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Marina Petrillo,  Indice di immortalità, Ed. Prometheus, 2023  pp. 120  18, Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa, la «Cosa» inesprimibile della poesia petrilliana è, insieme, una meta e una origine, una linguisticità febbrile che si muove verso la prossimità dell’inesprimibile dove il reale si costituisce come quel registro di un’esperienza olistica ed elitaria, intima e refrattaria all’ordine simbolico del linguaggio

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Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023Nota di Lettura di Giorgio Linguaglossa

 Marina Petrillo dopo materia redenta del 2019, ci consegna un libro il cui testo è scandito in prosimetri: asindeti dell’ultra senso e dell’ultra sensorio e polisindeti di ciò che apre oltre il senso e oltre il significato in quella dimensione ultra mondana e trascendentale che è stato il sogno e la meta dei poeti orfici da Mallarmè ai giorni nostri. Un lavoro che ha del prometeico per la acuzie con la quale la poetessa romana ha attraversato il linguaggio poetico in direzione dell’ultra-senso e dell’ultra-significato. Il problema è, come sempre, la messa in questione della posizione della soggettività nel linguaggio.

 Marina Petrillo proviene dalla frequentazione della «nuova ontologia estetica» e di lì si è incamminata verso una poesia dell’ultrasensitivo e dell’ultrasenso, come dire che ci sono svariate possibilità di indirizzo e di ricerca, fermo restando che una nuova economia politica dell’Immaginario passa per la reintroduzione del Politico nell’Immaginario, o dalla sua estromissione, ma passa anche e soprattutto dalla estromissione del Privato dall’Immaginario, ciò comporta la de-territorializzazione del linguaggio poetico della tradizione e la ri-territorializzazione di quel linguaggio in un altro linguaggio poetico.

 C’è qualcosa nella soggettività che si configura, come ebbe a dire Sigmund Freud in relazione all’Es, nei termini di un «territorio straniero interno». Questo territorio scosceso è, per l’appunto, ciò in forza del quale è possibile definire la soggettività mediante la nozione di extimità, nella misura in cui con tale categoria non ci si riferisce esclusivamente al mondo interiore della soggettività e alla sfera dell’interiorità, quanto piuttosto a quell’ambivalenza radicale che attraversa, incidendola, l’intima esteriorità del soggetto a sé stesso. In ciò che usualmente intendiamo con «interiorità» c’è dunque uno spazio aperto, un vuoto che incide, che taglia, che genera una differenza incolmabile, una irriducibile estraneità che, paradossalmente, per quanto intima, de-cide inesorabilmente la soggettività. Questa intima esteriorità si configura come quel vuoto necessario, originario e generativo che consente il linguaggio e, di conseguenza, anche il linguaggio poetico.

 Il carattere per certi versi trascendentale dell’extimità della poesia petrilliana fa sì che essa, precedendo di diritto qualsiasi opposizione categoriale tra interno ed esterno, si configuri come quello spazio ultra-linguistico in cui ogni dualismo perde la propria sostanzialità e si presenta come un vuoto originario, vuoto causativo, limite trascendentale che sta al fondo di ogni soggettivazione. Se il soggetto petrilliano si genera dal suo vuoto, così intimo eppur esterno a sé stesso, il reale è ciò che serve a nominare tale intima esteriorità. Questo nucleo vuoto, per certi versi irrappresentabile, attorno al quale Lacan si è arrovellato fin nell’ultimissimo periodo della sua vita, si costituisce come quella totalità originaria sulla quale si sviluppano tutte le nodalità della soggettività per via del fatto che il reale è così profondamente intimo alla soggettività da essere invisibile, irrappresentabile e anche ingovernabile, come quella forma di cecità auto-indotta da chi osserva troppo da vicino gli oggetti, tanto da non poterne distinguere nitidamente tutte le sinuosità; il reale del soggetto è figurato da quell’intima esteriorità vuota al centro del soggetto stesso, che ne ostacola ogni sorta di dominio. Nella sua extimità lo statuto della «Cosa» è al di là di ogni linguisticità, oltre ogni sua possibile chiusura nel sistema della significazione.

 In tal senso, la «Cosa» inesprimibile della poesia petrilliana è, insieme, una meta e una origine, una linguisticità febbrile che si muove verso la prossimità dell’inesprimibile dove il reale si costituisce come quel registro di un’esperienza olistica ed elitaria intima e refrattaria all’ordine simbolico del linguaggio, definibile lacanianamente nei termini di uno spazio vuoto che buca ogni verbalizzazione, ogni possibilità di iscrizione dell’esperienza in un ordine linguistico di senso e di significato.

