che andavano da quelli filosofici a quelli antropologici, da quelli letterari a quelli matematici, linguistici, psicoanalitici, ecc., senza tacere quelli per le arti musicali e figurative, da un lato;

– dall’altro, dalla parte di Alain Robbe-Grillet e l’école du regard, ovvero dalla parte della registrazione dell “oggetto” secondo la pura percezione dello sguardo, nel tentativo del rifiuto definitivo di tutte le implicazioni psicologiche, ideologiche, morali, socio-politico-economiche nella sola volontà del superamento della recente deriva della “cultura umanistica” ancora fondata sullo strettissimo rapporto uomo-realtà teso alla ricerca di un “significato” da dare a ogni costo alla vita…

– Infine, ho guardato, ma con la coda dell’occhio, anche a Samuel Beckett, al Beckett che, in Acte sans paroles, mette sulla scena un uomo solo e assolutamente muto che cerca, senza riuscirvi, di afferrare oggetti, mentre gli cadono quasi addosso dall’alto…

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SEI POESIE di Michael Krüger “La poesia del quotidiano”, Commento di Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, collage e acrilico, 50×50, 2023

 Michael Krüger Berlino

Michael Krüger Il coro del mondo Milano, Mondadori, 2010  pp. 202 € 15,00 traduzione di Anna Maria Carpi

 

 Il linguaggio di poeti come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini comuni del tempo di Wordsworth ma è un linguaggio «nuovo» che ha acquisito, tramite la rivoluzione dei linguaggi mediatici, una sofisticatissima colloquialità. Quello che Yeats rimprovera a Eliot noi lo potremmo rivolgere a Michael Krüger e, più in generale, alla poesia moderna. Scrive Yeats: «Eliot has produced his great effects upon his generation because he has described men and women that get out of the bed or into it from mere habit; in describing this life that has lost at heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effects by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantics rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty».

«A noi, residuo plurilingue», scrive Krüger spetta un linguaggio poetico talmente logorato dalla civiltà mediatica da essere un qualcosa di assolutamente inutilizzabile (non-orientabile, come il nastro di Moebius), un qualcosa: «che era già stato scartato» scrive il poeta tedesco, secondo il quale il linguaggio poetico è qualcosa che proviene già da uno scarto di qualcun altro e di qualcosa d’altro. Ed è proprio questo il particolare, diciamo così, statuto del linguaggio poetico contemporaneo. Quasi che una posizione di autenticità sia possibile soltanto aggiudicandosi dosi massicce di «scarti»; quasi che la situazione di attesa dell’uomo contemporaneo sia analoga a quella  di chi, poiché «tutti gli aerei atterravano con ritardo/ e non c’erano più decolli», a cui spetta «l’odioso posto in mezzo»; un’attesa che è un intermezzo, un interludio, un interspazio-temporale tra decolli annunciati e cancellati. Come se la cancellazione fosse la spia di una condizione oggettiva per ristabilire il giusto ordine delle cose; è una poesia questa che non deriva più da alcun ordine delle cose, perché non c’è alcuna ragione di un tale principio nella società dell’organizzazione totale e della globalizzazione amministrata. Ciò che spetta alla poesia è esplicitamente indicato nella poesia intitolata «Discorso di un viaggiatore», dove il «viaggiatore», dopo il viaggio, si rende conto che non gli è restato nulla: «Se lei permette, prendo un pezzo di pane e un po’ di vino. Grazie. Adesso mi sento quasi come a casa».

Diciamo che è la condizione dell’uomo del tardo Moderno quello che sta a cuore a Krüger, e la poesia è soltanto uno strumento (sofisticatissimo) per la rilevazione delle quantità di isotopi di uranio e di cesio che si trovano nell’atmosfera (nella biosfera) dell’ambiente linguistico. Assodato che la democrazia del tardo Moderno è quella che reclama a gran voce che tutte le arti siano eguali, eguali in quanto tutte inessenziali; inessenziali in quanto tutte decorative… e che la tendenza al decorativismo costituisca il piano inclinato di tutta l’arte del tardo Moderno, è un dato difficilmente oppugnabile. Addirittura, risulta problematico financo discorrere di arte nel «reale» del villaggio globale e del villaggio mediatico, che conosce soltanto, come è stato detto,  la diffusione dell’estetico, dato che se ne è perduto il concetto; senza contare che un’arte senza stile quale è quello della poesia del tardo Moderno ricade e rientra nell’estetico per la porta di servizio (non certo per la porta principale). Direi che un’arte senza stile è quella che richiede la diffusione dell’estetico in quanto: che cos’è l’estetico se non un «servizio» che la diffusione dell’architettura e del design permettono all’arte della democrazia dispiegata? Anche se è vero che tutte le filosofie che discettano di un’arte senza stile non sanno quello che fanno (impegnate come sono nell’eutanasia della libertà), in verità, essa sta incondizionatamente dalla parte della comunità servile, orgogliosamente partigiane della techné dei medaglioni.

