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Fabio Dainotti, L’albergo dei morti, manni, 2023, Lecce pp. 160 € 18, La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere

Fabio dainotti cover

L’osservazione di Andy Warhol secondo cui in futuro ognuno godrebbe di un quarto d’ora di notorietà esprime un totale scetticismo nei confronti della possibilità di fare opere artistiche tali da restare come azioni significative per i contemporanei e i posteri. Siamo diventati tutti degli scettici integrali, dei lucidi paranoici, abitiamo la follia dello psicozoico senza rendercene conto.
Occorre quindi prendere molto sul serio la tesi di fondo di Freud sulla paranoia. Secondo Freud il delirio non è la malattia stessa, ma un tentativo di guarigione. E qual è la “malattia” vera che lo psicotico delirante cerca di medicare? Risponde Freud: «Esperienze primarie di terrore, frammentazione e invasione». Il delirio, la derelizione, il soliloquio a voce alta o voce bassa, soprattutto se sistematizzato e messo in forma di lirica, vorrebbe dare una apparenza di ordine e di senso alle esperienze di caos. È che è diventato impensabile dare un ordine di senso al caos dei giorni nostri, ma Fabio Dainotti è un affezionato storyteller, un raccontatore di storie, lui non vuole mettere ordine al caos né indire una gara per un concorso pubblico in materia di una lingua pura, la sua poesia è spuria, invariabilmente legata al plot, al racconto magari sui morti o sui nati morti alla maniera di Giorgia Stecher, senza però che intervenga l’elegia. Dainotti è un poeta ormai eslege e ipocondriaco, ha messo nel cassetto degli agenti patogeni l’elegia considerandola come una indebita intromissione di un esigente creditore nell’ambito del nostro conto corrente. È possibile pensare, sulla scia di Lacan, che il soliloquio sia una salutare reazione che ha luogo quando il soggetto si trova di fronte a un evento o a una situazione in cui non può più ignorare il “buco”, ovvero, quel significante-escluso, significante-Padrone a cui non corrisponde alcun significato. Ora, è che questo confronto col “buco” può produrre lo sfaldarsi completo dell’assetto di senso del soggetto. La perdita di autorevolezza e di senso del soggetto-autore non riguarda soltanto la letteratura, ma ogni forma d’arte e di presenza nell’esistenza, Dainotti è uno spigliato investigatore, sa che l’intromissione dell’io nel testo poetico deve essere ridotta al minimo presentabile, e si comporta di conseguenza, la riduce ad un piccolo io che se ne sta in un cantuccio e di lì osserva lo sbrogliarsi della matassa dell’esistenza.
Questo preambolo per dire che al di sotto di quest’ultimo libro di Fabio Dainotti c’è una situazione storica di disincanto, di dissoluzione, di de-fondamentalizzazione del soggetto e dell’oggetto, espressioni prototipiche del nostro tempo di crisi epocale. Le tematiche del libro sono le più varie; mi limito a citare i titoli di alcune poesie, per lo più composte da una sola parola (Grillo, Scarpine, Sconforto, Mareggiata, Pioggettina, Bimbo, Bimba, Alla Madre, In morte, Notturno, Rimorso, Viaggi, Pierrot, Burlesque, Bisticcio, Cattedrale, Lettera, Ricordi di scuola, Sera, Ars poetica, Effe, Abatino, Sara, San Marco, Il gatto, Fillide, Congedo, Piove, Sguardo, L’albergo dei morti, Miliardaria, Mattino milanese, Mattino vicentino, Novecento, Cane e padrone, Famiglia, Cimitero marino, Orario d’apertura etc.). Come si vede già dai titoli, risalta la nominazione blasé, svagata e disincantata del dettato poetico di Dainotti:

Il mio cane si chiede certamente
se sia saggio passare le giornate
chiuso nel mio studiolo,
sul mezzanino triste.

Fuori, la vita celebra
i suoi trionfi, in questa
foresta innaturale.

A noi sembra degrado, ma qualcuno
più giovane, cresciuto,
se ne ricorderà.

È il cane il più saggio tra gli umani di oggi. È l’aspetto grottesco quello che traspare tra le parole gentili del poeta di Cava de’ Tirreni. Ecco un altro esempio di poesia disillusa e disincantata:

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

Ma dove sono i re e le regine
di cartapesta con le teste mozzate?
Prigionieri di polvere e incantesimi
negli abbaini pieni
e sogni infranti e di luna.

Dov’è re Ezio, prigioniero illustre,
dove la sua bionda carceriera?
e Federico, vento di Soave,
a quale porticina di convento
bussò, stanco di vivere e di regnare?

Son tutti morti, non c’è più nessuno.
L’erba è cresciuta e ora il vento la spinge
sulla collina.

Non ci saremmo mai imbattuti in questo genere di poesia, una sorta di neo-crepuscolarismo declassato e privo di elegia, se non vivessimo in un periodo di grande crisi economica, politica, sociale, e crisi del linguaggio poetico. Dainotti risponde alla crisi plurima con un linguaggio soliloquiale, limpido e disilluso di chi ha cessato di credere alle balsamiche virtù progressive della storia, malgrado tutto, e alle virtù benefiche dell’io plenipotenziario e penitenziario:

Le mie prime letture, i primi sogni,
i primi amori sfortunati, i primi
versi. Mi sembrava giusto che la vita
finisca dove è cominciata.

Ciò che resta non è neanche più il non-senso, che sarebbe pur sempre una istanza plausibile, quanto l’indebolimento del senso fino alla esaustione, fino alla fine del senso stesso. Tutti quei valori di un tempo che ci appare lontano, d’improvviso oggi non valgono più nulla, sono caduti in disuso, sono stati, come si dice oggi con una brutta parola, rottamati. Fabio Dainotti ne prende nota nel suo taccuino post-lirico e si rivolge al lettore con il suo registro post-musicale medio, con il suo tono sornione, dimesso e auto ironico da neo-crepuscolare giunto in ritardo all’appuntamento con il treno dell’ipermoderno.
La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere.

(Giorgio Linguaglossa)

da L’albergo dei morti, manni, 2023

Famiglia

“Un treno lanciato nella notte”
ci aveva portato su al Nord,
io all’università; tu per lavoro,
con la tua valigia da emigrante.
Si parlava di temi difficili: la vita,
e la letteratura, si fumava;
intanto si viaggiava
verso un incerto destino.

Era, la solitudine, ghiacciata;
neppure il vino mi scaldava il cuore.
Scrivevo lettere d’amore,
ma senza il suono di una voce umana
la voce della mia amata lontana.

Indossai il mio abito elegante,
e presi il treno da Pavia a Milano;
ed eccomi in Piazza Tricolore,
dove mi porta il tram, scampanellando;
poi pochi passi ancora, caro amico,
e suono il campanello alla tua porta.

Viene tua madre, in vestaglia ancora,
e sono già le undici.
È lei che porta avanti la famiglia,
l’emigrazione al Nord e poi il lavoro
trovato a tutti i figli. Anche al marito:

a un tratto lo intravvedo
dietro una porta semichiusa,
vestito già da vigile;
parrebbe un generale,
se non fosse il sorriso bonario.

Poi c’è Filippo, il figlio donnaiolo;
rincasa tardi d’estate, apre il frigo,
afferra qualche cosa da mangiare
incurante di me; poi ti canzona
bonariamente e se ne va a dormire. Continua a leggere

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