Ljubomir Levčev (1935-2019), Poesie da I passi dell’ombra, (Testo bulgaro a fronte), Bompiani, Collana: CapoVersi, a cura di: Giuseppe Dell’Agata, maggio 2021, la poesia di Ljubomir Levčev  spicca per la sua «nudità», per la sua «antichità», la sua «sincerità», per la sua «non esposizione» ai metalinguaggi;  quello di Levčev è un lessico «nudo» e «povero» in quanto indifeso ed esposto; non  metalinguaggio, ma linguaggio poetico, cosa geneticamente diversa e allotria rispetto ai linguaggi poetici giornalistici che vanno di moda oggidì in Europa occidentale

Ljubomir-Levčev

Ljubomir Levčev è nato a Trojan, in Bulgaria, nel 1935 ed è morto a Sofia nel 2019, è stato un poeta bulgaro. Vincitore della Corona d’oro del Festival della poesia di Struga e tradotto in molte lingue, è uno degli autori più apprezzati della letteratura bulgara contemporanea. Membro del Partito Comunista Bulgaro, dal 1975 al 1980 è stato il vicepresidente del comitato culturale. Wikipedia

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L’ammutinamento di tutte le parole e la loro silenzializzazione

La crescita economica avvenuta in Europa occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni sessanta ha prodotto la tumultuosa stagione delle post-avanguardie a cui è seguita una crescita meno rilevante ma costante che ha assicurato una certa continuità sotto l’ombrello della Nato. Al contrario, in Europa orientale la stagnazione economica del socialismo reale ha determinato una stagnazione politica e culturale: la stagnazione politica ha determinato e influenzato una certa stagnazione culturale; si può dire che c’è stata una corrispondenza speculare tra le due stagnazioni. E poi c’è stata una terza stagnazione che potremmo definire la Grundstimmung della conservazione, quella degli ultimi due decenni che hanno condizionato i maggiori poeti europei dell’Est Europa.

Nel «nuovo» mondo di oggi «i maestri» delle generazioni dei Pasolini, dei Sartre, degli Herbert,  dei Char, dei Montale sono scomparsi irrimediabilmente e la poesia è diventata una questione «privata», una questione privatistica da regolare con il codice civile, con i manuali da condominio e da perorare con un linguaggio polifrastico, un linguaggio «interno» che ammicca all’«esterno» ad un «metalinguaggio» o «superlingua»: la poesia di Andea Zanzotto da La Beltà (1968 fino a Sovrimpressioni (2001) docet. Oggi ormai la questione «tradizione» non fa più questione, è un fuori questione. I linguaggi poetici sono metalinguaggi prodotto di proliferazione di altri linguaggi polifrastici. Oggi un critico di qualche serietà non avrebbe alcuna ermeneutica da applicare a questi linguaggi polifrastici o polinomici. Rispetto a tali linguaggi la poesia di Ljubomir Levčev  spicca per la sua «nudità», per la sua «antichità», la sua «sincerità», per la sua «non esposizione» ai metalinguaggi;  quello di Levčev è un lessico «nudo» e «povero» in quanto indifeso ed esposto; non  metalinguaggio, ma linguaggio poetico, cosa geneticamente diversa e allotria rispetto ai linguaggi poetici giornalistici che vanno di moda oggidì in Europa occidentale. Dalla storicità forte del novecento si è passati alla storicità debole di oggi, alla storialità. Il pensiero poetico non ha più alcun oggetto se non l’erranza della metafisica, l’eclissarsi della metafisica, con annesso e connesso il bagaglio degli strumenti retorici ed ermeneutici che quella metafisica portava con sé. Ljubomir Levčev raccoglie il testimone di questa eredità di povertà e la coniuga con il rigore di ciò che resta oggi, ad Est, di quella stagione  che un tempo fu del modernismo.

Il linguaggio poetico di Ljubomir Levčev   ha una propria peculiare Grundstimmung (tonalità dominante). Ogni poesia ha una propria tonalità una sorta di chiave di volta che consente di sperimentare la estraneità a noi stessi e ogni poeta espropria questa estraneità per trasferirla nel linguaggio poetico. Si tratta di un esproprio dunque, e non di una riappropriazione di alcunché. Il linguaggio poetico è lo specchio che ci mostra il vero volto della nostra estraneità a noi stessi, lì non è più possibile mentire, in questa antinomia viene ad evidenza la scaturigine profonda del linguaggio silenzioso: l’impossibilità oggi di dire la «verità» se non nella forma di ipoverità. Nel lessico silenzioso di Levčev  si ha l’ammutinamento di tutte le parole e la loro silenzializzazione; qui è evidente che affiora il «silenziatore della verità», l’essere il lessico silenzioso il vero propellente delle parole oggi ridotte a fumo linguistico, segnali di fumo che i contemporanei si scambiano gli uni con gli altri da una collina all’altra, le colline della incomunicazione.

All’improvviso, si apre il vuoto: vuoto di senso, di significato, vuoto intorno alle parole, all’interno delle parole, vuoto all’interno del soggetto e dell’oggetto… e tutto sprofonda nel vacuum del vuoto. Gli esseri umani hanno terrore del vuoto e cercano di riempirlo in tutti i modi e con tutti i mezzi: con le credenze, con parole consuete, con i pensieri di tutti, con i sofismi. Sarà perché nelle società post-democratiche dell’Europa orientale l’esistenza degli esseri umani è stata ridotta a «nuda vita», a vita vegetativa, biologica che il cosiddetto «privato» riflette una condizione di asocialità diffusa, di privatizzazione di tutto ciò che un tempo lontano era «pubblico» e pubblicistico. La poesia di Ljubomir Levčev  registra, in chiave post-lirica, questo passaggio: la degradazione a cui la vita nel mondo capitalistico e post-comunista è stata ridotta.

(Giorgio Linguaglossa)

 

Ljubomir Levčev Bompiani

Ljubomir Levčev

Poesie da I passi dell’ombra

Adesso andate tutti via,
benevolenti,
consiglieri,
ansiosi di come io debba essere!
… Voglio essere il tappino di latta
di una bottiglietta di limonata
Voglio che mia figlia
vestendomi di mattina
mi nasconda
nella taschina del suo grembiulino.
Per avere qualcosa di casa
nascosto all’asilo.
Perché non è permesso
portare qualcosa di simile.
Qualcosa di così necessario!

Quando è necessario
io di colpo divento raggiante
dentato,
argenteo,
come una stella.
E mia figlia sorriderà

Che si infranga pure il divieto!

(1967) Continua a leggere

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Đorđe D. Sibinović (1964), Dieci Poesie, testo serbo a fronte, da La penna di William Shakespeare, a cura di Elizabet Vasiljević, Il poeta serbo scopre che la  condizione umana è attigua a quella della simulazione, il discorso dell’io è una sorta di oscena ripetizione della simulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo. Più che una poesia dell’esistenza, siamo in presenza di una poesia che sopravvive al cadavere dell’esistenza, alla dissoluzione dell’esistenza

3. Đorđe Sibinović

Đorđe D. Sibinović, scrittore, poeta e sceneggiatore serbo, è nato nel 1964 a Šabac. Dottore in giurisprudenza, vive e lavora a Belgrado. Ha pubblicato 11 libri di poesie: Presto (1994), Plodovi (1998), Nešto poverljivo (2004), Naselje belih kuća (2012), Rečnik poezije (2013), Hiljadu karaktera (2013), Pesme ljubavi pune (2014), Antologija uporednih snova (2015), Olovka Wilijama Šekspira (2018), Vidiš me kako usisavam (2019), Svojim rečima (2020). Ha avuto importantii riconoscimenti. Oltre alla poesia, ha pubblicato anche 7 libri di saggi e 4 romanzi. Il suo ultimo romanzo Plač mačke božije (2021) – Il pianto del gatto di Dio – ha attirato un’attenzione particolare sulla scena letteraria serba.

Le sue opere sono state tradotte in russo, inglese, italiano, tedesco, slovacco e macedone e arabo. Đorđe D. Sibinović non è quindi sconosciuto al pubblico letterario italiano. Il suo romanzo Genitori (Roditelji) e la raccolta di poesie La penna di William Shakespeare  sono stati tradotti in italiano e pubblicati da SECOP edizioni.

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Ermeneutica

È una poetica del «vuoto», una poesia del «vuoto», il «vuoto» è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «soliloqui» fa esplodere. L’atto soliloquiale del poeta serbo assume l’aspetto di un discorso che si svolge nel foro interiore, ma il poeta scopre che l’interiore dell’io coincide con la superficie dell’io, che non c’è nulla di autentico nell’io; si ha l’impressione che il poeta serbo metta in atto una diabolica macchinazione della simulazione, ci induce al sospetto quel suo tergiversare tra le pareti della interiorità come irrigidita, muta, ostile alla sua duplicazione in parole. Il poeta serbo scopre che la  condizione umana è attigua a quella della simulazione, il discorso dell’io è una sorta di oscena ripetizione della simulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo. Più che una poesia dell’esistenza, siamo in presenza di una poesia che sopravvive al cadavere dell’esistenza, alla dissoluzione dell’esistenza. In tal senso la poesia di Đorđe D. Sibinović è una tipica poesia del postumanesimo. Nell’epoca del tramonto dell’umano la poesia si ricava uno spiraglio, un pertugio nel quale sopravvivere come una muffa o un echinoderma.

(Giorgio Linguaglossa)

da La penna William Shakespeare

scrivere poesia
a penna stilografica con inchiostro
blu regale
sulla carta senza legno…
rullare la polvere del talento
che scorre
attraverso il pennino d’oro
della storia dell’arrivo delle oche
alle corti
e non dire niente…
versare l’orma
dell’inchiostro
nella lettera dei due pazzi
che credevano che
il sangue diventasse l’inchiostro
e che con il sangue solamente
si potesse
scrivere…

OLOVKA VILIJAM ŠEKSPIR

pisati pesme
penkalom mastilom
kraljevski plavim
po hartiji bez drveta…
valjati prah talenta
što prostruji
zlatnim perom
istorije ulaska guske
na dvorove
i ne reći ništa…
prosuti trag
mastila
u slovu dva ludaka
koji su verovali da
krv postaje mastilo
a da se samo krvlju
može
pisati…

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La terapia

sei chilometri
di cammino veloce
attende il malato di cuore
ogni giorno.
il mio caso è
specifico.
all’inizio sono pronto
al peggio
poi
mi soffermo aspettando
un colpo improvviso…
finché l’accelerazione
non porta la gioia
della nuova nascita
senza malattia.
a casa giungo
sudato
e deluso
per quanto tutto
dura
poco…

TERAPIJA

šest kilometara
brzog hoda
čeka srčanog bolesnika
svakog dana.
moj slučaj je
osobit.
prvo pomišljam
na najgore
zatim
zastajkujem očekujući
iznenadni udar…
da bi ubrzanje
donelo radost
novog rađanja
bez bolesti.
domu stižem
znojav
i razočaran
koliko sve
kratko
traje…

*

LA PENNA WILLIAM SHAKESPEARE

La farmacia

ho notato
che qualcuno
entra in casa mia
alla chetichella
e prende mie medicine.
non sono avaro
la mania di persecuzione
non mi ossessiona
ma non capisco
perchè si beve
tanta quantità
appena apro
una scatola
e quella non c’è più.
ho intrapreso un’inchiesta
meticolosa
spostato lo zerbino
interrogato la farmacista
segnato la data e
aspetato il fantasma.
ci potreste credere
le ho preso
io… Continua a leggere

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La poesia è sempre giovane, di Alfonso Berardinelli, colloquio con Andrea Cortellessa, Giorgio Manacorda e Emanuele Trevi su una Antologia di poesie prive dei nomi degli autori. Poesie usa e getta di Francesco Sainato, Realismo Terminale

(video del 18 aprile, 2017) Leggere una poesia dopo la cancellatura della firma dell’autore. Una Antologia di poesie prive della indicazione dei nomi degli autori. L’attualità di una Antologia delle migliori e delle peggiori poesie uscite nell’anno precedente senza indicare i nomi degli autori è un atto critico demistificatore?, o provocatore?, si tratta di mistificazione o di provocazione?. Berardinelli chiede: Proviamo a leggere le poesie nascondendo il nome dell’autore: avrebbe lo stesso significato per noi che se sapessimo il nome dell’autore? Parlare dell’«esperienza estetica della poesia» (come dice Emanuele Trevi), è una mistificazione o una provocazione?, si è influenzati sapendo che quella poesia è stata scritta da un certo autore piuttosto che da un altro?. Ascoltate le risposte di Alfonso Berardinelli, ne vale la pena. Berardinelli:
«Non c’è nessuna persona in grado di leggere per tre volte una poesia. Si adora un idolo vuoto, il feticcio della poesia. Chiedo se riuscite a formulare un pensiero, se non proprio a dire, mah, buono, pessimo, migliore del testo precedente… Io credo nelle poesie che mi convincono di crederci… ti interessa la pasta e fagioli o il cuoco che ha cucinato la pasta e fagioli? È un’epoca di firme… Conta la firma dell’autore più che le cose scritte… E allora, qual è la situazione della poesia contemporanea?… Una  «vecchia volpe dello sperimentalismo» (Cesare Viviani)  ha scritto: “È passata la vita e non ce ne siamo accorti”, una banalità… Gabriele Frasca costruisce dei blocchetti di versi insensati, è un impostore, uno che fa finta di essere un poeta, fa finta di esserlo… Milo De Angelis è un adolescente che è rimasto adolescente… Giuseppe Conte scrive delle poesie per lodare il mare, però Conte nel suo ridicolo e retorico è interessante, Frasca non è nemmeno interessante… sono poeti che non meritano di essere presi in seria considerazione… Ci appassioniamo al senso, poi la bellezza non ci basta più… l’idea fissa di Giorgio Manacorda: la poesia non ha a che fare con la bellezza, è naturale, l’arte è espressione, soprattutto quella moderna… i greci avevano una visione metafisica, faceva parte della loro cultura, noi non ce l’abbiamo, a noi basta il senso… ci sono dei quadri della pittura moderna che sono di una bruttezza assoluta, a cominciare dal “Grido” di Munch, però hanno senso, e noi ci siamo appassionati al senso, troviamo bello ciò che contiene molto senso, quale sia questo senso lo decidiamo di volta in volta, quindi da qui nasce l’iper ermeneutica interpretativa che noi dobbiamo aggiungere alla produzione estetica moderna, c’è una sovra produzione interpretativa proprio perché il senso è più importante, la bellezza ammutolisce, il senso rende eloquenti perché ti costringe a dire che senso è… l’importanza di certi testi deriva dal senso non dalla loro bellezza»

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Il Realismo Terminale e la mia raccolta “poesie usa e getta”

Il Realismo Terminale è il movimento poetico fondato da Guido Oldani nel 2010 ed ufficializzato nel 2014 grazie alla pubblicazione del Manifesto breve del Realismo terminale presentato presso il Salone del libro di Torino e firmato da Guido Oldani, Giuseppe Langella e Elena Salibra.

Si tratta del fenomeno letterario più interessante ed innovativo di questi anni 2000 in quanto ne rappresenta i cambiamenti fondamentali, “capace di agitare le acque stagnanti della palude post novecentesca” (cit. Giuseppe Langella), che ha trovato interlocutori anche in altri campi: artistico, musicale e performativo. Esso si trova all’interno dei manuali di letteratura contemporanea ed è ormai materia di studio tanto nei licei quanto nelle università.

Il Realismo Terminale si serve di uno strumento retorico sorprendentemente innovativo, la «similitudine rovesciata», attraverso la quale il poeta paragona la natura agli oggetti (e non più viceversa). Questo perché, non solo gli oggetti occupano ormai tutto il nostro spazio vitale, ma anche perché sono diventati indispensabili. Guido Oldani, con incredibile lungimiranza, già nel 2010 parlava di “pandemia abitativa”: l’essere umano si ammassa sempre di più in giganteschi centri abitati, dimenticandosi pian piano della natura che va via via scomparendo per lasciare spazio appunto all’artifizio umano, vero protagonista di quell’accatastamento che il Realismo Terminale racconta.

Nel gennaio 2021 ho cominciato ad avvicinarmi al Realismo Terminale grazie all’amico poeta Igor Costanzo mediante il quale ho avuto l’onore di conoscerne il padre, Guido Oldani. Così sono entrato a far parte di questo movimento e ho iniziato a produrre una serie di testi poetici che in questa raccolta sono presentati in ordine cronologico. I temi trattati vertono prevalentemente sulla poesia civile, ma non mancano riferimenti alla mia vita personale. Ho voluto soffermarmi inoltre su fenomeni sfuggenti e intergenerazionali come quelli che coinvolgono i giovani d’oggi, soprattutto in relazione alle nuove tecnologie (web, social, ecc…), affidandomi alla poesia in quanto la considero lo strumento più adatto per l’indagine di essi e non ho intenzione di arrendermi al retorico anacronismo del Novecento.

(Francesco Sainato)

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Francesco Sainato è nato a Brescia nel 1986. Dopo avere prestato servizio presso l’Università Cattolica di Brescia, si è laureato nella stessa in Lingue, letterature e culture straniere nel 2016. Attualmente insegna a Brescia. ha pubblicato nel 2016 Cambio verso (intima mente). Da gennaio 2021 fa parte del Realismo Terminale, contribuendo alla pubblicazione di Nascondere NagasakiHacker pentiti contro i Realisti TerminaliLo sgabello degli angeliCarnevale dei piedi, maschere e mascherine e Il gommone forato.
[Francesco Sainato e Guido Oldani]

da Poesie usa e getta di Francesco Sainato

1. la marmellata

esseri umani, tutti quanti come
fichi appassiti appesi a rami
secchi, precari ma spesso saldi.
quanti ne ho visti cadere,
quanti resistenti resistere
circondati da vespe rapaci:
si salvano solo i salaci.
ma a che serve, dico io
faticare in questa vita,
se il destino ci conserva
fino all’ultima fermata
e poi siamo marmellata?

(7 novembre 2020)

2. la ceralacca

la bocca troppo asciutta,
aride le labbra dimentiche
dei baci e di quei morsi.
poi m’accorsi tutt’un tratto
d’esser figlio del momento
in cui tutto il mio mondo
di carta è come una busta
chiusa per sempre dopo il tuo saluto.
il tuo ultimo bacio
m’ha lasciato sulla bocca
l’eternità di un sigillo
come fosse ceralacca
che fa di quel sapore il tuo vessillo.

(20 novembre 2020)

3. boccaccio 20

vedi milletrecentoquarantotto,
sei tornato presente nel presente.
ah Giovanni, quei dieci giorni come
quarantena preventiva in fuga
da un mondo corrotto da rifondare,
riportali qui, insegnaci a narrare
la satira, il sarcasmo, l’ironia
di un orgasmo; però se ci guardi ora,
non siamo di certo come te allora
ma come la tastiera dello smartphone:
corregge in automatico gli errori
della vita giorno per giorno senza
capire che conta solo l’esperienza.

(23 gennaio 2021)

5. Angelica

sei squisita se arrossisci,
quando il mio elogio per te diventa
un abito da sera eccezionale
e tu lo indossi con pudore,
la tua eleganza non è mai banale;
senza vanto mi piace tanto.
potrei farti mille lodi, eccome
ma il complimento più bello
lo farei chiamandoti per nome.

(31 gennaio 2021)

6. la crisi

e la chiamano crisi quest’assenza
di fiducia al governo degli onesti.
ci sono retori e responsabili,
sono bravi a parlare dalle piazze
ma poi si chiudono nel parlamento,
tritacarne deputato a un pasticcio
che preparano a noi inconsapevoli.
e ancora li chiamano onorevoli!
(1 febbraio 2021)

7. dopo la crisi

come un diapason vibra il presidente
nell’attesa snervante che si giunga
all’accordo perfetto tra le forze
in gioco nell’orchestra tricolore.
vibra il presidente, chissà per quanto,
e intanto toccano terra gli avvoltoi
ché la preda è stata apparecchiata.
ma la nota la si sente lontana,
qui la musica ancora è stonata.

(3 febbraio 2021)

8. l’olocausto dei fiammiferi

vivono immersi nelle loro fobie
i cercatori d’odio sulle tastiere.
chi con la svastica infanga la memoria,
chi con la falce denigra il ricordo
e sono eternamente in disaccordo
sugli orrori bestiali della storia:
fosse colme come posacenere
davanti ai cartelli “vietato fumare”.
ma non è una follia parteggiare
solo per certi caduti che sono
come fiammiferi fra due dita
scottate da una fiamma infinita?

(10 febbraio 2021)

12. la variante inglese

l’università di lingue straniere
è come un tostapane in promozione
pronto all’uso e senza garanzia.
le briciole della perfida albione
sono il pane quotidiano per la lingua
italiana molto smart all inclusive
oramai senza più troppe pretese:
siamo invasi dalla variante inglese.

(5 marzo 2021)

13. alla thyssenkrupp di torino

s’è visto un inferno di acciaio e di olio
in quel purgatorio di uomini come
candele raffinate col petrolio
sciolte in fretta da un fuoco insudiciato.
ora la cera cela la vergogna
di chi assume e assicura il personale
a un nuovo posto di lavoro e ignora
che nelle fabbriche si muore ancora.

(20 marzo 2021)

14. 21 marzo 21

i poeti d’avanguardia hanno inteso
che ogni esperienza – anche se a distanza –
è una strada di tornanti dove
i loro a capo sono curve a gomito
dentro un bosco di pini capovolti
con i coni ad indicarne la rotta:
«salite fino alla vetta fecondi,
osate e non siate dei donabbondi»
(21 marzo 2021)

15. il recovery fund

l’europa spala chili di milioni,
li getta in pasto ai draghi del momento
come la focaccia data a cerbero
per ammansire il popolo scontento.
ma qui da noi i golosi sono troppi
sono fili intricati sul traliccio
e sembrano rivelare ai passanti
che il recovery fund sarà un pasticcio.
(24 marzo 2021)

16. la domenica delle palme

gesù è entrato a gerusalemme
lemme lemme in sella a un asinello:
pare la pialla che passa sul legno
dell’asse della croce ancora intonso
e al responso – lontano sette giorni –
la gente non ci pensa ma si addensa
presso l’unto come l’olio di palma
al tempo non precluso dalla mensa.

(28 marzo 2021)

21. la clessidra

Il caos provocato dall’agenzia ARIA per la mala gestione dell’emergenza
vaccinale anti covid, ha portato l’amministrazione lombarda a sospenderne
l’incarico, intraprendendo una vera e propria lotta contro il tempo. Forse
l’arrivo del generale Figliuolo, nominato commissario straordinario per
l’attuazione e il coordinamento delle misure per contenere e contrastare
l’emergenza epidemiologica, darà una scossa a questa situazione assurda che
sta mettendo in ginocchio prima fra tutte la regione Lombardia.

la lombardia eccellenza italiana
è una grossa clessidra crepata
che ingrassa con gli scandali insabbiati
e i contagi, dopo le stragi, avanzano
come barbariche invasioni e intanto,
con la speranza che arrivi il figliuolo
prodigo non solo di consigli,
giunge l’ora di cambiare aria
prima che questa regione
diventi invece un’urna funeraria.

(2 aprile 2021)

25. sonetto terminale

Guido, i’ vorrei che tu e Igor ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un aereo, ch’ad ogni vento
nel cielo di lardo lodasse il trio,

sì che Stoccolma od altro loco rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, parlando di accatastamento,
di tale avanguardia crescesse ‘l disio.

E monna Tania e poi monna Izabella
con quella ch’apparir ancora stenta
con noi creassero nova cultura:

e quivi ragionar della natura
simile agli oggetti in ferramenta,
sì come i’ credo farebbe Langella.

(13 maggio 2021)

26. la felicità altrui

la felicità è un’opera d’arte
e quella degli altri è un falso
d’autore in svendita all’asta:
adesso basta! la vita passa
dai pixel che filtrano un bacio,
un fiore, una pizza, un cane,
mentre brucio dimenticato
come un carré nel tostapane.

(16 maggio 2021)

30. il boomerang

gli altri fingono sincero interesse:
frasi fatte da baci perugina
svolazzano vuote nel mio mondo
come un boomerang di sola andata
che torna solo per colpirmi da dietro
mentre mi volto a pensare al passato
sbriciolato in mille pezzi di vetro.

(5 luglio 2021)

35. la bancarotta

l’essere umano ha smesso di pensare,
il sogno nel cassetto lo ha lasciato
con la muffa dentro lo scantinato,
la polvere vi si accatasta in strati
coprendo così la vera natura
che giace nascosta ai bimbi cresciuti:
come un salvadanaio in terracotta
il mondo, frantumato in mille pezzi,
speriamo non dichiari bancarotta.

(27 agosto 2021)

39. La fine dell’estate

La fine dell’estate porta con sé
un senso malinconico, un non so che,
quasi come un nastro trasportatore
che gira all’infinito mentre aspetto
il mio bagaglio come Didi con Godot
insieme a sconosciuti stretto stretto
e penso che l’attesa valga la pena:
il dolce viene sempre dopo cena.

(19 settembre 2021)

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Due Autori dalla Antologia AA.VV. Poetry kitchen, Guido Galdini, Giuseppe Gallo, È l’entropia, non l’energia, che fa stare per terra i sassi e girare il mondo. L’intero divenire cosmico è un graduale processo di disordine, come il mazzo di carte che inizia in ordine e poi si disordina mescolando, riflessioni di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa

Locandina San Basile

È stato il primo Festival della Poetry kitchen tenutosi di fronte al Monastero basiliano circondato dai monti boscosi del Pollino. Non eravamo tanti, il Comune di San Basile conta 943 abitanti, ma è stato comunque un momento nobile e intenso. Gino Rago, Giuseppe Gallo e Vincenzo Petronelli hanno svolto una breve riflessione sulla modalità kitchen con cui noi stiamo nel mondo, Marie Laure Colasson ha recitato alcune poesie contenute nella antologia. La Poetry kitchen è ormai una realtà. L’anno prossimo, sempre in agosto, abbiamo deciso di fare il secondo Incontro della poetry kitchen con relativa pubblicazione della seconda Antologia, sarà una festa di paese, con vino, cibo e musica offerte dal Comune e la recitazione col megafono delle poesie kitchen da parte degli autori. Arrivederci, dunque, al prossimo Incontro. Qualche giorno prima, il 24 agosto, si è tenuto il debutto della Antologia della Poetry kitchen nello “Spazio cinema” di p.za Vittorio a Roma, Incontro organizzato dall’assessorato del Comune di Roma, Letizia Leone e Marie Laure Colasson, insieme a chi scrive, hanno presentato l’antologia con un grande successo di pubblico e viva curiosità.

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Francesco Paolo Intini

“E’ l’entropia, non l’energia, che fa stare per terra i sassi e girare il mondo. L’intero divenire cosmico è un graduale processo di disordine, come il mazzo di carte che inizia in ordine e poi si disordina mescolando.”
(L’ordine del tempo, pag 142 Carlo Rovelli , Adelphi Edizioni spa 2017)

La Poetry Kitchen secondo il mio modo di vedere le cose, lavora con questo concetto a disorganizzare il mazzo di carte che, per inteso, potrebbe essere semplicemente qualcosa da dire di socialmente utile, stimolante, ragionevole persino arrabbiato ma in ogni caso comprensibile e tale da poter essere accettato in qualunque discorso con il lettore.
La tendenza a crescere dell’entropia invece fa si che all’interno di un testo operino forze disgreganti sulle parole (talvolta diventando il contrario di quelle che assumerebbero se il testo fosse sensato) che per interferenza o altro diventano spiragli inattesi, idee, immagini, prospettive e in definitiva nuove avventure poetiche.
Ecco, l’aumento di entropia è questo moltiplicarsi delle possibilità d’immagini, di luoghi depurati del tempo storico, di analogie a partire da una situazione a minor entropia come l’idea di un cane che riposa al centro della piazza di Ovindoli e che mi ricorda Argo e il ritorno di Ulisse.
Se avessi dato forma alla mia ispirazione non sarei andato oltre questo concetto e sarei rimasto in una zona a bassa entropia, dove per inteso questo significa semplicemente un testo ordinato da un senso compiuto.
Forse avrei cercato il ritmo, le assonanze, le rime, la musicalità e dato fondo alle mie supposte capacità di procurare piacere nella lettura costruendo nel contempo una storia comprensibile, leggibile e accettabile come fossi al centro di una discussione con qualcun altro.
Qui invece il testo è semplicemente stoppato ad un istante deciso da me.
L’intervento dell’autore dunque è in questa decisione di staccare la spina e proiettare nel mondo il testo(che è solo uno degli infiniti testi possibili) semplicemente come se fosse una mano in un gioco di tressette.
Il ritorno dell’Io nella stesura del testo da cui risulta sempre assente come soggetto narrante, assomiglia quindi a quello di un croupier del tutto indifferente al risultato e perciò lontanissimo da un Io lirico desideroso di raccontarsi, confessarsi e far emozionare con una storia coinvolgente e universale.

Antologia Poetry kitchen

Guido Galdini

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è nato a Rovato, Brescia nel 1953; dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica; ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle.
Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018). È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Gli esperimenti

l’esperimento non è riuscito

di ricongiungere rallentare e disperdere
le cianfrusaglie della nostra vita

di rinunciare prima di aver desistito

di accostare i lati opposti dell’ombra
per ottenere un terzo lato segreto

di sottomettere l’euforia di un ruscello

di avere fatto finta di capire
senza destare il minimo sospetto

di far sempre qualche sogno indeciso
ogni volta che termina l’estate

di restituire quello che ci hanno rubato

di confidare a qualcun altro
ciò che andava taciuto anche a noi stessi

di guardare lo specchio all’improvviso
per smascherarci prima d’esserne delusi

di coniugare tutti i verbi al futuro
per dimenticare un po’ più in fretta il passato

di coniugarli al passato
per difenderci dalla fretta del futuro

di chiedere a chi si sta allontanando
perché cammina fingendo di ritornare

di contare le lettere della parola felicità
ed arrivare sempre fino a sette

di far rotolare le biglie giù da un piano inclinato
per misurare la solitudine dell’attrito

di tracciare due rette parallele
che si separeranno all’infinito

di rallentare la velocità degli istanti

di prevedere il passaggio della cometa
dalla sua coda riflessa in una pozzanghera

di sottintendere quel che c’era da scavalcare
di credere alle promesse dell’equinozio

di attraversare tutto il mondo a occhi chiusi
per rinunciare al fasto dell’apparenza

di ingarbugliare fino a che diventi più chiaro

di sopperire alla cautela dei ricordi
rovistando tra le rovine e i miraggi

di accorgerci che abbiamo seguito
un sentiero che non c’era mai stato

di impedire che l’arrivo diventi
un’abitudine da raggiungere verso sera

di imparare a memoria
le poesie partendo dalla fine
per non raccogliere la sfida dell’impazienza

di separare ciò che resta da vendere
da ciò che si può soltanto regalare

di regalare a tutti qualcosa di rosso

di riconoscere la fuga delle stagioni
dalla diminuzione delle parole
e dall’aumento dei sottintesi

di terminare prima che faccia buio
gli esperimenti non riescono quasi mai

Antonello da Messina San Girolamo

Antonello da Messina (Milano, Palazzo Reale, aprile 2019)*

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San Gerolamo

il manto scende ad ondate
s’increspa sul pavimento

il leone passeggia nell’ombra
fuori c’è un cielo da oltrepassare

qualche uccello in planata
si avvicina all’azzurro

troppi libri e altri oggetti
ingombrano le mensole

il pavone non ha nessuna voglia
di esibire la ruota

L’Annunciata

la mano destra si stacca
dal piano della tavola

è protesa per arrestare
la vicinanza di uno sconosciuto

l’altra mano trattiene il mantello
gli occhi hanno smesso di guardare

Pietà

il tempo ha sgretolato i volti di Cristo
e degli angeli che lo sorreggono
con le ali che pungono il cielo

il minuscolo teschio d’Adamo
è posato accanto all’albero rinsecchito

in piazza non c’è ancora nessuno
il mare è deserto di navi

un angelo tiene appoggiata alla guancia
la mano di Cristo
che pende inerme dal polso

il costato ha una breve ferita

Ritratti

bocche chiuse socchiuse
quasi aperte al sorriso

le guance in penombra
sono recise da pieghe verticali

i riccioli aggrovigliati
delle sopracciglia del volto di Torino
concludono l’ipotenusa dello sguardo

Locandina Poetry kitchen 24 agosto 2022

Giorgio Linguaglossa

Il pensiero non è uni-lineare ma può prendere simultaneamente molte strade diverse. Il pensiero poietico è per eccellenza quel campo di riconoscibilità entro il quale la parola sfonda i limiti della langue.

1) porre attenzione al principio antropopoietico dell’ibridazione;
2) porre attenzione alla dimensione gassosa della coscienza e dell’inconscio e della loro mutazione storica;
3) porre l’accento sulla pluralità prospettica delle parole;
4) la techne governa i linguaggi;
5) porsi dal punto di vista del futuro;
6) riconoscere l’ontologia delle alterità e della diversità;
7) derubricare il modello lineare del pensiero;
8) l’essenza di un ente coincide con il movimento storico dell’ente;
9) il principio dell’entanglement governa il pensiero in generale e il pensiero poetico in particolare. Continua a leggere

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Dalla Antologia Poetry kitchen (Progetto Cultura, 2022), La poesia ha finalmente fatto ingresso in cucina, Poesie di Alfonso Cataldi e Raffaele Ciccarone, mentre il Soggetto parla, la parola non sa in che direzione potrà prendere la sua parola, la parola va sempre in una direzione che il codice del linguaggio non può prevedere

Antologia Poetry kitchen

La poetry kitchen

(dal saggio introduttivo di Giorgio Linguaglossa)

 

«Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano progressivamente come le monete, come, appunto, i valori»
(Andrea Emo, Quaderno 374, 1976)

«Quando pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può “usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio»
(Andrea Emo, Quaderno 374, 1976)

A. Emo, la Voce incomparabile del silenzio, Gallucci, 2013

 

La poesia ha finalmente fatto ingresso in cucina

La poesia ha finalmente fatto ingresso in cucina, ha lasciato i salotti degli intellettuali e gli androni con le colonne neoclassiche delle abitazioni borghesi e si è introdotta in cucina. È un’attività al tempo stesso ordinaria e generica (poiché tutti mangiamo, quindi appartiene al genere), quotidiana e individuale poiché il cibo viene preparato ogni giorno da ciascuno di noi. Nella sua dimensione ordinaria la cucina soddisfa i nostri bisogni più immediati, si lega alla dimensione intima della casa, del focolare, assolve un bisogno umano ma anche, consente differenze di stile e ingegnosità, fattori indispensabili ai fini della riproduzione dell’homo sapiens. Fin dall’inizio della storia dell’homo sapiens, la sua abitazione, con il suo luogo più importante è la cucina, luogo di confezionamento e consumazione dei cibi.

La poetry kitchen è un artefatto costruito in casa con gli utensili che abbiamo sotto mano tutti i giorni: i piatti, le padelle, il coltello, la forchetta, il sale, lo zucchero, lo zenzero, la curcuma, gli aromi etc. non c’è bisogno di indossare panni aulici o «sartorie teatrali», occorre scrivere in modo dimesso e dismesso, senza fare alcun conto delle abissali angosce e delle insondabili epifanie; è una poesia frittura di pesce, poesia omelette, poesia usufritta, fatta in padella, ascoltando il tiggì de “La 7” e i telegiornali di regime, magari masticando delle noccioline o trangugiando patatine fritte.

Qualcuno pensa erroneamente che la nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen, sia solo un gioco di scacchi, di fuochi d’artificio o una collezione di figurine comiche e bizzarre, insomma, una bizarrerie. Al contrario, la nuova poesia è affollata in modo assordante dalla presenza del mondo, in essa si assiste al mondeggiare del mondo con tutte le sue acrobazie e le sue aporie. Che altro è l’espediente delle ipotiposi della «pallottola» che abita la poesia di Gino Rago che attraversa ampi spazi e svariatissimi personaggi di plurimi tempi se non un colloquio costante con la morte?, con la sua presenza ingombrante?, che altro sono gli inciampi linguistici e gli shifter, gli scambi di Francesco Paolo Intini se non l’ossessione della morte dei significati?, che cosa sono quei «pendeloques» di Marie Laure Colasson se non manifestazioni della morte ovunque si volga lo sguardo?. La poetry kitchen è ossessionata dalla presenza della morte, che tenta di esorcizzare con un caleidoscopio di immagini, di figure e di icone. In realtà, la morte è la protagonista assoluta della poesia kitchen.

Per Platone l’essenza della poiesis consiste nell’imitazione di una imitazione delle idee, da questa prospettiva la «cucina» sarebbe ancora più lontana dal mondo «vero» di quanto lo sia l’arte. Il principale argomento a tale riguardo si trova nel Gorgia: Socrate e Polo stanno discutendo di retorica, Socrate sostiene che essa non sia affatto un’arte ma una mera pratica volta a produrre piacere; Polo chiede allora a Socrate che cosa ci sia di male nel produrre piacere, e Socrate replica proponendo il paragone tra retorica e cucina: anche cucinare è un’attività che produce piacere ma, come per la retorica, si tratta di un piacere illusorio.

È dunque attorno al tema dell’illusione che ruota l’argomentazione platonica contro la cucina come arte: i piaceri che lusingano sono illusori, dunque falsi, perché prodotti da attività che simulano di essere vere arti. Socrate va avanti con gli esempi mostrando che sia la retorica sia la cucina rappresentano il polo negativo e illusorio dei veri piaceri dell’anima e del corpo. Rispetto alla retorica, la politica invece è vera arte perché mira al bene sociale; rispetto alla cucina, vera arte è la medicina perché mira al bene del corpo. (Platone, Gorgia 461c- 464d).

Fare poesia kitchen non equivale a fare poesia gastronomica, vuol dire fare della gastronomia un’arte culinaria, fare poesia con gli ingredienti e gli utensili che come detto troviamo in cucina, ma dobbiamo gettare via gli alambicchi sublimi della falsa metafisica della poesia di accademia.

Dall’“orinatoio” di Duchamp sappiamo che un qualsiasi oggetto quotidiano può diventare arte. Non serve necessariamente decontestualizzare l’oggetto o de-funzionalizzarlo, e neppure esporlo in un luogo o in un momento determinati, l’unico gesto che conta non è affatto un happening o una performance (che vale per chi non si è ancora liberato del plebeo gusto dello spettacolo circense), bensì il fatto mentale, l’idea, il concetto, l’auto legittimazione dell’arte.

Il mondo è diventato un gigantesco ready made. Il fare kitchen è in rapporto convenevole con gli ingredienti che troviamo  nella dispensa: qualsiasi «real object» può essere «ready made» e può diventare arte. Un oggetto può essere arte a intermittenza? Un oggetto può essere un semplice oggetto nella vita di relazione («real things») e poi diventare un oggetto d’arte allorché viene posto in una teca, su un podio, in una vetrina di museo, in una vetrina da bar, nella teca di una galleria, etc. Una frase giornalistica, un evento di cronaca possono diventare un oggetto d’arte se e quando verrà inserito in una poesia kitchen? Quale è il differenziale che decide se esso sia arte o non-arte?. La poetry kitchen prende un oggetto o un evento della cronaca e lo inserisce in un testo, che diventa, in virtù di questo semplice atto del creatore, un oggetto d’arte.

È squisitamente poetry kitchen la consapevolezza dell’evanescenza dei limiti tra un oggetto o evento della cronaca e un oggetto o evento d’arte. Una percezione vivissima, quasi da poetry kitchen, guida Guido Gozzano in La signorina Felicita: è l’inserimento di una «donzelletta» in chiave moderna, un vero e proprio ready made per l’epoca: la «Signorina Felicita» in presa diretta, dalla vita domestica al quadretto post-idillico della poesia gozzaniana, fantesca e milf del giovane avvocato senza speranze e senza virtù.

Perché non pensare ad una anti-soap-poetry?, perché non portare la promesse du bonheur a tutti come luogo della felicità contraffatta, indirizzata stabilmente verso la Lichtung della infelicità generale? Il luogo della felicità è al di là della prassi. Ci troviamo in quella che Wolfgang Welsch chiama la «de-realizzazione della realtà».1 L’Arte, nell’accezione hegeliana e romantica scende dal suo piedistallo per entrare nella catena di montaggio della comunicazione e replicazione mediatica e nell’industria della obsolescenza culturale programmata, tanto che l’arte di oggi è ad obsolescenza programmata, arte a termine e da risultato sicuro con tanto di euforia per la fine dell’arte. Si pensi alla Gioconda di Leonardo, l’opera più riprodotta del patrimonio artistico occidentale: dagli ironici baffi di Marcel Duchamp alle moltiplicazioni dei barattoli di Andy Warhol fino alle svariate immagini pubblicitarie che ci circondano, alle immagini seriali riprese e diffuse dai media. L’arte dismette la sua aura, cessa di essere un capolavoro venerabile e distante per diventare un’immagine prossima e familiare. L’oggetto-arte si trasforma sempre più in evento della cronaca e l’attenzione si sposta verso il contesto sociale e antropologico della civiltà moderna.2

L’homo aestheticus è diventato il modello di riferimento. L’estetica è diventata un paradigma ermeneutico della trans-modernità, una disciplina transeunte in grado di rendere ragione del superamento in senso trans-disciplinare e trans-genico che caratterizza la produzione dell’arte odierna. L’iperestetica si presta ad essere il luogo ermeneutico della baumiana «modernità liquida» in cui viviamo, improntata ad un continuo andare oltre.