La poesia di Krüger ha questo di vero, che si occupa dell’amministrazione degli «scarti» come un amministratore di condominio si occupa dei rapporti millesimali tra i condomini. Il poeta come amministratore del condominio dei propri «scarti», di tutto ciò che è scaduto da tempo ed è perciò inutilizzabile (inutilizzabile innanzitutto per i lettori illuminati). Una poesia che cerca se stessa nella discarica indifferenziata dei rifiuti è una «cosa» talmente ostica e inafferrabile da determinare un rifiuto istintivo, lo capisco…  così, la migliore poesia per la Germania è quella che descrive la perdita dei «foglietti»; analogamente, la migliore poesia per descrivere l’«inverno» è quella che «narra» il fatto che il proprietario dell’agenzia di viaggi «ha preso la cassa e ha tagliato la corda», e che «la nettezza urbana» dichiara di non avere problemi, etc. E come vanno le cose con il «quotidiano»? Beh, i rapporti che il poeta tedesco tiene con questa inafferrabile entità sono rapporti del tutto fortuiti, spastici e apotropaici: «In casa tengo la porta solo accostata», per favorire l’entrata della persona che si aspetta, perché «potrebbe darsi che tu venissi. Posso aspettare./ Posso aspettare…». Ed ecco che la poesia si compone più che di esperienze vissute, di esperienze mancate; è la «mancanza» di esperienze significative quella che fornisce il paradigma e il pentagramma iconico entro i quali far svolgere gli avvenimenti del «poetico».

Se prendiamo atto del retroterra da cui muove questa poesia, allora apparirà chiaro che la forza espressiva dei componimenti di Krüger deriva proprio dalla consapevolezza che l’autore ha del demanio di rottami e di scarti entro il quale la poesia deve provare a rovistare e saccheggiare: le esperienze significative saranno, appunto, quelle che abitano stabilmente il demanio dei rifiuti indifferenziati delle esperienze attingibili dalla generalità, ovvero, attingibili soltanto nella loro manifestazione fenomenica di indirezionalità.

Da quanto precede risulterà chiaro che la poesia di Krüger intende porsi come una zona refrattaria alle tendenze apologetiche del minimalismo europeo proprie del tardo Moderno, che personificano l’esigenza di razionalizzazione del «reale» (che è affetto da quella sorta di dimagrimento permanente che sono le esperienze de-realizzate di cui esso è costituito). «È tutto tranquillo. Non è successo niente», scrive Krüger. Siamo già dentro la dimensione della superficie superficiaria, della direzionalità indifferenziata, della stagnazione permanente.

È chiaro che il non-stile del tardo Moderno sia anche uno stile, anzi, lo stile par excellence del tardo Moderno: lo stile del beota, lo stile omiletico. Forse nessuno come Montale ha compreso così a fondo le questioni legate allo stile da «ectoplasma» nell’epoca della pinguedine dello stile che caratterizzava gli anni Settanta; ma oggi, in pieno tardo Moderno (che più tardo non si può), lo stile omiletico trova il suo corrispettivo sintagmatico nello stile ironico colloquiale che prende in prestito dalla oralità del telefilm e del cabaret la pinguedine della propria irresponsabilità estetica.

Da questi pochi cenni apparirà chiaro come Krüger sia uno tra i pochi poeti europei contemporanei che scrive una poesia di responsabilità estetica, che ha il coraggio di addossarsi tutta la responsabilità derivanti dallo statuto del proprio atto linguistico. Di qui il mio augurio di leggerlo e meditarlo.