 È proprio in questa accezione che Lacan (1986), nel Seminario VII dedicato all’etica della psicoanalisi si riferisce al Das ding e al suo «statuto» come a qualcosa che si situa al di fuori di ogni significato. Se è vero, come sostiene lo psicoanalista francese, che la «Cosa» è «quel che del reale patisce del significante», la vacuità nel cuore del reale (il reale del soggetto, ma anche il reale nella sua totalità, il reale inassimilabile al senso, il reale primordiale) altro non è che la condizione di possibilità di un pieno (un pieno linguistico). Così come infatti il vuoto (linguistico) è la condizione necessaria del pieno, il fuori senso è la condizione di possibilità di ogni senso e di ogni non-senso.

 Ecco, dunque, il motivo per cui l’inesprimibile è la curvatura linguistica della poesia di Marina Petrillo in quanto manifestazione (impossibile) del simbolico; poesia che si costituisce in un paradossale regime di doppi e di scambi tra le parole, per agglutinazione e per separazione di parti del discorso, come ciò che, eccedendo i limiti del linguaggio, buca dal suo interno il linguaggio medesimo, rigettandosi così ad ogni sua eventuale linguisticità dotata di senso e di significato.

 Per Marina Petrillo il reale non è rappresentabile, il reale non è la realtà. Il tessuto simbolico e immaginario della poesia petrilliana «deve» negare il registro del reale per giungere all’indicibile e all’ineffabile come ciò che massimamente irrompe nella trama dell’ordine linguistico e simbolico bucandone l’intreccio testuale, aprendone un varco verso l’ultra-senso e l’ultra-significato. È questo uno dei motivi per cui il simbolico è, per la poetessa romana, ciò che si situa al di fuori del senso e del significato e, in tal modo, riconduce il senso e il significato alla significazione trascendentale e oltre mondana sua propria.

[Marina Petrillo figure ]

Poesie da Indice di immortalità (2023)

La rosa che fiorisce incontro al nulla
Die Niemandsrose
genesi incurabile di fiori morenti
Ginestra senza nome essiccata al tributo
degli Dei inferi

Lava giacente su pendici detenebrate
dall’accecante vortice di luce suprema
scavata a margine del rosso carminio
rivivente in feste patronali

Croci simmetriche generate a dottrina
Tralasciate in sere odorose di ghirlande
Fascino suadente dell’indocile declino
Sibilato in lodi, del fruscio afone.
Si imprime come creante, il verso
Duella con i proseliti in triade sovrana
al monito

Interdizione in sottile sibilo
ferale al sommesso candore
della prima argilla creante l’essere animato
destituito tale, dall’incauto passaggio
ad altro status.

*

Un sommesso atonale lacera
l’ascolto di Musikanten

Un bemolle disserta sul candido
destino di un semitono

Sordità in ascesa nell’incauta
Secessione della dissonanza
e della consonanza.

Scale cromatiche discendono
su scale di Giacobbe, angeli

percorrono a ritroso i passi
in alchemico prolungarsi dei suoni
in sogno

Il paradigma del risveglio accade
Nuovo gene della contiguità con il divino

Le scale esatonali di Debussy
i madrigali di Carlo Gesualdo
sciamano preziosità accolte in conchiglie
di instabile entropia.

*

Appare a manto della sparsa Odissea del linguaggio
il tramortirsi ad onda corta, intendendo il seme
quale viatico di altra conoscenza
Idioma assiro-babilonese
o fenicio approdo tra ideogrammi
Travalicanti il detto.

Fummo scriba in schiavitù difforme
Addetti all’epilogo delle storie tutte
Sommessi carcerieri ei ego frammezzati
Comparse tragiche in cori dissimulanti
il Teatro dell’assurdo.

Giace ogni sbadiglio in tedio cosmico
sofferto in metropolis di anico ordine
Un mondo murale cementa saperi
Illudendo i propri asfittici principi in Logos.

Manifestano caos, i sigilli infranti
Logorroico impianto seriale
dove la non causalità incide solchi
e bambini giocano a campana.

Sotteso ad ogni salto, il cambio dell’abito
semantico, per cui non scioglie l’ossidiana
del sapere, ogni glifo, nevralgico all’osservatore.

Ammettere transito il filosofo a sua dismisura
mentre in anfore adagiate sui fondali
permane il senso dell’indescritto, ultimo poetare

Frastuono di lallazioni professate dalla sibilla celeste
Sussurrate da Emilio Villa in labirinti
sensoriali divelti a lemma.

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