Ciò che Lyotard chiamava il «sublime tecnologico» potremmo tradurlo con il nostro linguaggio come poiesis kitchen. La fine della metafisica ci pone davanti a questo nuovo orizzonte nel quale viene e cadere il confine che per duemilaecinquecento anni ha costruito la poiesis sulla nozione aristotelica di mimesis e sulla distinzione tra il possibile e l’impossibile. Prendere atto di questo fatto implica una direzione ben precisa per la collocazione della poiesis nell’ambito della civiltà della tecnica dispiegata. Il sublime si è desublimato, e questo lo ha certificato il trionfo della tecnica. Se la poetry kitchen adotta il linguaggio desublimato del mondo della tecnica, ciò deriva dalla presa d’atto che i nuovi linguaggi del mondo della tecnica sono i soli sopravvissuti della antica e nobile esperienza del sublime che è stata derubricata.

La parola kitchen è da pensarsi come evento linguistico: quindi evento dell’altro proprio perché si annuncia in quanto irruzione di ciò che è per venire, ciò che è assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare l’evento linguistico sfida l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per av-venire può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolta e rispettata nella sua inappropriabilità e infungibilità.

La contaminazione, l’impurità, l’intreccio, la complicazione, la coinplicazione, l’interferenza, i rumori di fondo, la duplicazione, la peritropé, il salto, la perifrasi costituiscono il nocciolo stesso della fusione a freddo dei materiali linguistici, gli algoritmi che descrivono la non originarietà del linguaggio, il suo esser sempre stato, il suo essere sempre presente; una ontologia della coimplicazione occupa il posto della tradizionale ontologia che divideva essere e linguaggio; la ontologia della coimplicazione ci dice che il linguaggio è l’essere, l’unico essere al quale possiamo accedere. Non si dà mai una purezza espressiva nel logos ma sempre una impurità dell’espressione, un voler dire, un ammiccare, un parlare per indizi e per rinvii.

Il soggetto è subordinato alle leggi del linguaggio: mentre egli parla, il linguaggio non sa che direzione potrà prendere la mia/tua/sua/nostra/vostra/loro parola. La parola va sempre in una direzione che il codice del linguaggio non può prevedere nonostante la parola stessa sia impossibile senza il codice linguistico; non c’è primazia dell’uno sull’altro. L’atto della parola rende indispensabile la presenza del soggetto parlante.

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1 W. Welsch, Aesthetics beyond Aesthetics (1995), poi in Id., Undoing Aesthetics, Lon-don, Sage, 1997, pp. 85-86; il saggio è consultabile anche online [http://www2.uni-jena.de/welsch/ Papers/beyond.html].
2 Il «simulacro», per Baudrillard, è un’immagine priva di prototipo, l’immagine di qualcosa che non esiste. Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 2007, e anche M. Perniola, La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1980, p. 122. Secondo Baudrillard, il sistema dei segni sostituisce la fsicità delle merci e le dissocia dai bisogni che avrebbero dovuto soddisfare. Si determina così una società della simulazione in cui i parchi a tema, i centri commerciali, i reality show divengono autoreferenzialie si trasformano in un caleidoscopico gioco di immagini rifesse. Il simulacro sostituisce progressivamente la realtà, rispetto alla quale appare più stimolante e attraente. Basta en-trare in un centro commerciale per accorgersi che tutto è illusione: le piazze, le aiuole, lanatura, la socialità, la confortante situazione di sicurezza, l’appagamento visivo. Cfr. Id., Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Bologna, Cappelli, 2008.
Cfr. Fabrizio Desideri (No aesthetics without meta-aesthetics, in Dopo l’estetica, cit., p. 67) che formula l’ipotesi di una “meta-estetica”. Lo studioso individua i confini verticali dell’oggetto di studio nel «territorio problematico che l’estetica scopre come qualcosa di concettualmente specifico e irriducibile» e, in particolare, nel «problema della genesi dell’estetico nel paesaggio umano», in relazione ai vincoli ambientali e ai presupposti psico-antropologici e i confini orizzontali nella riconfigurazione dell’estetica in rapporto alle altre discipline filosofiche («in particolare all’ontologia, all’etica, alla filosofia della mente e a quella del linguaggio»).

Alfonso Cataldi

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È nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005), Giulio Perrone Editore. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui lombradelleparole, Poliscritture, Omaggio contemporaneo, Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Voleva solo partecipare

Il corrimano sale fino al terzo piano e buca il finestrone.
«Hai caldo pure tu Luna?»

O due calici rasi sono sufficienti a immaginarti porno?

Confucio regalava sempre una goleador
a chi calciava un esempio di virtù nella comunità avversa.

«La società liquida è durata meno del previsto»
il Covid voleva solo partecipare

però la temperatura è scesa appena di tre gradi
e i barbecue non hanno fatto un fiato.

Il basilico dei vicini la sera si finge morto
di fronte alle nostre serie TV preferite.

«Jesse, non lasciarlo andare. Getta le chiavi dell’auto nel dirupo
non resisterà più di due puntate alla tua neurodiversità.»

 

Manca sempre

La newsletter gratuita del Post.it
alle ore 18.30 apre con la notizia:
“tafferuglio sulla chat interna della redazione”
e incorpora il print screen come prova.

Si discuteva su come si chiama la porta di un garage.
Ecco, come si chiama?
Porta del garage?
Porta basculante del garage?
Portone?
Bandone?

Il tono era ilare, ma serissimo al tempo stesso
così il lettore può provare lo spaesamento del commissario Donatella Costantina Giancaspero
quando dirime, in pochi metri quadri, la direzione delle venature
nel monolite del tempo
che rimane in sospeso.

La banderuola fissata alla scrivania indica l’intelligenza
dei dolcetti alla marmellata di fichi.
È il segnale che il signor Wonka
ha trovato la ricetta con la giusta mancanza di cioccolata nei biscotti.

Manca sempre una matita colorata all’appello, la sera
quando si ripone l’astuccio nello zaino
ogni mattina la stessa sfumatura
a un albero, a una casa, a una carnagione.
La maestra firma con la biro rossa.
Brava o Bravissima. Continua a leggere

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Da Malevic a Edward Hopper, Il Trash sublime, Riflessione di Slavoj Zizek, Poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Alfonso Cataldi, Lucio Mayoor Tosi, Esercizi serendipici di Gino Rago, Commenti di Jacopo Ricciardi

Locandina San Basile
tweet con versi di Francesco Paolo Intini

   Slavoj Žižek

Il Trash sublime

«… nell’arte contemporanea il margine che separa lo spazio consacrato del bello sublime dallo spazio escrementizio del trash (i rifiuti), si sta gradualmente assottigliando fino ad arrivare ad una paradossale identità degli opposti: i moderni oggetti artistici sempre più escrementizi, trash (spesso in senso esattamente letterale: feci, corpi in putrefazione, ecc.) non sono forse esibiti per – fatti al fine di, destinati a riempire – il LUOGO Sacro della Cosa? Non è forse questa identità la “verità nascosta” dell’intero movimento? Qualsiasi elemento che reclami di diritto di occupare il Luogo Sacro della Cosa non è forse un oggetto escrementizio per definizione, un rifiuto che non può mai essere “all’altezza del suo compito”? Questa identità della definizione degli opposti (l’elusivo oggetto sublime e/o il rifiuto escrementizio) con la minaccia sempre presente che l’uno sconfinerà nell’altro, che il sublime Graal si rivelerà essere un pezzo di merda, è iscritta proprio nel nocciolo dell’objet petit a lacaniano.

Questa impasse è, nella sua dimensione più radicale, l’impasse che influisce sul processo di sublimazione, non tanto nel senso che la produzione artistica non sia più oggi capace di realizzare oggetti semplicemente “sublimi”, quanto in un senso molto più radicale. Si può affermare, infatti, che lo schema fondamentale della sublimazione – quella del Vuoto centrale, dello Spazio vuoto (“Sacro”) della Cosa esonerata dal circuito dell’economia quotidiana, che viene infine riempito da un oggetto positivo che è “elevato alla dignità della Cosa” (definizione lacaniana della sublimazione) – è sempre più minacciato. Ciò che qui è minacciato è proprio lo scarto tra il Luogo Vuoto e l’elemento (positivo) che lo riempie. Quindi, se il problema dell’arte tradizionale (pre-moderna) era quello di riempire il sublime vuoto della Cosa (il Luogo puro) con un oggetto bello – ossia come riuscire ad elevare efficacemente un oggetto comune alla dignità della Cosa – il problema dell’arte moderna è, in un certo senso, quello opposto (e molto più disperato): non si può più contare sul fatto che il Luogo sacro sia lì, pronto per essere occupato dai manufatti umani; perciò il compito è di sostenere il Luogo come tale, per assicurarci che questo stesso luogo “avrà luogo”. In altre parole, il problema non è più quello dell’horror vacui, riempire il Vuoto, ma piuttosto quello, innanzitutto, di CREARE il Vuoto. Diventa, perciò, cruciale la co-dipendenza tra un luogo vuoto, non occupato, e un oggetto elusivo che si muove rapidamente, un occupante senza un posto?

Il punto è che c’è semplicemente il surplus di un elemento rispetto agli spazi disponibili nella struttura, o il surplus di un posto che non ha alcun elemento che lo occupi; infatti, un posto vuoto nella struttura sostiene la fantasia di un elemento che presto o tarsi lo colmerà, mentre un elemento eccedente senza posto sostiene la fantasia di un luogo ancora sconosciuto che lo attende. Il punto è invece che il posto vuoto nella struttura è in se stesso correlativo all’elemento eccedente che manca al suo posto: essi non sono due entità diverse, ma il diritto e il rovescio di un’identica entità, quell’una e medesima entità che si iscrive nelle due superfici del chiasma di Moebius. In altre parole, il paradosso è che soltanto un elemento che è completamente “fuori luogo” (un escremento, un rifiuto o uno scarto) può reggere il vuoto di un luogo vuoto – cioè la situazione à la Mallarmè, in cui “nulla, tranne il luogo avrà luogo”; nel momento in cui questo elemento eccedente “trovasse il posto giusto”, non ci sarebbe più nessuno Luogo puro distinto dagli elementi che lo riempiono.

Ed effettivamente, come suggerisce Gerard Wajcman il grande sforzo dell’arte moderna non è proprio quello di mantenere la struttura minima della sublimazione, uno scarto impercettibile tra il Luogo e l’elemento che lo riempie? Non è questa la ragione per cui il Quadrato nero su Fondo Bianco di Kazimir Malevič riduce il meccanismo artistico alle sue componenti essenziali, alla mera distinzione tra il Vuoto (lo sfondo, la superficie bianca) e l’elemento (la macchia del quadrato)? Dovremmo cioè sempre ricordare che il tempo verbale stesso (il futuro anteriore) del famoso rien n’aura eu lieu que le lieu (“nulla avrà avuto luogo se non il luogo stesso”) chiarifica che abbiamo a che fare con uno stato utopico il quale, per ragioni strutturali a priori, non può realizzarsi nel presente (non ci sarà mai un tempo presente in cui “solo il luogo stesso avrà luogo”). Non è semplicemente che il Luogo conferisca all’oggetto che lo occupa una dignità sublime; è che soltanto la presenza dell’oggetto sostiene il Vuoto del Luogo sacro, ma sarà sempre qualcosa che, retroattivamente, “avrà avuto luogo” dopo esser stato intralciato da un elemento positivo. In altre parole, se sottraiamo dal Vuoto l’elemento positivo, “il piccolo pezzettino di realtà”, la macchia eccedente che disturba l’equilibrio, non otteniamo il puro Vuoto equilibrato come tale; il Vuoto stesso, piuttosto, scompare, non è più lì.

Perciò il motivo per cui gli escrementi sono elevati al rango di opera d’arte, utilizzati per colmare il Vuoto della Cosa, non è semplicemente quello di mostrare come “anything goes – qualsiasi cosa va bene”, come l’oggetto sia, in definitiva, indifferente, dal momento che qualsiasi oggetto può essere elevato ad occupare il Luogo della Cosa: questo ricorrere agli escrementi testimonia, piuttosto, l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo sacro c’è ancora. Il problema è che oggi, nel duplice movimento della mercificazione progressiva dell’estetica, e dell’estetizzazione delle merci, un oggetto bello (piacevolmente esteticamente) può sostenere sempre meno il Vuoto della Cosa – è come se, paradossalmente, l’unico modo per mantenere il Luogo (Sacro) sia di riempirlo di rifiuti e di escrementi. Gli artisti contemporanei che espongono escrementi come oggetti d’arte, lungi dall’indebolire la logica della sublimazione, in realtà si sforzano disperatamente di salvarla. le conseguenze di questo collasso dell’elemento nel Vuoto del Luogo son potenzialmente catastrofiche: infatti, senza uno scarto minimo tra l’elemento e il suo Luogo, non esiste ordine simbolico: cioè, noi dimoriamo dentro l’ordine simbolico solamente in quanto qualsiasi presenza appare contro lo sfondo della sua possibile assenza (questo è ciò a cui Lacan allude con il concetto del significante fallico come significante della castrazione: è un significante “puro”, il significante come tale, nella sua accezione più elementare, in quanto proprio la sua stessa presenza evoca la SUA STESSA possibile assenza/mancanza).

Forse la definizione più concisa della rottura modernista in campo artistico è proprio che, grazie ad essa, la tensione tra l’Oggetto (arte) e lo Spazio che esso occupa è considerata riflessivamente: ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte non sono semplicemente le sue caratteristiche materiali, ma il luogo che occupa, il Luogo (sacro) del vuoto della Cosa. In altre parole, con l’arte modernista, si perde per sempre una certa innocenza: non possiamo più fingere di produrre oggetti che, in virtù delle proprie caratteristiche, cioè indipendentemente dallo spazio che occupano, “siano” opere d’arte. Per questa ragione, l’arte moderna si divide, fin dalle sue origini, proprio nei suoi due estremi, Malevič da un lato, Duchamp dall’altro. da una parte, l’enfatizzazione pura del vuoto che separa l’Oggetto dal suo Spazio (il Quadrato nero); dall’altra, l’esposizione di un oggetto quotidiano (una ruota di bicicletta) come opera d’arte, per dimostrare che l’arte non si fonda sulle qualità dell’opera d’arte, ma esclusivamente sullo Spazio che esso occupa, in modo che qualsiasi cosa, anche se è merda, possa “essere” un’opera d’arte se si trova nel Luogo giusto. E qualsiasi cosa venga fatta dopo la rottura modernista, anche se è un ritorno al falso neoclassicismo alla Arno Breker, è già “mediata” da questa rottura. Prendiamo un realista del XX secolo come Edward Hopper: ci sono almeno tre aspetti del suo lavoro che testimoniano questa mediazione. Primo, la ben nota tendenza di Hopper a dipingere paesaggi urbani di notte, soli, in stanze molto illuminate, visti dall’esterno attraverso una finestra (anche quando la finestra non è direttamente percepibile, il quadro è dipinto in modo tale che lo spettatore sia spinto a immaginare una cornice immateriale e invisibile che lo separa dagli oggetti raffigurati). Secondo, il modo in cui sono dipinti i suoi quadri e la sua tecnica iperrealista, producono nello spettatore un effetto di irrealtà, come se si stesse osservando qualcosa di onirico, spettrale, etereo, invece che comuni oggetti materiali (come l’erba bianca nei suoi quadri campestri). Terzo, il fatto che la serie di quadri raffiguranti sua moglie seduta in una stanza solitaria, fortemente soleggiata, mentre guarda attraverso una finestra aperta, sono percepiti come un frammento disarmonico di una scena globale, che necessita di un supplemento, che rimanda ad un invisibile spazio fuori campo, come il fotogramma di una sequenza cinematografica privo del suo contro-campo (e in effetti si può sostenere che questi quadri di Hopper siano già “mediati” dall’esperienza cinematografica).»*

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il “Quadrato nero su superficie bianca” di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevic di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.
L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttamente esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»**

* S. Žižek, Il Trash sublime, Mimesis minima, (Milano-Udine), 2013 pp. 33-37
** S. Žižek, The Matrix, Mimesis minima, (Milano-Udine), 2010 pp. 28-29

Alfonso Cataldi

Invisibili

Manca il pane fresco sulla linea di porta
la Var ha deciso l’espulsione dei fornai di zona.

Il grano è in ostaggio negli spogliatoi
«Un sacrificio necessario per salvaguardare le coreografie dentro e fuori lo stadio.»

Le coppie di youtuber sorrisetti fissi lei strilloni lui
fatturano l’identità di Giacomo annoiata sul divano.

Cambiano i lavori, cambiano i nerd.
Il coding ha attecchito tra i frutteti dell’entroterra, lungo i terrazzamenti.

La CGIL ha paura dei tornanti stretti che finiscono nel bosco
Il bosco non tradisce e non fa scherzi.

A Bergeggi le meduse intrattenevano i turisti a riva
nelle retrovie gli inservienti su e giù lungo la spiaggia faticavano ad attirare l’attenzione.

(10/08/2022)

Gino Rago

Esercizi serendipici
*
Mostra esistenzialista
John Cage suona il flauto del filosofo Empedocle mentre sulla ventunesima stella piove a dirotto.
*

Fuga da Alcatraz
Il vespasiano in Via dei Dauni aspetta la fine dei fuochi artificiali.

*
Gabbia psicologica
Un romanzo di Moravia + una poesia di Sandro Penna x un bicchierino di Rum – “Il nome della rosa” romanzo di Umberto Eco.

*
Gabbia ideologica
4 + 4 = Corsivo – Normal = Discorso etero diretto.

*
La colomba di Picasso
Era una sera buia e tempestosa. La poiesis ha finalmente fatto ingresso in cucina.

*
Consiglio dell’astrologo
Evitare l’invidia degli specchi quando le lampadine sono fulminate.

*
L’ ospite
Sigillate il futuro in una busta di plastica, lo scolapasta ha litigato con l’appendiabiti Continua a leggere

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Da uno stralcio di Slavoj Zizek, Commenti e glosse di Jacopo Ricciardi, Poetry kitchen di Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Francesco Paolo Intini, Oramai qui, sul pianeta Terra, non c’è più niente altro da fare che andare a fare yoga o seguire i seminari di teologia e jogging nei parchi, fare antirime agrituristiche alla Umberto Piersanti o dedicarsi alla flat-tax al 15% o al 23% delle parole superficiarie di Franco Arminio, il novello Tagore della poesia italiana

L’Antologia Poetry kitchen in vetrina in una libreria di Peschici

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Vetrina della Libreria di Peschici con la copia della Antologia Poetry kitchen

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Gino Rago

Madame Colasson

Una torta Sacher + biscotti Wafer Saiwa + una porzione di Camembert, paté de foies gras e una bottiglia di Bourbon annata 1997

Brigitte Bardot

Un violino + la somma dei quadrati sui due cateti di un triangolo isoscele + uno Spritz alla albicocca

Francesco Paolo Intini

NEGATIVO

Che vuol dire? La Sindone fa un balzo alla notizia.
-Pericolo scampato di riportarmi a una vita da Dio.

La vita eccitata da un tocco di virus è un via vai di smentite e conferme
E il risultato finale
Ricade in un pascolo di umanissimo non sense

Il politichese fu inventato prima o dopo il poetichese?

Già vedo l’intervallo: -Tityretupatulaerecubans
Ci vorrà tempo per mungerle e ricavarne un po’ di ricotta
Perché caricarle di colpe e sparare alla gola del vicino?

Non si perde energia tra uno schizzo e l’altro del 2022.
Vuoi sapere che fine ha fatto il Covid?

È queste gazze decisamente Blu,
lontane da ogni peccato commesso nel nome del Rosso.

E più in là dell’hula-hoop un giro di valzer in crociera
O forse d’incrociatore o addirittura di portaerei.

.

[Francesco Paolo Intini]

POSITIVO

infin ch’arriva\ colá dove la via\ e dove il tanto affaticar fu vòlto:\abisso orrido,immenso,\ ov’ei precipitando, il tutto obblia.
(G. Leopardi. Canto di un pastore errante dell’Asia. VV 32-36)

Fu così che venne fuori Ottobre Rosso. Bastava fare uguale
che l’avrebbe spuntata sull’argento, senza ferire il Polo

Alle esternazioni si disse non c’è rimedio e tu vedrai le cornacchie battere il ciglio
e farlo a pezzi e dopo essersene nutriti rimetterlo in moto.

Circolarità del cielo, al gusto d’ arancia e ghiaccio secco.

Un osso di Agatocle funzionava da sterno nel petto di Benito
Un frammento di cuore pulsò per ore sul campanile di Milano

Antenne colorate e uno, mille trapezi senza nervi di protezione
La fuga mi ha portato a sfiorare i siluri
Il danno è stato un orco che ha portato gli scatoli di tonno al tiro a segno.

Ebbi in sorte un gruzzolo per Buenos Aires
Dove mi sarei imparentato con le scimmie alberomorfe
E sostenere la lotta per sollevare il morale dell’ Antartide
E stringere la mano al re Pinguino.
La regina Maud non era contenta di tutti quei ghiacciai persi
Dei Sioux e l’immagine di Toro seduto in un’ igloo che si scioglieva

L’argenteria di famiglia dispersa nei Caraibi.
Al merluzzo la parola atlantica
Ai sottomarini che sbuffano e rampognano gli squali
Al vichingo che non sa quel che fa nella mano di bella

Conviene accostare e mostrare il lato peggiore dell’oceano
Riempire di pece lo stomaco, fare di tutto per stuccare il silenzio
E rimpinzarlo di fumo e mostrargli il lato Nord, il Caterpillar nella pancia
Come si avvita una stella a un missile e farlo partire.

La ferita senza rimedio nel fianco.
Oh la coscienza buttata ai porci!

Ancorare nel San Lorenzo con i denti intatti e la spinta del venditore di sandali
Con la disciplina del salmone che indovina la bocca del grizzly
È stato un immane delirio seguire CANOSCENZA e spingere il pulsante del Saturno
Da qui alle colonne d’Ercole non è nemmeno un endecasillabo
Il mare s’è seccato di ragionare e zampillare lampade Davy dal fondo oceanico
Sporchi di lava e fango.

Dov’è finito il neurone ad Est di Capo verde?
Cosa è alla portata di Eric il Rosso?
La voglia di menare le mani e navigare con la cravatta di re e figlio prediletto tra talamo e ipotalamo, mentre il vulcano esplode e una manta colossale sbatte contro le torri gemelle.

Chi osa chiedere un verso santo, immune dal peccato d’invidia
Un trafiletto di messale, un lingotto di settenari e rime baciate
Un trigesimo, un anniversario ripulito da ostriche infette?

Non reggemmo l’assalto del polpo assassino
E tornammo ad ordinare alla carte sull’isola di Sant’Elena
Un refugium peccatorum per aver salvato il mondo dal mal francese
Il sancta santorum dell’olfatto

Un tendone di circo credo con le costellazioni nella gabbia dei leoni
E le scimmie a suonare e Marte ad esporre cartelli di funghi velenosi
e mari tempestosi riservati alle raccolte punti di storione
E gli elefanti a rimescolare le bolle, i santi impietositi,
le guerre e battere il tamburo dei sargassi
i treponemi scandalizzati per i nostri pettegolezzi
Un mostrare traiettorie di postriboli vuoti
Nel bel mezzo dell’ Orsa un raduno di pervertiti e menagramo.

Affondò Atlantide e facemmo rapporto alla compagnia delle Indie
per il grano che mancò all’appello e glu..glu…
per il tiranno che ordinò gli omogeneizzati di vitello
e giocò sul cavalluccio del nipotino col winchester di legno
l’orsacchiotto vinto al baraccone
Glu…glu…

Giorgio Linguaglossa

Come appare evidente in queste ultime composizioni kitchen o kitsch ogni elemento di senso sembra essersi dileguato dall’orizzonte dei significati, Intini impersona il ruolo di un anarco sindacalista che prende sul serio quello che nessuno dei suoi contemporanei prende sul serio: che il Reale appare nel suo deserto, ovvero, che appare il deserto del reale come ossessione, fobia, fantasma, spauracchio, terrore… le parole sono come attratte da un Grande Attrattore, un Grande Vuoto. Mi spiego: il Grande Altro si è convertito in un Grande Vuoto. Un buco grande, un Grande Attrattore, deglutisce tutte le cose e tutte le parole, i nostri sentimenti, le nostre identificazioni, le nostre proiezioni. Di conseguenza, gli oggetti (con le loro parole al seguito) non sono più al loro posto ma si presentano fuori-posto, fuori-luogo; ma il posto è vuoto veramente e questa scoperta è talmente insopportabile che il vuoto assorbe e consuma, letteralmente, ogni parola e ogni oggetto. Una sorta di buco nero (black hole) è in azione al Centro del nostro sistema Simbolico che fa collassare tutta la costruzione edilizia e manifatturiera della realtà. Il Buco del Reale liquefa letteralmente ogni oggetto e ogni parola. Il collasso dell’ordine Simbolico è l’ultimo fenomeno di un Reale che ostinatamente si rifiuta a consegnarsi agli uomini.

Lucio Mayoor Tosi

In diretta su Alfa Centauri.
Boschi e casette, confezioni di ribes, molti silenzi;
prati che si allontanano, nonni sulla porta; mamme
danzano a piedi nudi, spose attente al vestito giocano
con bambini imbarazzati. Non manca il cane dei vicini.
Il bosco sottratto, Arcangeli registri bollette scadute.

Riposo. La vita inutile. Bella vedetta, spalline, aquilotti,
zeri con faccina. Povera me. A Capri con la mamma.
Silvia ha il vaiolo. Questo scrive, l’altro si mangia
le parole

Olga rimane, abbiamo fatto tanta strada.
– Lista dei cocktail, lista delle pizze, liste
abat-jour, tutte le notti.

*

Chiamò se stesso per potersi catturare.
Grazie. Ma dimenticò il titolo del libro.

Il grande sonno, R. Chandler. Musica per ottoni.
– Un titolo che valga il prezzo di copertina.

I grandi romanzi. Grandi romanzi. Romanzi.
Alberi senza trasporto.

Giorgio Linguaglossa

«Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato» (Adorno, teoria estetica). Anche le parole si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato, le parole irrigidite, raffreddate, iperbarizzate sono quei molluschi dell’aria, quelle meduse dell’atmosfera in rapporto alle quali non possiamo fare altro che disabitarle, abbandonarle, lasciarle cadere; le parole già reificate, una volta costrette e costipate nello spazio neutro della nuova reificazione della scrittura poetica, cessano di parlare, restano mute, non abitano più alcun condominio di parole e se ne vanno ramengo nell’universo silenzioso e rumoroso. Nella poesia di Lucio Mayoor Tosi c’è il Bellosguardo, le pubblicità del Mulino Bianco, c’è la cornice della Buitoni con il quadretto idillico e agreste delle mucche e dei pastorelli felici, cose di un’altra galassia, di un altro pianeta: «Boschi e casette, confezioni di ribes, molti silenzi». Oramai qui, sul pianeta Terra, non c’è più niente altro da fare che andare a fare yoga, andare per prati con l’acchiappafarfalle o seguire i seminari di teologia e jogging nei parchi, fare antirime agrituristiche alla Umberto Piersanti o dedicarsi alla flat-tax al 15% o al 23% delle parole superficiarie e sublimatorie di Franco Arminio, il novello Tagore della poesia italiana. In un mondo talmente irrigidito bene ci stanno i video di Gianni Godi con gli avatar irrigiditi che perorano parole in rigor mortis.

Lucio Mayoor Tosi

Vivere nella realtà è mortificante. Starò più attento al consumo delle risorse pubbliche. Il mondo incantato di cui scrivo è ben piantato nella mia mente. Non so dove altri piantino il loro. Il mio lavoro adesso consiste nell’inscatolare parole. Le parole mi arrivano col contagocce, e per collaborazione. Non do consolazione, se tento un insegnamento, subito ne rido. Piuttosto bravo nel lasciar perdere. Poeta, se poeta, occidentale.

Slavoj Žižek

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il “Quadrato nero su superficie bianca” di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.

L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttametne esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»1

1 S. Žižek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine), 2010 pp. 28-29

Jacopo Ricciardi

Mi pare questa descrizione perfettamente calzante per descrivere il quid della Poetry Kitchen. Ma questa descrizione nelle intenzione di Zizek descrive perfettamente il quadrato nero di M. e di seguito Duchamp, opere di 110 anni fa. Allora dove sta il nuovo, ossia dove la Poetry Kitchen fa qualcosa di ulteriore rispetto a quanto detto da Zizek, riferendomi anche alle affermazioni precedenti della Colasson che sostiene che la PK è qualcosa di completamente diverso rispetto alla tradizione (se in arte sono intanto esistiti Paolini, Denominicis e Boetti)? La mia provocazione non sta in questa mia domanda quanto piuttosto nel mio tentare una risposta: la poesia italiana è attualmente indietro di un secolo sull’arte italiana? Possibile? Continua a leggere

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Esercizi serendipici di Tiziana Antonilli, Marie Laure Colasson, Francesco Paolo Intini, Mimmo Pugliese, Le strutture serendipiche affinano i procedimenti già sperimentati nella fondazione di una nuova ontologia e della poetry Kitchen. Letture leggere ma perturbanti, anche se visionate con l’occhio veloce e distratto, Commenti di Letizia Leone, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa

LOCANDINA PRES. LIBRO SANTA MARIA DELLE ARMI (1)Tiziana Antonilli
Esercizi serendipici

Temporale

Turner legato all’albero maestro intingeva gli occhi nell’acqua e nel petrolio.

L’uomo misterioso venne scovato dai social e crocifisso per non aver indossato il cappello.

Neanche il quarto d’ora di fama se il sereno si affretta.

L’uomo ora cammina in verticale mentre si fa la doccia.

Per millenni hanno sferzato i senza nome moltiplicati in senza nome.

Bagnati e asciugati senza aver mai conosciuto la direzione delle miniere d’oro.

Come destino il rullare continuo dei formicai.

Marie Laure Colasson

Morso
un mammut melodico capace di divorare se stesso in fa diesis .

Lente d’ingrandimento
un gufo spennato assapora una marmellata di ribes armato di uno stuzzicadenti.

Sedia
sul bidet Monsieur Camembert ha perso la memoria .

Uccello cinciallegra
Renaud Capuçon cucina una fricassée di pesci – volatili nel suo violino

Quadro di Klee
visione del disordine di cassetti ed armadi al piede dell’Etna

Gioco di scacchi
sguardo estatico di un melodramma capelluto all’ultimo piano della Tour Eiffel

Asciugacapelli
Erezione elegante sotto il casco di un militare con tacchi di 25 cm.

Francesco Paolo Intini

Magellano
Gonfio di verde scende verso Sud. Trova lo stretto e sbuca in un piatto. Per farla breve, in mezzo agli spaghetti veleggia Magellano ma dopo un susseguirsi di gorghi per la via, soccombe nella bocca.

Lolli
Due passeri si azzuffano a morte sul piazzale dell’obitorio mentre sopraggiunge l’ auto dei becchini. Il tempo si concede una pausa. Torna indietro per ritrovare le coordinate smarrite. In effetti non sa se ripartire o parcheggiare. Nell’ auto enorme s’intravedono due tacchini in giacca e cravatta. Uno dei due è l’orologio che sgobba mentre l’altro dorme poggiato alle lancette. In sogno uno dei due uccelli giace nella bara. È così ogni volta che l’auto arriva: lo spazio abbonda intorno a uno dei gitani, mentre la vita si libera del vinile.

Verso libero
tutti al pesciolino d’argento! E quello si gira, fa un tentativo di sfuggire alla potenza dei piedi, a zig zag sui mattoni. Poi arriva un verso, sfuggito da un catorcio nel cestino, che gli abbaia dietro. La ricerca del corpo fu inutile. Ognuno aveva la sua ragione, il pezzo di racconto rumoreggiava tra i denti. Le parole insomma ne furono orgogliose. Il mondo libero è anche un pesciolino morto, tre miliardi di anni o quattro spazzati via da un verso che crede di aver visto un lupo correre dentro casa.

Quark
A pancia piena cantano lodi gregoriane. Non sanno chi suoni l’organo né chi diriga il gran concerto. Dopo aver apparecchiato il nido – alcune specie di pappagalli lo cingono di bouganville come la fronte di Gesù- covano le uova . Aspettano con ansia il pigolio delle zanzare.

Ibiscus
Che male c’è a nascere radio telescopio? Ci sono api che vengono dal nulla. L’occhio potente mette a fuoco la nascita del primo ronzio.

Silenzio
Matrioska di corvi. Gracchiano al mattino, gracchiano la sera. Interferiscono di giorno.

Eugualeemmecidue
Non aprire la porta del neurone estremo. Dopo, nel paradosso, quando sei di là, tra pupe che mai si schiusero- Capsule della conservazione che mai si dissolsero- Il terzo occhio del baco che non trovò gelso:-sono la cellula senza sangue, dove il respiro adombra il suo “non c’è”.

Governo
Accade che un governo entri nella spazzatura e trovi pace tra Rumor e Leone. Oggi però soltanto non riciclabile sarà reso al creatore. Mancano le stragi, ma la tensione promette un’estate di tira e molla in favore dell’organico.

Bottiglie
Ascoltare i poeti … mentre battono i denti delle assonanze.
Un CRA di qua, un CRA di là e TRALLALLERO di:
– Comare hai una cipolla?
E dentro un buco nero la stella nana della malinconia:
– Mi stiri la camicia che domani ho un matrimonio?
Sarà stritolata dal bel canto per una madre, una campagna che residua un filo d’erba, il ciliegio immune ai pesticidi e il colibrì che succhia Andromeda.
Silenzio!
Inizia il pianto antico.
Spunta la luna dal monte… fiu..fiu..
Uno sbuffo di qua, uno li là del toro Islero in Manolete.

Mimmo Pugliese

Montagna
Prosciuga il mare che dalle cassette di frutta spirulina plana sui campanili.
Case ormeggiate su efelidi copulano con limoni nel vano motore.
Il pranzo della domenica ha stupito gli abeti immersi nello spartito del Bolero.
Scaglie di plastica, funghi di ferro battuto, il dentista in lavanderia si annoia.
Vuoi farti una foto? Lo sfondo è un flash ultravioletto.
La terrazza più glamour ha vista neve attraverso l’archetto multifocale.
Oscilla la montagna….
Spagna
Campagna
Taccagna
Lasagna
Lavagna
Cagna
Lagna
Compagna
Terragna

Lucio Mayoor Tosi

La procedura serendibica ricalca il modello base della frase (soggetto-predicato). È certo da inserire nella strumentazione kitchen, diciamo per favorire il “volo”. Ma di nuovo, come all’inizio fu per il distico, andrebbe considerato il passo di marcia (questo fa questo, quello fa quest’altro). A tal proposito è da sottolineare l’andare più spedito rispetto a certa poesia surrealista, di cui si avverte l’eco; d’altra parte è il mondo, la società civile, ad avere cambiato passo… lingua impoverita, nuovi termini internazionali (di brevissima durata), quindi va così anche per la poesia. Però divertente… anche se un maestro della pubblicità, con cui ho avuto modo di collaborare, quando gli sottoponevo nuove idee, a volte se ne usciva con un ‘embè?’, ‘e allora?’. La mia curiosità è adesso rivolta alle reazioni dei pochi o tanti lettori, con quali commenti, ecc. E lo faranno sulle poesie, questo è chiaro.

Letizia Leone

Le strutture serendipiche affinano i procedimenti già sperimentati nella fondazione di una nuova ontologia e della poetry Kitchen. Letture leggere ma perturbanti, anche se visionate con l’occhio veloce e distratto che si potrebbe dedicare alla street art, per esempio. Eppure qualcosa ancora stimola le nostre intelligenze in questi testi. La nostra “sciacquatura dei panni in Arno” passa per “l’amusement-mania”, l’effimero, per gli apparati scenici pubblicitari o lo show mediatico del reale ma il testo resite nella sua altera autonomia poietica. Almeno per me. Un dialogo testuale felice con ottimi compagni di strada, ognuno con la propria netta individualità. Grazie per la particolare attenzione a Jacopo Ricciardi e un particolare riconoscimento a Giorgio Linguaglossa per il coinvolgimento!

Giorgio Linguaglossa

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poiesis novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Serendipity (serendipità)

La definizione del concetto di serendipità si può dire così: la sostituzione di una parola, di un oggetto che cercavamo con un’altra parola, un altro oggetto che non ci aspettavamo di trovare. In conseguenza di ciò, la nuova parola, la nuova proposizione non avranno nulla in comune con la parola e con la nuova proposizione che le precedono. E questo semplice accostamento tra due parole o proposizioni produce una scintilla di senso imprevisto, una estraneazione.

Parallax (Parallasse)

È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere come nella procedura della poesia della nuova ontologia estetica, in misura più o meno avvertita, sia rinvenibile in opera questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.*

*The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *

La definizione comune di parallasse è: lo spostamento apparente di un oggetto (lo spostamento della sua posizione rispetto a uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di osservazione che fornisce una nuova linea di visione. La svolta filosofica da aggiungere, ovviamente, è che la differenza osservata non è semplicemente “soggettiva”, dovuta al fatto che lo stesso oggetto che esiste “là fuori” è visto da due diverse stazioni, o punti di vista. È piuttosto che […] un cambiamento “epistemologico” nel punto di vista del soggetto riflette sempre un cambiamento “ontologico” nell’oggetto stesso. O, per dirla in lacanese, lo sguardo del soggetto è sempre-già iscritto nell’oggetto percepito stesso, a guisa del suo “punto cieco”, ciò che è “nell’oggetto più dell’oggetto stesso”, il punto da cui l’oggetto stesso restituisce lo sguardo

* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.]

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  Natomaledue è in preparazione.

 Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie.

Tiziana Antonilli ha pubblicato le raccolte poetiche Incandescenze (Edizioni del Leone), Pugni e humus (Tracce). Ha vinto il premio Eugenio Montale per gli inediti ed è stata inserita nell’antologia dei vincitori “7 poeti del Premio Montale” (Scheiwiller). Tre sue poesie sono entrate a far parte di altrettanti spettacoli teatrali allestiti dalla compagnia Sted di Modena. Il suo racconto “Prigionieri” ha vinto il Premio Teramo. Ha pubblicato il romanzo Aracne (Edizioni Il Bene Comune) e la raccolta di poesie Le stanze interiori (Progetto Cultura, 2018). Insegna lingua e letteratura inglese presso il Liceo Linguistico “Pertini” di Campobasso.

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).

Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.

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Sulla struttura serendipica del testo kitchen, Scritture serendipiche di Letizia Leone, Mauro Pierno, Ewa Tagher, Raffaele Ciccarone, Commenti di Jacopo Ricciardi, Francesco Paolo Intini, Lucio Mayoor Tosi, Marie laure Colasson, Vediamo le cose da punti di vista diversi, ed è bene che sia così. La visione scientifica sbaraglia equilibri e certezze, esatto contrario di ciò che comunemente si pensa

Gallina Nanin moltiplicate

Sulla struttura serendipica del testo kitchen

Penso che fondamentalmente un testo serendipico restituisca creatività alla poesia. Se è vero che viaggia nel vuoto – ma fino a che punto ogni altro gas: scientifico, matematico, filosofico etc. è assente? – e vorrebbe appropriarsene indefinitamente, disperando dell’impresa come Achille e Tartaruga è altrettanto vero che il desiderio del vuoto lo rende fertile di fermenti che negano le parole e nel fare questo ne inventano altre come in un puzzle di tasselli bianchi e neri tutti uguali in forma e dimensione di cui nessuno conosce la figura definitiva. In questo senso è possibile aggiungere e togliere per realizzare una realtà locale che consiste di un piccolo senso più o meno ordinato in uno spazio generale caotico tra conscio e inconscio. Chiedersi quale sia la figura che presiede al puzzle è come chiedersi quale figura abbia il caos. Il bello di tutto è che quello che alla fine chiamiamo componimento finisce solo apparentemente, ma potrebbe riprendere vita da una parola qualsiasi – come farebbe spontaneamente il gas se in un punto qualsiasi del suo contenitore si aprisse un foro – bisogna ad un certo punto umilmente accontentarsi di quel poco (sempre poco se la vis che presiede l’espansione è la stessa di un gas) che si riesce a scrivere, consci di un tutto non rappresentabile definitivamente ma anche del fatto che l’effetto diluizione non cambia la natura del gas. Il desiderio soggettivo del vuoto è inappagabile ma anche l’appetito del vuoto, sul nostro desiderio non scherza, specie se al suo interno residuano particelle scientifiche, filosofiche etc. di ogni altro tipo. Ciò che conta è l’effetto di contrasto tra un testo poetico e quello che lo circonda, fino a che punto esso si sia mantenuto integro rispetto a tutti le altre molecole che in un vuoto relativo sbattono e collidono in un tutto caotico. Almeno così mi sembra.

