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Sono Dino Villatico nato a Roma nel 1941, il 28 aprile. Infanzia trascorsa a Roma, infuriava la guerra, il ricordo più remoto è, infatti, il bombardamento di Centocelle. Poesie inedite di Dino Villatico con una Lettera di Giorgio Linguaglossa: “L’io non è padrone in casa propria” Freud, Marie Laure Colasson, absence, 70×70, acrilico, 2024

Absence 70x70 acrilico 2024

(Marie Laure Colasson, Absence 70×70 cm acrilico, 2024)

Sono  Dino Villatico nato a Roma nel 1941, il 28 aprile. Infanzia trascorsa a Roma, infuriava la guerra: il ricordo più remoto è, infatti, il bombardamento di Centocelle, e per anni sono vissuto con il terrore del rombo dei motori di un aereo. Dagli 8 ai 15 anni ho frequentato le scuole argentine (elementari e Colegio Nacional, il nostro liceo) a Bahía Blanca, Provincia di Buenos Aires, forse il periodo più felice della mia vita. L’apprendimento di un’altra lingua, lo spagnolo, mi aprì la mente all’esperienza di pensare in molte lingue. Devo a questa iniziazione l’attuale familiarità, più o meno stretta, con lo spagnolo, il francese, l’inglese, il tedesco, il greco, antico e moderno, il latino.  Tornata in Italia la mia famiglia, ho frequentato il liceo classico e poi l’Università, iscrivendomi in un primo tempo a Medicina, con l’intento di diventare psichiatra, ma traslocando ben presto a Lettere. L’Università di Roma, allora, era una fucina di idee e di sperimentalismo. Conobbi Federico Chabod, Nino Perrotta, Natalino Sapegno, Nino Borsellino, Aurelio Roncaglia, Bruno Migliorini, Ettore Paratore, Ugo Spirito, Gustavo Vinay (indimenticabile il suo corso su Abelardo ed Eloisa), Alberto Asor Rosa. Mi laureai con Sapegno redigendo una tesi su un poligrafo fiorentino del ‘500, Antonfrancesco Doni, ma relatore fu Nino Borsellino, che restò poi un caro amico, e correlatore fu Asor Rosa. Perfezionavo intanto i miei studi di pianoforte con Vera Gobbi-Belcredi e di composizione da autodidatta, ma, appena laureato, posto al bivio tra musica e letteratura, vinse la seconda. Non ho ancora raccolto in volume né i miei saggi letterari e musicali né i miei racconti (alcuni su riviste) né la maggior parte delle mie poesie, alcune uscite su Nuovi Argomenti e una raccolta dal titolo Ecografia di un Congedo presso Ladolfi, 2021, e un’altra, Paesaggio, nell’Edizione del Mediterraneo, 2020. Saggi musicologici in atti di convegni e riviste musicali. Affido talora scritti e riflessioni sul mio blog: Dionysos41 blog di Dino Villatico. Attualmente sono in pensione, e vivevo, fino al 2013, nel Parco di Veio, alle porte di Roma, in un sobborgo della cittadina di Sacrofano, Monte Caminetto. Mi sono poi trasferito a Fiano Romano, in una villetta in cima a una collina, in mezzo agli olivi, vista a ovest del Monte Soratte, a Est scorre tra verdi brughiere il fiume Tevere. Ma continuo a scrivere critica musicale e altri scritti di vario genere. Latino e greco non sono per me lingue morte, ma le lingue vive dei miei padri. Chiudo, perciò, questo breve promemoria con una citazione oraziana: Immortalia ne speres, monet annus et almum/   quae rapit hora diem.

me alla presentazione di un libro

Poesie inedite di Dino Villatico

Versi dettati da un sogno

Il tuo grido che lacera la gola
e non sai dirlo, questo è la poesia.
Il tuo pianto che soffoca il respiro,
e per dirlo ti manca la parola,
ma questo, ascolta, questo è la poesia.
La vita che ameresti raccontare,
e a cantarla non trovi la canzone:
questo, però, ti dice la tua Musa,
questo e non altro, questo è la poesia.

(Fiano Romano, 31 marzo 2024, Pasqua)

Discanto di un indecifrabile domani

1.