Promenade notturna 6 Collage 40x40, 2023

(Marie Laure Colasson, collage e acrilico, 50×50, 2023)

Poesie di Michael Krüger

Come vanno le cose

È tutto tranquillo. Non è successo niente.
L’errore di scoprire il mondo lo rimpiangiamo da un pezzo.
Ogni colpo di vanga, ogni osso ritrovato, ogni speranza dissepolta:
la loro inefficacia è dimostrata da un pezzo. Le rovine
si edificano su progetto, anche questa una vecchia soluzione per dopo.
Sulle macerie artificiali abitano famiglie, accanite
a distribuire foto a colori: istantanee senza garanzia.
Si parlava di una piccola lista di obiezioni,
ridicolaggini, non mette conto di parlarne: non mette conto
comunque d’interrompere gli altri.
Tutto è tranquillo. Non è successo niente.
Le piccole ferite sanguinano come al solito, i ritardi
non hanno motivo. In altre parole, in altro modo,
detto altrimenti: il caso ne esce di nuovo vittorioso,
la ragione è battuta: nemmeno questo
le si vede addosso. Il suo profilo si è fatto più morbido
da quando parla solo di se stessa, i suoi occhi sono
più accademici, ogni sua uscita è facilmente scusabile.
È uno spasso diabolico starla a guardare: le soavi
drammatizzazioni della sua indifferenza.
È tutto tranquillo. Non è successo niente.
I sentimenti si sono fatti meno vistosi, era da aspettarselo, l’odio,
si è mutato in invidia. Non vi eccitate,
niente storie, niente malinconie: il finanziamento dell’apatia
è assicurato. L’export si sta riprendendo. La vita
è ora capace di miglioramento, finalmente
gli sforzi sono valsi la pena. Al museo, indifese,
le timide ambizioni dei passati:
a ognuno si fa chiaro come il sole su cosa si è infranta la storia.
Non è successo niente. È tutto tranquillo.
L’alfabeto è di nuovo in uso, le tabelline,
il dialogo ha congiuntura. I vecchi cappelli,
le vecchie profezie, i vecchi fenomeni: tutto
sembra nuovo. Ognuno da ieri ha la chiara sensazione
di esserci. Ognuno si presenta bene. Ognuno guarda ognuno
con interesse. Le conversazioni balbettanti
sono ammutolite, tutto scorre, fluisce, gli intimi
deragliamenti non ci sono più. L’oscuro è stato eliminato:
aforismi descrivono il mondo con mortale chiarezza.

So già cosa mi aspetta, oltre alla pioggia,
novembre. Il futuro non conosce
nessuna nicchia, anche le domeniche occupa
fino a tutto settembre. Bisogna essere
bambini, per gioire del prossimo aprile,
e maggio, anche se misurato, è pieno
di false attese. E giugno?
Imbrattato di scrupoli,
le circostanze inevitabili della vita.
Ad ore mi si consuma
il tempo, anche ad agosto. Se resto
in vita ci vedremo a dicembre,
non dimenticarti quello che volevi
chiedermi. C’è ancora un giorno libero,
poco prima la fine dell’anno.
Per sempre resterà il desiderio
di non volere sapere quando
ci raggiungerà la disgrazia, che non
è segnata sul calendario.

Promenade nocturne_16_35x35 collage 2023

(Marie Laure Colasson, collage e acrilico, 50×50, 2023)

Nel cortile, presso i bidoni della spazzatura, nell’angolo oscuro,
dove gli ubriachi del bar “Miracolo” vomitano
quando le parole nella giungla
dei loro ruvidi trionfi, hanno massacrata uno a calci,
alle quattro del mattino, lo potevo sentire. E ho visto
come la sua testa rimbalzava sull’asfalto bagnato
e come le sue gambe dondolavano al ritmo
dei calci. L’importante è non sporcarsi le mani.
Lui giaceva là. appallottolato e gettato via
come molte altre cose che ci danno fastidio,
il pugno come duro cuscino sotto la testa.
Quando mi avvicinai alla finestra, la luce alle spalle,
e alzai la mano, la cui ombra stranamente lunga
si proiettò tremolante sulla vittima, gli aguzzini
guardarono in su: se voglio continuare a vivere qui
in zona di guerra, dovrò cambiare nome.
Capita spesso ora da queste parti,
dice il poliziotto, che piegato sulle ginocchia traccia un cerchio
col gesso attorno all’uomo ancora vivo, scatta una foto, poi
lo gira a fatica sulla schiena, in modo che la sua testa
guardi verso l’alba, la lotta dei vivi
si fa più dura. Vogliono la guerra. La inscenano
per essere pronti in caso di emergenza.
Così come nel corpo del potere cresce l’impotenza
e nel linguaggio dell’ordine un altro linguaggio,
che si rifiuta di formare le frasi giuste
che ognuno capisce, così cresce dietro il muro
della pace una piccola guerra. E’ un fatto,
è così com’è, e adesso se ne torni su a letto,
e se suonano, non apra
la porta. Continua a leggere

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