(Francesco Paolo Intini)

Vediamo le cose da punti di vista diversi, ed è bene che sia così. La visione scientifica sbaraglia equilibri e certezze, esatto contrario di ciò che comunemente si pensa. La visione mistica, lo dico per semplificare, non può essere data senza che vi sia partecipazione diretta dell’osservatore. Il vuoto mistico è in relazione al divenire costante; la qual cosa è stabile e continua, al punto da far pensare che sia sempre stato così: nessun inizio (big bang) ma costante inizio, se così si può dire, di tutto ciò che muore, si trasforma, di tutto ciò che è in atto. Le due visioni si somigliano.
Mi vedo sconcertato mentre avanzo tra fotografie sospese nel vuoto; se presto attenzione a una di queste, ecco che l’immagine prende vita, e mi ritrovo in qualche storia, anche le più banali, le più insignificanti… e non sempre ne vale la pena. Quindi ho eliminato figure e personaggi, che diventano voci. Avanzo in ciò che sono e non sono, stabilmente. Tra l’altro, a me sembra di non avere immaginazione, la quale serve a prefigurare, e non c’è fatica maggiore che inseguire un buon concetto, una buona immagine visiva (se capita cerco di sbrigarmela in meno di due versi, se di più ci rinuncio. Mi porterebbero fuori strada). La procedura serendipica non è distante da questo comportamento.

(Lucio Mayoor Tosi)

Intini afferma che il testo deve “mantenersi integro” nel caos esterno e il vuoto ha un proprio desiderio che consiste nello sgretolare tutto (parafraso); quindi il testo è questo sgretolarsi per azione del vuoto. Il lettore ne gode perché quello sgretolarsi effettuato per desiderio del vuoto, a cui il poeta partecipa, rimane integro. Si potrebbe pensare che l’integrità di un testo si possa migliorare e che quindi esistano testi più integri di altri. Ma di che tipo sia questa integrità migliore è difficile dire. Alcuni versi di Intini mi piacciono più di altri, penso valga anche per Linguaglossa (con migliore discernimento da Poetry Kitchen), ma il testo è la somma delle parti (anche se queste si accumulano per sottrazione del vuoto) oppure no e le parti sono salti su uno stesso punto? E l’integrità come si misura rispetto alle parti? Intendo che all’interno della Poetry Kitchen, pur con estrema perizia di lavoro di fattura, nel risultato del testo ci sia una specie di sensazione di scivolare sul testo, di surfare sull’onda del vuoto, e chi surfa è il lettore che vive questo lasciarsi andare, questo diventare della mente gas e vuoto insieme. E l’ ampiezza della nube è già un oceano senza limite dove un testo rispetto a un altro non si situano vicino ma piuttosto estraniati l’uno dall’altro. Così c’è un’ebbrezza del surfista che cavalca il vuoto ma questa ebbrezza non ha poi variazione e rimane stabile, non ha shock, inizia e resta, e non si scende mai da cavallo anche se si interrompe la lettura (quando la si riprende ci si trova sempre sulla cresta dell’onda). E questo accade anche quando il testo ha una vita più occasionale, estemporanea. È il meccanismo attivato per giocare con il vuoto (o per farsi giocare dal vuoto) a rendere variegata l’esperienza, mi pare. È come se valesse di più la forma e la struttura della tavola del resto. È come surfare su uno stuzzicadenti e altro ancora. Il vuoto resta sempre lì, e non si può scendere dall’onda.

(Jacopo Ricciardi)

(ritratto di Letizia Leone a sx di Giorgio Ortona, acrilico)

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Letizia Leone

Ventilatore a palla: ceneri infeconde
Volano alte. Grigio, grigio, grigio
Si affondano gli agosti.

Ventilare gli Archi Trionfali
e altri buchi. Nei lugli e negli agosti.

Ventilatore a paglia. Mano morta di dama,
Scoloriti i carnevali dei ventagli.
Quarantacinque gradi sulla Tiburtina
Le lacrime calde del parabrezza.

I motori novecenteschi collassano
Per ferro incandescente. Dalla finestra aperta
Entra un po’ di galassia.

Ventaglio souvenir o soffietto a mantice?
Viviamo in infradito.
Le fiamme dell’aldilà lambiscono l’aldiquà,
rivelò Sloterdijk agli accademici svedesi.

Ma quale vento favonio, è un fono per capelli e glottide.
Miseria e nobiltà, messa in piega e fonosimbolismo.
Dammi mille euro per il Billionaire…

Le pale sul soffitto cubano a cento all’ora.
Il detective letterario è trash ma fa lo snob.
La scimmia in giubba rossa.
Un libro effimero da spiaggia. Dopo Dio.

La canottiera accende il ventilatore:
Stasera mi godo fresco neorealista sul divano.

Ewa Tagher

CASA. Piccionaia con intento d’universo interiore.
CASA. Fuori, dentro, fuori, dentro.
CASA. Ingresso, due camere, soggiorno forzato.
CASA. Ascensore fuori uso, ipoteca d’affetti, mutuo soccorso, possibilità di variare il colore delle abitudini.
CASA. Souvenir d’oltralpe sul frigidaire, gorgonzola e vuoto dentro.
CASA. Di montagna, al mare, vuota, piena, infestata di litigi e formiche rosse.
CASA. Affacciarsi dalla finestra e urlare “così non va”! Continua a leggere

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Strutture serendipiche di Francesco Paolo Intini, Televisore, Due esercizi serendipici di Giuseppe Gallo, Gli esercizi serendipici sono un utilissimo strumento per liberare l’immaginazione dalle pastoie grigie dell’io. La regola è che la parola o l’oggetto designati devono essere messi in relazione con un enunciato o più enunciati correlati che non hanno alcun legame diretto con la parola o l’oggetto designato. Può sembrare un esercizio di semplice esecuzione. E invece è difficilissimo, ma può essere svolto in moltissimi modi differenti

Sean Connery Agente 007 spiaggiaGli esercizi serendipici sono un utilissimo strumento per liberare l’immaginazione dalle pastoie grigie dell’io. La regola è che la parola o l’oggetto designato devono essere messi in relazione con un enunciato o più enunciati correlati che non hanno alcun legame diretto con la parola o l’oggetto designato. Può sembrare un esercizio di semplice esecuzione. E invece è difficilissimo, ma può essere svolto in molti modi differenti. 
Ecco un esempio di struttura serendipica tratto da una foto scattata durante una pausa delle riprese del film “Thunderball” (film del 1964):

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Milano marittima

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Spiaggia non identificata: Sean Connery (Agente 007) e Claudine Auger in costume da bagno, durante una pausa delle Riprese di “Thunderball” (film del 1964), l’attrice è sulle gambe di Sean Connery seduto su una sdraio mentre guarda corrucciato il fotografo che sta scattando la fotografia

(g.l.)

Sulla serendipità

La Treccani: serendipità s. f. [dall’ingl. serendipity, coniato (1754) dallo scrittore ingl. Horace Walpole che lo trasse dal titolo della fiaba The three princes of Serendip: era questo l’antico nome dell’isola di Ceylon, l’odierno Srī Lanka], letter. – La capacità o fortuna di fare per caso inattese e felici scoperte, spec. in campo scientifico, mentre si sta cercando altro.

Con il crollo della coscienza quale luogo privilegiato della riflessività del soggetto, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel luogo, di quel soggetto, ergo: crisi della rappresentazione prospettica e unitemporale e crisi della rappresentazione tout court.

Il soggetto è diventato serendipico.

La mancanza di un Principio è diventata una petizione serendipica.

La disseminazione è diventata il luogo della serendipità.

Il soggetto serendipico è diventato una traccia, parla un linguaggio-traccia, un linguaggio osmoticamente serendipico, cancellabile, sostituibile. La poesia, il romanzo, le arti figurative, il cinema sono diventati i luoghi dove si racconta ciò che ci narra la realtà serendipica, la condivisione serendipica, l’I like serendipico: la narrazione giornalistica della crisi prospettica. L’arte diventa comunicazione del comunicato stampa, del comunicazionabile, comunicazione della condivisione, l’I like della «privacy» de-storicizzata, l’I like delle storie personali, degli affari propri. Una esistenza de-storicizzata dà luogo ad una esistenza serendipica.

(Marie Laure Colasson)

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Francesco Paolo Intini

Perché si arriva a questo procedimento nella poetry kitchen?
(Gino Rago)

L’io è serendipicamente mutato in non-Io, per effetto di un morso di zanzara, credo o per un verso scagliato da Orfeo contro le Baccanti.
Il verso serendipico abolisce l’ispirazione ma anche l’aspirazione. Parte da un punto qualsiasi, un verbo, un aggettivo a caso, il primo oggetto visualizzato sul televisore o che viene in mente a una lucertola e sbroglia la matassa che gli sta dietro.
L’autore non ha una storia da raccontare, ma uno yogurt di fatti montati l’uno sull’altro, l’uno accanto all’altro in un techeteche ad interesse zero perché la ripetizione ne ha tolto il succo, la vis comica e la bellezza fisica è offuscata dalla vecchiaia e dal lifting.
Se in questo frangente capita di perdere la coda diventa possibile che ricresca una testa o una zampa o uno sportello di auto o uno spillo.
Il DNA che generava il buon verso musicale presenta una mutazione da inquinamento atmosferico e non solo. L’effetto principale è che il figlio non assomiglia ai genitori. Nascono bulloni da gemme di ulivo e dunque diventa salutare condire l’insalata con l’olio dei freni.
Non solo, ma le quattro basi azotate si sono ritrovate acide da un giorno all’altro per un cambio di stagione non preventivato e dunque è lecito aspettarsi che dai figli dei fiori, attesi per il prossimo anno, nascano piccoli Kruscev con le ogive piene di cemento armato e più in là l’agenda prevede roboanti piazze in cui baffetti e baffoni si scontreranno rovesciando tutte le medaglie.
L’evoluzione è ovvia. La cucina contiene tutti gli elementi di un perfetto disordine. Se la lavastoviglie è la suocera, il frigo è la nuora. C’è spazio per Antigone ma anche per un pesciolino d’argento o un’aragosta nella grotta del divano.
In tutto questo convertire longitudini con parallele rimane solo un punto al centro del pianeta, fisso come una fissazione universale: “LA POESIA NON CONTA NULLA” o al massimo dell’analgesia un po’ meno dell’aspirina contro le tabe dorsali ma ci sarà sempre qualcuno che buscherà il premio Nobel per gli sforzi fatti nel dimostrare il contrario.

Tu bari (io pure)

Microscopio

“I poeti sono eventi di una pozzanghera
in attesa che Einstein ne spieghi il caos.”

Per caso è San Giacomo e dolce e chiara è la notte e senza vento?-

Si tratta di una caldaia che dibatte col mestolo per capire se il metallo sia creta o viceversa.

Una versione popolare accennava a droghe pesanti e leggere che sempre droghe sono o furfanti.

E dunque ci devono essere dei precedenti, qualcuno che spieghi di cosa si stava parlando e se questo affondare le zampe nel sugo di pelose faccia parte del gioco.

Forse iniziò con un calcio negli stinchi la sfida all’antico e ci volle un alieno per risolverla in favore di cosa?

La luna dribbla i suoi pezzi , ma fa niente, non c’era nei programmi di uscirsene con un petto di pollo e sbiancare la serata col chiarore del contado,-

Finì con un gesto crudele di tigre contro tigre azzoppata?
Ora si tratta di capire se in marmitta vada meglio l’aglio o la cipolla.

E’ ora che la catalisi trasformi in delizia l’odore di un cefalo spiaggiato!

Qualcuno intanto imbandiva la tavola e invece del “tutto è logico basta partire dalle orecchiette che si finisce a rape”- ovvio che Newton ne firmava i Principia -, servì tre paccheri (dico tre) in salsa di gambero.

Mutò la fisica classica in moderna?

Qui sul lungomare scorre linfa di fico e il polpo si arriccia sputando morbidezze e lussurie di amante.

Ma dal terrazzo la vista è uno scorrere di pista su pista e se arriva un lamento in ventosa è presto azzerato da un rombo di scooter.

Anche il pesce si presenta in marsina e racconta in tedesco- francese- inglese e latino che un’ombrina di brodo bollito ha mutato una zuppa in panino.

Occorre un uomo di genio per comprendere come scorre il presente sui tetti di Bari, Se”n’derr all lanz” stia in mezzo a Manhattan.

E i poeti? Particelle di grasso su Yogurt come in foto di gruppo.

Francesco Paolo Intini

UNA INTERPRETAZIONE AFOSA

 Quark 

A pancia piena cantano lodi gregoriane. Non sanno chi suoni l’organo né chi diriga il gran concerto. Dopo aver apparecchiato il nido – alcune specie di pappagalli lo cingono di bouganville come la fronte di Gesù- covano le uova . Aspettano con ansia il pigolio delle zanzare. 

Ibiscus 

Che male c’è a nascere radio telescopio? Ci sono api che vengono dal nulla. L’occhio potente mette a fuoco la nascita del primo ronzio.  

Silenzio 

Matrioska di corvi. Gracchiano al mattino, gracchiano la sera. Interferiscono di giorno. 

Eugualeemmecidue.  

Non aprire la porta del neurone estremo. Dopo, nel paradosso, quando sei di là, tra  pupe che mai si schiusero- Capsule della conservazione che mai si dissolsero- Il terzo occhio del baco che non trovò gelso:-sono la cellula senza sangue, dove il respiro adombra il suo “non c’è”. 

Governo 

Accade che un governo entri nella spazzatura e trovi pace tra Rumor e Leone. Oggi però soltanto il non riciclabile sarà reso al creatore. Mancano le stragi, ma la tensione promette un’estate di tira e molla in favore dell’organico. 

Bottiglie 

Ascoltare i poeti … mentre battono i denti delle assonanze.  

Un CRA di qua, un CRA di là e TRALLALLERO di: 

 -Comare hai una cipolla?  

E dentro un buco nero la stella nana della malinconia: 

-Mi stiri la camicia che domani ho un matrimonio? 

 Sarà stritolata dal bel canto per una madre, una campagna che residua un filo d’erba, il ciliegio immune ai pesticidi e il colibrì che succhia Andromeda.  

Silenzio!  

Inizia il pianto antico.  

Spunta la luna dal monte…fiu..fiu.. 

Uno sbuffo di qua, uno li là del toro Islero in Manolete. 

(potrebbe continuare)

Giuseppe Gallo

Primo esercizio

Televisore

Il televisore si accese per sorridere. Finalmente conteneva.
E il lampadario a sette luci si spense. Era l’ora del caffè.

Dimmi. Cos’è una parola se nessuno la dice?
Il frigo affogava nel Rum. Satinato e bisex.

Marilaure a piedi nudi aveva intravisto Brigitte Bardot
fare l’amore con la guerra. Si era già all’apericena.

C’era da aspettarselo. L’oroscopo l’aveva previsto.
Dio fluiva nell’universo inseguendo un rotolo di carta igienica.

Secondo esercizio

Televisore

Putin, accucciato nel grano, ingoia uomini assopiti dal gas.

Lampadario

Tramonto.

Caffettiera

Sorso dopo sorso il giovane Holden è diventato Nessuno.

Campo largo 

Sempre dentro. Nel gorgo. Con l’Ombra che ci cade addosso.

Appendiabiti

Giacobbe voleva tornare in Palestina tra i sicomori e le palme.

Frigorifero 

Oggi il vento del Nord ronza intorno mortifero

Universo 

E la palla di gomma rimbalza da Venere a Marte, da Saturno alla Luna.

Climatizzatore

Da Wuhan in poi la ventola non funziona neanche a Mariupol.

Oroscopo 

Oro e ora erano fratello e sorella.

Rotocalco

Gira che ti rigira, c’è sempre Totti a leccare un cucchiaio di carta.

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  Natomaledue è in preparazione. 

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie.

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Giuseppe Gallo, nato a San Pietro a Maida (Cz) il 28 luglio 1950 e vive a Roma. È stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Negli anni ottanta, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, di Roma. Delle varie Egofonie,  elaborate dal gruppo, da segnalare Metropolis, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, rappresentata al Teatro “L’orologio” di Roma. Sue poesie sono presenti in varie pubblicazioni, tra cui Alla luce di una candela, in riva all’oceano,  a cura di Letizia Leone (2018.); Di fossato in fossato, Roma (1983); Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, Roma, 2016, con la giornalista Rai, Marinaro Manduca Giuseppina, storia e antropologia del paese d’origine. Ha pubblicato Arringheide, Na vota quandu tutti sti paisi…, poema di 32 canti in dialetto calabrese (2018), ha pubblicato il romanzo Vi lowo tutti, (Progetto cultura, Roma, 2021). È redattore della rivista di poesia e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È pittore ed ha esposto in varie gallerie italiane.

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Testi serendipici di Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Jacopo Ricciardi, Il soggetto serendipico è diventato una traccia, parla un linguaggio-traccia, un linguaggio osmoticamente serendipico, cancellabile, sostituibile. La poesia, il romanzo, le arti figurative, il cinema sono diventati i luoghi dove si racconta ciò che ci narra la realtà serendipica, la condivisione serendipica, l’I like serendipico: la narrazione giornalistica della crisi prospettica. L’arte diventa comunicazione del comunicato stampa, del comunicazionabile, comunicazione della condivisione, l’I like della «privacy» de-storicizzata, l’I like delle storie personali, degli affari propri. Una esistenza de-storicizzata dà luogo ad una esistenza serendipica.

Lucio Mayoor Tosi Gallina Nanin uccisa

Lucio Mayoor Tosi, La gallina Nanin uccisa nel pollaio, 2022

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L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità (Adorno)

Il “Washington Post” ha di recente pubblicato un articolo che illustra come siano sfuggenti se non arbitrari i criteri con cui viene dato diverso spazio alle diverse e frequenti aggressioni armate che sono tornate a essere trattate come una “crisi” per il loro essersi intensificate negli ultimi mesi. Non è chiaro in base a quali variabili (movente, origine delle vittime, luogo, modalità) ciascun evento guadagni maggiori o minori share: ci sono molte variabili: una strage è considerata più una notizia se avviene in un luogo dove è meno prevedibile, o dove le persone dovrebbero essere più protette e al sicuro; il matematico dato quantitativo del numero dei morti è quello che decide di più le scelte perché attrae di più l’interesse dei lettori. La redazione del “Washington Post”, si dice nell’articolo, manda di norma un inviato quando i morti sono almeno quattro: «non riusciamo a seguire tutte le storie».

È un tema di riflessione quanto i meccanismi dell’informazione siano in realtà serendipici e affetti da disinformazia, ovvero, dipendano da variabili indipendenti dalla nostra volontà e/o dal significato che noi attribuiamo alle parole dato che siamo abituati a considerare degne della nostra attenzione e analisi catastrofi, tragedie, violenze e quant’altro a partire dal numero di decessi di persone, oppure per le variabili fortuite o per degli algoritmi che decidono per noi ciò che segretamente desideriamo. La realtà è già da tempo diventata serendipica e parallattica. E non ce ne eravamo accorti.

Con il che il soggetto post-edipico è diventato il soggetto serendipico.

Peschiamo in quella zona di indistinzione e di indiscernibilità in cui tutti i significati sono fasulli e posticci come nella notte di Hallowen. È il collasso dell’ordine simbolico ciò di cui tratta la poesia serendipica, il collasso dei significati; la poesia ha cessato di essere una «posizione di significati» per diventare una «indisposizione dei significati»; la guerra di invasione di uno stato sovrano, l’Ucraina, ha reso tutto ciò assolutamente evidente. La vecchia nomenclatura della poesia dell’io plenipotenziario e penitenziario è diventata improvvisamente assolutamente ridicola. Quale «Io» in questa situazione di collasso dell’ordine simbolico?. Il mondo di parallasse è un mondo parallattico e serendipico.*

(Giorgio Linguaglossa)

*[Mi ha colpito la notizia dei due cosmonauti russi i quali hanno issato a bordo della navicella spaziale la bandiera con la Z impressa. Che altro dire?, ci troviamo in un reale parallattico, serendipico, collassato… non c’è più un reale su cui si possa fare riferimento, ciascuno ha il proprio reale portabile, ciascuno parla e pensa nel proprio linguaggio collassato, fitto di ideologemi, scatole vuote, ciascuno parla con il revolver fumante sul tavolo, non ci sono più che significati serendipici]

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Sulla serendipità

La Treccani: «serendipità s. f. [dall’ingl. serendipity, coniato (1754) dallo scrittore ingl. Horace Walpole che lo trasse dal titolo della fiaba The three princes of Serendip: era questo l’antico nome dell’isola di Ceylon, l’odierno Srī Lanka], letter. – La capacità o fortuna di fare per caso inattese e felici scoperte, spec. in campo scientifico, mentre si sta cercando altro.»

Con il crollo della coscienza quale luogo privilegiato della riflessività del soggetto, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel luogo, di quel soggetto, ergo: crisi della rappresentazione prospettica e unitemporale e crisi della rappresentazione tout court.

Il soggetto è diventato serendipico

La mancanza di un Principio è diventata una petizione serendipica.

La disseminazione è diventata il luogo della serendipità.

Il soggetto serendipico è diventato una traccia, parla un linguaggio-traccia, un linguaggio osmoticamente serendipico, cancellabile, sostituibile. La poesia, il romanzo, le arti figurative, il cinema sono diventati i luoghi dove si racconta ciò che ci narra la realtà serendipica, la condivisione serendipica, l’I like serendipico: la narrazione giornalistica della crisi prospettica. L’arte diventa comunicazione del comunicato stampa, del comunicazionabile, comunicazione della condivisione, l’I like della «privacy» de-storicizzata, l’I like delle storie personali, degli affari propri. Una esistenza de-storicizzata dà luogo ad una esistenza serendipica.

(Marie Laure Colasson)

Poetry kitchen

Esercizi serendipici

 

Giorgio Linguaglossa

Televisore

Quella cosa che si accende e si spegne, si accende dopo che si spegne e si spegne dopo che si accende.

Lampadario

Un acchiappafarfalle litigò con un ventilatore e diventò un topo mentre un rinoceronte deglutiva un innocente

Caffettiera

Uomini in canottiera preferiscono il caffè bisex all’apericena, dichiarano di voler andare su Encelado, satellite di Giove dove piove una pioggia di diamanti

Campo Largo

Un triangolo isoscele si arrampica sul grattacielo più alto di Taiwan, scatta una foto alla luna, torna indietro, prende l’ascensore, si ferma al bar e ordina una granita di caffè affogata nel Rhum

Appendiabiti

Quella cosa malinconica che sta sempre in anticamera dietro al tappo di sughero dello spumante come la polvere sotto il tappeto del salotto

Frigorifero

Mare della tranquillità dove il borseggiatore nasconde la refurtiva

Universo

È quella casa che sta dentro un’altra casa che non ha fine né inizio ma si prende spesso il raffreddore

Climatizzatore

Accade che Venere e Marte giocano a tuo favore se Brigitte Bardot si getta nella mischia mentre tu vai in piscina a nuotare. Consiglio: Gli specchi ci disprezzano, non dimenticate che i pipistrelli avranno la loro vendetta

Oroscopo

La posizione parallattica di Venere tra Marte e Saturno inficia i tuoi progetti se presi prima di pranzo. Consiglio: Nascondi sempre la pistola nel primo cassetto del comò

Rotocalco

Rotolo di carta igienica che si srotola e si arrotola dopo che si è andati al bagno a fare un bisogno. Continua a leggere

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Edith de Hody Dzieduszycka, Tre Libri: Alghe e fanghiglia (2021), Un’altra pelle (2022), Frattaglie (2022), Lettura di Marie Laure Colasson, L’arte diventa comunicazione del comunicato, comunicazione della «privacy», delle storie personali, non più dell’incomunicabile, non più di ciò che ci dice l’indicibile, il lato nascosto, in ombra dell’esistenza. Edith Dzieduszycka è sostanzialmente una poetessa dell’esistenza e del modernismo, rimane ancorata ai principi cardine delle poetiche del modernismo del Novecento

Edith Dzieduszycka immagine
Edith Dzieduszycka astratto, 2016

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Tre libri di Edith de Hody Dzieduszycka
nella lettura di Marie Laure Colasson

Edith Dzieduszycka, Un’altra pelle, haiku, Progetto Cultura, Roma, 2022, pp. 86, € 12

La poesia haiku è un genere letterario legato e intimamente connesso alla componente naturalistica: ne consegue, logicamente, che un buon haijin dovrebbe farsi fine osservatore di tutto quello che può essere catalogato come “dato o evento naturalistico”. Questo è ancor più vero se teniamo presente che, nella poesia haiku il riferimento stagionale (kigo/kidai) è veicolo del sentire e dei moti d’animo dello haijin.
Comporre un buon haiku non è tanto scrivere, bensì osservare con attenzione: un vero haijin dovrebbe anzitutto fare propri i valori estetici tipici del genere poetico preso in esame oltre che familiarizzare con le principali tecniche compositive di questa forma di poesia (sottotipi di toriawase, ichibutsujitate, posizione del kireji, uso del chūkangire, ecc).
Nella poesia haiku, al pari di quanto avviene anche in altre arti giapponesi, «less is more» (meno è meglio), uno haijin, che voglia essere riconosciuto tale, deve togliere, sottrarre e, in un certo senso, destrutturare gran parte delle nostre sovrastrutture mentali: tutto quello che un poeta di haiku necessita è «meno». Il registro linguistico che uno haijin adotta nei suoi componimenti, come si sa, è semplice, ma non elementare, privo di fronzoli e retorica; le immagini presenti, variamente combinate fra loro (toriawase), che vengono proposte al fruitore delle poesie haiku devono essere concrete e molto raramente egli dovrebbe ricorrere a immagini astratte. Un poeta di haiku non parla né al passato né al futuro, ma è solo e sempre immerso, così come ogni buon componimento creato dalla sua penna, nel presente, nell’hic et nunc.
È la crisi della poesia del modernismo quello che questa poesia haiku di Edith de Hody Dzieduszycka mette in vetrina, la poetessa segue il principio della libera perifrasi, non più le antichissime e nobili regole dello haiku classico: in Dzieduszycka posta una parola, un oggetto, segue la perifrasi, che dà una analisi di quell’oggetto lontana molto spesso dalla ragione narrante del modo tradizionale di fare haiku. La poetessa franco-italiana mette in opera una de-figurazione delle regole dell’haiku. Con il crollo della coscienza quale luogo privilegiato della riflessività del soggetto, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel luogo, ergo, crisi della rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. La mancanza di un Principio è diventata una petizione di principio, la disseminazione è diventata il luogo dell’erranza; il soggetto è diventato una traccia; la poesia, il romanzo, le arti figurative, il cinema sono diventati i luoghi dove si racconta ciò che ci narra la cronaca: la narrazione giornalistica della crisi. L’arte diventa comunicazione del comunicato, comunicazione della «privacy», delle storie personali, non più dell’incomunicabile, non più di ciò che ci dice l’indicibile, il lato nascosto, in ombra dell’esistenza. Edith Dzieduszycka è sostanzialmente una poetessa dell’esistenza e del modernismo, rimane ancorata ai principi cardine delle poetiche del modernismo, come appare chiaro in questi ultimi suoi tre volumi.

Edith Dzieduszycka, Alghe e fanghiglia, Genesi, Torino, 2021pp. 150, € 15

Nella penombra blu
galleggiano
leggeri
gli ectoplasmi

bene lo sanno
loro
d’essere percepiti da pochi eletti
così da molto tempo
si sono rassegnati ad esser trasparenti

io che non m’illudo di stare tra quei pochi
cerco di capire cosa sono
le forme
informi e ondeggianti
che tutt’intorno a me
luccichio
volteggiano.

È una poesia del libro di Edith de Hody Dzieduszycka: c’è la «casa austera dalle persiane verdi», ci sono degli esseri invisibili, gli «ectoplasmi», ci siamo, invisibili, noi i lettori, ci sono gli abitanti della casa, rigorosamente anonimi, c’è tutto ciò che ci deve essere, c’è il padre e la madre dell’autrice, o meglio, l’assenza del padre e della madre deportati dai nazisti nel lager di Auschwitz durante l’ultima guerra, c’è un «muro altissimo», e poi c’è il misterioso mondo dell’infanzia. Sono rimaste delle «alghe» e della «fanghiglia», tutto ciò che sopravvive di quel mondo lontano:

Per i miei cinque anni
regalata mi fu una colomba bianca
bestiolina gentile che nominai Justine.
Aperta la sua gabbia svolazzava felice
andando a posarsi sulla spalla o la testa
di chi la invitava.

Insieme a lei, più conigli e galline nel pollaio
in sette eravamo in quella casa
dalle persiane verdi di fronte alla scuola
un uomo, mio padre e sei donne
chiuse le serrande contro orecchi malvagi
ad ascoltare alla radio messaggi oscuri
a vigilare seri e bisbigliare cose che non capivo.

Verso di me piovevano, severe ed accorate
le raccomandazioni sul come comportarmi:
“Se gente sconosciuta incontrata per strada
ti fa domande strane sulla nostra famiglia
mentre vai nel villaggio a comprare il pane
devi fare la stupida e dire:
Non lo so, io sono piccina”
poi subito di corsa tornare a casa.

Successe una mattina plumbea di novembre
mai più adatto il giorno
– due, quello dei Morti –
che rimarrà per sempre nella mia memoria.

Calzata da stivali
serrata in vert-de-gris
irruppe a mezzogiorno abbaiando
una squadra feroce
che alla vita vera e a noi tre sorelle
strappò all’improvviso madre e padre.

Lasciata fu poi la casa
vuota
spalancata
noi sorelle spaurite
messe al sicuro da persone pietose
nascoste e protette insieme a Justine
minuscolo tesoro nella gabbia rinchiusa

Cupi e angosciosi come gelida nebbia
vennero poi i giorni dell’attesa
le notti afone dei roventi perché
il Tempo del Silenzio.
Tra il prima e il dopo
eretto era stato
un muro, un Muro altissimo
di sospetto e di paura.

In quella casa austera dalle persiane verdi
casa di pietra grigia a prima vista anonima
in quel cortile stretto fra dimore ostili
visitato di notte da ombre fluttuanti
accadevano ora eventi insoliti
che vedevo solo io
nessun altro sapeva.

Porte che sbattevano
quando lontano già era fuggito il vento
finestre spalancate all’improvviso chiuse
come gusci gelosi e silenziose bocche
pareti stropicciate, da ragni
e pipistrelli rammendate agli angoli
scala che scendeva invece di salire
nell’androne budello
bagliori ballerini
e presenze malvagie dalle mosse furtive
un granaio di fronte pieno di meraviglia
corone e perline
perfide trappole.

in quella casa tetra vestita da fantasmi
dal ricordo distorta e mai più disertata
viva ancora, nei miei sogni
e dal respiro caldo
forse ritroverò il filo della storia. Continua a leggere

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Marie-Laure Colasson, Les choses de la vie, Progetto Cultura, Roma, 2022, pp. 126, 12 €, Nota di lettura di Edith Dzieduszycka, Qualsiasi ierofania mi è ostile ed estranea, Nella mia poesia non troverete mai le parole che diventano la «potenza» della negazione o la «potenza» della affermazione, che vogliono il reale come Nulla, e sono quindi Nihil, nichilismo (M.L. Colasson)

Marie Laure Colasson Les choses de la vie

Chi sa perché, mi affiora spesso in mente l’antico giuoco delle somiglianze e delle affinità, che applico a persone sconosciute o celebre in momenti di svago mentale o d’insonnia!

Così, dopo la lettura del suo libro, Les choses de la vie, ora pubblicato da Progetto Cultura con dotti commenti di Giorgio Linguaglossa, mi è venuta in questa notte bianca la voglia di scegliere un animale da abbinare in qualche modo a Milaure! E’ stato fulmineo! En un clin d’oeil mi è subito sbalzata nel pensiero l’immagine della libellula! Creatura sinuosa e danzante, raffinata e rarefatta, leggera e scintillante, dal pallore un po’ evanescente, il cui volo a zigzag veloce e imprevedibile la porta di qua di là sulle acque dello stagno, alla ricerca di un cibo nascosto o semplicemente di un giunco degno della sua attenzione.

Dotata di ali luminescenti e frementi al minimo soffio di vento, è arduo seguire il suo percorso. Tout comme è spesso difficile seguire la poesia di Marie-Laure, che non può e non vuole dimenticare o rinnegare le sue origini. Ci trasporta così, attraverso colte citazioni e rimandi, insieme a personaggi ricorrenti, la blanche geisha, Eredia, Lilith, la comtesse Bellocchio, Eglantine e Sarah e tanti altri, nel mondo cosmopolita e soprattutto francese del ‘900, tra i versi di Rimbaud e Verlaine, sulle musiche di Satie e Ravel, illuminati dal demone verde elettronico (ndr. la sigaretta elettronica che l’autrice fuma). Un mondo in cui n’importe quoi peut arriver à n’importe chi!

Contenitore senza fondo di tutte le meraviglie, vaso di Pandora dalle capacità inesauribili, le sac crocodile si riempie e si svuota al ritmo della danza e d’una coreografia sempre in movimento di clown pailletés e coccinelle.

Un tour de force d’inventiva, d’immaginazione, di reminiscenze a 360°, con gli accostamenti più strambi ed imprevisti che ci trascinano in una ronda infernale in cui vizio e virtù si danno la mano per dipingere le tele più folli ove spadroneggia un Francis Bacon imperioso seduto sul suo trono-poltrona di velluto grenat.

Copertina ispirata a Rotella, con quella gamba rossa e aguichante emergendo dagli strappi a conferma della frammentazione di stile e percorso mentale. Una lettura saltellante e brillante che non ti lascia un attimo di requie, ma ti spinge e trascina in tutte le direzioni sul suo carosello impazzito!

(Edith Dzieduszycka, 1 luglio 2022)

Sedie comuni ridipinte da Marie laure Colasson

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Qualsiasi ierofania mi è ostile ed estranea.

Penso che la mia poesia sia afanica, drasticamente materica, diafana e diafanica.

L’arte oggi attraversa tutti i suoi momenti senza poter mai giungere a un’opera che esprima il positivo, giacché non può mai identificarsi con alcuno dei momenti del positivo. Nella mia poesia non troverete mai un momento in cui si dice il positivo di un enunciato e né il positivo di una negazione. Affermazione e negazione facevano parte di quella metafisica che intendeva le parole che contenevano una intenzionalità verso […] una direzione verso […]. Non troverete mai le parole che diventano la «potenza» della negazione o la «potenza» della affermazione, che vogliono il reale come Nulla, e sono quindi Nihil, nichilismo. Il termine non è ovviamente hegeliano ma post-heideggeriano, come post-heideggeriana è la conclusione del concetto dell’arte nella surmodernità: Oggi la nuova metafisica che è la Tecnica nuda non  dà alcun nichilismo, non ci consegna alcun Nihil ma ci fornisce il Pieno in grandissima quantità: il Pieno dei markettifici, il pieno di benzina, il pieno del negotium che ha sostituito l’otium. Tutto ciò non coincide con nessuna essenza dell’arte nel punto estremo del suo destino (hegelianamente inteso); in entrambe le soluzioni l’essere dell’arte si destina all’uomo come un qualcosa che non può essere pronunciato, chiamato, definito. Probabilmente, finché il nichilismo governerà segretamente il corso della storia dell’occidente, l’arte non uscirà dal suo interminabile crepuscolo, un crepuscolo pieno di «cose piene», ovviamente.

(Marie Laure Colasson)

Le prime sei composizioni di Les choses de la vie

1.

Son petit pain fourré au champagne le matin
des cigarettes en chocolat dans ses poches trouées

Un merle chante au centre du silence
un merle chante faux dans un silence aveuglant

Assis sur une photo de Doisneau séchant dans la baignoire
solitude sans silence

Eglantine boit le champagne suce le chocolat
avale la photo engloutie au fin fond de son lit

Sa photo à côté du lit
è definitivo coup de poignard

Dans la chambre émanation de cadmium red
elle poignarde le temps le merle s’envole

Putride le déclin convulsif le temps
elle tressaille engloutie au fin fond de son lit

La chambre est rouge

*

La sua ciambella farcita allo champagne al mattino
delle sigarette al cioccolato nelle sue tasche bucate

Un merlo canta al centro del silenzio
Un merlo canta falso nel silenzio accecante

Seduto sopra una foto di Doisneau si asciuga nella tinozza
solitudine senza silenzio

Eglantine beve lo champagne succhia il cioccolato
Inghiottisce la foto inabissata al fondo del letto

La sua foto accanto al letto
è definitivo colpo di pugnale

Nella stanza emanazione di cadmium red
Lei pugnala il tempo il merlo s’invola
Putrido il declino convulso il tempo
lei rabbrividisce inabissata in fondo al letto

La stanza è rossa

2.

Les couleurs dansent sur la pointe d’une aiguille
Menaçant le rouge de devenir violet

Rouges violettes les fleurs sur le balcon
dans le cercueil de Paul Cézanne des photos éparpillées

Sarah dans le tunnel s’en empare pour gommer leurs mémoires

Le cercueil furieux s’échappe en Rolls Royce
boit son thé au jasmin se brûlant les entrailles

Sarah prend un chiffon bleu outremer
pour nettoyer ces fragments d’archéologie

Les couleurs les photos se transforment en gélatine
pour construire un incertain devenir

Que de photos éparpillées sur le sol
archéologie du passé

Son rimmel a coulé un autre théâtre
avec un chiffon efface la mémoire

……échappatoire

*

I colori ballano sulla punta d’un ago
minacciano il rosso di diventare viola

Rossi viola i fiori sul balcone
nella bara di Paul Cezanne delle foto sparpagliate

Sarah dentro il tunnel se ne impadronisce per cancellare le loro memorie

La bara furiosa se ne scappa in Rolls Royce
beve il suo tè al gelsomino si brucia le viscere

Sarah prende uno straccio blu oltremare
per pulire questi frammenti d’archeologia

I colori le foto si trasformano in gelatina
per costruire un incerto avvenire

Quante foto sparpagliate sul pavimento
Archeologia del passato

Il suo rimmel si è sciolto un altro teatro
con lo straccio cancella la memoria

….scappatoia

Marie Laure Colasson Notturno 9 collage 30x25 cm 2007M.L. Colasson, Collage, Notturno, 30×25, 2007

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Robert Frost, Fuoco e ghiaccio, Adelphi, 2022, a cura di Ottavio Fatica, traduzione di Silvia Bre, pp. 547 € 30, Nota di lettura di Marie Laure Colasson

Robert frost

circa 1960: American poet and 1924 Pulitzer Prize winner Robert Lee Frost (1874 – 1963) holds a stick in both hands at arms length in a forest. (Photo by Hulton Archive/Getty Images)
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Stopping by Woods on a Snowy Evening
di ROBERT FROST

Whose woods these are I think I know.
His house is in the village though;
He will not see me stopping here
To watch his woods fill up with snow.

My little horse must think it queer
To stop without a farmhouse near
Between the woods and frozen lake
The darkest evening of the year.

He gives his harness bells a shake
To ask if there is some mistake.
The only other sound’s the sweep
Of easy wind and downy flake.

The woods are lovely, dark and deep,
But I have promises to keep,
And miles to go before I sleep,
And miles to go before I sleep.

Sostando presso dei boschi in una sera di neve

Credo di sapere di chi siano questi boschi;
Ma la sua casa è al villaggio.
Egli non mi vedrà fermo qui
A guardare i suoi boschi riempirsi di neve.

Deve sembrare strano al mio cavallo
Sostare qui dove non c’è una casa,
Tra i boschi ed il lago ghiacciato
La sera più scura dell’anno.

Scuote i campanellini dei finimenti
Per chiedere se non c’è sbaglio.
Non c’è altro suono che il fruscio
Dolce del vento e dei soffici fiocchi.

I boschi sono belli, scuri e profondi;
Ma io ho tante promesse da mantenere,
E tante miglia da fare prima di poter dormire
E tante miglia da fare prima di poter dormire.

Acquainted with the Night

I have been one acquainted with the night.
I have walked out in rain—and back in rain.
I have outwalked the furthest city light.
 
I have looked down the saddest city lane.
I have passed by the watchman on his beat
And dropped my eyes, unwilling to explain.
 
I have stood still and stopped the sound of feet
When far away an interrupted cry
Came over houses from another street,
 
But not to call me back or say good-bye;
And further still at an unearthly height,
One luminary clock against the sky
 
Proclaimed the time was neither wrong nor right.
I have been one acquainted with the night.
.

In confidenza con la notte

Sono stato uno in confidenza con la notte.
Sono uscito sotto la pioggia – e sotto la pioggia son rientrato.
Ho camminato oltre le più lontane luci della città.

Ho guardato in fondo al vicolo più triste.
Ho incrociato il guardiano di ronda
E ho abbassato lo sguardo, senza voler spiegare.

Sono rimasto in piedi, immobile, fermando il suono dei passi
Quando da lontano un grido interrotto
Giungeva dalle case di un’altra via,

Ma non per chiamarmi indietro o dire addio;
E più lontano ancora, ad un’altezza ultraterrena,
Un orologio splendente contro il cielo

Annunciava che l’ora non era giusta né sbagliata.
Sono stato uno in confidenza con la notte.