Sul treno Roma – Torino, 22 dicembre 2023

Una valanga dal riflesso vivo
del sole contro i vetri mi sommerge
mentre il treno declina la sua corsa:
so dove vado, ma non so da dove
sto tornando. Un ammasso d’incompiuti
progetti mi sopprime il pensiero,
per qualche brama che mi sopravvive
lo leggo sulle floreali facce
del mio passato di vagabondaggi
tra queste case, e sono silenziati
con le parole tutti i sentimenti.
La intravidi a vent’anni salvatrice
– non so da chi, né da che cosa – stinto
patriota di una patria immaginaria,
la mia storia, le mie montagne, il mio
evadere da casa, se Torino
mi apparve tutto questo, e anche dell’altro,
dopo il pellegrinaggio solitario
che m’apriva più mondi ma nessuno
davvero sconosciuto, e tutti estinti.
C’ero tornato con mio padre, che ora
mi vedevo dormire accanto, e il fiato
del suo respiro lo sentivo in aria
occupare la stanza, e udivo fosco
come russava, che toglieva il sonno,
figurandomi ormai tutta la notte
con gli occhi aperti a guardare il soffitto.
Aperti, anche, da nebbie di ricordi,
sempre gli stessi, d’incompiute larve,
di desideri che non hanno sbocco:
mi sgridava, mi sgrida sempre ancora
inesplicata la paura e l’ansia
dei ritorni. Non sembra una mia storia
ciò che mi accade, ma potrebbe forse
insinuarsi nel ristretto spazio
di un’immagine la sorpresa o il vizio
di una individuale coesistenza
di atti nefandi e di piacevolezze,
invece che la semplice e banale
inesistenza di un io che si vanta
singolare. Di quanti tu, di quanti
noi si coniuga il verbo dei contatti,
se nel cupo rimescolio di sguardi
uno solo non vedi, ed è il tuo occhio
che ostenti a testimone, anche di qualche
celata perversione. Riconduci
adesso la materia dei pensieri
all’unica materia che risalta:
il disegno pre-scritto dei discorsi,
l’appartenenza provvisoria e sciatta
delle parole. Fu Torino quella
che ti scrostò la patina d’infanzia,
gl’incontri, anche se transitori, fanno
meno chiasso di quanto supponevi,
ma non fu tuttavia da nessun’altra
patina che sentivi sovrapporsi
spogliato il cuore, e tanto meno il corpo.
Nemmeno in Via Cernaia, dove casto
restò il contatto, ma non il pensiero.
Se cedo all’elegia, è perché credo
che non sia elegia lo sforzo – vano,
certo, ma come potrei evitarlo? –
di scansare la commiserazione;
non è lamento la constatazione
d’inesistenza quando sei succhiato
dalle allettanti fauci del passato:
un tempo ch’è finito, non è tempo
che nel superbo e fatuo labirinto
del tuo cervello. Ma per tale niente
diventa un niente l’oggi, una memoria
perfino il fatto che lo stai vivendo.

2.

Torino, Caffè Lavazza, 24 dicembre 2023

L’emporio di parole si è svuotato:
nessuna voce, o sillaba, o sussurro,
racconta il mondo: che va per la strada
nascosta del non detto, e quando l’occhio
distingue la distanza tra lo sgorbio
ammutolito e il passo inascoltato
del tempo, il silenzioso insinuarsi
dell’insignificante, l’aspro morso
dell’accaduto, è troppo tardi ormai
per ammutire l’urlo di dolore,
per silenziare il graffio dell’artiglio
con cui l’inaspettato irrompe e toglie
il fiato alla Ragione; senza lingua,
e senza un quadro di riferimento,
la parola smarrisce la funzione
di parlare, declina il segno a muto
inefficiente rudere di un uomo,
di un bipede animale che ha distrutto
la differenza che lo distingueva
dalle altre specie, muto ormai per sempre,
ma capace di demolire il mondo,
per la spropositata, inane voglia
di dominarlo. Chi sa come, o quando,
vedremo sulla terra un animale
di questo più insipiente e più dannoso.

3.

Superga, 25 dicembre 2023

Guardo dalle terrazze di Superga,
nel giorno di Natale, la catena
poco innevata, in questo desolato
anno di guerre, e scarsità di piogge,
delle Alpi all’orizzonte; sotto un cielo
azzurro, qualche nuvola vagante,
fiocco di ovatta, sulla verde piana,
e guardo di fronte a me il Monviso,
e sotto, nella valle, tra le case,
serpeggiare a Torino il lungo nastro
del Po, l’acqua che nasce dal pendio
delle sue falde, il corso della Dora
Riparia e, più lontano, dello Stura;
immoto al sole, ai piedi della grande
basilica, contemplo la foschia
densa nella pianura, e guardo dopo
limpido il cielo sopra la mia testa.
Ma come sono giunto a questo istante,
e che tempo nel tempo inavvertito
delle montagne, i platani spogliati,
gli abeti verdi, i rami rinsecchiti
degli aceri e gli arbusti a primavera
colorati? Dall’ombra permanente
di questi mesi nasce numinoso
il muoversi del tempo, si presenta
una vita per chi l’aspetta. Morte
soltanto, per chi resta e sopravvive,
decide la misura di durata.