The Vantage Point

If tired of trees I seek again mankind,
Well I know where to hie me—in the dawn,
To a slope where the cattle keep the lawn.
There amid lolling juniper reclined,
Myself unseen, I see in white defined
Far off the homes of men, and farther still
The graves of men on an opposing hill,
Living or dead, whichever are to mind.

And if by noon I have too much of these,
I have but to turn on my arm, and lo,
The sunburned hillside sets my face aglow,
My breathing shakes the bluet like a breeze,
I smell the earth, I smell the bruisèd plant,
I look into the crater of the ant.

L’osservatorio

Se stanco d’alberi di nuovo cerco gli uomini,
bene io so dove affrettarmi – nell’alba,
a un pendio dove pascola la mandria.
Là in mezzo a pigri ginepri adagiato,
non visto io vedo nitide nel bianco
lontano le case di uomini e, più ancora
lontano, le tombe di uomini su un’opposta collina,
vivi o morti, ma tutti da ricordare.

E se per mezzogiorno anche mi stanco
di loro, non ho che da voltarmi sul fianco
e l’assolata collina mi illumina in viso,
il mio respiro è una brezza al fiordaliso che trema,
odoro la terra, la piantina ferita,
guardo dentro il cratere della formica..

(Trad. di Roberto Sanesi)

Wallace-Stevens-Walk-Blackbird-1

versi di Wallace Stevens

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Robert Frost è stato il poeta preferito di John Fitzgerald Kennedy, è nato a San Francisco nel 1874 ed è morto a Boston il 29 gennaio 1963. È il poeta della natura vista in rapporto di estraneità e di rigetto istintivo verso la civiltà urbana e l’ideologia del progresso storico; è un poeta isolazionista, sostanzialmente astorico, anti sistemico, è il poeta del versante rurale del modernismo americano, di qui il suo linguaggio e le sue tematiche: è un poeta elementare, ripetitivo, isolazionista, regressivo. Nel 1922 escono The Waste Land  di Eliot, l’Ulisse di Joyce, le Elegie duinesi di Rilke, Il castello di Kafka, Sodoma e Gomorra di Proust;  nel 1923 esce La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Ha inizio il modernismo europeo, il 15 giugno del 1925 esce a Torino, per il tramite di Piero Gobetti, Ossi di seppia di Eugenio Montale; nel 1914 esce L’incendiario di Palazzeschi, nel 1930 il primo volume de L’uomo senza qualità di Robert Musil, nel 1923 Wallace Stevens esordisce con la raccolta Harmonium, che contiene la famosa poesia “Sunday Morning”, dove il poeta americano raggiunge un perfetto balancement tra la natura e la civiltà delle macchine; nello stesso anno escono Spring and All di W. C. Williams e New Hampshire di Robert Frost (1874-1963). Non ci possono essere due poeti più distanti tra loro. Il modernismo americano differisce da quello europeo, il primo è erede della lezione di Ralph Emerson e di Leaves of grass di Walt Whitman, oscilla tra sentimento della natura e vitalismo panico, il secondo si orienterà verso la rappresentazione della crisi esistenziale dell’uomo  occidentale prigioniero della tecnica e del progresso. Continua a leggere

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Sketch poetry, con variazioni, e Poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Raffaele Ciccarone, Giorgio Linguaglossa, Marie laure Colasson, Il nuovo «paradigma ortolinguistico», la legalità morfologica del discorso poetico è la sua garanzia di legalità e di legittimazione, in un testo sketch kitchen la cerimonialità celebrativa del testo richiede che vi siano degli attori che pronunciano enunciati o pongano in essere azioni e circostanze palesemente incongrue e ultronee che non corrispondono più ad alcun paradigma ricettivo del lettore ma che invece lo indirizzano verso un nuovo paradigma di ricezione

Gli specchi ridono di noi. I pipistrelli
ci disprezzano.

(Mario Lunetta)

Poetry kitchen

di Francesco Paolo Intini

PAROLA AL MICROSCOPIO

Pensate che un cardellino sano di mente
spezzerebbe il suo canto?

Se non sapesse di sillogismi farebbe versi di giaguaro.

Un microscopio dall’occhio critico, capitano di viaggi estremi
Disse che esisteva un tal dei tali simile alla cornacchia
e dunque fu chiaro a tutti che al vecchio mondo
Se ne doveva aggiungere un altro.

La logica si aggrappa alle parole: bisogna ordinarle su internet
Arriveranno di sicuro. Pacco con sette sigilli e la pantera nera.

Se inverti l’ordine il corriere fa marcia indietro
e tutto scorre lo stesso. Dal consumatore all’Amazzonia.

Crepi per una volta anche il buon senso
Se sapesse calcolare farebbe a meno dei versi.

In fondo a un elettrone vive il poeta. Gira o non gira?
È qui o altrove?

E dunque il pizzino del miele è scritto dal fiore. Una merda
che la regina legge come uno sgarro degli stami.

Sketch poetry

di Giorgio Linguaglossa

Prima di papparsi la marmellata del poeta Mario Lunetta di via Accademia Platonica 37
il pipistrello aprì la porta d’ingresso

C’era il poeta Gino Rago
con una torta ai mirtilli, lamponi e shrapnel al fosforo bianco

Dopo finito di ingurgitare anche il gorgonzola di entrambi i poeti
il pipistrello si guardò allo specchio:

Vide il pappagallo Gazprom che si lavava i denti con il dentifricio Pepsodent plus antiplacca
e diceva:
«This is the best product in the world!»

*
I Variazione

di Giorgio Linguaglossa

È accaduto che il pipistrello Pastrengo ha aperto la porta d’ingresso della abitazione del critico Linguaglossa,
si è introdotto nella cucina e si è pappato tutta la marmellata

che il poeta Mario Lunetta di via Accademia Platonica 37 aveva portato dall’aldilà in una valigetta frigorifero.
C’era pure il poeta Gino Rago
con la torta di mirtilli, lamponi e shrapnel al fosforo bianco.

Così, è accaduto che il Signor Pastrengo ha ingurgitato di nascosto il gorgonzola al peperoncino dei due poeti citati e si è scolato anche una bottiglia di Bourbon.

A quel punto è apparso il pappagallo Gazprom che ne diceva di cotte e di crude sul poeta Montale mentre si lavava i denti col dentifricio Pepsodent plus antiplacca
il quale così ha perorato:
“ça va, ça va, e se non va, ça va. bien…”
(Giorgio Linguaglossa)

II Variazione

di Raffaele Ciccarone

Il pipistrello apre la porta d’ingresso e si pappa la marmellata
del poeta Mario Lunetta di via Accademia Platonica 37
C’era pure il poeta Gino Rago
con la torta di mirtilli, lamponi e shrapnel al fosforo bianco
Ingurgitato anche il gorgonzola dei due poeti
il pipistrello si guarda nello specchio
appare il pappagallo Gazprom che dice mentre si lava i denti
col dentifricio Pepsodent plus antiplacca:

III Variazione

di Raffaele Ciccarone

Il pipistrello entra dalla porta d’ingresso, in via Accademia Platonica 37
del poeta Mario Lunetta, si pappa la marmellata
mangia anche la torta di mirtilli, lamponi e shrapnel al fosforo bianco
del poeta Gino Rago, poi ingoia persino il gorgonzola dolce
si guarda allo specchio, vede il pappagallo Gazprom
che si lava i denti con Pepsodent plus antiplacca, e beato si addormenta

Sketch poetry

di Marie Laure Colasson

Monsieur Devos dit à Zazie dans le Métro
“Mon pied droit est jaloux de mon pied gauche
quand l’un avance l’autre veut le dépasser
Et moi come un imbécile
je marche”

*

Il Signor Devos dice a Zazie dans le Métro
“Il mio piede destro è geloso del mio piede sinistro
quanto l’uno avanza l‘altro vuole sorpassarlo
Ed io come un imbecille
io marcio”

*

Like a Thief in Broad Daylight
(Comme un voleur en plein jour)
le poème ressemble à un cormoran déguisé en perroquet,
comme un chômeur habillé en grand Seigneur,
comme une crevette mise dans une poêle qui frit
et sautille

*

Like a Thief in Broad Daylight
(Come un ladro in pieno giorno)
la poesia si presenta come un cormorano abbigliato da pappagallo,
come un disoccupato vestito da Grand Seigneur,
come un gambero messo in padella che frigge
e saltella

*

Un dinosaure radioactif de la Mongolie
s’allonge sur une chaise longue Louis Philippe

Une nébuleuse entièrement cabossée
transperce un regard divergent à un croisement

*

Un dinosauro radioattivo della Mongolia
s’allunga su una sedia sdraio Luigi Filippo

Una nebulosa interamente ammaccata
trafigge uno sguardo divergente ad un incrocio

Il nuovo «paradigma ortolinguistico».1

Un discorso in poesia è tale quando, mediante un a capo tipografico (découpage), la continuità del testo viene frammentata in serie di unità versali che afferiscono al discorso articolato (discorso narrativo o poetico) mediante il quale il lettore corrisponde con le intenzioni dell’autore. La metrica, ossia l’insieme dei criteri di versificazione, non corrisponde a un vero e proprio «paradigma ortolinguistico», perché le sue regole per Bachtin mutano col tempo e non possono considerarsi oggettive sul piano diacronico. Assumono invece rilevanza paradigmatica le caratteristiche prosodiche e semantiche del singolo verso, i cui fattori di metricità indicano sempre il grado di cerimonialità del discorso (poetico o narrativo). Il discorso poetico corrisponde per tradizione culturale con la tradizione poetica, ma esistono altre tipologie di enunciati, come gli enunciati della pubblicità, non riconducibili agli enunciati del genere poesia in quanto obbediscono ad un paradigma ortolinguistico del tutto diverso. Il discorso poetico corrisponde ad un paradigma ortolinguistico in quanto corrisponde ad una certa connotazione assicurata da una data tradizione letteraria. Continua a leggere

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Le poesie sono schegge impazzite nel vuoto. da Lettera morta (2000), poesie scritte tra l’aprile e il luglio 1999, di Mario Lunetta (1934-2017), Lettura di Letizia Leone, Meditazione sulla vita offesa a colpi di invettive, polemiche e ironie disarmanti, umorismo nero, iroso, sinistro

Il Mangiaparole n 13 Mario Lunetta

Ermeneutica di Letizia Leone

I testi di ‘Lettera morta’ (Mario Lunetta, Lettera morta, Fermenti, Roma, 2000) furono composti più di venti anni fa ma sconcertano alla lettura per l’aderenza quasi cronachistica all’attualità, ai fatti dei nostri giorni, al momento storico che ci coinvolge e travolge. Soprattutto alcuni qui riproposti dalla sezione “Area di contagio”. E ciò è più sorprendente pensando ad un tipo di “poesia critica”, praticata instancabilmente da Lunetta, una sorta di “meditazione sulla vita offesa” a colpi di invettive, polemiche e ironie disarmanti, o per meglio dire umorismo «nero, iroso, sinistro» per usare la definizione di Marcello Carlino. Un pensiero critico che marcando porta a porta fatti e contingenze, si pone in apparente contraddizione con la lucida consapevolezza del poeta di riconoscere il fallimento di ogni estetica dell’impegno.

La Lettera morta è un’attestazione di impotenza della scrittura e della sua devalorizzazione nella babele dei linguaggi mediatici, là dove la poesia, rotolata dal suo scranno, viaggia attraverso il villaggio globale per riduttive ridondanze sentimentali e pubblicitarie. Il disincantamento conseguente, così come la débâcle di classe dell’intellettuale engagé, non limitano e non indeboliscono la posizione forte di responsabilità nei confronti della società e della storia di Mario Lunetta.

 In particolare come si legge dalle postille al libro, «area di contagio è stata realizzata, con tetro andamento da danse macabre, tra l’aprile e il luglio del 1999, sulla spinta del rifiuto e dell’ira per l’aggressione NATO alla Serbia, spudoratamente pretestuosa e imperiale.» Sebbene questi chiarimenti dell’autore collochino in una sfera di occasione ideologica i testi, ne risulta quale dato portante la demistificazione dell’io, la sua ridefinizione storica in una dimensione sociale (e umana) che pare non offrire alcuna possibilità di redenzione o riscatto. La mostruosa deriva antropologica della società delle merci e l’ipocrisia del potere politico rendono pura illusione utopistica ogni idea di progresso morale e civile. I testi della prima sezione ‘Per leggerezza’ sono spaziosi, articolati in lasse prosastiche, e convocano sì autorevoli spiriti del passato, ma soprattutto i propri contemporanei, scrittori, poeti, intellettuali, papi o politici come Andreotti. Testimoni, osservatori polemici o protagonisti dell’appiattimento della Storia nella ferrea morsa di un ipercapitalismo mondiale.   La poesia “3 gobbi”, ad esempio, fu rifiutata da due prestigiosi quotidiani dell’estrema sinistra italiana, ne scrive Lunetta: «Questa poesia è nata sull’indignazione e la tristezza politica per le vicende connesse all’incredibile Andreotti story, vera e propria allegoria del DNA dell’Italia, che sempre più si conferma parodia di un paese che non c’è mai stato.» Inoltre la potenza dell’occhio sarcastico del poeta rende nettamente visibile il triangolo sbilenco di una «metafisica della prigione» dove si consumano i destini illustri di tre gobbi: Leopardi, Gramsci e Andreotti, legati ad un fato italico irridente e maldestro.  

Il libro è sigillato da una nota d’autore che chiarifica quale energia ne alimenti la macchina testuale: «Questo piccolo libro è composto di schegge impazzite. Vorrei solo che vi si leggesse almeno l’ombra dell’invincibile disgusto per la quasi totalità di quello che si usa chiamare, con un’immagine troppo generosa, umano consorzio: per la sua ridicola bassezza, per la sua ridicola violenza: conseguenze di un ibrido mostruoso, derivante dal rifiuto orgoglioso di quanto di meglio è nella natura animale di cui l’uomo, stupida preda dei preti di tutte le religioni, continua da millenni a vergognarsi.»

Mario Lunetta 2

(Da “Area di contagio”)

Inverosimile secolo

Inverosimile secolo. Anche gli insetti, infimi
Tra gli infimi, hanno difficoltà a sopravvivere.
Viviamo una vita fossile. In me la sola forma di energia
È l’ira. Tutto è radioattivo. Ognuno ha perso
La propria ombra.

Si cammina per le strade come su pareti
glaciali di grattacieli. Qualcuno fuma di nascosto
sigarette che, è risaputo, producono “collateral damage”,
come i bombardamenti degli F15 o la furia degli “Apaches”.

Gli specchi ridono di noi. I pipistrelli
ci disprezzano.

Si continua a fare dei film che –direbbe il vecchio Krauss –
mostrano soltanto la nostra “indicibile infamia”.
Con la malafede cultural-politica si allestiscono
confezzioni “sweet” o “salty”. Il mondo crepa
Tra singhiozzi e ululati: è solo un lupo ubriaco.

Chi mi chiama? Mi sta chiamando qualcuno? Da dove?
Da un secolo fa? Dal prossimo maledetto millennio? Mentre
tento di dormire? Mentre mi chiudo in cantina, invitato
a un party di topi?

Non voglio più deglutire. Il respiro comporta
Una responsabilità schiacciante. La morte è una pretesa
costosissima. Credete che io sia un demonio: mon dieu ragazzi,
ma se non sono che la copia malriuscita
di un angelo sciocco, che una volta cantava nei nights, e
pensava di essere immortale. Il povero idiota
dalle cravatte sprezzanti. Lo scemo del villaggio globale
in mocassini Clark. L’illuso. Il deluso. Che ora
non vede quasi più nulla, nella sua sordità. E nella
sua cecità non sente più niente, o quasi: con qualche ingrata eccezione.

(Aprile 1999)

 

Nient’altro

Perdo un miliardo di neuroni al giorno:
è un’andata senza ritorno.
Il mio sguardo è sempre più ottuso
Per la lunga attesa, il lungo uso.
Vedo solo questo mondo perduto,
lo vedo desolato, muto.
Ho una discreta voglia di morire:
non ho nient’altro da dire.

(Giugno 1999)

 

Sogni d’oro

Dopo, solo un po’ dopo, vennero
pattuglie di iene ben inquadrate, guardinghe, con appena
una lieve aria di sospetto. Avevano gli occhi chiusi, come
sigillati di cera. Da sotto le corazze
mimetiche usciva il loro caratteristico fetore.
Leggevano libri di versi, si suppone, ne storpiavano
le parti più imponderabili, i nessi più indigesti
e forse velenosi. Poi, stranite, stridendo,
vi defecavano sopra. Si addormentavano, quindi, facendo
molto probabilmente sogni d’oro.

(7 luglio 1999)

(Da “Per leggerezza”)

3 gobbi

Nella storia moderna di questa nostra Italia, che è
così poco nostra e così profondamente loro (di chi, intendo,
non paga mai dazio e impone gabella, alla faccia
di Gesù bambino infreddolito nella mangiatoia), figurano
3 gobbi di rilevanti proporzioni. Si chiamano
Giacomo Leopardi, Antonio Gramsci e Giulio Andreotti.

I primi due, per tanti versi fraterni, sono assolutamente inapparentabili
con l’altro. Eppure, volendo, su un triangolo tanto sbilenco
si potrebbe costruire una sorta di allegorica Metafisica
della Prigione. L’uomo di Recanati scontò praticamente, senza
battere palpebra, trentanove anni di carcere a vita.
L’uomo di Ales si fece eroicamente undici anni di galera, che
l’aiutarono a crepare come un cane. L’altro, ancora vivo
e vegeto, è stato assolto qualche giorno fa da un tribunale della Repubblica
e gioca a carte con gli amici di sempre. Che Dio lo protegga,
in questo mondo di malandrini. Lunga vita al Senatore. L’Italia
ha ancora bisogno di lui.

(Accademia platonica, ottobre 1999)

mario_lunetta nero

L’essenza del riso

Leggo in un’intervista a Günter Grass: “Abbiamo di nuovo bisogno di una letteratura sovversiva”:
(Pro)posizione, invero, seccamente intransitiva, ai limiti della disperazione, mi pare, ancorché
flamboyante. E qualche giorno prima (era bel tempo, faceva un secco freddo aquilano, nei pressi
del castello spagnolo, in compagnia di creature ariose), in un’altra intervista a José Saramago, che
della cecità ha fatto una metafora che non dà scampo: “Le religioni non hanno mai avvicinato gli
uomini, piuttosto li hanno divisi: sono convinto che la vita dell’uomo stia tra un nulla e un altro
nulla, e quando l’ultimo uomo morirà, morirà anche Dio”.

Anni luce fa, durante l’adolescenza, lessi l’enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII.
Più di qualcosa non mi convinse, in quel celebre testo; per es., questo passo: “I socialisti
spingono all’odio i poveri contro i ricchi, e sostengono che la proprietà privata deve essere abolita
e i beni di ciascuno debbono essere comuni a tutti (…); ma questa teoria, oltre a non risolvere la
questione, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché
contro i diritti dei legittimi proprietari snatura le funzioni dello stato e scompagina tutto
l’ordine sociale.” Divina ipocrisia. Uso dell’aggettivo “legittimi” da sublime escamoteur.

Oggi (giornata di grasso scirocco romano), press’a poco cento anni dopo, leggo nell’enciclica
Centesimus annus di come papa Giovanni Paolo II, parlando molto vagamente (e con qualche
distrazione di troppo) della “mondializzazione dell’economia”, risolva la questione con un guizzo
di majorette: “Perché, dunque, si attui la giustizia e abbiano successo i tentativi degli uomini
per realizzarla è necessario il dono della grazia, che viene da Dio. Per mezzo di essa, in
collaborazione con la libertà degli uomini, si ottiene quella misteriosa presenza di Dio nella storia
che è la provvidenza”. A parte il discutibile italiano, peraltro perdonabile in un polacco, sento
in queste battute l’eco involontaria di certe irresistibili gags di Petrolini, buttate là da un pulpito
un po’ più elevato di un palcoscenico di varieté con settant’anni di ritardo.

In uno dei suoi famigerati (ma mica sempre folli) radiodiscorsi 1941-43 per il programma
“American Hour” di Radio Roma, Ezra Pound ricorda un antico proverbio cinese: “Quando
la gallina canta è vicina la disgrazia”. È stato buon profeta, bisogna riconoscere: e magari
certe sue profezie (o certi antichi proverbi d’Oriente) valgono anche per l’oggi, in tempi
(fuzzy logic) così tremendamente gallinacei. Quanto a me sottoscritto, poi, mi tengo in tasca
per ogni evenienza un paio di detti buoni. Luis Buñuel: “Grazie a Dio, sono ateo”. E Michelangelo
Merisi, più noto come Caravaggio assassino: “Nessuna speranza. Nessuna paura”.

(Da “Omaggi e memorie”)

Gli eredi
Omaggio a Jorge Luis Borges

Credo che ormai, in questo deserto inenarrabile
Di sprechi programmati, imposture obese e malandre: in questo,
insomma, devastante sisma dell’utopia
che già qualcuno, in un bieco passato italiano, chiamò
strage delle illusioni, ogni scrittore
degno del nome debba contare tutti i granelli di sabbia
(nessuno escluso) – al lume definitivo
di qualche stella remota.

Credo che ogni scrittore, semplicemente, non possa che
dedicarsi alla continuazione ossessiva
della storia universale dell’infamia – nelle caverne
platoniche dove ballano le ombre, nelle campagne, nelle
metropoli mefitiche, davanti agli ultimi frammenti
di specchi opachi, mentre
si apre la voragine: ancora, ancora. Sempre, forse.

Credo che la parola, finzione di un’unica
finzione infinita e definitiva, non spetti oggi ai pallidi eredi
di Pierre Menard, ma soltanto a chi
ne abbia cancellato, con la polvere delle proprie ossa,
l’alone misterioso intriso di complicità
– e l’abbia immersa nello stupore del proprio sangue,
ragionando in silenzio (duramente), sorridendo
(duramente) col coltello alla gola, salutando
cerimonioso Colui che disse di Shakespeare:
“Somigliava a tutti gli uomini, tranne nel fatto
che somigliava a tutti gli uomini”. Chapeau.

(Accademia Platonica, giugno 1999)

mario-lunetta-anni settantaMario Lunetta

(poesia di Mario Lunetta compresa nel volume: Luigi Amendola, Lettera a Telemaco, 2022)

Favola Faina

Chi è mendace commèndasi, poi – ahimé, si stende lungo sul letto o sull’amaca, poi:
càspita, che grugno! – stante che la pioggia, acida di tutti gli spurghi paradisiaci,
niente pulisce più, niente di niente: ma il mendace rammendasi le scuciture della sua
elastica morale: – mentre paventa il vero, e castiga la verità di tutte le sue mende.
Peripezie da cocchiere. Indugi da faina presciolosa: e altro, o altro, altro ancora: in
questa pace invernalissima, di vetri appannati, di languori, di abbandoni carnali
abbacinati in una parvenza di neve. Ma il mendace ora tace, e si avvita la lingua alla
cappa del palato, la disperde nel gorgòzzule a mo’ di stringa o di serpente anzichenò:
e invece, siamo sinceri, a imitazione di coriandolo, sbirciando lividori della luna, e
tastandosi il polso. Ma lì tuona. Qui svaria un’aria bruciata, che sa di carne umana, e
viene chissà da dove.
Chi è mendace commèndasi, in una stretta di mandibola. E lo specchio arrossisce,
contro l’ombra del suo grugno, indecifrabile. Poi: càspita! e Caspio! e caspiterina! –
lì, dentro il gorgo alcoolico che chiamano storia – e gli idranti fanno il loro mestiere,
come le carceri, i dobermann, i fili spinati. Di quanta furbizia ha bisogno il tuo ben
lucidato paradigma? di quanti spocchiosi libercoli? e bavagli? e canne di fucile? –
Ma poi: rivédansi gli ultimi tratti di questa bella favola. Le battutine finali. I puntini
di sospensione definitivi. Il silenzio che segue. nella gora che ribolle di sangue.
Ma su che menti, ormai? Se non ci sono reliquie, e il cifrario s’è oscurato. Se – se- se- se:
semmai, a forza di memoria e di fame di futuro. Quello è il ventilatore, questo il poker. Il match è chiuso. Come gioca l’encefalo, come sventolano le mutandine.
Come il mendace tace. Quindi: arràngiati e muori. Continua a leggere

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È una poetica del «vuoto», una poesia del «vuoto», il «vuoto» è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti compostati» fa esplodere. L’atto kitchen ha l’aspetto di un fuoco d’artificio di superficie; si ha l’impressione che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, Poetry kitchen di Marie Laure Colasson, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Commenti di Lucio Mayoor Tosi, Paul Klee il movimento parallattico della visione

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Paul Klee – Il punto di vista ha perduto rigidità, è diventato anomalo, abnorme, subisce uno scarto e con esso l’oggetto; ovvero, il punto di vista resta fisso, e a spostarsi è l’oggetto. L’anomalia consiste nell’accentuare una visione dell’oggetto a scapito di altre. Per la prima volta nel novecento con la poetry kitchen il movimento degli oggetti e dei soggetti diventa parallattico.
.

Marie Laure Colasson
da Nuove Poesie

La blanche geisha cueille un trèfle à quatre feuilles
pour effacer les mirages d’un étang marzien

“Donne le moi!” dit Eredia
“pour prononcer les paroles du silence”

Madame Green intercepte l’ardue conversation
et dans un raptus d’acier hurle
“Vous n’avez rien compris!”

“Ses cris sont pires qu’une bouilloire
qui se trémousse en vacances!”

“Tu as raison un véritable court-circuit
un véritable drone kamikaze
une véritable illusion de la gravité”

Madame Green fume sa cigarette électronique
ses yeux à inventaire
tirent une flèche vers le soleil

Un lion à losanges pourpres
meurt de faim de soif dans sa cage

Les jeux sont faits
rien ne va plus

*

La bianca geisha coglie un quadrifoglio
per cancellare i miraggi di uno stagno marziano

“Dammelo!” dice Eredia
“per pronunciare le parole del silenzio!”

Madame Green intercetta l’ardua conversazione
e in un raptus d’acciaio urla
“Voi non avete capito niente!”

“Le sue strida sono peggio d’un bollitore
che traballa in vacanza”

“Hai ragione un veritiero corto circuito
un veritiero drone kamikaze
una veritiera illusione della gravità”

Madame Green fuma la sigaretta elettronica
gli occhi a inventario
tirano una freccia verso il sole

Un leone a losanghe color porpora
muore di fame di sete nella gabbia

Les jeux sont faits
rien ne va plus

Giorgio Linguaglossa

Christoph Türcke ha di recente introdotto un paradigma interpretativo, che ben si lega alle considerazioni fin qui svolte, il sociologo oppone al paradigma formulato da GuyDebord nel 1967, vale a dire quello della «società dello spettacolo», il nuovo paradigma di una «società eccitata», paradigma poi radicalizzato da Baudrillard nella nozione di «società della simulazione e dei simulacri». La società eccitata va a rimorchio del «sensazionale», vive di «traumi», di shock e di «oblio» che si alternano ripristinando sempre di nuovo il meccanismo della rimozione e dell’oblio. Il mondo del tardo capitalismo macchinizzato ha ormai fagocitato la società dello spettacolo e della simulazione, oggi siamo dinanzi ad una società perennemente «eccitata» dai fantasmi e dai traumi della comunicazione. Ciò che conta, ciò che vale di più, ciò che valutiamo positivamente negli altri e ciò che noi stessi cerchiamo di realizzare, è il produrre sensazioni, shock percettivi, comunicazionali, input. Si tratta di un mondo di sensazioni, di istanti, di affetti momentanei consentanei al nostro modo di vita che richiede continue sollecitazioni, continui zoom e continui scarti, un universo di notizie che si accavalla e implode su se stesso. Il sensazionale non produce esperienze, quanto simulacri di esperienze ed oblio.

Heidegger nel 1924 scrisse: «Quando ci sentiamo spaesati, iniziamo a parlare». Ecco, io penso che la poiesis accada quando ci sentiamo spaesati, quando non riconosciamo più le cose e le parole che ci stanno intorno. In quel frangente, le parole e le cose ci diventano riconoscibili, ed è proprio in quel momento possiamo iniziare a parlare.

È molto importante trovare il luogo nella linguisticità, e questo lo possono fare soltanto i poeti. Marie Laure Colasson ha trovato il suo luogo esclusivo nella linguisticità in una «poesia lunare», dove la forza di gravità è appena un decimo di quella terrestre, dove le parole e i suoi fantasmi sono così leggeri come il volo di una farfalla o di una libellula. È la leggerezza il fascino segreto della sua poesia che oppone allo shock e ai traumi della società della comunicazione l’agilità e la leggerezza delle zampe di una gru o di un cerbiatto. Non per niente la Colasson scrive nella lingua di Apollinaire, di Max Jacob, di Pierre Reverdy, di Anatole France e di Paul Claudel.

Mauro Pierno
Compostaggio

Dalla trincea del Meno si spara contro un eroico Più. (F.P. Intini)

Stasera passeggiava con il padre di Amleto torcia in mano e passo incerto. (M. Pierno)

L’illusione di un attore che non fugge da nessuno
e da nessuna cosa è il destino del numero infinito (A. Sagredo)

Che dire?, in questa jouissance c’è spazio per le anime nobili, per le parole assennate, per le anime belle.(G. Linguaglossa)

Poi ciascuno è libero di inventare una propria strategia di pescaggio degli escrementi.(M.L. Colasson)

Voglio dire, alla domanda “Cosa ti dà pena?” (Lucio M. Tosy)

o almeno tentare di farlo senza ipocrisia e postura di struzzo. (F.P. Intini)

i missili russi muniti di testate nucleari per attingere e annichilire Parigi, Berlino, Londra, Torino etc.

La morte è un congedo illimitato siglato dal Signor Dio (Gino Rago)

quanto accade normalmente nella poetry kitchen della pagina odierna (Marie laure Colasson)

Telegiornali, cose incredibili. Peggio che morire.
Telegiornali, cose incredibili. Peggio che morire.
(Lucio Tosi)

Tre frammenti di uguale misura, da ripetere con attenzione e intenzione. (Lucio Tosi)

Siamo entrati in un mondo parallattico (Slavoj Zizek)

*Merda d’artista (Manzoni)

Le tendine sporche alle pareti lasciavano trasparire un mesto umidore.(Linguaglossa)

Ameremo forse meno, per questo, “Anna Karenina” o “I fratelli Karamazov” (Tiliacos)

…tolgo gli orpelli…

Mauro Pierno

Dalla trincea del Meno si spara contro un eroico Più.
Stasera passeggiava con il padre di Amleto torcia in mano e passo incerto.
L’illusione di un attore che non fugge da nessuno
e da nessuna cosa è il destino del numero infinito.
Che dire?, in questa jouissance c’è spazio per le anime nobili, per le parole assennate, per le anime belle.
Poi ciascuno è libero di inventare una propria strategia di pescaggio degli escrementi.
Voglio dire, alla domanda “Cosa ti dà pena?”
O almeno tentare di farlo senza ipocrisia e postura di struzzo.
I missili russi muniti di testate nucleari per attingere e annichilire Parigi, Berlino, Londra, Torino etc.
La morte è un congedo illimitato siglato dal Signor Dio
quanto accade normalmente nella poetry kitchen della pagina odierna
Telegiornali, cose incredibili. Peggio che morire.
Telegiornali, cose incredibili. Peggio che morire.
Tre frammenti di uguale misura, da ripetere con attenzione e intenzione.
Siamo entrati in un mondo parallattico
*Merda d’artista
Le tendine sporche alle pareti lasciavano trasparire un mesto umidore.
Ameremo forse meno, per questo, “Anna Karenina” o “I fratelli Karamazov”

Giorgio Linguaglossa

Sul «compostaggio di frammenti» di Mauro Pierno

Quando Salman Rushdie inizia a scrivere il suo primo romanzo, Midnight’s children nel 1981, aveva già raccolto una sterminata miriade di «frammenti» dei cartelloni pubblicitari affissi in India negli anni Cinquanta, e il romanzo fu una ricostruzione minuziosa della storia indiana a partire da quei frammenti raccolti. Così anche il celebre romanzo di Orhan Pamuk, Museo dell’innocenza, ha nel suo centro il racconto della raccolta di una sterminata miriade di «frammenti», di biglietti dell’autobus, di spille, di oggetti femminili che erano appartenuti alla amatissima Fusun da parte del protagonista, poi morta in un incidente stradale. Il protagonista ricostruisce il passato a partire da quei frammenti. O meglio: crede, si illude di ricostruire il passato, ma il passato è passato e il più grande amore della sua vita, la bellissima Fusun è morta. L’unico modo per farla rivivere è, appunto, la raccolta dei frammenti, anche insignificanti di cose che avevano avuto un rapporto con la sua amata Fusun.
Il «frammento», dunque, è una cosa ben strana, la postmodernità lo ha scoperto da molti decenni; Derrida, Levinas, Barthes, Lyotard, Baudrillard e altri pensatori hanno investigato le straordinarie facoltà di questo «talismano magico»; la poesia, il romanzo, la pittura, la scultura, il cinema, ma anche la pubblicità ne fanno larghissimo uso da molti decenni, soltanto la poesia italiana non se ne è accorta, che continua a fare poesia scolastica, di accademia.

L’atto kitchen di Pierno è un atto rivoluzionario, utilizza il frammento come un «effetto di superficie», un «talismano magico», come immagini di caleidoscopio, come «cartellonistica»; impiega il «frammento», il polittico e il compostaggio di frammenti come principio guida della composizione poetica; ma non solo, l’atto kitchen è anche un perlustratore e un mistificatore dell’Enigma superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente della soggettività proprio della civiltà cibernetica-tecnologica.

È una poetica del «vuoto», una poesia del «vuoto». E il «vuoto» è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti compostati» fa esplodere. L’atto kitchen ha l’aspetto di un fuoco d’artificio di superficie; si ha l’impressione che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La poesia diventa un algebrico gioco di simulacri e di simulazioni, una agopuntura, una scherma, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo, reperti dell’Antropocene. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket globale, ed è simile al telemarket, una danza apotropaica di scheletri viventi…

Lucio Mayoor Tosi

La parola che da inizio duemila apre le danze è “interattività”. Grazie all’interattività chiunque può “produrre sensazioni, shock percettivi, comunicazionali, input”. Performance, installazioni, arte concettuale, ecc. mirano al coinvolgimento dell’osservatore, che si suppone o lo si vorrebbe partecipativo; o assente, nei grandi numeri, se il parametro è meramente commerciale. Nella poesia kitchen la partecipazione attiva del lettore è fondamentale, troppe le parti mancanti del discorso (del discorso lineare). Tutto sta a capire se il linguaggio di risulta corrisponde o intercetta nelle modalità il farsi del pensiero odierno; il quale non sempre è rintracciabile nelle forme preferite dalle élite letterarie ma, al contrario, è rinvenibile nelle titolazioni di libri, giornali, notiziari e pubblicità. Mia sensazione è che il linguaggio comune, condiviso, abbia abbandonato l’uso di locuzioni appropriate ma si preferisca il modo di dire; il quale si aggiorna in ogni momento perché capace di integrare terminologie di linguaggio internazionale; purché sempre nella forma dei “modo di dire”. Parte della produzione kitchen sembra volta a creare inediti modi di dire.

La poesia di Marie Laure Colasson è all’insegna della leggerezza, è vero e lo si capisce sempre, fin dal primo verso. Eredia e Bianca geisha inaugurano la forma “sequel” (come già il Signor K e Cogito nelle poesie di Linguaglossa). Va però considerato che la forma distico tende ad irreggimentare il discorso, il che non giova alla leggerezza; tant’è che Marie Laure si trova a non poter uscire dalla forma soggetto verbo predicato. C’è anche la questione del bilinguismo. Ma certo è un passo avanti rispetto all’esistenzialismo, di cui si avvertono le tracce.

Giorgio Linguaglossa

Ho letto su ‘Il Giornale’ che Putin durante i suoi viaggi all’estero negli anni scorsi era accompagnato da un segugio del FSB il quale aveva il compito di raccogliere le sue risultanze fisiologiche in una borsetta per trasferire poi il conglomerato in una valigia e riportarla in Russia, questo per timore di lasciare in giro gli escrementi dello Czar che avrebbero potuto essere intercettati dai servizi segreti occidentali per appurare lo stato di salute dello Czar.
Straordinario, no? Chiediamoci: dove sta il significato?

Lucio Mayoor Tosi

Davvero straordinario. Pensare che qui da noi le Scatolette di merda di Manzoni (*Merda d’artista) vengono ancora riprodotte e vendute sul mercato.

Giorgio Linguaglossa

caro Lucio,

c’è più verità negli escrementi che nell’Empireo, anzi, l’empireo è fatto di escrementi, lo sanno bene tutti i dittatori i quali commerciano con gli escrementi e lo sanno bene anche gli schiavi i quali hanno da sempre le mani in pasta negli escrementi.
Ecco una mia poesia sull’argomento (g.l.):

Distretto n. 15

«Ecco gli appuntamenti che mi procurano benessere: Hotwitzer da 155 mm. Tank Terminator, Machine gun, Rocket launcher e fragole al polonio, di tutto di più».

Il Presidente del Globo Terrestre stava massaggiando un sorbetto al limone quando mi rivolse queste parole nella hall dell’Excelsior a Venezia:

«Dov’è la verità? Portate qui la verità!»
«Senza indugio!»,
urlò il Presidente completamente fuori di sesto.

Il cappotto di Astrachan pendeva dall’appendiabiti.
Il filamento elettrico in tungsteno della lampadina tossì e si frantumò.

«La verità è negli escrementi!», replicò Cogito mentre metteva sul fuoco la macchinetta del caffè e masticava una brioche.
«Tutta l’infelicità degli uomini proviene dal non saper starsene tranquilli in una stanza»,
aggiunse il filosofo

Le tendine sporche alle pareti lasciavano trasparire un mesto umidore.

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

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Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. È in corso di stampa la sua prima raccolta di poesia, Les choses de la vie

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Per il centenario della morte di Velimir Chlebnikov (1985-1922) La perquisizione notturna e poesie varie a cura di Antonio Sagredo, traduzione di Paolo Statuti

Velemir Chlebnikov 2 

La perquisizione notturna è uno dei principali poemi di Velimir Chlebnikov. Nei giorni del terrore rosso un drappello di marinai irrompe in una casa, dove viene fucilato un giovane nemico di classe. Il Capo che lo ha ucciso è sconvolto da come quello rideva «incurante davanti al caricatore della morte». Sul luogo dell’omicidio si organizza una gozzoviglia. Sbalordisce la dovizia di termini usati da Chlebnikov. Il poeta si serve degli strati più diversi della lingua russa, tra cui il gergo dei marinai e quello della strada. La costruzione del poema si basa sulle continue ripetizioni del crudele racconto del capo. «Una pallottola in testa, eh?» – dice al marinaio il giovane condannato a morte, e poi aggiunge: «Addio, minchione! Grazie per il tuo sparo». Ubriacandosi, il Capo ripete cinque volte il suo racconto sull’uccisione. Il critico letterario M. Poljakov scrive: «…Il Cristo che guida la marcia dei soldati bolscevichi ne I dodici di Blok, in questo poema di Chlebnikov non c’è, non parteggia né per i bianchi, né per i rossi, ma nella sua ira incenerisce gli assassini. Si può dire che il Capo provoca Dio, attirando il fuoco su di sé. Egli è una figura tragica, a lui Chlebnikov ha dato una parte della sua anima: oggi egli guida una «banda di santi assassini», domani potrebbe benissimo partecipare alla rivolta di Kronstadt dei marinai contro il governo bolscevico. Ma non sarà mai uno degli «acquisitori» – odiati da Chlebnikov – che camminano quatti quatti dietro gli «inventori», e conoscono una sola parola: mangio».

(Paolo Statuti)

Velemir Chlebnikov

Velimir Chlebnikov

La perquisizione notturna

Allerta!
Pronti a sparare.
Sotto, ragazzi:
A destra il 38.
Bussa più forte!
– Agli ordini!
– Allerta!
Dentro!
– Prego, prego,
Benvenuti!
– Mare, alt!
– Poche ciance, madre
Testa grigia,
Il mare non lo freghi.
Apri gli occhi.
E’ qui il 38?
– Sì, benvenuti,
Cari compatrioti! –
Trema la testa d’argento
Viva a stento.
– Madre!
Il nome!
Su, facci strada, mammina!
Rispettabile
Mamma!
Non ti agitare,
Andrà tutto bene.
Dov’è la selvaggina?
– Tu! Mettiti alla porta.
– Fatto – la soffitta.
– Tu, qui!
– Agli ordini!
– Avanti, mare,
Gagliardi!
Si nascondono i codardi…
Hanno trafitto,
Sono arrivati in tanti,
Hanno agguantato i furfanti,
I bianchi non l’hanno fregati.
– E tu, madre, sveglia!
Muoviti!
Anche i vecchi possono sedersi
Sulla punta della baionetta.
E il maritino, ci aspetta?
Tira fuori i furfanti,
Per me, vecchio
Lupo di mare!
Sento col naso –
Ho fiuto, io –
Un fiuto di segugio:
La selvaggina c’è.
La caccia andrà bene.
– Fratello, annusa.
Odore di selvaggina bianca.
Ho fiuto, io.
Segugi-fratelli, fatevi sotto!
– E’ tutto quello che ho –
E anche un po’ di perle.
– Quanti pezzi?
– Quaranta?
– Bastano per la cena!
Non gracchiare!
Prendi, arraffa!
Fratello, agguanta!
Tutto qui?
Non siamo signori!
Prendi
A volontà.
Non siamo zar
Da starcene a sognare.
Prendi, arraffa, prendi, arraffa!
Ehi, mare, agguanta come aquila!
– Agguanta, sotto!
Prendi a volontà!
– Vecchia, suonaci una polca.
– La tristezza non ti aiuterà.
Voce:
Mamma, mamma!
– Madre, madre!
Parla!
Fuori la canaglia bianca!
– Domani si riunisce il soviet.
Io sono vecchia, marinai!
Rosso, bianco,
Ossa bianche.
Non capisco, scusate.
Ho i capelli bianchi.
Sono una madre.
– Pam! Pam!
Sparo, fumo, fuoco!
– Chi ha sparato?
Fermo! L’arma, su le mani!
– Facciamogli la festa!
– Giovane, contro il muro.
Così! E su la testa!
Chioma grano spigato,
Baffetti oro filato.
– Vicino alla stufa, cane,
Togliti le pelli umane!
– Scusami, lupo di mare,
La mira sbagliata:
La mano tremava,
Pallottola pazza.

costruttivismo-aleksandr-rodcenko-manifesto-di-propaganda-del-libro-1924

costruttivismo-aleksandr-rodcenko-manifesto-di-propaganda-del-libro-1924

– Ride, coraggio o arroganza?
Lo facciamo fuori? –
– Una pallottola in testa, eh? Fratelli compagni,
Gente del mare?
Si dice che siete generosi. –
– Proprio così!
Il mare può,
Pietà il mare
Può mostrare!
– Voltati, vecchia.
– Una pallottola in petto
Al signorino bianco?
– Al mio figlio diletto?
– Via la camicia, servirà a un altro,
Nella fossa si può anche nudi.
Niente signorine nella fossa.
Giù i pantaloni
E girati.
Togliti tutto! E non dormire –
Avrai tempo. Ti addormenterai subito,
per non svegliarti più!
– Addio, mamma,
Spegni la candela sul mio tavolo.
– Tu, porta via gli stracci. Puntate! Uno! Due!
– Addio, minchione! Grazie
Per il tuo sparo.
– Ah, è così!… Per il bene del popolo.
Tra-ta-ta!
Tra-ta!
– Grazie, ma per cosa:
Per un ovetto di piccione
O di rondone?
Eccoti un indovinello!
E’ servito il colombello,
Le gambe ha steso.
Era una buona pappa
E un bel furfante.
Ancora due spari:
Uno sul pavimento,
E uno al creatore!
Ecco! Qui!
L’abbiamo spedito all’inferno.
Velemir Chlebnikov 3

Noi col fuggente mare
Dietro le allegre spalle
Sulla camicia bianca,
Sulla camicia azzurra,
Vedremo – putupum!
I pantaloni ho più larghi,
E il ferro nella mano,
Non un castoro argentato,
Ma il mare turchino
Il forte collo ha cinto
E la bianca camicia
All’inferno!
– Che dici, tirarlo su?
Portarlo via?
Lasciarlo lì non è bello.
– Fregatene! Che c’importa!
– Mamma!
Guarda che gioiello:
Più di venti non può avere,
E i capelli – di neve!
E gli occhi neri,
Così vivi!
– Il mare porta con sé la neve.
In un quarto d’ora sono incanutita.
Se non vi piace guardare una vecchia,
Non guardate, voltatevi!
Vladimir! Volodja! Vladimir!
Mamma! E’ nudo!
– Bellezza!
I cadaveri non hanno freddo!
E i morti non si vergognano.
– Datevi da fare! Basta!
– Vigliacco! Ride dopo la morte!
– Una camicia così
Io non l’ho mai indossata – buona!
E senza macchie di sangue.
Stoffa come si deve.
E’ entrato e la mano sulla spalla.
– Fratello! Ho fatto a pezzi un rettile!
E’ steso in soffitta.
Vicino alla mitragliatrice.
– Eh, eh!
– Dov’è mia madre?
– Bianca bellezza,
Sei così imbiancata
Ancor prima del nostro arrivo?
Il vento del mare non aveva ancora soffiato,
Di mare e di vento non c’era ancora odore,
E qui era già nevicato
Sul solaio e sulle teste.
Sporgeva la canna della mitragliatrice
Da sotto il piumino?
Non fa niente, non fa niente.
All’inizio di primavera
Un fiore di ciliegio
Ti è caduto sulla testa come neve.
Scuotila, i petali cadranno,
Cara signorina.
Una bella coltre
Di fiori per la bara.
– Ecco tutto!
– Fratello!
Perché la tormenti?
– E adesso,
Cara signorina in bianco,
Al muro!
– Questo? Quello?
Quale?
So-no pron-ta!
– E allora, al diavolo!
– Fermo!
Basta col sangue!
Vattene bambola!
– Sangue? Oggi non c’è sangue!
C’è broda, broda, solo broda.
Nella stalla umana
Il sangue è annerito.
E’ di suo fratello
O del marito.
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– Vladimir!
– Mamma!
– Se avessi detto “papà”,
Sarebbe stato più spassoso!
E’ alle corse? Di’ un po’,
Fra i trottatori di Orёl?
Al trotto e poi al galoppo!
O forse ama gli ostacoli?
E supera tutti nei salti?
Bambola, va’ via,
Vattene, presto!
Levati di torno!
Qui ci sarà baldoria.
Non piangere, sorellina,
Questo non è posto per i liberi.
Anche noi abbiamo sorelle.
Nei villaggi e nei boschi,
E non nelle grandi città.
Vattene tranquilla, donna,
Per la tua strada.
– Oh, c’è uno specchio, mi raderò!
Tempo ce n’è.
Specchio deformante,
Ceffo truce.
Dalla finestra, ragazzi,
Tutti questi stracci –
Qui non gli servono più.
E qui un mare faremo,
Con le onde spazieremo.
Manca solo un gabbiano.
Al diavolo lo specchio –
Un pugno e s’è spezzato!
– Ah, mi sanguina la mano.
Lo specchio è un calamaio di rosso inchiostro.
– Con una scheggia di specchio che soldato!
A volte gli specchi sono crudeli. Essi
Ostinatamente guardano,
E i giudici qui non servono –
Più buio!
– Ehi, amico!
Dammi un fazzoletto!
– Vladimir!
Volodja!
– E’ morto! E’ morto
Oggi!
E’ morto e basta!
Non ti sentirà!
Piegato sul pavimento
Riposa in pace.
E non respira.
– E questo cos’è? Una bella tastiera
Per la gioia della signorina bianca?
Siede qui la sera
E pensa al marito,
Strimpella sottovoce.
E il nero tasto
Dietro al bianco risuona
E lo segue, come la notte
Il giorno con ostinazione.
Chi di voi sa sonare?
– Ma si può…
Accarezzarlo un po’
Con la canna o con il calcio…
Guardate, fratelli, ha, ha
Correte qua,
Ci sarà un rombo, un tuono e un canto…
E un lamento.
Come se in sordina
Guaisse presso il recinto un cucciolo.
Un cucciolo dimenticato da tutti.
E di cannoni il terribile schianto si leverà,
E un ghigno, una risata subacquea e di rusalka.
Sono accorsi. Brusio di corde,
Ghigno di corde, un riso sommesso.

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– Con il calcio bam!
Bam con il calcio! – Ridi, mare!
Mare, ridi! Grosso pugno della bufera
Oggi va’ sui tasti…
Sulle trincee del nemico i proiettili… Fuoco!
Nelle cantine la serena festa della Madonna,
Che i connazionali trascorrono in silenzio.
Dapprima la miseria nutrono
Con il bianco corpo,
E poi i vermi.
Due cambi, due camicie:
Una più stretta dell’altra.
Un solo piatto per due bocche.
Ascolta, hanno risonato le corde!
Volano incontro alla morte.
A lungo risonerà
Della corda il rame.
– Ancora un colpo,
Dai!
Ronza come api,
Quando l’apicoltore prende il miele.
Bam! Bam!
– Ben fatto, marinai.
La nostra opera marina:
Spezza e abbatti!
Spezza e annienta!
Rompete, schiantate.
Senza tregua saccheggiate,
Selvaggi del mare!
Coraggio! Animo!
Non invano siamo ingrossati,
Qualcuno aggiusterà,
Ma questo ciarpame,
Questa cassa dove ulula un cucciolo,
Sul lastrico,
Dalla finestra!
Così,
Spaventiamo le vicine!
– E’ l’opera dell’avanzante,
Burrascoso mare.
A modo nostro avanti,
Non come mendicanti.
A pezzetti
Bbaam-ppuum!
– Oggi il mare è scatenato,
Il mare infuriava,
Il mare s’è infuriato.
Una tale forza.
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– Non ha schiacciato nessuno?
– Ma no!
Soltanto tre formiche,
Uscite in ricognizione.
Un polverone. Che forza!
– Dove hai il fucile, amico?
Ragazzo, lo prendi quel corvo?
– Subito!
Pam!
Servito.
Colpito?
– Caduto.
Crepato.
– Dov’è la vecchia?
Madre, ci sei?
Qualcosa da pappare!
Vino e salmone!
E una tovaglia bianca.
Fiori. Bicchieri.
Sarà un banchetto coi fiocchi.
E perché sia più ricco
Anche carne e arrosto,
O ti piegheremo a ferro di cavallo!
– Ragazzi, papperemo,
Mangeremo, fratellini, berremo.
Ci abbotteremo.
Adesso comincia il lavoro-mamma!
Scricchioleranno le mascelle.
Eppure odora.
Dai morti lo spirito esala.
– Vladimir!
– Le serve Vladimir – geme!
E a noi non pensa, non ci vuole!
Dai, prendiamola un po’ in giro:
– Siamo qui!
– Sono qui, Olja!
– Sono qui, Nina!
– Sono qui, Veročka!
– Miao!
– Che spasso!
Con la voce sottile,
Dai, grida come una befana.
– Ragazzi, non scherzate
Con la bara, con la morte.
– Hai colpito bene
Col fucile.
Che canto,
Che tintinnio, che suono e come un uccello,
morendo, è piombato giù.
Come il mare in burrasca.
velemir chlebnikov 6

Guarda, sulla porta una targhetta:
“Si prega bussare”.
Qualcuno ha messo un “r” – è diventato:
“Si prega russare”
Sulla porta della fresca bara,
Dove sono le sorelle del morto e le vedove.
Ha-ha-ha!
Bella trovata.
– Però, ha chi
Rimpiangere la vedovella
Dai capelli grigi.
Noi, vento, le abbiamo portato la neve.
Vento del mare.
Il mare è il mare!
Proprio così, ragazzi,
Noi passiamo come la morte
E la sventura.
Il mare è con noi!
Il mare è con noi!
Cadaveri a bizzeffe.
Mare dilagato,
Mare – narici strappate,
Brigantesco,
Sfrenato.
Rosso di bufera,
Mare sfrenato,
Mare di Pugačёv.
– Col mio fiuto di segugio
La preda bianca ho sentito.
Un cervo! Lo sento,
Puzza di bianco!
E ha sparato!
Dietro la tenda stava,
Era in agguato il cocco di mamma.
Ha sbagliato la mira
E ride.
Io a lui: – “Fermo là, ragazzino!”
E lui:
“Una pallottola in testa, eh?”
“Proprio così”, dico.
– Tra-ta-ta!
Così allegramente
Ha scosso i capelli,
Ride.
Quasi chiedesse il prezzo,
Mercanteggia.
Questione di commercio,
Questione nota,
Per tutti una fine sola,
Due non ci sono.
All’inferno!
E fregatene.
“Proprio così”, dico,
“E’ possibile,
Pietà il mare
può mostrare”.
– Tra-ta-ta!
– E’ andata così:
Fa il ragazzino:
– “Una pallottola in testa, eh?”
“Proprio così” –
Rispondo.
Tra-ta-ta! Fumo! E l’aria s’è infocata.
Adesso giace l’orochiomato,
Perché la sorella, piangendo, lo baci.
“Micetto, micetto mio,
Micetto d’oro”.
– Ragazzina, dove vai?
Lasciapassare per vedere il micetto!
Alt!
– Ehi, aspetta,
Non c’è il lasciapassare per vedere il micetto.
Dalla finestra!
– Come ti chiami?
– Nataša.
– Noi pensavamo bagascia,
Suona meglio.
– A tavola, gente.
– Dritta come un fuso
La vecchia si regge.
Vladimir era davvero suo parente.
Il figlio. E’ cupa e funesta.
“Sotto la quercia, quercia, quercia!”
Sono quasi le sei.
Versiamoci da bere, compagni,
Per sollevarci un po’!
Sciaborda!
Rumoreggi il mare,
Mare dilagato!
“Nuove nozze celebra
Egli è allegro e ubriaco… e ubriaco”…
Che giorni!
– Seduti, fratelli, bagniamoci la gola!
Alla tavola che si apparecchia da sola.
“Sotto la quercia, quercia, quercia!”
Seduti, fratelli!
– Fumiamo?
– Fuoco!
– Oh, dio, dio!
Dammi da fumare.
La mia s’è spenta.
S’è consumata a poco a poco.
Vecchio, tu non fumi – là in cielo?
– Tace.
Il vecchio non s’è mostrato.
Non è uscito dalla trincea.
Si nasconde nelle nuvole.
Non importa. A noi la vodka mare dilagato.
A dio – le nuvole. Non litigheremo.
Ecco dio nell’angolo –
E sul petto un altro
Con la corona di spine,
Inchiodato alla tavola, fatto,
Inciso
Con polvere turchina sulla pelle –
Usanza dei mari.
Egli fuma una candela…
Meglio della nostra – di cera!
Sì, egli nell’angolo guarda
E fuma.
E spia.
Potesse ridursi
In trucioli per il samovar!
Sminuzzarsi in piccole schegge.
Carbone di prima qualità!
Non gli servono a niente
Quegli scuri occhi turchini,
Di cui si ha voglia d’innamorarsi,
Come di una fanciulla.
E di fanciulla dio ha il volto,
Solo che è barbuto.
In due parti
Fluisce la barba,
Come scuro intreccio
Di greggi presso il lago,
Come di notte la pioggia,
Occhi come prealba cèruli,
Profetici e sereni,
Severi e bellissimi,
Teneri come parole inespresse,
E serenamente rivolti
Con segreto rimprovero,
A noi, all’intero stuolo
Di santi assassini,
Alla nostra gozzoviglia
Di santi assassini.
– Attenti, verrà giù
E ne farà una delle sue.
Lo incontreremo, sbatterà le ciglia,
E ti accenderai come bomba incendiaria,
Occhi scuri come i cieli,
E c’è un segreto profetico in essi
E intorno tanta pace.
Laghi di azzurro pensiero!
– Una pallottola in testa, eh?
Me la pianti in testa, dio verginella,
Anche tu hai sette colpi.
Con i grandi occhi azzurri?
E io dirò grazie
Per le lettere e i saluti.
– Mare! Mare!
Egli è d’accordo!
Ha sbattuto le ciglia,
Come un uccello le ali.
Gli occhi mi volano dritti nell’anima,
Volano e incalzano, frullano e frusciano.
E severo come il supplizio
Egli mi fissa in un freddo ostinato!
Da spaventosi racconti sbarrati,
Come uccelli m’incalzano
Gli occhi azzurri dritti nell’anima.
Come due grandi uccelli marini, azzurri e cupi,
Nella burrasca, due procellarie, messaggere di tempesta.
E frullano e frusciano con le ali! Volano! Si affrettano.
Da parte a parte! Da parte a parte! Si tuffano in fondo
All’anima. Continua a leggere

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Francesco Paolo Intini, lamento del cratere Copernico, Poesie di Mauro Pierno e Antonio Sagredo, Commenti di Lucio Mayoor Tosi, Marie Laure Colasson, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Kazimir Malevič, Quadrato nero su fondo bianco, Il linguaggio poetico di Intini sbatte all’interno dei gradienti della castrazione simbolica e della impotenza simbolica

Foto Malevitch Quadrato

Il quadro di Kazimir Malevič, Quadrato nero su fondo bianco (1915) è il primo tentativo di inscrivere il Significato (quadrato nero) sulla Assenza del significato (fondo bianco). La iscrizione si presenta come la rappresentazione del fallimento di QUELLA iscrizione, la negazione della Rappresentazione, il fallimento da parte della poiesis che voglia tentare una qualsiasi iscrizione di UN significato sulla base della Assenza-di-significato dello sfondo. La poiesis kitchen è proprio questo: la rappresentazione del fallimento di ogni Rappresentazione, è questo l’assunto fondamentale della pratica kitchen. (Giorgio Linguaglossa)

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Francesco Paolo Intini

LAMENTO DEL CRATERE COPERNICO

Tacciono gli ulivi e le lavatrici sono al risciacquo.
E dunque, cari miei, si sale in cattedra con lavori sulle spighe di grano.

Emergono dubbi sulla coltivazione a segale cornuta.
Tutto il massacro si riduce ad una conta di yogurt alla pesca.

Dove troveremo la fragolina di bosco
e la vibrazione del creme caramel?

In questo continente e nell’altro il cuore di merluzzo danza il flamenco
Non si avrà pace se non cedono gli scaffali al grano saraceno.

Ecco il cobra dietro il bancone con la doppietta tra i denti:
Faremo una pista ciclabile per i tank

Anche i numeri ci raggiungono sui pullman.
Le astronavi affondano al largo dei vocabolari
e le slitte di Mc Donald ghiacciano nella zuppa.

Sconvolti dalle potenze, si sanguina per una moltiplicazione.
Dalla trincea del Meno si spara contro un eroico Più.

Al raggiungimento del risultato il Vesuvio si fa matte risate:
La pallottoliera è confusa tra addizioni e sottrazioni
E il lapillo va su e giù.

Le armate bruciano armi di gelso.
Via interrotta –dicono-per uno zero intraducibile in logaritmo.

Ma intanto occorre piangere sulle spalle del distributore di benzina.
E l’afflizione si rinfresca con un tuffo a Polignano

Il Lumen è decapitato sulla via Appia. Nessun testimone.
Solo un regolamento di conti tra unità di misura.

La prevaricazione del Metro sulla Candela.

Mauro Pierno

Come si chiama? Casimiro? Il personaggio di Beckett?

Stasera passeggiava con il padre di Amleto torcia in mano e passo incerto.

Non erano sui bastioni ma su un balcone al quarto piano.

La storia ha un passo double. Una perifrasi della notte. Dici a me? Eccoli ripassano.

L’impegno si è pisciato addosso.
Guardali hanno lo scheletro del giorno.

 

Antonio Sagredo

L’illusione di un attore che non fugge da nessuno
e da nessuna cosa è il destino del numero infinito –
è l’azzardo del carnefice l’orfanezza di una quinta!
Lo zero non sarà rubato da un corvo o una colomba,
ma dalle quattro labbra da cui nasciamo!

Il Verbo non è necessario ai morti, né alla risurrezione
poi che la carne è da tempo una seduzione in prescrizione.
Il convivio è approntato: danzano dei e demoni nel bordello,
e non sai se i loro sessi sono ancora i cardini del nostro avvento.

(Vermicino, 12 ottobre 2005)

Non ci saranno altre terre dove gli stermini come amorini
saranno il nostro pane quotidiano su sarcofagi imbiancati.
E il canto del gallo è un’illusione circense nella notte
di patiboli e capestri – per le gioie dei bambini!

Non ho che una immortalità decente da calpestare sopra i ponti,
e come Keplero contare le pietre del selciato e delle stelle.
Nemmeno un nido di corvi sarà concesso ai beati angelici,
ma io quella sete nutrirò di ossa e di cenere – negli anfiteatri!

(Roma, 1-8 nov. 2013)

Giorgio Linguaglossa
6 giugno 2022 alle 17:22 

Questa identificazione escrementizia tra la materia divina e la materia carnale nella poesia kitchen di Intini è l’aspetto dominante e pienamente visibile. Come affermò Martin Lutero: «l’uomo è merda divina, è caduto dall’ano di Dio» e si è moltiplicato. La superteologia di Lutero era una rivoluzione: le buone azioni erano impure, egoiste, calcolo del letamaio; Dio ne era atterrito, ne provocavano l’ira e lo spingevano alla vendetta divina. La salvezza per Lutero veniva dalla fede in Gesù salvatore. La pseudo teologia di Lutero costituisce il segreto profondo su cui è stato edificato il capitalismo (con le sue varianti autocratiche), al fondo del quale c’è la sua natura escrementizia. La merda divina costituisce il sostrato ideologico non-detto della rivoluzione scientifico-tecnologica del capitalismo dei giorni nostri: la elevazione del godimento a categoria del politico è la aleteia del nostro odierno modo di vivere: il superiore (l’arte, il bello, l’anima etc.) comunica direttamente con l’inferiore (la merda, la polluzione, i rifiuti), l’Innominabile viene così oscurato, viene detto che è l’indicibile e così viene tranquillizzata la coscienza infelice.
È il nostro universo post-ideologico ciò di cui tratta la poesia kitchen in cui la jouissanse desublimata viene eretta a deità mondana del soggetto post-edipico.
Che dire?, in questa jouissance c’è spazio per le anime nobili, per le parole assennate, per le anime belle. Ebbene, la poesia di Intini è la più radicale sconfessione di tutte queste ipotiposi dei buoni sentimenti e delle buone maniere, il più radicale scoperchiamento dei discorsi post-ideologici. Il soggetto post-edipico castrato e impotente è il soggetto limite delle democrazie neoliberali, il soggetto libero di sottomettersi al totem di turno in quanto, appunto, libero di sottomettersi mediante una azione prodotta da quello che considera il libero arbitrio. Castrazione e impotenza del discorso poetico che non può fare altro che inneggiare, innalzare inni alla castrazione e all’impotenza. Continua a leggere

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Intervista a Roberto Bertoldo sul libro Sistema transitorio (dialogo sui sistemi di pensiero), Mimesis, Milano, 2022, L’illusione muore per eccesso di realtà o è la realtà che muore per eccesso di illusione? Dopo una rivoluzione si ristabilisce la gerarchia, Marie Laure Colasson, Medusa, Struttura dissipativa, acrilico

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa F acrilico, 225x40
[Marie Laure Colasson, Medusa, Struttura dissipativa, acrilico 30×50, 2020]
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In questo quadro di Marie Laure Colasson siamo in presenza di un rovesciamento di tutti i codici figurali e di tutte le opposizioni distintive che fondano i sistemi dominanti (soggetto/oggetto, significante/significato, maschile/femminile, vita/morte ecc.); un rovesciamento non dialettico, ma parossistico, auto contraddittorio. Viviamo in una società che ha de-realizzato il reale e de-fondamentalizzato il soggetto, che ha sostituito il nome del Padre con il nome della Seduzione, e con ciò ogni opposizione al simulacro e alla simulazione riesce vana.
«Tutta la strategia della seduzione è di portare le cose all’apparenza pura, di farle irradiare e consumarsi nel gioco dell’apparenza».1 L’apparenza apparisce in virtù di un esorcismo, come un atto magico, come la testa di una medusa iridescente che appare nel quadro e che irradia il suo mana, veicola il farmaco inebriante del sortilegio, della albagia, dello stordimento. L’apparenza è illusione, l’illusione è apparenza e la superficie è l’illusione suprema dell’apparenza e il suo esorcismo. Nel quadro di Marie Laure Colasson il sortilegio ha il suo esorcismo, la sua formula magica, la sua vittoria tragica e il suo telos. Cessata la ragione della figuralità, resta la irragione del sortilegio. Se l’illusione muore per eccesso di realtà, resta la sua ambigua vertigine, il potere illusorio della vertigine. Gran parte della nostra cultura (scientifica, sociologica, filosofica, psicoanalitica), così impregnata del soggettivismo prospettico e così sensibile alle costruzioni e alle decostruzioni ermeneutiche, si affanna ancora a cercare sistemi di senso e di consenso tendenti ad una comprensione razionale e oggettiva del reale; tuttavia, ciò che sfugge è l’oggetto della sua stessa visione, la quale non è più figurabile in alcuna figuralità.
Il tutto diventa ambiguo, reversibile e paradossale. L’escalation esponenziale dei codici che riproducono incessantemente se stessi come simulacri di simulacri, si risolve nell’auto annientamento. Chi vive nella convinzione del reale è destinato a morire di reale, l’assenza del falso e del similoro condanna l’originale ad essere il falso e il similoro. In questa dépense, in questo gioco della reversibilità dei codici, si annuncia la trasparenza del reale.
L’esorcismo, dunque, si fa più pressante, in esso la fascinazione dell’osceno divora la scena, il suo spettacolo e la sua illusione contagiano tutte le forme trasparenti di informazione; la reversibilità e la contiguità non sono più soltanto i principi che regolano il simbolico, ma diventa l’ironia dell’Oggetto, il suo scaltro genio, la sua superpotenza maligna, il suo trionfo sul soggetto, il suo non lasciarsi imprigionare da nessuno specchio e da nessuna ermeneutica. Tutto è contiguo, ergo, tutto è reversibile nel suo opposto e nell’adiacente. L’eccesso del disordine simbolico è lo specchio delle nostre brame. Ma lo specchio avrà la sua vendetta e, con esso, la fascinazione che ne promana si riversa sul soggetto che ne frattempo è scomparso. La verità del reale si sottrae al reale. E quel che resta è il sortilegio.

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J. Baudrillard, L’altro visto da sé, Costa & Nolan, p. 61.
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(Giorgio Linguaglossa)
foto A monument in Moscow to an early Soviet-era tactical nuclear bomb
Monumento a Mosca al missile dell’era sovietica. Nel 2016 all’uscita della stazione Metro Kuzmin è stato allestito il Viale degli Eroi della Seconda guerra mondiale composto oltre che da emblemi della tecnica militare sovietica anche da 15 lapidi commemorative. Il parco è dedicato a Feodor Aleksandrovic Poletaev (Riazan 1909- Cantalupo Ligure 1945) che combattè in Italia al fianco dei partigiani italiani. Il parco si completa con strade pedonali, parchi giochi per bambini e piste ciclabili.
L’illusione muore per eccesso di realtà o è la realtà che muore per eccesso di illusione?
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Gif pistola Hitchcock

Una mano impugna una pistola. Una porta si sta chiudendo, una figura esce di scena, il revolver è puntato verso la porta che si chiude. Un interno riguarda sempre una scena di delitto, perché nella società borghese c’è sempre un delitto da nascondere e un delitto da allestire come in una scenografia di palcoscenico. Anche in una poesia che non voglia essere oleografica e decorativa c’è sempre un delitto manifesto o latente che bussa alle porte dell’inconscio per venire alla luce… Lo sguardo poliziesco tipico della nostra forma di civiltà è lo sguardo distratto fatto con la coda dell’occhio… Il segreto viene svelato ogni volta dalla mano che fa un gesto, dalla coda dell’occhio che legge una immagine, un testo. Se non ci fosse un segreto da svelare non ci sarebbe uno sguardo. «Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…». (Adorno)».
(Giorgio Linguaglossa)

Intervista a Roberto Bertoldo sul libro: Sistema transitorio (dialogo sui sistemi di pensiero), Mimesis 2022

caro Roberto Bertoldo,

il tuo libro [Sistema transitorio (dialogo sui sistemi di pensiero), Mimesis, Milano, 2022] è un dialogo con una misteriosa interlocutrice che si dipana lungo 143 pagine fitte al centro del quale c’è la ricerca e la individuazione di un «sistema transitorio» che riesca ad agevolarci nella scoperta di transitorie certezze, le quali, in quanto transitorie non sarebbero più certezze, o sbaglio?

Risposta: Innanzi tutto questo libro è la conclusione del mio personale sistema di pensiero che riconosce la propria transitorietà. Di esso, essendo composto di una decina di volumi, presento qui solo una sintesi e una giustificazione. Cerco insomma di giustificare la sua transitorietà e, al contempo, la necessità del pensiero sistematico se si vuole che il confronto dialettico sia proficuo e tollerante. Il dialogo in questo libro è principalmente con me stesso, tra dubbi e concessioni. Noi infatti non possediamo verità, ma tutt’al più idee fondate su certezze ovvero accertamenti, la cui transitorietà è dovuta al continuo progredire delle esperienze, personali e collettive, contingenti e scientifiche.

Domanda: L’interlocutrice del tuo colloquio ti chiede: «[Lei] mi sembra tanto uno che dice: io scrivo le mie opere, esprimo le mie idee, denuncio le ingiustizie e poi se qualcuno vuole usa tutto in battaglia». E tu rispondi: «È così. E non può fare altrimenti, se non prendere la pistola. Però la pistola è contro i suoi sentimenti e le sue idee, perché sa bene che dopo una rivoluzione si ristabilisce la gerarchia» (p. 93). Ma questo scetticismo giustifica la rinuncia all’azione, non credi?

Risposta: Non nel mio caso. Bisogna considerare lo scetticismo che io abbraccio, anzi che rifondo nel libretto Rifondazione dello scetticismo, uscito nel 2017. In esso cerco di dimostrare una mia vecchia considerazione secondo cui il dubbio riguarda la fondatezza delle certezze, la loro verità, non le certezze in sé. Che io, attraversando la strada, veda un’auto che sopraggiunge è indubbio, e quindi cerco di evitare di essere investito, il dubbio concerne piuttosto l’essenza della visione. Magari l’automobile è un miraggio. Ti cito, su questo punto, un passaggio del libro: «in effetti lo scetticismo è stato bollato avventatamente come inattuabile e destinato all’impraticabilità. Non è così, perché lo scettico ha certezze, ossia gli esiti degli accertamenti che attua quotidianamente, e anche se non le considera nel loro valore assoluto, ossia anche se esse non rappresentano per lui delle verità, se non ipotetiche, sono però fondamenti fenomenici e quindi dell’azione quotidiana. Per di più, alla base di questa alacrità dello scetticismo c’è una verità non accertabile che viene assunta come certezza e addirittura come verità ontologica, e quindi ipotetica, in virtù del suo carattere apriorico: il possibile. È questo possibile a validare, ben più della ontologica verità cartesiana, l’azione scettica. Il possibile è certo anche senza poter essere accertato, non si può negare che tutto possa accadere, quindi l’accadimento del possibile è vero fin quando non si accerta una verità assoluta che lo invalidi, cioè mai – perché il possibile non è invalidabile neppure dalla sua realizzazione –, o non si determina una condizione che lo falsifichi, fatto improponibile in quanto il Possibile ontologico concede possibilità anche all’impossibile. Inoltre tutto ciò che è possibile è ipotizzabile, quindi la verità sull’Essere, essendo ipotetica, conferma l’Essere come Possibile. Conseguenza di questo è che possediamo un’altra verità indiscutibile all’interno della logica estensionale: il possibile. Il quale, tuttavia, non essendo “falsificabile” (Popper) non rappresenta una verità scientifica ma metafisica, direi logico-metafisica. In ogni caso lo scetticismo si installa tra il regresso finito del dubbio cartesiano e il progresso infinito della Possibilità» (Rifondazione dello scetticismo, Mimesis, 2017, pp. 12-13). Continua a leggere

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Compostaggio in tempo di guerra di reperti, cruciverba, stracci verbali e pensieri compostati e rifritti, Poesia kitchen di Francesco Paolo Intini, Lucio Mayoor Tosi, Marie Laure Colasson, La poetry kitchen è un campo aperto di possibilità stilistiche e linguistiche che trovano luogo in un campo osmotico, di Giorgio Linguaglossa

ucraina-la-bomba-termobarica-di-putin-video-500Esercito russo usa armi termobariche in Ucraina, l’onda d’urto provocata dallo scoppio delle testate: “Ci bruciano vivi” Il filmato, diffuso dal Ministero della Difesa ucraino, mostra l’impiego di lanciarazzi pesanti multipli TOS-1A (noti anche come Buratino) vicino a Novomykhailivka, nella regione del Donetsk, in Ucraina. I missili lanciati dal TOS-1A hanno una testata termobarica. L’esplosione dei missili termobarici avviene in due fasi: la prima a detonare è la testata, formata da due sostanze diverse, che crea una nuvola di aerosol. Quando questa nuvola esplode, la palla di fuoco che si forma sviluppa temperature elevatissime che bruciano l’ossigeno che hanno intorno producendo un’onda d’urto potentissima – che si vede distintamente nel filmato – distruttiva per qualsiasi cosa si trovi nella sua traiettoria. “Le forze armate russe utilizzano le armi non nucleari più pesanti contro gli ucraini, bruciando vive le persone”; ha twittato il consigliere di Zelensky, Podolyak, pubblicando il video sui social. Non è la prima volta che all’esercito russo viene imputato di utilizzare TOS-1A e testate termobariche: anche durante l’assedio di Mariupol erano state raccolte numerose prove a supporto.

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Compostaggio di reperti, cruciverba e stracci verbali

a cura di Giorgio Linguaglossa

Il dove siamo ha poca importanza, tanto la realtà ci riporta sempre a galla.
L’immedesimazione comporta straniamenti emotivi… (Mauro Pierno)

All’apertura del casello segue la caduta di Bisanzio.
Solo perché un ratto s’è messo in testa l’elmo di Nerone
Si apre il ventre di Agrippina. (F.P. Intini)

Ma la risposta non c’è. Kukident, 7 secondi. (L.M. Tosi)
Ascoltare, dove non so e quando – da chi e da cosa? (Antonio Sagredo)
Droni e coccodrilli -stelle sconosciute fino a ieri-
Scendono da Trinità dei monti. (F.P. Intini)

Le poesie sono finestre. Il resto è quel che sappiamo, volgiamo credere, Punto. La vita ricomincia da punto. (L.M. Tosi)

La portulaca fa il filo alle onde gravitazionali
ha zampe di riccio il nuovo soffitto. (Mimmo Pugliese)

È inutile girarci intorno oggi non è più possibile scrivere una poesia sulla guerra, Fondamento del terrore è l’idea che soltanto l’uccisione offra la garanzia del significato. (G. Linguaglossa)

«Ho idea che il passo più difficile, in questa nostra ricerca, sia quello del saper tornare – da un verso metafisico, da un’astrazione – al linguaggio condiviso.» (L.M. Tosi)

Ma il fatto è che quel «linguaggio condiviso» (il linguaggio di relazione e il linguaggio poetico), è la macchina principe della omologazione. (G. Linguaglossa)

Rileggo. Non sono poesie sulla guerra, sono poesie scritte in tempo di guerra. (L.M. Tosi)

Le potenze, gli stati-potenze sono universi semantici, si muovono nell’ordine di UN discorso (del soggetto); gli stati-colonie (come l’Europa) sono universi semiotici (cioè senza soggetto). (G. Linguaglossa)

Marie Laure Colasson

dalla mia raccolta in corso di stampa: Les choses de la vie, un’anticipazione della guerra in Ukraina (sono sempre in guerra!), poesia scritta nel 2021 –

[Le Maschere: il clown pailleté, la blanche geisha, Eredia, Edith sono le personificazioni dell’Altro, indicano (al contrario dell’impiegato Bartleby che dice sempre “Preferirei di no”), l’atto affermativo, il dire “Sì” ad una esistenza voluttuosa, fatta di lusso, di «lux, calme et volupté» di baudelairiana memoria); il dire “Sì”, è ben più reattivo e rivoluzionario del dire “No”. “Sì” alla vita sensuosa e sensibile, “Sì” al principio di Piacere, “Sì” al principio della jouissance, respingimento del principio di Realtà e della Guerra sua consorte fedifraga. In una parola “Sì” al rovesciamento della realtà. (m.l.c.)]

33.

Un clown pailleté d’un cirque en déroute
ignore le monde qui s’écroule autour de lui
Eredia tient sa tristesse à distance
met un masque pour déguiser son angoisse

Les yeux émerveillés Edith regarde une plume blanche
suspendue entre ciel et terre

La blanche geisha à fleur de rêve
écarte les ombres qui dansent sur le sol

Un fou sanguinaire en quête de mort
fait jouer les ressorts cachés de son triomphe

Tourbillon entrechoquement d’objects isolés
un violon luisant un ventilateur argenté

Un vase d’excrément un archet des cordes des poignards
tout conspire aux raffinements de la cruauté

Eredia la blanche geisha Edith entrainent le clown
loins du terrificant fracas métallique

ne laissant à terre que fragments décousus

*

Un clown con le paillette d’un circo in rovina
ignora il mondo che crolla attorno a lui

Eredia tiene la tristezza a distanza
indossa una maschera per dissimulare l’angoscia

Gli occhi stupefatti Edith guarda una piuma bianca
sospesa tra cielo e terra

La bianca geisha ai fiori di sogno
scarta le ombre che danzano sulla strada

Un folle sanguinario cerca la morte
fa giocare le molle nascoste dal suo trionfo

Vortici intersezioni di oggetti isolati
un violino lucido un ventilatore argentato

Un vaso d’escrementi un archetto delle corde dei pugnali
tutto cospira alla raffinatezza della crudeltà

Eredia la bianca geisha Edith trascinano il clown
lontano dal terrificante fracasso metallico

non lasciando a terra che frammenti scuciti

Pensieri compostati e rifritti

Ecco un pensiero di Derrida estrapolato dal contesto filosofico e psicanalitico in cui è nato ma che noi possiamo applicare tranquillamente al nostro progetto per una nuova fenomenologia del poetico, per la poetry kitchen, per la «poesia-polittico» o la «poesia compostata» nella quale non solo il «pensato» trovi posto ma anche e soprattutto il «non-pensato», il «de-negato», l’«impensato», il «non-tematizzato», il «punto di vista scentrato», l’«incorporazione», la «parallasse», il «compostaggio», l’«esproprio» citazionale, il «montaggio».

Questi pensieri compostati e rifritti sono possibili soltanto in un contesto di democrazia liberale. Ve lo figurate voi un tale armamentario concettuale in un movimento poietico nella Russia di Putin? o in qualsiasi altra zona del mondo a autocrazia illimitata, come nella Bielorussia di Lukashenko, nella Cina o nella Corea del Nord o in Afghanistan? Lì la poesia non può allignare se non nella forma forbita ed educata del discorso suasorio di un io magari post-lirico. Qui da noi almeno si ha un certo spazio di libertà per la ricerca.

Il semplicismo intellettuale di una forma-poesia incentrata sul discorso assolutorio dell’io post-lirico quale epicentro del reale è, dal nostro punto di vista, del tutto fuorviante e secondario; l’io è un «limite del mondo», come afferma Wittgenstein, non il suo centro e nemmeno il suo epicentro. Nella «nuova poesia polittico», l’io è un punto di vista periferico tra innumerevoli, infiniti altri punti di vista periferici e scentrati. E nient’altro.

«Il semplicismo del “questo è stato pensato” o “questo non è stato pensato”, il segno ne è presente o assente. S è P.. Si sarà allora tenui nel rielaborare completamente tutti i valori, essi stessi distinti (fino a un certo punto) e spesso confusi dell’impensato, del non-tematizzato, dell’implicito, dell’escluso sull’esempio della forclusione o della denegazione, dell’introiezione o dell’incorporazione, etc., silenzi che lavorano come tante tracce un corpus da cui sembrano “assenti”».1

La poetry kitchen è un campo aperto di possibilità stilistiche e linguistiche che trovano luogo in un campo osmotico

Un nuovo linguaggio poetico può sorgere soltanto quando il precedente linguaggio poetico è caduto nell’oblio. È quando cade il linguaggio poetico di Zanzotto e di Fortini che si profila all’orizzonte il nuovo linguaggio poetico. Una patria linguistica sorge e si afferma soltanto quando un’altra patria linguistica scompare.

Pensiamo un momento alla «patria linguistica» che noi siamo, che noi siamo diventati. Sono portato a pensare che il linguaggio poetico propriamente non esista, sia un non esistente, un non esistente in atto, cioè in presenza.
La costruzione di un nuovo linguaggio poetico non può mai sortire dai linguaggi precedenti o coevi per, diciamo così, filiazione diretta o indiretta; non c’è una linea di continuità o di discontinuità che ci può ricollegare ai linguaggi precedenti o coevi. Questa è l’idea del riformismo moderato applicato ai linguaggi che pensa di poter progredire in linea retta da un linguaggio poetico all’altro. Bisogna pensare a questa problematica mediante un altro apparato concettuale: è mediante la dialettica del negativo che possiamo afferrare questo concetto. Questa è una aporia che bisogna accettare. È una contraddizione incontraddittoria.

Quello che si può fare, e che noi stiamo tentando di fare, è costruire le cornici, le coordinate di un nuovo linguaggio poetico, e nient’altro. La poetry kitchen è appunto questo «contenitore dinamico» che però si scava la fossa nel momento in cui emerge, nel mentre cioè che scava il fossato che la divide dai linguaggi poetici del pregresso e del contemporaneo. Ecco perché il «contemporaneo» e il «nuovo» sono categorie che oggi sono diventate vuote, gassose, che non appena le afferri si sbriciolano tra le dita e volano via nell’aria. È per via del «frammezzo» (Das Zwischen) che la nuova poiesis può emergere, da una zona larvale e limbale che non sta né qui, nel mondo empirico, né là, nel mondo non empirico.