4.

Museo Egizio, 26 dicembre 2023

L’Olimpo è un desiderio inadempiuto
di cancellare dalla vita umana
ogni domani, farne un permanente
oggi, l’inafferrabile momento
che non ha inizio e che non si conclude.
Fosse il tempo dell’atomo, la parte
introvabile della percezione
di ciò che di una cosa fa una cosa

Giorgio Linguaglossa e Alfredo rienzi Accettura, 13 agosto 2017

Giorgio Linguaglossa, 2017

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caro Dino Villatico,

la nuova ontologia estetica con le sue ultime propaggini della poetry kitchen è una poesia epifenomenica che viene dopo il diluvio storico del novecento. La dichiarata intenzione dei suoi autori è progettare, attuare una poesia da cui emerga, tra i propri caratteri distintivi, quello esplicito ed evidente, della «non-letteratura dell’io», del «mestiere del poeta isolato nella propria stanza», quanto una «pratica» che si acquisisce collettivamente in una “officina”, in una “bottega”, in un “ufficio” dove non si segue alcuno dei modelli letterari «correnti e consunti» del lontano novecento.. Vi sono in essa frammenti diaristici e autobiografici, sì, il viaggio, il quotidiano, la cronaca, l’attualità etc. ma conglomerato con il vettore fantasizzante, l’ultroneo, l’abnorme. tutto quello che ci era stato somministrato nel secondo novecento e in questi ultimi anni lo abbiamo lasciato alle ortiche, nel kitchen vi si trova, dicevo, l’ultroneo, l’abnorme, l’Estraneo, i sosia, gli avatar. Nella poetry kitchen salta agli occhi la portata innovativa, la forte impronta metapoetica e metalinguistica in cui vengono esibiti il «lavoro», la «professione» dell’artigiano, i temi politici ed «eretici» ma come visti da un altro pianeta, un ultra-post-surrealismo se vuoi, l’avversione per ogni nostalgia del Passato, la consapevolezza di un «nuovo paradigma» per una poesia senza speranza, senza futuro e senza disperazione, quasi che una vivace goliardia sia la estrema risorsa che possa essere data oggi agli uomini dell’Occidente.

Una poesia in cui tutto quello che è al di fuori del soggetto pensante e del soggetto poetante viene ccettato, una poesia che sembra nascere incompleta, in qualche modo neutra, neutrale e che sa di nascere in ogni modo già neutralizzata; una poesia non auto referenziale, non specchio di Narciso, non personalistica, non autobiografica, una poetica del No. Nella poetry kitchen le citazioni interne tra gli autori sono numerosissime, come anche gli scambi di lettere come tra conoscenti, scambi di persona e di autorialità.

Una poesia che non è neanche anti-poesia (come quella del novecento), in quanto priva di ogni speranza e priva di disperazione, priva di passato e di futuro, e priva anche di utopia e/o di sogno idealistico o idealizzante e che, nonostante tutto ciò, considera il fare poesia un’azione, una pratica, un fare, un’etica che incide sul reale, organizzandolo in termini di parole dis/proprie e dis/propriate. Così, la poesia non è più qualcosa di mistico-ineffabile o personalistico, ma punta tutto sul dire, sul detto, e sul fare concreto dell’atto linguistico, una poesia activa, pragmatica e fantasizzante, una speech-poetry con una sua propria (auto) organizzazione, un proprio Progetto, un proprio Modello, un proprio Paradigma, e anche, lo si conceda, un suo proprio Enigma, una connotazione oscura e anfibologica. Infatti, l’Enigma che essa contiene non può essere sciolto ma solo attraversato e dispropriato. Cito Freud:

«l’Io non è padrone in casa propria»
(Freud, 1917)

A distanza di più di cento anni dalle parole di Freud penso sia il caso di prenderne atto. La poetry kitchen è una pratica discorsiva che non prevede più l’Io quale protagonista plenipotenziario, ma, al massimo lo designa come un ospite, una maschera, un sosia, un avatar, un Altro,  un Estraneo…

(Giorgio Linguaglossa)

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