«Le difficoltà non risiedono nelle nuove idee ma nel sottrarsi alle vecchie che ramificano in ogni angolo della mente». (Keines)
«Non esiste un sistema che non sia instabile e che non possa prendere svariate direzioni». (Ilya Prigogine)

La nuova ontologia estetica segue il medesimo ordine di idee del grande chimico russo. Parafrasandolo potremmo dire che «la forma-poesia è un sistema instabile, e che non esiste un sistema instabile che non possa prendere svariate direzioni». È fondamentale la dimensione caosmotica e caosferica in ossequio a quella filosofia pratica e mondana, a quella prassi tipica della poiesis kitchen a cui si è accennato con la citazione di Prigogine. La zona di indeterminazione, è una zona stilisticamente sismica, altamente instabile e infiammabile che connette il fuori, con il dentro, che riesce a dentrificare il fuori e fuorificare il dentro, coltivare un immaginario, sortire fuori dalla nostra zona di comfort normografico e normologico ed entrare in una zona di indeterminazione e di indifferenziazione entro la quale costruire un crocevia d’incontri, un assemblaggio, un patchwork, compostaggi, story telling, puzzle dinamici e instabili, autobiologie, giustapposizioni di registri stilistici e lessicali, quello che Pasolini chiamava «multistilismo e multilinguismo». L’entanglement che si rinviene così di frequente nella poesia della nuova ontologia estetica o poetry kitchen è un concetto molto diverso dalla empatia che si ha nel discorso poetico epifanico della tradizione novecentesca (che oggi continua per esempio nei poeti in dialetto); nei testi odierni in lingua si ritrova l’empatia piuttosto che l’apatia, la ierofania piuttosto che la diafania, il sacro-sublime piuttosto che il profano; posizione comprensibilissima, in linea di continuità con la poesia epifanica di un Ungaretti e del primo Montale, il che in sé non è un disvalore ma segna una distanza considerevolissima rispetto alla poesia del profano che si tenta di perseguire con la poetry kitchen.

1 J. Derrida, La carte postale. De Socrate à Freud et au-delà, 1980 Flammarion, Paris – trad it. La carte postale Da Socrate a Freud e al di là, Milano Mimesis, 2015 pp. 508 € 28, a cura di Luana Astore, Federico Massari Luceri e Federico Viri. p. 359

Francesco Paolo Intini

MAGNESIO MANDA A DIRE A CALCIO

È una storia di lavatrici. Beghe tra detersivi e panni zozzi
–quelle da pubblicità che non ce la fanno a sostenere il prezzo-.

Candeggiare liquido o solido?
Meglio il programma ad acqua bollente?

Gli eventi si incurvano nel cestello.
Vendetta si siede al centro del programma
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Chi potrà difendersi dalla centrifuga?
A forza di gravitare attorno i linguaggi scambiano colore.

Visti dall’oblò gli uccelli rotolano a terra.
I nomi lasciano lettere alla rinfusa.

Basta aprire un vocabolo per trovare il tuorlo
ma si discute su un beccuccio di rondine

Bisogna togliere il calcare e sperare che il telecomando obbedisca agli ordini.

La possibilità che la madre abbandoni la partita
è proporzionale al mutuo da pagare.

Si farà un concerto per distinguere l’albume
Decidere se al contrario il giro è più rotondo.

Lucio Mayoor Tosi

Le poesie sono finestre. Il resto è quel che sappiamo, volgiamo credere, Punto. La vita ricomincia da punto.

Scrivila durante il film. Io intanto lavo i piatti.

È poesia moderna, piace a persone che guardano
fiction televisive.

19 bambini uccisi. Gesti sulle guance dei defunti.
Scrivere. Albeggiare, verbo, allontanarsi. Casa dei sogni.

Silenzio in luoghi remoti. Dormire in quel che c’è.

Reale fantasia domestica, come trovarsi a un passo
dal suicidio in metrò. Ma uscirne indenni, dopo essere
morti.

Amici. Pellicani. Oroscopo dei Mille. Donat-Cattin,
per una sinistra rigogliosa.

Guerra è rallentamento. Nero di seppia. Il secolo andato,
vissuto in fretta.

Ma la risposta non c’è. Kukident, 7 secondi.

O torna dagli amici. Sai che ci siamo. Ma non è detto.
E tu non ti offendi.

Marie Laure Colasson

Sì, «È una storia di lavatrici. Beghe tra detersivi e panni zozzi»

e tutto il resto. Qui, nella poesia di Intini, è evidentissimo che qualcosa è successo al linguaggio, che il linguaggio è stato fatto sloggiare dalla casa dell’essere e se ne è andato in giro per fatti suoi, le parole non corrispondono più alle parole, il luogo delle parole non è più un luogo, la guerra ha reso evidentissima questa situazione del linguaggio poetico, in particolare ciò è visibile in Italia dove il linguaggio poetico si è imbolsito in un formulario protocollare. E allora che fare?
Intini scrive:

Bisogna togliere il calcare e sperare che il telecomando obbedisca agli ordini.

Con la guerra in corso si è reso evidente ciò che era visibile anche prima: la scomparsa definitiva della sacralità del luogo dove avveniva l’epifania della parola poetica (da Ungaretti a Montale passando per Sanguineti e Pasolini fino a Franco Fortini). Il luogo così desacralizzato è diventato un non-luogo, ecco perché la NOe impiega i linguaggi della zona da indistinzione, delle zone di compromissione, che sono quei linguaggi che dimorano negli interstizi dei linguaggi ufficiali. Prendiamo ad esempio i discorsi del ministro degli esteri russo Lavrov: lì è evidentissimo che si parla di cose che si trovano in un altro universo di parole, non solo le cose e le parole sono ribaltate, ma di più: le parole hanno perduto la connessione con le cose e i fatti, si parla di cose e fatti di un altro universo parallelo. In questo ruolo Lavrov è un campione di disinformazia. Non è un caso che la disinformazia sia un tropo retorico impiegato di continuo dalla poetry kitchen e da Intini in particolare: disinformazia x disinformazia = altra disinformazia, tutte le parole sono andate al macero della loro insignificanza. Il di più di informazione e il di meno di informazione alla fine si equivalgono. Scrive Intini:

A forza di gravitare attorno i linguaggi scambiano colore.

È che cadute le paratie tra la cornice e il quadro, ciò che è rimasto è uno spazio vuoto, o meglio, uno spazio riempito di parole melliflue che ridondano la propria insignificanza. Le parole sono giunte al limite della feticizzazione, sono ipersignificative al punto che appena un passo e non significano più niente, si apre il baratro della credulità popolare degli asini che volano e delle trecce bionde di Cenerentola. Oggi le parole sono diventate ipersignificative, in quanto si sono gonfiate dagli estrogeni della propaganda e della pubblicità, rivelano uno scarto. Quello scarto, appunto, rivela la verità delle parole scartate.

Giorgio Linguaglossa

Heidegger in Essere e tempo scriveva (1927) che è il nostro «destino» esser gettati in un orizzonte storico contingente e insuperabile: e indicava i lineamenti della finitezza storica di ogni ente; il filosofo tedesco ha approfondito la fenomenologia del Dasein irretito nella gettatezza del mondo storico e dell’orizzonte degli eventi, di qui la tesi della «decisione anticipatrice» e dell’essere-per-la-morte… ma non ci ha detto nulla della differenza tra le micro decisioni del Dasein e le macro decisioni del mondo storico che imprimono una svolta storica agli eventi, il filosofo ha obliterato del tutto il mondo storico, sicché il Dasein appare deiettato e abbandonato tra gli eventi senza possibilità di autenticità o di riscatto.
C’è in Italia (l’anello debole dell’Europa occidentale), è percettibile nell’opinione pubblica italiana, uno smarrimento delle coscienze e delle opinioni e un ritorno al fatti i fatti tuoi, a un’ermeneutica dell’individualismo e del cinismo generalizzato e retrogrado che sospinge al menefreghismo e al qualunquismo, e quindi alle varie forme di sovranismo retrogrado e reazionario.

Forse dobbiamo tornare ad essere ingenui, come i selvaggi di Rousseau. E chiederci: «Che cos’è questo?», «Che cos’è quello?», «Chi ha cancellato l’Orizzonte?», «E perché?», «Chi ci ha fatto cadere?», «E perché la caduta continua?», come scrive Tadeusz Różewicz?, «Chi ha decretato la caduta di tutto?», «Perché cadiamo da tutte le parti?», «Perché abbiamo Sua Maestà il Nulla?», «Perché abbiamo Sua Maestà il Vuoto?», «Perché abbiamo Sua Maestà l’Ombra?»…
Scrive Nietzsche: «Noi lo abbiamo ucciso – voi e io!.. Chi ci ha dato la spugna per cancellare l’intero orizzonte?… Dove ci muoviamo? Non cadiamo forse continuamente?… Indietro, e di lato, e in avanti – da tutte le parti?».
Mi sembrano domande alle quali un poeta degno di questo nome non dovrebbe sottrarsi. E invece, si continua a fare poesia del quotidiano e degli oggetti. Ma quale quotidiano? Quali oggetti? Quale Io?, ma non ci rendiamo conto del pericolo in cui siamo “Caduti”? –
Penso che occorra fare una poiesis totalmente differente da quella che si fa oggi. Una poiesis che parli stabilmente con Sua Maestà il Nulla, Sua Maestà il Vuoto, e Sua Maestà l’Ombra.

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È possibile oggi scrivere una poesia sulla guerra? di Marie Laure Colasson, Poesie all’epoca della guerra in Ucraina di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Mimmo Pugliese, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, È inutile girarci intorno oggi non è più possibile scrivere una poesia sulla guerra, Fondamento del terrore è l’idea che soltanto l’uccisione offra la garanzia del significato

Ritratto di Giorgio Linguaglossa

foto di Marie Laure Colasson, Ritratto di Giorgio Linguaglossa al tempo della guerra in Ucraina, 2022

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Marie Laure Colasson

 È possibile oggi scrivere una poesia sulla guerra?

È inutile girarci intorno oggi non è più possibile scrivere una poesia sulla guerra, per una semplice ragione: è la vita elementare, la vita quotidiana degli uomini delle democrazie neoliberali che è diventata una guerra permanente: andiamo in guerra tutti i giorni, tutti sono già preparati fin dalla culla ad andare in guerra, è una guerra generale e generalizzata, viviamo in una zona di conflittualità permanente e di permanente regime di esclusione (i più forti escludono i più deboli, i ricchi escludono i poveri, i mascalzoni gli onesti). Viviamo e prosperiamo in un regime ad esclusione portabile, controllata e irreggimentata, siamo entrati nell’epoca delle democrazie dell’esclusione controllata e auto controllata, con il premio di consolazione del sussidio di cittadinanza. La Nuova Ontologia Estetica e la poetry kitchen derivano dalla presa di conoscenza di questa situazione globale. Il modernismo è finito. Chi scrive alla maniera lirica e postlirica è un confidente e un connivente di questa situazione politica di stallo stilistico. È inutile girarci intorno: le democrazie neoliberali se vorranno sopravvivere in Occidente devono trovare il coraggio di fare delle riforme drastiche: togliere ai ricchi e agli straricchi per devolvere parte di questa ricchezza smodata ai poveri, rimettere in moto l’ascensore sociale, aprire gli spazi di libertà. Brodskij è stato un poeta del modernismo europeo, la poesia “Lettera al generale Z” risale al 1968, alla invasione di Praga; oggi, con la guerra di invasione dell’Ucraina prendiamo atto che il modernismo è morto e sepolto, scrivere una poesia della memoria o una poesia sulla guerra sarebbe kitsch, un esercizio alla maniera degli anni Sessanta. Brodskij intelligentemente ha aggirato il problema: ha fatto una poesia contro il “generale Z.” non contro la guerra in modo generalizzato. Torniamo all’oggi, chiediamoci: come è possibile che Putin e il suo regime autocratico abbia raccolto e raccolga tuttora tra i disgraziati e i poveri tanto consenso? La domanda è perentoria e richiede una risposta. Io penso che qui in Europa si può rispondere rilanciando la democrazia, con delle riforme, rimettendo in moto la democrazia. In Russia la democrazia non c’è mai stata, ma qui  in Italia e in Europa occorre da subito rafforzare la democrazia, soltanto costruendo un più di democrazia si potrà porre un argine alle smanie di potenza dell’élite di professionisti che ha fatto il suo apprendistato tra le file del KGB. Ma quello che c’è di più allarmante è vedere quanti appoggi e approvazioni indirette goda Putin e il suo regime tra le masse degli italiani e tra i partiti italiani di destra e anche in parte di sinistra. Come si può spiegare questo fatto? Come è stato possibile? – ma questo è un problema tutto italiano, squisitamente italiano.

Giorgio Linguaglossa

Negli anni che vanno dal 1914 al 1945 l’Occidente ha messo in atto, senza averne coscienza, un vero e proprio tentativo di auto annientamento. La guerra fredda che è seguita è stato un interludio di pace, armata ma di pace. Oggi con la guerra di invasione dell’Ucraina qui in Europa siamo entrati in una nuova era che però ci è ignota, in un certo senso noi siamo gli abitanti dell’ignoto. Non sappiamo se un’altra epoca si aprirà davanti a noi o se ci sarà il diluvio. Auden titolò L’età dell’ansia un poemetto ambientato in un bar di New York verso la fine della seconda guerra, oggi non so quale sarà il titolo di un libro di poesia che passerà ai posteri, forse il libro di Francesco Paolo Intini, Faust chiama Mefistofele per una metastasi (2019). Il titolo del mio libro che sto per dare alle stampe è Distretto n. 18. Ora che ci penso la parola «distretto» è un termine militare, siamo già tutti militarizzati senza saperlo e senza volerlo, viviamo in una zona altamente militarizzata in quanto disponiamo di un inconscio storico de-politicizzato e di una vita privata de-privata in via di privatizzazione progressiva. La nuova militarizzazione delle coscienze si avvale di una vita privata che è stata de-privata, che è incapace di esperire esperienze, si oscilla tutti tra turismo e terrorismo. E questo lo troviamo accettabile.

«Fondamento del terrore è l’idea che soltanto l’uccisione offra la garanzia del significato. Tutto il resto appare labile, incerto, inadeguato.
[…]
Nello stadio ultimo della sua formazione, il terrorismo islamico coincide con la diffusione della pornografia in rete, negli anni Novanta. All’improvviso si trovarono davanti agli occhi, facilmente e perennemente disponibile, ciò che avevano sempre fantasticato e desiderato. e che al tempo stesso svelleva l’intero assetto delle loro regole riguardo al sesso. Se quella negazione era possibile, tutto doveva essere possibile. Il mondo secolare aveva invaso la loro mente con qualcosa di irresistibile, che li attirava e al tempo stesso li irrideva e li esautorava. Senza uso di armi – e oltretutto non ammettendo o esigendo la presenza del significato. Ma loro sarebbero andati oltre. E, al di là dal sesso, c’è solo la morte. Una morte sigillata dal significato».1

1 Roberto Calasso ne L’innominabile attuale (Adelphi, 2017 p. 14)

Francesco Paolo Intini

“A questo punto interviene il Re:-il mondo va corretto termodinamicamente”

La coda di lucertola era parte del Logos-animale vissuto nel Pleistocene-
Ma si muove ancora, sbattendo la punta come una banconota l’Europa

Ed è di qua che si assiste alla caccia e di là che ricrescono i T-Rex
Tra i pastelli c’è ressa a ricostruire giungle. Il pollo si lascia dipingere su Pasifae.

Subentrano i missili ad personam-L’atomica tattica nel marsupio-
Tanto per umiliare l’amor proprio delle melanzane ed esaltare il cavolfiore.

Un grido:- Perché m’hai riportato al mercato?
I vocaboli vanno dal parrucchiere ad aggiustare la dentiera.

Se la zucca si spacca in due, nessuno è in grado di fermare i semi
Cocomeri e meloni si rompono a catena.
Pesche e albicocche distruggono l’Italia.

E dunque cos’è massaciquadro nella polpa delle nazioni?

Lucio Mayoor Tosi

È da un po’ che non scrivo. Ho chiesto al medico,
dice che sua moglie lo ha lasciato. Ha iniziato a scrivere.

– Ama quel che le pare. Si veste come una pazza. Si lascia rapire
da un verso. Sa, dice, implora; cioè, lo pensa. Non la senti parlare.
La casa (un) fai-da-te.

– “La rondine al tetto”. Libro per prostitute; scritto a quattro mani
con canterina che squilla – si vede che sta bene, neanche guarda
i tasti… vola!

L’arretrato del tutto, signor accapo.

– Dice di essere turca. Ha le lentiggini. Si esprime con gesti.
È muta.

Ci siamo. Tra sei ore gli occhi saranno chiusi. Strano destino.

– Sempre facendo gesti canta Fiume di parole tra noi.

Più in basso, le Dolomiti.

 

Mauro Pierno

Il dove siamo ha poca importanza, tanto la realtà ci riporta sempre a galla.
L’immedesimazione comporta straniamenti emotivi…

“il fumo delle sigarette tra gli scaffali e le bibite lasciate a metà, le mani
che si stringono alle maniglie, ai corrimani…”(Linguaglossa)

“-E dunque, mio caro animale, ognuno ha la voce che si merita.” (Tosy)

“-Ho una pupilla ballerina!
-No! No! Ha l’occhio pigro! Sentenziò l’oftalmico.”(Gallo)

“Stanotte la campagna è blu
nella mansarda è fiorito il baobab” (Pugliese)

… che tracciano un atemporalità. Tanto la realtà ci riacciuffa sempre.
Forse il tentativo di questa nostra poesia è già una sorta di ricostruzione, dopo un enne tempo.
C’è un tempo, uno spazio, dove tutto questo pensiero poetico può avverarsi!
Una sorta di sottinteso emotivo risucchiato da un gigantesco buco nero.
La felicità della poesia kitchen è una sorta di forte aspirazione.
L’atto di essere aspirati!
Non ispirati.

La poesia di Intini e di Mauro Pierno prende atto che ormai si può scrivere poesia soltanto facendo riferimento ad un ordine delle parole che è saltato, come del resto l’ordine dei fatti, su una sterminata quantità di guerre glocali (162 su tutto il pianeta) che sono il contraltare delle guerre globali (quelle non combattute con le armi ma con gli strumenti del web e delle Agenzie di Affari Riservati, per il tramite delle bande guerresche Wagner e similari).

«Non esiste più uno spazio circoscritto e sommariamente regolamentato entro cui si svolge la politica», commenta Roberto Calasso nel libro sopra citato a pag. 35, il quale così continua: «Nel 1967 Kissinger afferma: Non sarà possibile concepire un ordine internazionale se la regione entro cui si svolgono la sopravvivenza e l’evoluzione degli Stati rimane senza regole internazionali di condotta ed è abbandonata a decisioni unilaterali». Definizione dove Kissinger è costretto a mescolare linguaggio vestfaliano e linguaggio del cyberspazio.
[…]
Henry Kissinger avviò la sua carriera con un solo libro sul Congresso di Vienna. Passato dagli studi alla politica attiva, tentò in ogni modo di applicare quella che ha chiamato politica “vestfaliana”, quindi basata sull’equilibrio fra le potenze, introdotto nel trattato di Vestfalia del 1648 e riformulato per un’ultima volta nel 1815 con il Congresso di Vienna. e, finché durò una opposizione polare USA e URSS, quel principio trovò un ulteriore corollario, puntando questa volta sulla deterrenza nucleare e sulla spartizione delle aree di influenza. Ma dopo? Un ordine fondato sull’equilibrio delle potenze è diventato inattuabile, innanzitutto perché le potenze non si oppongono più frontalmente, ma su più lati. E non condividono neppure il principio della spartizione delle aree di influenza. (p.35)

 

Kitsch poetry

Il coccodrillo rivolge la parola ad un armadio, gli dice:
«Il pollo si cuoce nella carta stagnola».
Così avvenne che il Congresso di Vienna adottò il significante.
I think tank hanno sfornato un mandolino che suona “O sole mio” sul lungomare di Posillipo.
Il sindaco di Napoli però ha preso le distanze.
Parole vestfaliane si mischiano a quelle basedowike di una poesia sagrediana in modo che si possano mangiare in un panino imbottito.
L’Agenzia Affari Riservati del Signor Putler ha inviato un logogramma al Signor Dio, c’è scritto: «Chiuso per lutto».
«Chi controlla il passato controlla il futuro e chi controlla il presente controlla il passato»
mormorò il poeta Antonio Sagredo
il quale non si mosse dal busto in marmo sito in villa Borghese accanto a quello di Ugo Foscolo dove lo aveva piazzato un’ordinanza di papa Pio IX.
Uno stuolo di pappagalli passò di lì e ci fece la cacca.
Così avvenne che la tgirl Korra delle Amazzoni scambiò il fotoreporter del TG1 per il Macho Zozzilla noto attore del film porno intitolato “Il gorilla dello Zoo di Atlanta e la Signorina Biancaneve”.
Il che produsse sconcerto e imbarazzo presso gli utenti della pellicola.
La mannequin Clizia Sosostris in monokini ha dichiarato ai followers di Tic Toc: «Non diventate quello che vi hanno fatto».
In tutto questo trambusto un treno carico di uova fritte entrò direttamente nella suite dove Biancaneve stava girando una scena porno con i sette nani, causando scompiglio e sbigottimento.
Che è che non è, per porre fine a queste ipotiposi alla fine è intervenuto il Signor Dio,
il quale disse:
«Il mondo va corretto in una camera iperbarica ad alta densità di neutrini e positroni»
«E così sia»

Mimmo Pugliese

Non ti sei fidato

Non ti sei fidato
hai continuato a guardare il prato deserto

Il volo che hai sulle spalle
asperge tulipani e ciba cicogne

Una piccola voglia di caffè sul collo
sversa sulle canne dei fucili

Avevi la luna nel piatto
quando ti sei alzato e guardato fuori

Passavano bighe che trinciavano stricnina
avevano martingale di rovi

Domani le aquile dormiranno
i bambini mangeranno gelati alla frutta

Stringono i pugni le colonne
samurai vestito da lince accende fuochi

La portulaca fa il filo alle onde gravitazionali
ha zampe di riccio il nuovo soffitto

Sa di legno la fila di notti
che dalle grondaie spara ai papaveri

Tappeti persiani spezzano il sonno ai pattini a rotelle
l’ultimo brindisi è per l’acrobata cieco

Non ti sei fidato
polpastrelli di saccarina rovesciano il muro del suono

*

Per Wittgenstein le parole, le proposizioni valgono in quanto si riferiscono a contesti d’uso: «Che questa o quest’altra proposizione non abbia senso, è significativo in filosofia; ma significativo è anche che suoni comica», afferma il filosofo austriaco. La caratteristica più importante di questa nuova strategia riguarda l’apparenza di nonsenso che si produce nell’uso di giochi linguistici per esprimere esperienze nuove. È possibile individuare due conseguenze importanti per la riflessione del secondo Wittgenstein sul ruolo della filosofia e sull’etica: i giochi linguistici che utilizzano parole o espressioni insensate in relazione ai contesti d’uso della vita di relazione esibiscono questa apparente insensatezza solo perché impiegate in modo nuovo e inconsueto come reazione linguistica al presentarsi di una nuova esperienza. È quanto accade nella poetry kitchen, nella quale sono i contesti di uso delle parole che vengono cambiati. Non avrebbe senso parlare di insensatezza della poetry kitchen se noi considerassimo la questione dal punto di vista delle parole secondo i tradizionali contesti di uso. (g.l.)

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. È in corso di stampa per Progetto Cultura di Roma la sua prima raccolta poetica, in edizione bilingue, Les choses de la vie.

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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie.

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Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019.
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

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Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. 

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.

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Iosif Brodskij (1940-1996), Lettera al generale Z. (1968), Brodskij e la Guerra, inedito, prima traduzione italiana a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

Onto brodskij

Iosif Aleksandrovic Brodskij è nato a Leningrado nel 1940. Nel 1964 fu arrestato con l’accusa di parassitismo e condannato, dopo un processo che scatenò violente reazioni nell’opinione pubblica mondiale, a cinque anni di lavori forzati. Rilasciato dopo 18 mesi tornò a vivere a Leningrado. Nel 1970 fu costretto dalle autorità sovietiche a emigrare. Si stabilì in USA, dove tenne corsi in varie università e svolse un’ampia attività pubblicistica oltre che poetica. Brodskij ha esordito pubblicando nel 1958 alcune poesie in una rivista clandestina. Venne subito riconosciuto come uno dei lirici più dotati della sua generazione. Ebbe il sostegno di Anna Achmatova che gli dedicò una delle sue raccolte (1963). Dopo il rilascio seguito alla prima condanna, si dedicò soprattutto alla traduzione di poeti inglesi (Donne, Hopkins). La sua raccolta di versi Fermata nel deserto, in cui l’introspezione con venature ironiche si unisce all’afflato metafisico, uscì a New York nel 1970 confermando lo straordinario estro poetico di Brodskij. Dopo l’emigrazione tenne corsi in varie università e svolse ampia attività pubblicistica (Fuga da Bisanzio (Less than one), 1986) e poetica (Elegie romane, 1982). Nel 1987 fu insignito del premio Nobel per la letteratura, e nel suo discorso a Stoccolma individuò le radici della sua opera di classico contemporaneo in quattro poeti: Anna Achmatova, Marina Ivanovna Cvetaeva, Robert Frost e W.H. Auden. Le motivazioni del Nobel: “for an all-embracing authorship, imbued with clarity of thought and poetic intensity”. Nel 1991 fu nominato poeta laureato degli Stati Uniti. Morì nel suo appartamento di Brooklyn per un attacco di cuore il 28 gennaio 1996. Innamorato dell’Italia, espresse il desiderio di venire seppellito a Venezia, città di acqua e canali come la natale Leningrado, e lì ha trovato per sempre riposo.

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IOSIF BRODSKIJ E LA GUERRA

 Nell’esemplare appartenuto all’autore del secondo tomo dei “Componimenti di Josiph Brodskij”, dopo la data 1968, veniva annotato: ”autunno; dopo l’invasione della Cecoslovacchia”. È plausibile che il modello della poesia fu suggerito a Brodskji dalla “Lettera al generale X“ di Antoine De Saint-Exupèry, uno degli scrittori preferiti della sua giovinezza. Pervaso dal pathos del pacifismo e dell’antitotalitarismo, il saggio fu scritto nel 1943 in una base militare del Nord Africa due mesi prima della morte dello scrittore e pubblicato postumo. In Russia circolò nei samizdat nella traduzione di Marina Kazimirovna Baranovich.

In Brodskij la Lettera al generale Z acquisisce una connotazione maggiormente ironica conservando, tuttavia, l’ambientazione tropicale che ricorda i film sulle imprese della Legione Straniera o di altri corpi di spedizione nei paesi caldi. In tal modo, a paragone delle posizioni di Brodskij su altre imperialistiche azioni del potere sovietico (vedi la poesia non pubblicata sulla rivoluzione ungherese del 1956), la Lettera al generale Z fu scritta in uno stile più iconoclastico, simbolico. Una particolare attenzione merita la ricorrente topica del gioco delle carte, l’iniziale calembour – carte geografiche/carte da gioco – della prima strofa che richiama l’avventurismo, il barare, lo spreco.

Un possibile impulso alla genesi del motivo delle carte fu il racconto, noto a Brodskji, della vedova di Bulgakov sull’incontro con Saint-Exupèry presso il consigliere dell’ambasciata americano a Mosca il primo maggio del 1935: ”Il francese – che risultò essere anche un pilota – raccontava dei suoi pericolosi voli. Faceva vedere inconsueti giochi di prestigio”.

Nei dettagli “LGZ” richiama sia la poesia del poeta americano Reed Whittemor Un giorno con la Legione Straniera, che Brodskji tradusse, che la lettera da lui scritta a Breznev sebbene qui il destinatario del poeta sia un’entità più surreale. Giova aggiungere che Brodskij rimandò la composizione di “LGZ” ai versi da lui composti sotto l’influenza poetica di Auden:

  “Ancora più acutamente il tema della responsabilità per gli atti storici della patria appare in Brodskij come un particolare sentimento di vergogna, disonore. Alla domanda se ci fossero stati momenti in cui aveva fortemente desiderato fuggire dalla Russia, rispose: «Sì, quando nel 1968 i carri armati sovietici invasero la Cecoslovacchia. Allora, ricordo, ebbi la voglia di fuggire ovunque possibile. Prima di tutto per la vergogna. Per il fatto che appartengo allo stato che compie queste azioni. Perché, bene o male, parte della responsabilità ricade sempre sul cittadino di questo stato». Reagì all’occupazione della Cecoslovacchia con la “LGZ”, il cui protagonista, un vecchio soldato dell’impero, si rifiuta di combattere. (dal libro di Lev Losev Josiph Brodskij, 2006)  

Stefania Pavan, saggio su Odissej Telemaku  (Odisseo a Telemaco) di Iosif Brodskij – La guerra di Troia / è terminata. Chi abbia vinto, non lo ricordo).

LETTERA AL GENERALE Z
La guerra, Vostra Grazia, è solo un gioco vuoto.
Oggi – fortuna e domani – un buco.
(Canzone sulll’assedio de La Rochelle) (1)

foto Kharkiv

Much-loved pub destroyed
In the city of Kharkiv, in north-east Ukraine, the beloved Old Hem bar – named after the owner’s literary hero Ernest Hemmingway – was destroyed by Russian shelling.
An extraordinary image shared widely on social media showed the building which once housed the pub reduced to rubble. The owner – now in western Ukraine – told the BBC that he hopes to return one day to his city and rebuild his bar.
“We will win and Hem will rise again,” Kostiantyn Kuts said [La scorsa settimana mi sono seduto in un parco del centro città, con l’erba tagliata con cura, le aiuole in fiore, e mi sono gustato un gelato al caffè. La città  (Kharkiv) è ancora in gran parte vuota, ma il numero di colpi di artiglieria russa è sceso da dozzine al giorno a solo una manciata. Le sirene dei raid aerei continuano a ululare regolarmente, ma Kharkiv non si sente più sull’orlo della catastrofe.]

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Generale! Le nostre carte sono una merda. Passo.
Il Nord non è affatto qui ma nel Circolo Polare Artico.
E l’Equatore è più ampio della banda dei vostri calzoni.
Perché il fronte, generale, è al Sud.
A una tale distanza una radiotrasmittente
trasforma qualsiasi ordine in boogie-woogie.

Generale! La confusione è degenerata in bordello.
L’impraticabilità delle strade non consentirà di ammassare riserve
e cambiare la biancheria: il lenzuolo è carta smerigliata;
questo, sapete, mi dà sui nervi.
Mai finora, credo, sia stato così
imbrattato l’altare di Minerva.

Generale! Stiamo così a lungo nel fango
che il re di cuori esulta in anticipo
e il cuculo tace. Dio ce ne scampi,
tuttavia, dall’ascoltare il suo verso.
Ritengo che bisogna dire merci
che il nemico non attacca.

I nostri cannoni stanno con le canne sprofondate a terra,
le palle si sono afflosciate. Soltanto i trombettieri,
estraendo le trombe dai
foderi, come accaniti onanisti,
le lucidano giorno e notte così che all’improvviso
quelle emettano un suono.

Gli ufficiali vagano, disprezzando il regolamento,
in calzoni a sbuffo e giubbe di diversi semi.
I soldati nei cespugli sulle terre arse
si abbandonano l’un l’altro ad una vergognosa passione
e arrossisce, abbassando il vessillo scarlatto,
il nostro sergente-scapolo.
————————————-
Generale! Io ho combattuto sempre e ovunque
per quanto fossero scarse e incerte le possibilità.
Non avevo bisogno di un’altra stella
oltre quella che è sul vostro cappello.
Ma ora sono come nella favola su quel chiodo:
piantato nel muro, privato della capocchia.

Generale! Purtroppo la vita è una.
Per non cercare maggiori prove,
ci toccherà bere fino in fondo
il nostro calice in questi boschi insignificanti:
la vita, probabilmente, non è così lunga
da accantonare il peggio a tempo indeterminato.

Generale! Solo alle anime sono necessari i corpi.
Certo le anime, si sa, sono estranee alla gioia maligna
e qui, penso, ci ha portato
non la strategia ma la sete di fratellanza: (2)
è meglio mettere bocca negli affari altrui
se non ci raccapezziamo nei nostri.

Generale! Adesso ho la tremarella.
Non capisco il perché: per vergogna o per paura?
Per mancanza di donne? O semplicemente è un ghiribizzo?
Non aiutano né il dottore né il guaritore.
Perché probabilmente il vostro cuoco
non distingue dove sia il sale, dove lo zucchero.

Generale! Ho paura che siamo finiti in un vicolo cieco.
Questa è la vendetta di uno spazio ampio.
Le nostre piche si arrugginiscono. La presenza di piche –
non è ancora garanzia di un bersaglio.
E la nostra ombra non si sposterà davanti a noi
persino all’ora del tramonto.
—————————————–
Generale! Voi sapete che non sono un vigliacco.
Tirate fuori il dossier, fate delle indagini.
Sono indifferente al proiettile. In più
non temo né il nemico né la posta in gioco.
Che mi piantino pure un asso di quadri
tra le scapole – chiedo le dimissioni!

Io non voglio morire per
due o tre re che
non ho mai visto in faccia
(non si tratta di paraocchi ma di tende impolverate).
Tuttavia non ho nemmeno voglia di vivere
per loro. A maggior ragione.

Generale! Sono stufo di tutto. Mi
annoia la crociata. Mi annoia
la vista nella mia finestra di montagne
immobili, boschetti, anse di fiumi.
E’ brutto quando il mondo all’esterno
è stato concepito da chi è tormentato dentro.

Generale! Non penso che, abbandonando
le vostre fila, le indebolirò.
Non sarà una grossa sciagura:
io non sono un solista ma uno estraneo all’ensamble.
Tolto il bocchino dal mio zufolo,
brucio la mia uniforme e spezzo la sciabola.
———————————————
Anche se non vedi gli uccelli, si sentono.
Il cecchino, tormentandosi di sete spirituale, (3)
non si sa se l’ordine o la lettera della moglie,
appollaiato su un ramo, legge due volte
e per noia il nostro artista si mette
a disegnare un cannone con la matita.

Generale! Soltanto il Tempo apprezzerà voi,
le vostre Cannes, le fortificazioni, l’accampamento, le coorti.
Nelle accademie andranno in estasi,
le vostre battaglie e le vostre nature morte
serviranno a far dilatare occhi,
sguardi sul mondo e l’aorta in generale.

Generale! Devo dirvi che voi
siete come un leone alato all’ingresso
di un portone. Giacché voi, ahimè,
non esistete proprio in natura. (4)
No, non è che siete morto
o siete stato battuto – voi non ci siete nel mazzo di carte.

Generale! Che mi mandino sotto processo!
Voglio portarvi a conoscenza del caso:
il totale delle sofferenze dà l’assurdo;
che l’assurdo abbia un corpo!
E si profila la sua sagoma
con qualcosa di nero su qualcosa di bianco.

Generale! Vi dirò un’altra cosa:
Generale! Vi ho usato per la rima con la parola
“è morto” – cosa mi è successo ma (5)
Dio non ha completamente separato
il grano dalla pula e adesso
usare questa rima – è una balla.
————————————————-
Nella landa desolata dove di notte ardono
due lampioni e marciscono i vagoni,
toltomi a metà il vestito
da clown e strappate le spalline,
mi blocco, incrociando lo sguardo
della macchina fotografica Leitz o gli occhi della Gorgone.

Notte. I miei pensieri sono colmi di una
donna, meravigliosa dentro e di profilo.
Quello che mi succede adesso
sta più in basso dei cieli ma più in alto dei tetti.
Quello che mi succede adesso
non vi offende.
———————————————
Generale! Voi non esistete e il mio discorso
è rivolto, come al solito, ora
in quel vuoto, i cui contorni sono i contorni
di un vasto, sordo deserto
che sulle mappe, cosa che voi ed io
abbiamo potuto vedere, non è nemmeno menzionato.

Generale! Se tuttavia voi mi
ascoltate, significa che il deserto cela
in sé una certa oasi, allettando
con ciò il cavaliere; e il cavaliere, quindi,
sono io; sprono il cavallo;
il cavallo, generale, non galoppa da nessuna parte.

Generale! Avendo combattuto sempre come un leone
lascio una macchia sulla bandiera.
Generale! Anche un castello di carte – è un porcile.
Vi scrivo un rapporto, mi attacco alla borraccia.
Per chi è sopravvissuto al grande bluff,
la vita lascia un brandello di carta.

(Autunno 1968)

.

1) Nell’epigrafe, composta da B., il “buco” appare come metafora della morte a seguito di una pallottola.
2) Nella propaganda sovietica l’invasione della Cecoslovacchia veniva spacciata per “aiuto fraterno”.
3) Imprecisa citazione dalla poesia di Puskin “Il profeta”.
4) Nella sua corrispondenza da Mosca “Paris-Soir” Saint-Exupèry scriveva di Stalin: ”Si può quasi credere che non esista per quanto sia invisibile la sua presenza”.
5) In russo la parola “umiràl” fa rima con la parola “gheneràl” (generale).

 

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L’inizio di una poesia può essere porta d’ingresso o di uscita, Scritto di Pier Aldo Rovatti, Poesie kitchen di Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Gallo, Mimmo Pugliese, Giorgio Linguaglossa, Foto di Kharkiv bombardata, Vi sono zone di non consapevolezza che non solo è opportuno conservare, ma che vanno attivate proprio per permettere al soggetto di entrare in gioco con se stesso, Viviamo tutti dentro una zona di compromissione referendaria dalla quale non v’è alcuna possibilità di uscita

foto KharkivMuch-loved pub destroyed

In the city of Kharkiv, in north-east Ukraine, the beloved Old Hem bar – named after the owner’s literary hero Ernest Hemmingway – was destroyed by Russian shelling.
An extraordinary image shared widely on social media showed the building which once housed the pub reduced to rubble. The owner – now in western Ukraine – told the BBC that he hopes to return one day to his city and rebuild his bar.
“We will win and Hem will rise again,” Kostiantyn Kuts said [La scorsa settimana mi sono seduto in un parco del centro città, con l’erba tagliata con cura, le aiuole in fiore, e mi sono gustato un gelato al caffè. La città  (Kharkiv) è ancora in gran parte vuota, ma il numero di colpi di artiglieria russa è sceso da dozzine al giorno a solo una manciata. Le sirene dei raid aerei continuano a ululare regolarmente, ma Kharkiv non si sente più sull’orlo della catastrofe.]

Ucraina

Pier Aldo Rovatti

«Per Carlo Sini, l’esercizio con cui dobbiamo cercare di entrare in sintonia con il ritmo del nostro esistere è una “iniziazione” del soggetto. Che cosa può significare? Chiamare la pratica della soggettività “iniziazione”, e farlo in un contesto filosofico, significa prendere congedo da un’idea semplice e tradizionale di “autocoscienza”: potenza del lumen ed efficacia degli specchi, il normale regime o registro delle immagini, o ancor meglio dell’immaginario, dovrebbero essere “sospesi”. Ma, di nuovo, che significa “sospendere” se non proprio, nell’atto stesso del sospendere (o dell’esitare), mettere in questione il dominio delle leggi ottiche del mondo-oggetto, il mondo “cosale” del pleroma che dà semantica e sintassi al nostro discorso comune?

Allora il mettere fra parentesi, e il mettere tra parentesi le parentesi in un gioco distanziante e “abissale”, non potrà essere né gratuito né disinteressato, non potrà nutrirsi alla filosofia: nessuna amicizia e amore intellettuale per la verità, nessun rilancio sublimante (uno sguardo che si alza) verrà in soccorso all’esercizio, alla possibilità pratica di esso. Infatti, se qualcosa se ne può dire (poiché ha un suo rigore), è che, rispetto alla verità comunque intesa come una forma di “possesso” (reale o possibile), cerca un evitamento, una difesa, una resistenza: e ingaggia conseguentemente una lotta, o almeno una contesa, un contenzioso. Se si tratta di iniziarsi al soggetto come a ciò che ha da prendere ai nostri occhi una “figura inaudita”, ancorché noi lo siamo ogni giorno e in ciascun istante (dato che si tratterebbe di “ascoltare” qualcuno che ci dice che non siamo noi stessi ma altro, alterità), occorre predisporre uno spazio, dei margini, un’intercapedine, una zona di vuoto.

Per “lasciar essere” le cose, dobbiamo con molta fatica alleggerirci di molta zavorra, anche se ci dispiace (ecco la fatica) perché questa “zavorra” è fatta di saperi, strumenti, piccoli e grandi apparati vantaggiosi per la nostra personale potenza. Non si tratta di rinunciare a essi per chi sa quale “povertà”: bensì di ritirare identificazioni e investimenti, lateralizzare, togliere valore e importanza. Rispetto, per esempio, al credere che “conoscere è sempre un bene”. Il problema della “sospensione”, insomma il senso da attribuire alla “iniziazione”, si condensa sulla possibilità di praticare la persuasione (penso a Carlo Michelstaedter) che vi sono zone di “non consapevolezza” che non solo è opportuno conservare, ma che vanno “attivate” proprio per permettere al soggetto di entrare in gioco con se stesso [corsivo redazionale]». 1

1] Pier Aldo Rovatti Abitare la distanza, Raffaello Cortina, 2010, pp. 6-7

https://www.bbc.com/news/world-europe-61415677?ns_mchannel=social&ns_source=twitter&ns_campaign=bbc_live&ns_linkname=61415677%26Watch%3A%20On%20patrol%20with%20the%20soldiers%20pushing%20Russia%20back%262022-05-11T17%3A39%3A49.000Z&ns_fee=0&pinned_post_locator=urn:bbc:cps:curie:asset:aabb1f38-3f8f-4483-965c-99d45e394454&pinned_post_asset_id=61415677&pinned_post_type=share

Giorgio Linguaglossa da Distretto n. 18 di prossima pubblicazione

Distretto n. 18

È entrato nella stanza all‘ora della pausa pranzo
Si è seduto sulla sedia a dondolo
– il Signor K., in maniche di camicia –
«Un Campari?».
Guardò attraverso la finestra aperta dalla quale un vento sporco rimestava gli angoli della stanza come alla ricerca di una refurtiva nascosta.
«Non c’è fretta, caro Linguaglossa, c’è posto per tutti,
per le visioni, le revisioni e le permutazioni…»

Gli impiegati di banca entravano ed uscivano dai bar
preoccupati di qualcosa d’altro
entravano ed uscivano dalle porte girevoli,
li percepivo nella nebbia come se ci fosse un filtro,
i polsini delle camicie con i gemelli in finto oro, le spille, i fermacravatte
con le cravatte dozzinali,
il fumo delle sigarette tra gli scaffali e le bibite lasciate a metà, le mani
che si stringono alle maniglie, ai corrimani…
ricordo soltanto il profumo di un vestito femminile
muschio con legno di sandalo
non saprei dire…

Esteves è uscito dalla tabaccheria, s’è voltato, mi ha visto
e mi ha salutato con un cenno;
io mi sono alzato dalla sedia, sono andato alla finestra,
e gli ho risposto: «ciao Esteves!»,
poi lui si è allontanato, la nebbia gialla è entrata nella stanza

La nebbia gialla strofina il petto sui vetri della finestra,
la pioggia fitta sui vetri
le persone negli autobus vorrebbero dire qualcosa,
si tengono ai ganci;
una donna si ripassa il rossetto sulle labbra, fa una smorfia,
si osserva allo specchietto

Rivedo Giusy attraverso un acquario
appoggiata allo stipite della porta, tra le mani un porta sigarette d’argento
esita
mi getta un’occhiata, sorride, si volta all’indietro.

«Ricordi, Alberto?, io ero con il mio terrier, “Coccobill”,
al luna park, all’Eur, sulla Grande Ruota!
stavamo così stretti!, poi venne il buio, una pioggia fitta
sullo Stanbergersee…
lo ricordi Alberto?»;
io mi schernii: «no, non lo ricordo…»,
dissi
però non le ho detto che non ero io…

La pioggia cadeva fitta sui vetri
mi venne in mente che fosse una estranea;
dissi semplicemente:
«Un caffè, ti va?», così, per prendere tempo.
«Chiudi la porta, Giusy»
aggiunsi:
«Non dimenticare di chiudere sempre la porta alle tue spalle».

Mi sporsi dalla finestra per vedere se gli alberi erano ancora lì.
«C’è troppo caldo qui, non si respira…
facciamo due passi», dissi.

La incontrai molti anni più tardi sulla Berkeley street,
la spider rossa parcheggiata tra gli alberi
il tubino aderente
il décolleté rosso fuoco

Cadeva una pioggia fitta sullo Stanbergersee.
«Ripariamoci, andiamo via di qui,
fa freddo…»,
dissi.

(2013)

Lucio Mayoor Tosi

Instant poetry Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi
13 febbraio 2018 alle 23:53 Continua a leggere

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Antonio Sagredo, Poesie da Cantos del Moncayo, Ediciones Olifante, Zaragoza, 2022, traduzione in spagnolo di Manuel Martínez-Forega, Antonio Lopez Garcia, figure in una casa, 1967

ANTONIO SAGREDO (2)

Antonio Sagredo, foto di Enzo Ferrari

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Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Alberto Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, Cantos del Moncayo, Ediciones Olifante, Zaragoza, 2022,2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia: Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della Porta): Leone Tolstoj  le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A. Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale). Ha curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema: Tumuli di Josef Kostohryz , pubblicato in «L ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e KateYina Zoufalová; i poemi: Edison (in Lozio,& ., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L ozio», 1988) di Vitzlav Nezval; (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudenkova, di Zbynk Hejda, Ladislav Novák, di JiYí KolaY, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar BYezina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo), trad. A. Di Paola e K. Zoufalová.

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…Entiende Sagredo la poesía como lugar de mediación intelectual, materializa una terminología intelectual e intelectualiza la percepción pesimista de un entorno social e histórico agresivo al que desafía. Es, en consecuencia, natural la adopción de un lenguaje interpelativo, incluso autointerpelativo (un «autodiálogo» habría dicho Clara Janés), cuyo propósito no es otro que preguntarnos sistemáticamente por qué y para qué hemos llegado hasta aquí si la historia, la literatura, la religión, el desarrollo técnico, las herramientas tecnológicas… han prestado muy poca atención al centro mismo de su razón de ser: el hombre (el Hombre): «Cantare la vita ― io? / Per la memoria degli uomini?//» concluye preguntándose en 1969 en un hermosísimo poema autorreferencial que comienza «Morirò un giorno, lontano / dalla mia casa…» Víctima lírica de cuantos acontecimientos han marginado a ese hombre trascendental, la antropología histórica a la que me refería toma cuerpo en sí mismo; es decir, que la diacronía histórica es paralela a la suya propia y, si en el precoz poema sin título que comienza «Morirò…» hace referencia a este paralelismo, la coherencia ontológica que su obra posterior pone de manifiesto representa una prueba más de ser un corpus estéticamente inquebrantable cuando Antonio Sagredo se dirige a su alter ego para celebrar de nuevo al Hombre y, en cierto modo, la asunción de que también en la derrota se gana, como atestigua su poesía más reciente.

 Cantos del Moncayo constituye un auténtico regalo inédito en español hasta hoy. Escrito en 2005 en Italia, es producto, sin embargo, de una visita que el poeta había hecho ese mismo año a España y, más concretamente, a la Comarca de Tarazona invitado por el Festival Internacional de Poesía «Moncayo» que ese año conmemoraba el IV centenario de la aparición del Quijote. En estos Cantos recorre Sagredo caminos poco explorados a través de un lenguaje en el que el símbolo desempeña una labor estética nuclear: la imaginería cristiana; la iconografía lumínica; la toponimia literaria; el nominalismo mitológico; el sarcasmo, la irreverencia de un lenguaje sin concesiones ornamentales, duro a veces, cruento, desnudo, críptico en ocasiones… que persigue, en cierta manera, deconstruir el idealismo de los fundamentos religiosos y literarios, en este caso tomando como ejemplo a nuestro ‘Ingenioso Hidalgo’ sin que por ello deje de testimoniar su profundo amor por nuestra literatura (Sagredo es, dicho sea de paso, lector entusiasta de Lorca, de Juan Ramón, de Machado, del Quijote, claro…)

(Manuel Martínez-Forega)

CANTOS DEL MONCAYO (2022)

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Antonio Sagredo da Canti del Moncayo

C’è una ferita nell’acqua: è l’ala di una colomba
nella cisterna vuota e bianca la sua ferita,
come bianca è la colomba del Moncayo.
Nel deserto non batte più l’ala cava sull’acqua,
la serpe albina deforma roventi trasparenze.

Questa colomba sbiadita e biancastra del Moncayo
s’è distesa come il Cristo del Mantegna!

E la colomba è nera – clausura!
Ossario di bandiere!
Sudario di colombe oscene!
Pietra: acqua crespata del deserto!

Cisterne di occhi equini, placidi
come i defunti nella Notte delle Ceneri!
Ecate, i ventri-volti sono vessilli di fuochi lacustri!
Per il vino dei Borgia non si scordano i veleni!

Strillano galli ferrosi i tradimenti,
come banderuole!
Sulle torri anche le lacrime hanno ossa eretiche!

Dietro le quinte e sui palchi sono violati i sipari.
Sono di viola soltanto le tue ali – labbra!
Per gli arazzi sugli altari e sulle croci:
la settimana santa è impazzita!

Ah, notte d’Aragona!

Pietra del sorriso! Corpo impunito e folle!
Mai una Madonna fu vergine due volte!
Conobbe il meretricio dell’estasi gratuita… cuore del tuo sesso
è sesso di colomba!
Sono quattro ali le tue labbra!
Muore o non muore questa colomba!?
Non muore.
Oh, è morta!
Ah, notte d’Aragona!

É risorta!
No, non è risorta!

Hay una herida en el agua: es el ala de una paloma
en el aljibe vacío, y blanca su herida,
como blanca es la paloma del Moncayo.
Ya no bate en el desierto el ala hueca sobre el agua,
el reptil albino altera las ardientes transparencias.

Esta paloma pálida y blanquecina del Moncayo
¡está tendida como el Cristo de Mantegna!

Y la paloma es negra —¡clausura!—
¡Osario de banderas!
¡Sudario de palomas obscenas!
¡Piedra: agua encrespada del desierto!

¡Aljibes de ojos equinos, plácidos
como los muertos en la Noche de las Cenizas!
¡Hécate, los rostros-vientres son el estandarte de los fuegos lacustres!
¡El vino de los Borja no olvida los venenos!

¡Cacarean gallos metálicos sus traiciones!
¡Como grímpolas!
¡Sobre las torres también las lágrimas contienen heréticas osamentas!

Detrás de las cortinas y su escenario son violados los disparos.
Solamente tus alas son púrpura —¡labios!—
En los tapices de los altares y de las cruces
¡la semana santa ha enloquecido!

¡Oh! ¡Noche de Aragón!

¡Piedra de la alegría! ¡Cuerpo impune y loco!
¡Jamás una Virgen fue virgen dos veces!
Conoció la prostitución del éxtasis gratuito… corazón de tu sexo
¡es sexo de paloma!
¡Son cuatro alas tus labios!
¿Muere o no muere esta paloma?
No muere.
¡Oh! ¡Está muerta!

¡Oh! ¡Noche de Aragón!

¡Ha renacido!
¡No, no ha renacido!

Antonio Lopez Garcia Figuras en una casa 1967

Antonio Lopez Garcia, figure in una casa, 1967
[Guardate il quadro di Antonio Lopez Garcia, si tratta di un interno, metà del quadro è immersa in una debole luce e l’altra metà in una oscurità, dalla oscurità e dalla luce emergono dei visi, due figure, sembra una vecchia fotografia un po’ sbiadita, e invece è un quadro alla maniera tradizionale, quei volti vorrebbero dirci qualcosa ma non parlano, sono diventati muti, l’abitazione dove avviene questa messa in presenza è nient’altro che un luogo inospitale, in quel luogo le persone non possono più parlare, non possono dire più ciò che volevano dire. È questa l’allegoria dell’arte moderna, che essa non può più parlare, parlarci perché hanno perduto le parole, le parole che volevano dire sono state dimenticate o rimosse…]

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Anniversario, di Fernando Pessoa (1988-1935), Lettura e video di Diego De Nadai, Un Appunto di Giorgio Linguaglossa, Non si capisce nulla della poesia di Pessoa se non si tiene bene aperto davanti agli occhi il registro del nichilismo, quel morbo invisibile che attecchì le menti degli abitanti dell’Europa di allora. Non si capisce niente del mondo di oggi se non teniamo bene aperto il quaderno del nichilismo di oggi: la crisi delle democrazie parlamentari dell’Unione Europea e dei suoi cittadini, spaesati, impoveriti e impauriti.

Diego De Nadai è nato a Cagliari il 20 luglio 1955 laurea in Lettere moderne. La carriera di voce recitante: Doppiatore , attore (maker creatore di video poesie ) nasce dopo il 1999 dopo una formazione di 5 anni con la docente di dizione e espressività vocale Ludumilla Martinucci.
Vincitore di vari concorsi nazionali a tema unico dell’accademia d’arte drammatica sezione A.D.I. “Associazione Doppiatori Italiani.”
1° classificato Napoli 2017 –Firenze e Torino 2018 – Milano 2019,
1° premio della fondazione Fernando Pessoa di Lisboa 2010 quale miglior interprete delle poesie di Fernando Pessoa in lingua italiana.
Film come attore. Io Bullo – Santa – Quando i papaveri erano rossi.
Lettore di poesia religiosa : Rai 3 per il Programma “Uomini e profeti “
Docente a Roma al “ Polmone pulsate- salita del Grillo “ di una scuola di interpretazione vocale con corsi specifici e individuali di (dizione, fonetica e espressività vocale ) con l’applicazione del metodo Stanislavskij. Ha anche organizzato concorsi di poesia.

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«La voce di Diego De Nadai è in sé una nobile arte frutto di scavo psicologico e lavoro sui testi. Arte che è un fare per veicolare messaggi, viaggio nel valore semantico delle parole, insieme al suono, al ritmo, alla modellizzazione secondaria. Non la voce è importante, ma “ciò che è nella voce” dice Aristotele. La fonogènica voce di Diego De Nadai, pregnante di pathos, racchiude in sé alcune qualità della musica e riesce a darci la Befindlichkeit, lo stato in luogo della voce; convogliare emozioni e stati d’animo in maniera più semanticamente più ricca di quanto talora faccia la musica stessa. La poesia come Dire originario diventa comunicazione quando si legge o si ascolta la poesia stessa arricchita dall’apporto emotivo di una particolarissima Befindlichkeit. La voce di De Nadai sinesteticamente convoglia nella sensibilità soggettiva dell’ascoltatore la sensiblerie della voce recitante. La voce recitante con il suo apporto emotivo incide sull’alone del significato della parola e sul suo valore semantico, contribuendo a fornire una maggiore e più profonda comprensione del testo poetico.»
(Giorgio Linguaglossa)

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Appunto di Giorgio Linguaglossa

Ci tenevo a postare questa poesia di Fernando Pessoa interpretata da Diego De Nadai. Personaggio di poeta così complesso e sfaccettato che non è possibile racchiudere in una formula. Uno dei principali poeti del novecento, uno dei massimi del modernismo europeo. Oggi mi chiedo chi siano in Italia gli eredi del modernismo europeo, se c’è stato in Italia un modernismo europeo o un movimento poetico ragguagliabile al modernismo in accezione specifica e perché e per quali ragioni in Italia non c’è stato un movimento poetico modernista. Che cosa significa oggi fare in Italia una poesia in qualche modo erede della tradizione del modernismo in un momento storico come quello attuale di fine del postmoderno e quindi di fine del modernismo. Impresa non facile e ricca di sfaccettature che richiede qualche riflessione. La nuova ontologia estetica o fenomenologia del poetico è una cosa che è in rapporto in qualche modo e misura con quella lacuna, con quella mancanza, è come se nella tradizione poetica italiana mancasse un anello, un tassello di congiunzione all’Europa, con il modernismo portoghese ed europeo, è questo il senso profondo di riproporre oggi la lettura di un poeta come Pessoa che impersona la grande crisi della cultura europea degli anni venti e trenta. Anche oggi, come allora, viviamo in un momento di grande crisi della cultura europea. Non è un caso che il poeta più influente degli anni trenta che abbiamo avuto in Italia è stato Vincenzo Cardarelli mentre in Portogallo c’era un certo Fernando Pessoa, la differenza dice tutto. La nuova ontologia estetica invece con la sua ultima produzione: la poetry kitchen assume: «La poesia non è figlia della memoria» perché la storia si è mutata in storialità. L’oblio della memoria (da cui i celebri versi di Brodskij: «La guerra di Troia è finita / chi l’ha vinta non ricordo»), segna l’inizio di una nuova poesia, di una nuova narrativa e di una nuova arte: una poiesis incentrata sulla dimenticanza della memoria e sull’oblio della tradizione.
Qui, in nuce, c’è il punto nevralgico della nuova poesia europea.
Un poeta del Dopo il Novecento non potrà più fruire dell’ausilio della memoria, dovrà imparare a farne a meno. La condizione dell’uomo nell’epoca del neoliberalismo è contrassegnata da questa duplice petitio principii: l’oblio della memoria (e della tradizione) e l’oblio della libertà, Pessoa rientra nella generazione di quell’Europa che si preparava, inconsapevolmente, a militare per la irregimentazione nei regimi illiberali e autoritari, di qui la dissoluzione dell’Io e la disintegrazione  dell’inconscio storico. Pessoa con straordinaria lungimiranza preannuncia tutto ciò.

Forse nessuno in Europa come Pessoa ha avvertito i segnali, i campanelli di allarme che tintinnavano dovunque. In Italia noi, in piena autarchia, abbiamo avuto un Cardarelli e il ritorno all’ordine de “La Ronda”, poca roba davvero. Oggi, l’epoca del neoliberalismo si nutre vampirescamente delle zone grigie dell’inconscio storico, la poiesis, priva di ricerca intellettuale, si riduce ad uno statuto ancillare e auto propositivo. Un poeta, la profondità di un poeta la si misura dalla sua capacità di captare i segnali del proprio tempo che preannunciano il futuro prossimo venturo, di sondare la crisi del proprio tempo. Non si capisce niente di Pessoa e della grande poesia europea di quegli anni se non teniamo presente la crisi dell’Europa: la poesia di Mandel’stam, Eliot, Pessoa, Montale sta lì a dimostrare che alcuni poeti avevano intravisto, molto in anticipo sui propri contemporanei, la crisi di civiltà e di valori della cultura del loro tempo. Non si capisce nulla della poesia di Pessoa se non si tiene bene aperto davanti agli occhi il registro del nichilismo e della dissoluzione dell’Io, quel morbo invisibile che attecchì le menti degli abitanti dell’Europa dagli anni trenta ai quaranta. Non si capisce niente del mondo di oggi se non teniamo bene aperto il quaderno del nichilismo di oggi: la crisi delle democrazie parlamentari dell’Unione Europea e dei suoi cittadini, spaesati, impoveriti e impauriti da una guerra insensata scatenata dalla autocrazia di Mosca. La poesia è tra le arti forse quella più idonea a rappresentare la crisi di un mondo, del nostro mondo…

da Il libro dell’inquietudine:

Mi ero alzato presto e mi attardavo a prepararmi ad esistere [147]

La generazione cui appartengo, quando è nata, ha trovato un mondo sprovvisto di fondamenta per chi abbia cervello e un cuore. Il lavoro di distruzione delle generazioni anteriori aveva fatto in modo che il mondo, sul quale siamo nati, non ci potesse dare nessuna sicurezza sul piano religioso, nessun aiuto sul piano morale, nessuna tranquillità sul piano politico. Siamo nati ormai in piena ansia metafisica, in piena ansia morale, in piena agitazione politica. Ebbre delle formule esteriori, dei meri procedimenti della ragione e della scienza, le generazioni che ci hanno preceduto hanno abbattuto i fondamenti della fede cristiana… [173]

Onto Fernando Pessoa

Fernando Pessoa

Anniversario

Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
io ero felice e nessuno era morto.
Nella casa antica, perfino il mio compleanno era una tradizione secolare,
e l’allegria di tutti, e la mia, era giusta come una religione qualsiasi.

Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
avevo la grande salute di non capire alcunché,
di essere intelligente per quelli della famiglia,
e di non aver le speranze che gli altri avevano in mia vece.
Quando arrivai ad avere speranze, non sapevo più avere speranze.
Quando arrivai a guardare la vita, avevo perso il senso della vita.

Sì, quello che fui di supposto per me stesso,
quello che fui di cuore e famiglia,
quello che fui di veglie di semiprovincia,
quello che fui perché mi amavano e perché ero bambino,
quello che fui – Dio mio!, quello che solo oggi so di essere stato…
Com’è lontano!…
(Nemmeno l’eco…)
Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!

Ciò che oggi sono è come l’umidità nel corridoio in fondo alla casa,
che provoca muffa nelle pareti…
Ciò che oggi sono (e la casa di quelli che mi hanno amato trema attraverso le mie
[lacrime),
ciò che oggi sono è che abbiano venduto la casa,
è che tutti siano morti,
è che io sia sopravvissuto a me stesso come un fiammifero freddo…

Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…
Quale oggetto d’amore è per me quel tempo, come una persona!
Desiderio fisico dell’anima di essere lì un’altra volta,
attraverso un viaggio metafisico e carnale,
con una dualità da me a me…
Mangiare il passato come pane per l’affamato, senza tempo di burro sotto i denti!

Vedo tutto ancora una volta con una nitidezza che mi rende cieco alle cose presenti…
La tavola apparecchiata con dei posti in più, con la porcellana migliore, con dei
[bicchieri in più,
la credenza con molte cose – dolci, frutta, il resto nell’ombra sotto la scansia –,
le vecchie zie, i cugini estranei, e tutto era per me,
al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…

Fermati, cuore mio!
Non pensare! Lascia il pensiero alla testa!
Oh mio Dio, mio Dio, mio Dio!
Oggi non compio più gli anni.
Perduro.
I miei giorni si addizionano.
Sarò vecchio quando lo sarò.
Nient’altro.
Rabbia di non aver portato in tasca il passato rubato!

Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!…

15 ottobre 1929 Continua a leggere

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Dopo il Moderno, Dopo il Novecento, Poesie kitchen di Giuseppe Gallo, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Il modernismo europeo in poesia come nel romanzo finisce negli anni Novanta. Zbigniew Herbert, uno dei massimi rappresentanti del modernismo europeo ha scritto negli anni Novanta: «La poesia è figlia della memoria». Herbert scrive questi versi significativi: «stammi vicino fragile memoria/ concedimi la tua infinità». Brodskij scrive in una poesia del 1988: «il trionfo della memoria sulla realtà»

Salvini Odoacre

immagine a computer del pelandrùn Salvini nelle vesti del barbaro Odoacre, il generale dei barbari che sconfisse Oreste, generale romano, e pose fine all’impero romano d’Occidente nel 476 d.C. Un magnifico esempio di come le sorti delle democrazie parlamentari d’Europa siano in pericolo e di poter naufragare in una confusa ideologia sovranista e antieuropea fatta di filo putinismo e anti atlantismo. Il pelandrùn ha detto che intende andare a Mosca a incontrare Putin, che ci vada pure magari con la maglietta quella con stampato il busto dell’autocrate russo in divisa militare. Il pelandrùn si comporta come il barbaro Odoacre, vuole mettere fine alle democrazie parlamentari perché hanno fatto il loro tempo, ma le democrazie parlamentari, pur con tutti i loro difetti, fanno paura alle autocrazie del globo… i dittatori temono le democrazie, le demonizzano, vogliono sanificarle, denazificarle, deucrainizzarle, saponificarle, derattizzarle… ma le democrazie sono più forti delle autocrazie e delle loro menzogne, e vinceranno con la forza stessa della  debole e contraddittoria istituzione chiamata democrazia.

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caro Gino Rago,

Il modernismo europeo in poesia come nel romanzo finisce negli anni Novanta. Zbigniew Herbert, uno dei massimi rappresentanti del modernismo europeo ha scritto negli anni Novanta:
«La poesia è figlia della memoria». Herbert scrive questi versi significativi: «stammi vicino fragile memoria/ concedimi la tua infinità».
Brodskij scrive in una poesia del 1988: «il trionfo della memoria sulla realtà».

La memoria, strettamente connessa alla tradizione, è vissuta dai poeti modernisti come la più grande alleata per situarsi entro l’orizzonte della tradizione, e quindi della storia. I poeti e i narratori dell’età del modernismo percepiscono la storia come tradizione e la tradizione come storia, in un nesso indissolubile; e nell’ambito della tradizione introducono il «nuovo», di qui le avanguardie del primo Novecento e le post-avanguardie del secondo Novecento. Con la fine del Novecento, con la caduta del muro di Berlino e del comunismo e la rivoluzione mediatica, le cose sono cambiate: la storia è diventata storialità e la tradizione è diventata museo, museo di ombre e di fantasmi, da difendere e da coltivare perché produce profitti.

La nuova ontologia estetica invece con la sua ultima produzione: la poetry kitchen assume: «La poesia non è figlia della memoria» perché la storia si è mutata in storialità. L’oblio della memoria (da cui i celebri versi di Brodskij: «La guerra di Troia è finita / chi l’ha vinta non ricordo»), segna l’inizio di una nuova poesia, di una nuova narrativa e di una nuova arte: una poiesis incentrata sulla dimenticanza della memoria e sull’oblio della tradizione.
Qui, in nuce, c’è il punto nevralgico della nuova poesia europea.
Un poeta del Dopo il Novecento non potrà più fruire dell’ausilio della memoria, dovrà imparare a farne a meno. La condizione dell’uomo nell’epoca del neoliberalismo è contrassegnata da questa duplice petitio principii: l’oblio della memoria (e della tradizione) e l’oblio della libertà (convertita in scelta tra più prodotti). Il primo motto di Microsoft recitava: «Where do you want to go today?», lasciando presagire la prossima ventura libertà assoluta della navigazione senza limiti nel web. Ma è la locazione dell’opera di poiesis, che ha dis-messo la memoria, l’ha derubricata in storialità, in storia minore. La parola della poesia nel tempo della storialità non fonda né stabilisce nulla tranne la propria interrogazione; un tempo forse la sua finalità era quella di dare un senso più puro alle parole della tribù, oggi questa è una domanda derubricata ad atto di fede. L’interrogazione poetica abita il traslato, il discorso spostato, indiretto, il discorso implicito, il meta discorso. La poesia abita la meta poesia. Dopo Giorgia Stecher (1929-1996) la sfiducia si è impossessata delle capacità discorsive della forma-poesia: i segni si proiettano su un fondale bianco da cui si diramano una molteplicità di significati possibili, altri segni sembrano indicare altri e diversi significati possibili. Il significato di questi segni non può essere conosciuto a priori, i segni sono enigmi che viaggiano nel tempo, o meglio, si diramano in più temporalità, e l’interpretazione di ciò che il tempo dice diventa sempre più problematico. Il tempo dice: nulla. Dunque, nichilismo.

La «secolarizzazione» ha investito il discorso poetico, lo ha privato, da un lato, del radicamento ad uno sfondo metafisico-simbolico, dall’altro, lo ha reso, nelle sue versioni epigoniche, sempre più riconoscibile, lo ha sproblematizzato. La topologia ci dice che tutti i luoghi sono simili, si assomigliano, gli aeroporti, i cavalcavia, le stazioni ferroviarie, i cinema, gli interni ammobiliati delle nostre abitazioni, le carlinghe degli aerei, i portabagagli delle nostre automobili, le nostre valigette ventiquattro ore… tutti i luoghi della nostra vita quotidiana si assomigliano, viviamo in non-luoghi, siamo noi stessi il precipitato dei non-luoghi, di non-eventi, viviamo noi tutti in temporalità terribilmente somiglianti. Il nostro modo di esistenza ha prodotto la moltiplicazione degli istanti, la moltiplicazione delle temporalità, la moltiplicazione delle immagini. Che cos’è l’immagine? L’immagine è l’istante. Che cos’è l’istante? Per Parmenide l’istante, o meglio l’istantaneo è: «L’istante. Pare che l’istante significhi(…) ciò da cui qualche cosa muove verso l’una o l’altra delle due condizioni opposte [del Passato e del Futuro]. Non vi è mutamento infatti che si inizi dalla quiete ancora immobile né dal movimento ancora in moto, ma questa natura dell’istante è qualche cosa di assurdo [atopos] che giace fra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo…». (Parm., 156d-e).

Questa natura è una finzione, una petizione, una involontaria allegoria della nostra prigionia. Questa finzione narra la nostra condizione ontologica: siamo davanti al video e ci reputiamo presuntivamente liberi. Tutto il resto, ovvero, il reale, ci appare come degli epifenomeni laterali, periferici, consideriamo libertà la non-libertà.
Nell’oblio della libertà c’è tutta l’impossibilità per un poeta di oggi di scrivere come i poeti del modernismo europeo che erano guidati dalla stella polare del valore assiologico della parola «libertà». Tuttavia, come scrive Agamben, il naufragio «apre il luogo della parola, come quello in cui si può soltanto parlare e non sapere».

La dizione «poesia da frigobar», usata da Marie Laure Colasson, contrassegna la poesia del Dopo il Moderno, la crisi ormai ha assunto dimensioni planetarie…

(Giorgio Linguaglossa)

Antonio Sagredo

Mi portava via il Ponte dei Tormenti un non so che di me dal mio canto,
e ogni pietra della mia voce era il viatico per una discreta eternità – d’argilla
era la letania della notte che beffava con le note i miei capricci e il riso,
e conteggiava sul selciato i furori e i singulti – Viole d’amore dei miei occhi!
Tutti i passi erano meno di un’epoca e più di un mosaico greco!

E la caduta dei volti e delle maschere come petali dai balconi, i saluti recitati,
gli addii dai treni di confino, le gonfie glandole dell’infanzia di Pietroburgo.
I poeti sono martiri del futuro, e la loro parola è già oltre torture imprevedibili.

Applausi, e sul palco il can-can di despoti –
spettri ossuti del Moulin Rouge!
Torbidi tempi io vi sento… sipario!… ciak! –
siete pronti al trionfo delle apocalissi?

Giuseppe Gallo
28 aprile 2022 alle 9:25 

Omaggio alla “Pallottola” di Gino Rago

Il proiettile, dopo aver sorvolato la Muraglia cinese,
gli era entrato nell’occhio sinistro,
ma né Vic, né Mary se ne erano accorti.
-Mamy…
-Sì…
-Ho una pupilla ballerina!
-No! No! Ha l’occhio pigro! Sentenziò l’oftalmico.
-No, ribatté la madre, è un tentativo di suicidio.
-A quest’età? Si oppose il padre.
-Sì, perché mio figlio è molto precoce!
Jerry, comunque, gironzolava per casa come se niente fosse.
L’occhio pigro continuava a essere pigro
e non si curava di inseguire le farfalle
o le nuvole che si accoccolavano sulle sue spalle
invece che sulle antenne della città.
-Come farai a vivere
se non guardi sopra e sotto, sia a destra che a sinistra?
Si preoccupò la sorella.
-Non so… Perché non me la togli tu questa pallottola?
-Io?
-Tu, sì!
Allora Terry gli strinse il viso tra le mani,
afferrò il proiettile con gli incisivi e gli diede uno strattone.
E fu guerra tra Russia e Ucraina.

Mauro Pierno
2 Maggio 2022 alle 13:33 

Scappa di mano persino il sale. Da un buffet all’altro viaggia la fragranza dei cingoli. (F.P. Intini)

Ma poi non si ferma, da vero canto di disperazione. (Lucio Mayoor Tosy,)

una Bomba H, quella al neutrone che lascia le cose intatte e uccide gli esseri viventi (G. Linguaglossa)

Chi dovrebbe provvedere è in vacanza e non ha nessuna intenzione di tornare. (F.P. Intini)

lavatrici che si pensano libere dal giogo della centrifuga. (F.P. Intini)

la guerra di invasione di uno stato sovrano come l’Ucraina ha reso tutto ciò assolutamente evidente. (M.L. Colasson)

due cosmonauti russi i quali hanno issato a bordo della navicella spaziale la bandiera con la Z impressa. (M.L. Colasson)

aumentano i segnali che il regime si sta trasformando da autoritario a totalitario.( Greg Yudin )

leading from behind (Barack Obama)

L’America sarà l’Arsenale della democrazia». (Franklin Delano Roosevelt)

Ogni anno, il genere umano produce più di un trilione di immagini.(Linguaglossa)

E poi c’è questo gerundio che è sospettoso, perché indica una azione in atto (Sagredo)

Chissà che caldo fa in Africa! “ (A.Cechov).
E l’assassinio della Anna Politkovskaja non fu forse una regalo che si fece nel giorno di compleanno (Antonio Sagredo)

Le sue dita grasse sono pingui come vermi,
le sue parole sicure come pesi.(Osip Mandel’stam)

Scipione da grande generale aveva vinto ma si guardò dalla ambizione di voler stravincere.(Linguaglossa)

I cannoni della pandemia sono rimasti per qualche istanti vuoti.(F.P. Intini)

Una nuova genia d’animali viene fuori dai boschi di Chernobyl. (F.P. Intini)

Dvorský Petr Král a un certo punto della sua ermeneutica parla di poetica come “costellazione di parole” :(Gino Rago)

i cavoli da 81 a 99 rubli al kg
le patate da 50 a 53 rubli al kg. (Giorgio Linguaglossa)

TUTTO SI GENERA NEL CREMLINO E TUTTO DEGENERA NEL CREMLINO .(Sagredo)

Pacchi di odio legati con lo sputo.
-Tutto in ordine però-, rassicura l’airbag.”
(Francesco Paolo Intini)

le parole iperbariche, quelle stordite e istupidite da una immissione di ossigeno ad altissima densità (Marie Laure Colasson)

Sulla entalpia, cito la Treccani (Giorgio Linguaglossa)

partendo da James Joyce e Virginia Woolf, per il romanzo, da Ezra Pound e T. S. Eliot, per la poesia, (Rago)

E ci sovvennero i geroglifici incisi,
e le parole non identificate,
(Giuseppina De Palo)

Poi sono giunti dei presunti sacerdoti o qualcosa del genere a confondere i più le acque.(Sagredo)

Con la fine del Novecento, con la caduta del muro di Berlino e del comunismo(Linguaglossa)

o canto di disperazione. (Lucio M. Tosy)

Tra un po’ tolgo gli orpelli…

Mauro Pierno
2 Maggio 2022 alle 13:40 

Scappa di mano persino il sale. Da un buffet all’altro viaggia la fragranza dei cingoli.

Ma poi non si ferma, da vero canto di disperazione.

una Bomba H, quella al neutrone che lascia le cose intatte e uccide gli esseri viventi.

Chi dovrebbe provvedere è in vacanza e non ha nessuna intenzione di tornare.

lavatrici che si pensano libere dal giogo della centrifuga.

la guerra di invasione di uno stato sovrano come l’Ucraina ha reso tutto ciò assolutamente evidente.

due cosmonauti russi i quali hanno issato a bordo della navicella spaziale la bandiera con la Z impressa.

aumentano i segnali che il regime si sta trasformando da autoritario a totalitario.

Leading from behind
L’America sarà l’Arsenale della democrazia

Ogni anno, il genere umano produce più di un trilione di immagini.

E poi c’è questo gerundio che è sospettoso, perché indica una azione in atto

Chissà che caldo fa in Africa!
E l’assassinio della Anna Politkovskaja non fu forse una regalo che si fece nel giorno di compleanno?

Le sue dita grasse sono pingui come vermi,
le sue parole sicure come pesi.

Scipione da grande generale aveva vinto ma si guardò dalla ambizione di voler stravincere.

I cannoni della pandemia sono rimasti per qualche istanti vuoti.

Una nuova genia d’animali viene fuori dai boschi di Chernobyl.

Dvorský Petr Král a un certo punto della sua ermeneutica parla di poetica come “costellazione di parole”

i cavoli da 81 a 99 rubli al kg
le patate da 50 a 53 rubli al kg. (Linguaglossa)

TUTTO SI GENERA NEL CREMLINO E TUTTO DEGENERA NEL CREMLINO.

Pacchi di odio legati con lo sputo.
-Tutto in ordine però-, rassicura l’airbag.

le parole iperbariche, quelle stordite e istupidite da una immissione di ossigeno ad altissima densità.

Sulla entalpia, cito la Treccani

partendo da James Joyce e Virginia Woolf, per il romanzo, da Ezra Pound e T. S. Eliot, per la poesia

E ci sovvennero i geroglifici incisi,
e le parole non identificate,

Poi sono giunti dei presunti sacerdoti o qualcosa del genere a confondere i più le acque.

Con la fine del Novecento, con la caduta del muro di Berlino e del comunismo

o canto di disperazione.

(Lucio Mayoor Tosi)

 

1 Maggio 2022 alle 19:16 
caro Gino,

ci restano le parole iperbariche, quelle stordite e istupidite da una immissione di ossigeno ad altissima densità. Oggi abbiamo le parole ossigenate, ibrididatizzate, ibridizzate. La poesia di Intini fa incetta in grande quantità di queste parole mitridatizzate e addomesticate e le fa cozzare le une contro le altre come avviene con i fotoni all’interno del Large Hadron Collider di Ginevra che generano una energia miliardi di volte superiore a quelle immessa nel circuito.

In medicina: terapia iperbarica, tecnica terapeutica che prevede la somministrazione di miscele gassose costituite in prevalenza da ossigeno a pressione superiore a quella atmosferica, utilizzata per aumentare l’ossigenazione del sangue in pazienti colpiti da embolia gassosa. Camera iperbarica, speciale ambiente con pareti a chiusura ermetica, in cui si applica questo tipo di terapia.

Leggo con apprensione che è stato ferito il capo di stato maggiore delle forze armate russe il gen.le Gerasimov, l’inventore della guerra ibrida, ma il generale russo non poteva supporre che anche gli ucraini dispongono di un LHC di altissima qualità e precisione in grado di colpire i fotoni avversari con indubbia efficacia.

(Marie Laure Colasson)

2 Maggio 2022 alle 7:57 
cara Marie Laure,

in quanto alla guerra dei fotoni dell’HLC e alla guerra teorizzata da Gerasimov, la guerra ibrida, mi permetto di notare che anche la NOe ha teorizzato e praticato la iperbarizzazione delle parole ottenuta in una camera stagna mediante la ipermitridatizzazione e la iperibridazione delle parole, che è quella cosa lì che sta facendo in maniera encomiabile Francesco Paolo Intini.

Sulla entalpia, cito Francesco Intini:

«Il conto è fatto in entalpia ma bisognerà convertirlo in entropia. Ce la mettono tutta i ragazzi prodigi per la relazione semestrale. Tecnezio e Piombo seguiti da Titanio e Ferro lavorano sodo per tutta la notte ma il risultato finale è sempre lì che sfugge. Un po’ di massa non si converte al nichilismo.»

Sulla entalpia, cito la Treccani:

«[ἐνϑάλπω «riscaldare»]. – In termodinamica, funzione (detta anche impropriam. contenuto termico o calore totale) definita come somma tra l’energia interna e il prodotto della pressione per il volume di un fluido termodinamico; ha le dimensioni di un’energia e sua unità di misura SI è quindi il joule (J).»

Siamo entrati in quella dimensione fotosferica e fotogrammatica dove le cose (e le parole) che accadono sembrano accadere in vitro, in virtuale, all’interno della superficie di un monitor. Il reale è scomparso, ma non per far luogo all’Iperreale come asseriva Baudrillard ma per far luogo al minus quantum, al meno di reale. Siamo nella dimensione teorizzata da Zizek del «soggetto scabroso» di cui la poesia di Intini è il risultato ribaltato, un soggetto de-realizzato.

(Giorgio Linguaglossa)

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Giuseppe Gallo, nato a San Pietro a Maida (Cz) il 28 luglio 1950 e vive a Roma. È stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Negli anni ottanta, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, di Roma. Delle varie Egofonie,  elaborate dal gruppo, da segnalare Metropolis, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, rappresentata al Teatro “L’orologio” di Roma. Sue poesie sono presenti in varie pubblicazioni, tra cui Alla luce di una candela, in riva all’oceano,  a cura di Letizia Leone (2018.); Di fossato in fossato, Roma (1983); Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, Roma, 2016, con la giornalista Rai, Marinaro Manduca Giuseppina, storia e antropologia del paese d’origine. Ha pubblicato Arringheide, Na vota quandu tutti sti paisi…, poema di 32 canti in dialetto calabrese (2018). È redattore della rivista di poesia “Il Mangiaparole”. È pittore ed ha esposto in varie gallerie italiane.

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.
Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Alberto Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile.Come articoli o saggi in La Zagaglia: Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984,(pseud. Baio della Porta): Leone Tolstoj  le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A. Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).Ha curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema: Tumuli di Josef Kostohryz , pubblicato in «L ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e KateYina Zoufalová; i poemi: Edison (in Lozio,& ., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L ozio», 1988) di Vitzlav Nezval; (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rud enkova, di Zbynk Hejda, Ladislav Novák, di JiYí KolaY, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar BYezina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo), trad. A. Di Paola e K. Zoufalová.

 

Dopo il Moderno, Dopo il Novecento, Poesie kitchen di Giuseppe Gallo, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Il modernismo europeo in poesia come nel romanzo finisce negli anni Novanta. Zbigniew Herbert, uno dei massimi rappresentanti del modernismo europeo ha scritto negli anni Novanta: «La poesia è figlia della memoria». Herbert scrive questi versi significativi: «stammi vicino fragile memoria/ concedimi la tua infinità». Brodskij scrive in una poesia del 1988: «il trionfo della memoria sulla realtà»

25 commenti

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Una poesia di Francesco Paolo Intini, Indovina chi intinge nel piatto del ragù, È il collasso dell’ordine simbolico ciò di cui tratta la poesia, il collasso dei significati; la poesia ha cessato di essere una «posizione di significati» per diventare una «indisposizione dei significati», la guerra di invasione di uno stato sovrano come l’Ucraina ha reso tutto ciò assolutamente evidente, Il conto è fatto in entalpia ma bisognerà convertirlo in entropia

Francesco Paolo Intini

INDOVINA CHI INTINGE NEL PIATTO DEL RAGÙ

Premessa:
“Parole che hanno un nucleo instabile, su cui è scritto “FRAGILE”
Viaggiano da un paese all’altro. Piccoli neutroni fermano alle frontiere
Si mostrano gentili, rovistano tra i quark. Nel portabagagli le provviste:
Pacchi di odio legati con lo sputo.
-Tutto in ordine però-, rassicura l’airbag.”

Il sole pascola i suoi pianeti al largo di Andromeda ma un protone si alleva come un pollo.
-Dice l’amministratore delegato dei Tiraemolla-
Poi è difficile distaccarsene, pensare alla fine tragica, alle costruzioni di penne iridescenti.
Il canto mattutino che diventa brace. Che ne sarà delle creste maestose?
L’orrenda bocca che si solleva dal fiero pasto.

La confraternita dei neutroni ha un bel daffare ultimamente viaggia da un continente all’altro
E che fatica con Americio. Tutti quei quark sempre in movimento, a buttar giù un nucleo e piantaci vento.

Senza alcuna referenza con una mossa scritta nel DNA dell’agnello procede il timido rosmarino. -Ci sono anch’io sussurra. Il tegame di patate non è completo se non ci metti l’Austria-Ungheria.

Princip ha portato il forno alla temperatura critica.
La massa è lì che attende, effervescente, lievitata al punto giusto.

Mendelevio da par suo prepara soffritti.
Cosa vuoi che siano due o tre nuclei in meno nell’olio bollente?
I ragazzi si scaldano ogni giorno. L’accademia pullula di pulcini pronti a sacrificare il tramonto dell’occidente, la pasta asciutta, l’ energia cinetica chiusa nelle matrioske.

Il tempo cola dalla pentola, come burro si sciolgono le lancette.
Per ogni clessidra che si perde ci sono dieci meridiane fresche di giornata.

Scappa di mano persino il sale. Da un buffet all’altro viaggia la fragranza dei cingoli. Un barattolo di marmellata venduto al prezzo di un carrarmato. Una pantofola vale più di un missile terra aria. Via di casa dunque l’energia potenziale. La mite acqua partorirà sbarchi di marines. Schiuma da barba e candeggina diventano generali a sei stelle.

Il conto è fatto in entalpia ma bisognerà convertirlo in entropia. Ce la mettono tutta i ragazzi prodigi per la relazione semestrale. Tecnezio e Piombo seguiti da Titanio e Ferro lavorano sodo per tutta la notte ma il risultato finale è sempre lì che sfugge. Un po’ di massa non si converte al nichilismo.

La tavola è imbandita. Ciascun elemento si raccoglie in preghiera.

Un antiuniverso interviene con pallottole antibomba.
Qui si svendono neutroni e grattacieli. Tatuaggi Sioux al comando dei continenti. Il codice civile degli Apaches. I neonati, squartati e bruciati nei teepee governano il mondo.
Si è fieri di essere libri tra bisonti.

Organesson si stringe al petto del Carbonio. Si raccontano grandi cose accadute ai confini dell’universo. Ossigeno fa la sua narrazione di un miliardo di anni. Di quando si esagerava nella produzione dei polmoni. Troppo grandi, ingombranti, feroci.
E gli errori di progettazione. Quei figli nati senza una ragione con la devastazione in corpo.
Ma ora ci sono e bisogna calmarli, amarli, educarli alla vita di caserma.

Lucio Mayoor Tosi
26 aprile 2022 alle 15:38

La poesia prende il volo dopo attimi di prosa incerta. Ma poi non si ferma, da vero canto di disperazione. Versi che sono idee, come “Tatuaggi Sioux al comando dei continenti”. Curioso modo pubblicistico di concepire poesia. Ma lo sdegno arriva eccome.

Giorgio Linguaglossa
27 aprile 2022 alle 7:53

alla fin fine la poesia di Intini non è altro che una tipica poesia che viene dopo una deflagrazione nucleare, ma il fatto è che la bomba è già esplosa da tempo e non ce ne siamo accorti, si è trattato di una Bomba H, quella al neutrone che lascia le cose intatte e uccide gli esseri viventi. Una bella trovata, non c’è che dire, dell’Inner circle di Putler e dei suoi accoliti.
Intini è tra i poeti NOe quello che più di tutti si è avventurato in quella zona grigia dei linguaggi significazionisti dove sono caduti tutti i significati, proprio tutti, così che non ne è rimasto più niente. Una poesia per il tempo di guerra, perché non ci sarà più alcun Dopo Guerra dopo questa della Bomba al Neutrone, e la poesia della NOe ne è rimasta fulminata. Già, siamo arrivati al dunque: la Russia ha disposto che dalle ore 8.00 di questa mattina verrà interrotta l’erogazione di gas russo alla Polonia e alla Bulgaria. E cos’altro è questa roba qui se non una dichiarazione di guerra alla Polonia e alla Bulgaria, è inutile fare come fa lo struzzo che all’avvicinarsi di un pericolo ficca la testa sotto la sabbia, qui siamo già da un pezzo dentro una guerra dichiarata da Putler e i suoi accoliti. La poesia di Intini e quella dei poeti post-significazionisti presenti in questo post è la dimostrazione che siamo già entrati nel Dopo Guerra.

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Parole nel tweet di Mimmo Pugliese

Lucio Mayoor Tosi
27 aprile 2022 alle 8:56

Se il conflitto si estenderà, la rabbia crescerà tra la gente, il prezzo della guerra lo pagheranno gli interventisti di oriente e occidente.

Francesco Paolo Intini
28 aprile 2022 alle 12:02

Caro Giorgio,

È vero, non c’è significato che tenga. È come se dall’arco della porta sia saltata via la chiave di volta. Pericoloso starci sotto, altrettanto per l’intero palazzo. Chi dovrebbe provvedere è in vacanza e non ha nessuna intenzione di tornare.
Tu telefoni ma risponde una segreteria telefonica e dall’altro capo non sai se la voce diamantina che risponde solo alle proprie angosce è di Putin o Biden o Johnson o altri di pari durezza.
L’insulto, la falsità, la malafede il complotto, il tradimento sono zombi che attraversano le strade dell’Europa. Halloween imperversa da mesi nei salotti e nelle piazze.
Uomini trafitti da lance enormi, appartenenti a tutte le epoche schiacciano bottoni che innescano fiamme e bombe.
Ad aprile sono tornati gli sterpi e maggio si preannuncia il mese dei morti. Nascono tante varietà di crisantemi nei giardini, insistenti come cookies e i ragazzi imparano dalla pubblicità che forse a novembre farà primavera.
Il significato era proprietà privata dei poeti, la casa in cui si allevavano i versi che ammaliavano le pietre scagliate contro da baccanti invidiose, ma una specie di radiazione malefica, ha fatto nascere tritolo da un uovo.
E dunque addio alla vecchia alchimia dei suoni, delle allegorie, delle allitterazioni, della metrica , dei significati alti che accompagnavano i grandi della terra, allietando i loro pranzi e il loro passaggio sotto l’arco del trionfo. L’alessandrino si è mescolato ad una formula di detersivo e dal nuovo Dna è venuta fuori un sapone che interessa il corpo ed il suo bell’aspetto davanti allo specchio.
Chi altri si incontra se non questi monumenti dell’IO che camminano a testa alta potenziandosi di dolcezza ortofrutticola senza sporcarsi le mani di pile scariche e bucce di patate?
Già, tutto dipende dal Tempo che si attraversa e in questo il futuro sembra proprio che stia alle spalle del presente.
Imparare a parlare al contrario svela dunque il segreto del significato. Così diventa naturale sostituire l’identità con la contraddizione e la poesia con lo SCRASH di un auto che si libera delle lamiere.
Il vecchio Orfeo riposa suo malgrado nel greto del fiume sacro e a dettar legge sono furie scatenate con la tuta mimetica del neutrone capace di rompere tutto ma sempre in sintonia con i postumi del nucleo rotto e sepolto.
Non sono gli alberi della Tracia, incatenati al suolo dalla maledizione ma funghi malefici che spuntano qui e là. Una nuova generazione assaggia quest’aria di cesio 137 e lavatrici che si pensano libere dal giogo della centrifuga.
Vuole essere guerriglia senza pretesa di Potere e ogni tanto scrive un report, che è poi fare il punto della situazione senza senso alcuno, in versi più antartici che antalgici tanto meno nostalgici.

Giorgio Linguaglossa
29 aprile 2022 alle 9:34
caro Francesco,

scrive Marie Laure Colasson:

«i poeti kitchen si muovono in quella zona grigia di indiscernibilità e di indistinzione in cui tutte le vacche sono bigie, cioè, in cui tutte le parole sono bigie… dove non si possono più scegliere le parole se non per approssimazione o per scommessa o per esservici inciampati, per ritagli, per scuciture, perché il mestiere kitchen si muove tra le scuciture delle parole…» Continua a leggere

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Disinformazia, Nei testi kitchen gli enunciati sono ricchissimi di disinformazia, alludono sempre a qualcosa di diverso da ciò che indicano, Odessa, foto di Stefano Rosselli, Poesie kitchen di Marie Laure Colasson, Alfonso Cataldi, Raffaele Ciccarone

Odessa

Odessa: la vita al tempo della guerra, foto di Stefano Rosselli – Gli abitanti di Odessa continuano a condurre la stessa vita che facevano prima dell’inizio della guerra di invasione. Subito dopo il violento bombardamento alla raffineria di petrolio le vie si sono riempite di persone, i caffè sono sempre stati aperti, i negozi anche, la gente passeggia in mezzo ai cavalli di frisia e ai palazzi bombardati. È un modo inconscio per sconfiggere l’invasore russo: non mostrare paura, rispondere alla paura della morte con l’amore per la vita che continua… Le democrazie parlamentari, pur con tutti i loro difetti, fanno paura alle autocrazie del globo… I dittatori temono le democrazie, le demonizzano, vogliono sanificarle, denazificarle, deucrainizzarle, saponificarle, derattizzarle… ma le democrazie sono più forti delle autocrazie e delle loro menzogne, e vinceranno con la forza stessa della democrazia. È appena iniziata la spartizione geopolitica del globo tra le democrazie da una parte e le autocrazie dall’altra… e la poesia kitchen è stata colpita sulla via di Odessa…

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Testi kitchen
sulla disinformazia

Nei testi kitchen gli enunciati sono ricchissimi di disinformazia, alludono sempre a qualcosa di diverso da ciò che indicano, la disinformazia forma il cuore stesso degli enunciati e dei contro-enunciati :

 Covid, l’Oms “raccomanda fortemente” l’antivirale di Pfizer: ha meno rischi e riduce i ricoveri Il Paxlovid dovrebbe essere preferito al Molnupiravir o al Remdesivir della Merck.
La combinazione di Nirmatrelvir e Ritonavir «è il farmaco d’elezione» per i pazienti non vaccinati, anziani o immuno compromessi, secondo un articolo del British Journal of Medicine. Per lo stesso tipo di pazienti e sintomi, l’Oms ha anche emesso una «debole raccomandazione» per il Remdesivir del laboratorio americano Gilead, che aveva precedentemente sconsigliato.

 Il Paxlovid dovrebbe essere preferito al Molnupiravir o al Remdesivir della Merck, così come agli anticorpi monoclonali.

 La dottoressa Janet Diaz, capo del team di risposta clinica per il Covid-19, in un briefing con la stampa a Ginevra ha detto che il Paxlovid «riduce l’ospedalizzazione più delle alternative, ha meno rischi potenziali rispetto all’antivirale molnupiravir ed è più facile da amministrare rispetto alle opzioni endovenose come il Remdesivir e le terapie anticorpali.

 Questa raccomandazione non si applica alle donne incinte e che allattano. Inoltre, la verità ha le stesse diottrie di chi le guarda e la lotta di classe inizia già all’asilo, come affermato dalla scrittrice Silvana Baroni.

 Il missile intercontinentale Sarman di Putler corre ad una velocità 10 volte superiore di quella del suono fino a a 18.000 km con o senza testata nucleare e sfugge alle difese missilistiche della Nato.

La Moskva è diventata una moscà.

Una overdose di Remdesivir la si può prendere ad Abukir.

È stato testato dal Signor Putler un budino all’isotopo di polonio in grado di abbattere in un sol colpo una intera brigata aviotrasportata della Nato.

 Il Signor Putler e il Signor Salvini una volta erano dei bambini.

 «Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari».
(Anton Pavlovic Cechov)

Se in una poesia appare una bianca geisha, bisogna contemplarla.

Etc. etc. etc…

(Giorgio Linguaglossa)

Marie Laure Colasson

… i poeti kitchen si muovono in quella zona grigia di indiscernibilità e di indistinzione in cui tutte le vacche sono bigie, cioè, in cui tutte le parole sono bigie… dove non si possono più scegliere le parole se non per approssimazione o per scommessa o per esservici inciampati, per ritagli, per scuciture, perché il mestiere kitchen si muove tra le scuciture delle parole, e questo è evidentissimo nelle poesie dei quattro autori pubblicate in questo post, dove ciascun autore imprime la propria soggettività sul linguaggio come il proprio sigillo di inautenticità. Chi cerca l’inautenticità del linguaggio prima o poi trova invece l’autenticità, è un momento dialettico e un momento contraddittorio insieme, è come nel gioco del gatto e con il topo, le parole sfuggono fin quando il gatto tenta di afferrarle, ma non possono più sfuggire al gatto che non tenta più di acciuffarle.
È questo il segreto della poesia kitchen.

1.

Un cocon de bave dorée prend le train l’avion
traverse les frontières laisse des traces

Une encre noire se ballade en gondole
les fanfares tristement résonnent

La blanche geisha boit son thé dans un dé à coudre
se parfume au bois de santal

Les danseurs de Kathakali roulent
dans les cercueils les sarcophages se momifiant

Marie Laure et la blanche geisha
jouent à la balle avec le cocon de bave dorée

Les ampoules éclatent le metal se transforme
le cocon s’abreuve l’humanité se liquéfie

Un bouclier baigne l’obscurité
restent seulement quelques traces

*
Un bozzolo di bava dorata prende il treno l’aereo
attraversa le frontiere lascia delle tracce

Un inchiostro nero deambula in gondola
le fanfare tristemente risuonano

La bianca geisha beve il suo tè in un ditale d’avorio
si profuma al legno di sandalo

I danzatori di Kathakali rotolano
nelle bare i sarcofagi mummificano

Marie Laure e la bianca geisha
giocano a palla con il bozzolo di bava dorata

Le ampolle scoppiano il metallo si trasforma
il bozzolo si abbevera l’umanità si liquefa

Uno scudo bagna l’oscurità
restano soltanto alcune tracce

Alfonso Cataldi

Saltellamenti tra i piani

«Cambiare i piani nella disciplina della dentatura
alleggerisce le aspettative della cena»

Piero aggredisce il sentiero degli Appalachi
come l’ultimo capitolo che non riesce a consegnare.

Nel formicolio intorno ai giochi del parco
Giacomo chiede «per favore, posso scivolare?»

Ringrazia e corre tra le braccia della madre.
Cosa resterà di una caduta sui pattini

protetti da casco e ginocchiere?
L’inconscia beatitudine della distrazione.

-Gli arti assumono la forma dell’inconoscenza-
annota Eudora Fletcher, a margine di una lacerazione.

Mistero Hifeng turba l’ormai deserta Piazza del Duomo
su Second Life, esponendo le sue sculture da otto euro l’una.

Gesù o Barabba libero

Mai vista una strategia così spudorata
puntare solo sulla consapevolezza della fortuna.

Le controverse rotondità della regina di picche
vennero eterordinate dalle incredule smerigliature.

L’eterogenesi arriccia uno sbadiglio la sera di Natale
calano le perplessità acquisite dall’alta definizione

– Preferisci una mano a ramino o i tarocchi?
– Che mi smonti la plafoniera dell’androne.

Un quarto di giro antiorario. Una leva eccentrica o tre viti.
Nureyev si dilegua da una scala di servizio

troppo alta per gli agenti del Kgb
e inaccessibile, come da regolamento condominiale da scrivere

approvare, firmare e affrancare.
Il sole soffocante sul consesso non lasciava alternative.

La masnada improvvisò una risata
nell’ultimo trasloco è andata persa la filigrana.

La boccia fa una carezza al boccino e si allontana verso la cassiera

Gesù o Barabba libero
al minimarket non fu mai pronunciato.

 

Raffaele Ciccarone

Set 109

Quando si fece buio l’ombra sparì intimidita. Il regista,
letto il copione, impose a Spider-Man di saltare senza fili
tra i grattacieli.
Gatto Silvestro non riesce a toccare Tweety
ha speso tutti i peli della lingua.
Pur tra incomprensioni Charlie Brown porta a spasso Snoopy
che preferisce fare la siesta.
Alla fine Marvin il Marziano si accontenta di pane
pomodoro e olio, con origano e sale.
Winnie The Pooh finisce il miele che Cappuccetto Rosso porta
ogni giorno alla nonna.
Gli Youtubers mettono il pollice verso; con la PS4
giocano a Minecraft, un creeper lampeggia e scoppia.
Altri Youtubers guardano i sogni delle formiche.
Pericle gira tra le colonne del Partenone con Alcibiade
discutendo della legge.
Un gruppo di aspirapolvere raccoglie la polvere, la rende
a una stampante 3D che ricicla tutto in oggetti.
Non è magnifico! – esclama Mr Kitchen.
Arianna consegna il filo rosso di Scozia a Teseo, che salva
dal Labirinto il Minotauro, poi lo porta in tournè nei teatri
per fantastici meravigliosi spettacoli.

Raffaele Ciccarone, nato a Bitonto (Ba) nel 1950, consegue la laurea in Economia e Commercio a Bari si traferisce a Brescia, ove insegna per pochi mesi. Poco dopo si trasferisce a Milano, lavora presso una primaria banca sino alla maturazione dell’età pensionabile. Dipinge, ha pubblicato con pseudonimo poesie su piattaforme on line. Nel 2022 ha pubblicato tre racconti col titolo di: Sull’orlo, con Porto Seguro Editore.

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. È in corso di stampa la sua prima raccolta di poesia, Les choses de la vie

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Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Omaggio contemporaneo Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.

 

 

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La vita è troppo psicopatica per la psicologia, troppo romanzesca per il romanzo, troppo impoetica per la poesia, la vita fermenta e si decompone troppo rapidamente per poterla conservare a lungo in frigorifero, la vita è impresentabile, intrattabile e irrappresentabile, Aforismi di Silvana Baroni: La lotta di classe inizia già all’asilo, Poesie kitchen di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Raffaele Ciccarone, Mimmo Pugliese, Acrilico di Marie Laure Colasson, astratto concreto, 60×60 cm, 2022

Marie Laure Colasson acrilico 60x60 2022Marie Laure Colasson, acrilic, 60×60, 2022

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Una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità tra le parole

di Marie Laure Colasson

La vita è troppo psicopatica per la psicologia, troppo romanzesca per il romanzo, troppo impoetica per la poesia… la vita fermenta e si decompone troppo rapidamente per poterla conservare a lungo in frigorifero… la vita è impresentabile, intrattabile e irrappresentabile.
Asserire la tesi secondo cui la poesia debba affidarsi ai significati e ai significanti perché solo in essi si può cantare e perché sono l’ossatura del linguaggio, come ha pensato il modernismo nel corso del novecento e in questi ultimi anni di normologia della ragione, non può che incartarsi nelle aporie della propria ambiguità. Chi pone così la questione considera le pratiche discorsive dipendenti dalla parte del significato e del significante, le pensa in modo erroneo e non sa altrimenti pensarle se non dalla parte del significato, non è uscito da quell’incantesimo dal quale proprio il pensiero delle pratiche discorsive intendeva liberarlo. Uscire fuori dal significato e dal significante come fa la poesia kitchen, significa fare poesia finalmente liberata da una allucinazione consolatoria e totalitaria che ha impoverito il linguaggio poetico.

Una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità si stabilisce tra le parole e le frasi come se ogni singola unità frastica attendesse di trovare la propria giustificazione dalla unità frastica che immediatamente la precede o la segue.

Una «azione retrograda», una azione ritardata, ritardante e anticipatoria, una zona altamente compromissoria e auto contraddittoria

Se il battito delle ali di una farfalla a Vladivostok ha effetti sulle maree nel Mediterraneo, figuriamoci gli effetti che una guerra in Ucraina come quella in corso può avere persino nel nostro frigorifero e nel serbatoio di benzina della nostra auto.
La Rückfrage (il domandare all’indietro di Heidegger), è il domandare di cui si deve appropriare il nuovo discorso poetico. Ma anche il domandare in avanti è indispensabile al discorso poetico il quale non può non prendere in considerazione la zona di compromissione che si situa tra l’azione dell’atto linguistico con ciò che non è linguistico, con ciò che deve de-finire senza mai finire veramente e che può però finire in un discorso poetico; questa zona del discorso poetico, deve e può fare riferimento a tutto ciò che si trova in quella zona di compromissione che definiamo Es, Inconscio, Preconscio, in quella zona accidentale e accidentata nella quale la pratica delle parole mette in moto una «azione retrograda», una azione ritardata, ritardante e anticipatoria, una zona altamente compromissoria e auto contraddittoria inficiata di anacronismi inconsci e preconsci e coscienzialismi ideologici del tutto slegati e non dipendenti dagli anacronismi inconsci. Proprio in quella zona di compromissione si situa la massima vulnerabilità e, quindi, la massima attualità del discorso poetico kitchen. È pur sempre il linguaggio che descrive il passaggio dal non-linguistico al linguistico, ed è il linguaggio poetico quella zona di compromissione e di indistinzione recettizia di questa zona compromissoria. La manifesta paradossalità del linguaggio poetico kitchen che si presenta agli occhi di un lettore ingenuo della communis opinio come incomprensibile, irragionevole, gratuito, arbitrario deriva dal fatto eclatante che esso si situa, appunto, in questa «zona di indistinzione e di indiscernibilità tra le parole» dove il linguaggio del business è preponderante.
Non ha veramente senso parlare di un «soggetto» creatore se non come il prodotto di pratiche discorsive che riguardano i correlativi soggettivi del soggetto e i correlativi oggettivi dell’oggetto, insieme con i correlativi inconsci e preconsci, non certo un presunto soggetto plenipotenziario attore centrale del discorso poetico. È di un «soggetto scabroso» (ticklish subject – dizione di Slavoj Zizek) ciò di cui stiamo parlando.

(Giorgio Linguaglossa)

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Come si fanno a ottenere risultati quando si fa business? Conviene partire piano, senza farsi troppo notare, mentre il business ingrana? Oppure conviene cercare di farsi spazio? Ne parlo in questo video.

Silvana Baroni

da Per amor di dubbio, puntoacapo, 2022 

Gli aforismi di Silvana Baroni ci dicono che oggi abbiamo bisogno di intelligenza perché la verità ha le diottrie di chi la guarda, in un mondo di manipolazione programmata della verità dei fatti come è evidentissimo nella guerra in Ucraina dove i fatti vengono capovolti dalla propaganda del Cremlino, in cui si cambia il nome ai fatti, anzi, si capovolge la verità dei fatti è indispensabile mettere in ordine le parole, ottimizzare le parole, renderle precise, inequivocabili, responsabili. Una volta, dieci anni fa, un letterato ha scritto che la poesia deve essere «irresponsabile». Ricordo che sono rimasto sbigottito. Oggi non c’è più tempo, non abbiamo più tempo per giocare con le parole «irresponsabili» e con i significati, anch’essi irresponsabili» le parole rischiano di dimenticare altre parole, di tradirle… quando si sovvertono le parole anche i fatti se ne vanno a ramengo e non si sa più che cosa sia la verità delle parole. Quindi, questi aforismi di Silvana Baroni sono un esercizio salutare per l’intelligenza delle parole. Un saluto cordiale quindi a Silvana Baroni per questa sua testimonianza in aforismi, l’arte dell’inteligenza concentrata in poche parole. E vorrei iniziare le citazioni di alcuni aforismi da quello, direi, più ovvio:

La lotta di classe inizia già all’asilo.

Il linguaggio specialistico è il vallo di cinta d’ogni potere arroccato.

Anche a nascer calice, si finisce nella campana di vetro.

La verità ha le stesse diottrie di chi le guarda.

La vita è una strana staffetta: giorni che corrono senza passarsi il testimone.

Chi s’affida alla logica, chi ai fondi di caffè.

Il consumismo ci trasforma da beati in beoti.

Ogni religione tende a scagionare Dio.

Molti scrivono per espellere tossine.

S’è ferro lo vedi dalla ruggine.

Le idee più originali sono furti senza saperlo.

Viveva a giorni alterni per farla breve.

Non c’era nessun futuro anteriore in quel suo infinito passato remoto.

Ci sono anime gemelle e anime doppioni

C’è chi vive la vita e chi la frequenta.

Nei libri, o trovi pagine di scrittori, o scrittori di pagine.

Mauro Pierno

Abbiamo nominato il pane invano le porte
i fabbricati le finestre gli antidoti le minestre

gli infissi i divani le scatolette le conche le mollette
le mutande i reggiseni gli stivali gli scolapasta

le ortiche l’orzo il grano il farro le lenticchie
gli asciugamani le bandiere i cannoni

i missili l’acciaio i cassetti i portafogli le camicie
le fabbriche gli isolotti le acciughe la luna i falò

le lavatrici i rossetti le portaerei i fiammiferi
i sugheri gli accendini le sigarette i tombini

i cavatappi le bottiglie gli stendini i binocoli gli aratri
i carrarmati gli aerei gli elicotteri i fenicotteri

gli archi gli architravi le saune le fragole i biscotti
le grucce i pantaloni le valigie i libri le edicole

gli occhiali gli ombretti gli ombrelli le auto le stufe
i camini la legna il carbone il magnesio il radio

il cromo il selenio la borragine le penne le gomme
i tromboni i violini le zattere le margherite.

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(Da anni l’unica scrittura che pratico è sul foglio elettronico di codesta rivista. È un continuo work in progress, uno stimolo costante alla ricerca di un’idea condivisa di poesia e di risoluzioni poetiche)

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Francesco Paolo Intini

Qualcuno bussa al XXX

C’era da aspettarselo? Capocchio si girò incuriosito.
Gianni lo azzannò al nodo del collo.

Il punto critico delle ossa fece un crac.
Ci rimise una banca, tre banconote e un cent.

La clavicola cedette un ponte.
Se il Don si avvitava il Reno avrebbe brindato
o viceversa?

Un torrente di linfa scende lungo le spalle
L’osso sacro si spezza e una gamba corre più rabbiosa dell’altra.

Il tavolo cresce in lontananza ma non in lungimiranza
Per due punti qualità si perde un pollo arrosto.

L’intimo era già perduto quando il botulino
Imperversò nell’olio del girasole.

Mirra si affacciò dal palazzo in fiamme.
Era la sua voce o un verso di corvo?

La sentivamo triste e aggressiva ma non riuscivamo a sbarazzarci di lei.

Accusava i dolori reumatici della perdita di obiettivo
Avrebbe portato all’Aia il capo degli streptococchi
E alla flora intestinale disse che poteva mettersi in pensione.

Un carro armato presidiava l’aorta ma non osava entrare nel ventricolo.

A un tratto il microfono afferrò un mezzobusto alla gola
intimandogli di smetterla col Brazil
Gridò: c’è Dante, lo faccio entrare?

Jashin con i baffi fiammanti apparve tra i pali.
Una bolgia contro l’altra armata.

Come s’impedisce a un missile di entrare nell’epoca sbagliata?
Burgnich e Facchetti, Molotov a mediano.

Il grande portiere ha una pausa di terrore.
Il rasoio solleva un palazzo, Cislenko fa cilecca.

Il fornello ad est fa una mossa geniale.
Ricorda Cesare quando scese tra i suoi e la battaglia fu vinta.

Ora si trattava di dare al reporter fiorentino
la chiave di chiusura del gas. Continua a leggere

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Stanislav Dvorský (1940-2020): L’inizio del gioco a cura di Petr Král, traduzione di Antonio Parente, Dvorský  Chiama questa poetica “costellazione di parole”, l’uso coerente del potere specifico, proprio solo della poesia, dei singolari collegamenti tra le parole stesse: di ingannevoli collegamenti lessicali, nei quali l’aspetto verbale – per metà di idee e per metà puramente fonico – e quello grafico coprono tutti gli altri (narrativo, riflessivo e metaforico), si rendono indipendenti  

Lucio Mayoor Tosi, stampa digitale, Pomodoro

Stanislav Dvorský

L’inizio del gioco

non ho nessun amico dietro le finestre scure d’azzurro
lancio soltanto dei sassolini con accortezza per non rompere nulla
ricordiamo ancora i giochi giudiziosi quando sull’acqua si formano dei cerchi sbadiglianti
il cordoglio sorride non ho nulla da perdere
nemmeno le mie mani mobili
nemmeno i miei amici
nella vuotezza zincata del profondo banco di mescita
tanti avanzi convincenti dell’eternità usignola
una volta ero un eccellente tiratore e i miei amici continuano ad applaudirmi
ho sparato già quasi tutte le cartucce
non riesco a fare centro continuo ad essere
come vivo come vivo

* * *

Tarda estate

il ponte di fili bianchi sospeso
sulla baia assente di palombari inchinati

una seppia morta da tre giorni
contempla qualcuno di loro con occhio riconoscente
tutto il limaccio al centro della maestà stagnante del vetro
non volge altrove il capo
culla in grembo il bimbo d’inchiostro

gli raccontai le mie allucinazioni jazzistiche
innalzai un recinto brunito intorno all’idiota
infastidito dagli ordini perenni sul foglio senza righe
alzai i tacchi
delle scarpe sotto il tavolo
pittai il recinto color pelle con vernice color pelle
in modo da non essere troppo visibile
in modo da non stare in piedi
avevo i miei riposi illuminati i ceppi floreali
del resto è la mia missione
poche volte il sistema solare comprende tutti i simboli esterni
perché persino facendo notevole attenzione l’intonazione sfugge dalle narici

lo chiamai col nome di battesimo
nessuno si voltò

Zborcené plochy (Piani distrutti, 1996)

* * *

Bottiglia Molotov

le fiamme disegnano mandrie di animali galoppanti lungo il soffitto del vagone frigorifero che con un ampio tornante si precipita sui binari chissà dove
apicoltori portalettere spazzini intere stazioni di inseminazione un’unica enorme moltitudine armata di forconi asce e attizzatori
si precipita con terrore su piazza Democrazia popolare

questi fenomeni sono visibili nelle nostre bevande
dove cala di sbieco il basso sole primaverile
quando un vento fresco spinge a soffi la tenda nel profondo della stanza

* * *

Tra le cosce di questa primavera

pezzi di cannelli di paraffina nell’attimo in cui cambiano sostanza

della tua eterna nudità (buia: sussurro “di nicotina”)
è anche così il punto focale della notte il resto della pelliccia
dopo un istante pieno di sego caldo

poi le arterie pulsano gemi il nastro al buio fruscia
(mettiamo Wheels of Fire basso basso)
e alla finestra si accendono azzurri i fumi alcolici
invano
senza futuro

Dobyvatelé a pařezy (Espugnatori e ceppi, 2004)

Stanislav Dvorsky 2018 Petr Kral

Stanislav Dvorsky e Petr Kral

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Petr Král

Black and Blue[2]

Quando conobbi Standa Dvorský, alla luce arancione della leggendaria “stagione del ‘59”, diventò subito per me l’amico-iniziatore (secondo la definizione di Sarane Alexandrian), colui col quale è possibile instaurare un vero dialogo, complice e contendente allo stesso tempo, colui che ci apre le porte del mondo e di ciò che vi sarà per noi di fondamentale, e che ci aiuta in maniera decisiva a chiarire i nostri pensieri.

[…]

Molti erano i tratti da noi condivisi, che costituivano la nostra esperienza e la nostra “memoria” comuni, se non altro grazie alla sistematica e reciproca comunicazione: l’esistenzialismo e il surrealismo, il poetismo e il dadaismo, la decadenza di fine secolo e l’ubriacamento degli anni Venti, le incisioni e le comiche mute, i vizi dei salottini e gli amori delle gite scolastiche, la canzone Zasu di Jaroslav Ježek e il Castello di Kafka, i vaporetti domenicali e i salotti in fondo al lago, Voskovec + Werich e Rimbaud con Verlain, la cicoria di Pečky e l’Hispano Suiza, gli smoking bianchi e i maglioni alla beatnick, l’assenzio e il jazz… Ognuno poneva l’accento su cose diverse e costruiva tutto in maniera differente; Standa lo faceva in maniera meno casuale, come se sapesse fin dall’inizio quello che voleva.

[…]

Dopo aver letto i suoi primi testi, fu chiaro che la nostra generazione aveva in Dvorský uno dei suoi autori chiave, il proprio poeta, il quale in modo unico ma essenziale riassumeva le idee, “le sensazioni” e le posizioni degli altri. In molti di quelli che allora lo conobbero i suoi testi ebbero di colpo un influenza determinate; ad esempio, l’opera di Karel Šebek non sarebbe stata la stessa senza di loro, e anch’io non sono sicuro se le mie “visioni” poetiche non siano per metà di Standa – tanto intimamente alcune delle sue immagini si sono impresse nella mia memoria.

Nei suoi testi poetistico-dadaistici del periodo precedente il 1959, nei quali andava assumendo sempre più vigore l’influenza surrealista, traspare la sua caratteristica concezione delle tre componenti che – in diverse proporzioni e relazioni – formeranno l’intera sua opera: il lirismo, la narrazione poetica, il discorso sarcastico. Se la sua narrazione ha, fino a quel momento, una comunanza con le poesie-sogno del Nezval surrealista e il suo discorso con la provocazione dadaista, dietro il lirismo di Dvorský trapela soprattutto, ed è cosa non senza significato, Halas. E ciò sia per quel che riguarda la visione del mondo del poeta e il suo sviluppo personale, sia per il ruolo dello stesso Halas nello sviluppo della poesia ceca. Continua a leggere

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Il tempo: dal passato verso il futuro o dal futuro verso il passato? Tempo ciclico, Tempo lineare, Tempo puntiforme, Tempo distopico, Il concetto di Tempo nella nuova ontologia estetica, di Vincenzo Petronelli, Se il tempo, come il fiume congelato, non scorre ed è già tutto creato, può essere possibile viaggiare nel futuro o nel passato, Poesie kitchen di Mauro Pierno, Vincenzo Petronelli, Francesco Paolo Intini, Gerhard Richter, foto di Ulrike Meinhof, 1977

gerhard-richter-Ulrike Meinhof, 1977 foto

Gerhard Richter, foto di Ulrike Meinhof, 1977

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Il tempo: dal passato verso il futuro o dal futuro verso il passato?

di Vincenzo Petronelli

Ho sempre ritenuto che l’abbattimento della concezione lineare spazio – temporale, sussumendo conseguentemente anche tutti i paradigmi su cui si basa l’operazione mimetica poetica, inclusa la dialettica soggetto/oggetto, sia la dinamica di base di una reale operazione di revisione della costruzione poietica.
La riflessione antropologica – anche mediante le sua filiazioni della Storia delle religioni e della Storia dell’immaginario – così come il dibattito filosofico nelle varie branche pertinenti alla materia, si interrogano da sempre sull’analisi del rapporto tra l’individuo e la realtà, preoccupandosi anche leggere i vari piani possibili di questo rapporto, dalle proiezioni socialmente e culturalmente mediate, alle sue concrezioni più profonde e che sottendono le costruzioni convenzionali.

Naturalmente, il punto nodale dell’analisi sulla realtà è la concezione di tempo.
Il pensiero classico definiva due livelli temporali, in realtà tra loro interconnessi. Il primo livello era quello del tempo suggerito dalla percepibilità del movimento: un tempo “misurabile”, ciclico, degli anni, delle stagioni, dei ritmi della vegetazione, un tempo scandito dalla natura.
Il secondo livello postulava invece l’eternità, come astrazione assoluta nella quale si cercava di fermare il tempo, come condizione per cercare di interpretare il senso dell’esistenza stessa. Nella prima dimensione prevaleva il divenire con il suo avvicendarsi mutevole di nascite, eventi e dinamiche reiterate mediante la replicazione ciclica, mentre la seconda era caratterizzata dall’immobilità dell’Essere.
In realtà, questi due livelli temporali coincidono con quelli della suddivisione ontologica platonica, cioè il tempo assoluto della realtà immutabile eterna (corrispondente al mondo delle idee) da un lato; quello relativo del divenire del mondo, in cui si inscrive la componente fisica della vita umana con la sua temporalità e finitezza.

In concreto però, questi due livelli temporali erano tra loro complementari e videro riflessa questa complementarità anche nei riti delle antiche religioni, riprese successivamente dalla codificazioni cosmologiche delle dottrine cristiane, basate sulla concezione ciclica del tempo legato ai ritmi della natura – di cui le religioni ed i loro riti rappresentano la canonizzazione – ma che al tempo stesso, nella loro reiterazione immutabile, riconducevano ad una scansione eterna, immutabile, del tempo sacro che poneva l’uomo direttamente in contatto con il supremo, con le concrezioni profonde dello spirito.
E’ a questa visione cosmologica che si rifà un’opera antropologica fondamentale quale Il mito dell’eterno ritorno del grande storico delle religioni romeno Mircea Eliade, che evidenzia appunto come le religioni antiche fossero legate a questa visione eterna del tempo e del cosmo, che ricongiungeva la sfera del quotidiano e del profondo.
Gli studi della storia dell’immaginario collettivo di scuola francese legata alla cosiddetta “Scuola delle Annales” che ha rivoluzionato la metodologia della ricerca storica, hanno dimostrato la frattura creatasi nella concezione del tempo a partire dal basso medioevo, con la distinzione che il grande storico Jacques Le Goff ha definito, in suo saggio memorabile, “Tempo della chiesa e tempo del mercante”: la distinzione cioé, e l’affermazione di un senso lineare del tempo che è quello della borghesia degli affari, dei commerci, concezione legata allo sfruttamento intensivo e “progressivo” del tempo quale unità di misura della realizzazione dei propri affari.
Gradualmente, con l’affermarsi del mondo di valori della borghesia, attraverso lo sviluppo della cultura capitalistica e la nascita della rivoluzione industriale, accompagnate dalla componente culturale scientista – che si affermerà con la corrente illuministica – e materialista, che troverà eco nella filosofia positivista, la concezione lineare e economicamente redditizia del tempo finisce per imporsi, in quanto dettai ritmi dell’esecuzione delle attività lavorative.

È proprio in contrapposizione al rischio alienante di questa tendenza materialistica del tempo, che già gli antropologi di fine ‘800 cominciano a relativizzare il concetto di tempo ed il suo corrispondete della considerazione dello spazio, come evidenziato da Emile Durkheim e Marcel Mauss – tra i padri fondatori dell’antropologia e della sociologia, pubblicato nel 1902 ed intitolato Su alcune forme fondative di classificazione. Nel libro, i due studiosi, sostengono che il tempo, inteso come un fenomeno oggettivo e naturale, è una pura astrazione. Le attività organizzate attorno alle quali l’uomo impernia il suo tempo , sono un costrutto storico-culturale e il calendario scandisce il ritmo delle attività collettive regolarizzandole.
Le indagini antropologiche sulle dimensioni del tempo e dello spazio, pongono l’accento sul valore qualitativo della concezione del tempo presso le società preindustriali ed ancora oggi, si ritiene che il senso di un tempo non quantizzato, ma carico di significati speciali, sia presente in tutte quelle società che hanno bisogno di rievocare periodicamente l’atto che considerano il fondamento della propria esistenza, il che ci riconduce all’estrinsecazione della teoria del “Mito dell’eterno ritorno” dell’opera omonima di Eliade.

Nel 1920, lo studioso svedese Martin P. Nilsson, pubblicò un libro che ebbe una grande fortuna, Primitive time-reckoning; a study in the origins and first development of the art of counting time among the primitive and early culture peoples; in esso l’autore sosteneva che nelle cosiddette società “primitive” il tempo era concepito in maniera “puntiforme” e i riferimenti non corrispondevano a frazioni temporali omogenee e quantificabili, ma ad eventi naturali o sociali o a stati fisiologici, utilizzando ad esempio locuzioni come “due raccolti fa”, come equivalente di “due anni fa”, oppure “un sonno” per indicare il giorno precedente.

Il filosofo polacco Krzysztof Pomian ha evidenziato come durante il XIX secolo, filosofi, intellettuali, storici, concepirono il tempo solo nelle versione lineare, cumulativa, ritenendo erroneamente ed arbitrariamente, che le società ancora ai margini del processo di industrializzazione fossero prive di senso storico, mentre gli stessi studi antropologici hanno dimostrato come queste comunità poggiano semplicemente il loro senso della diacronia sulla reiterazione dei loro miti fondanti.
Le ricerche condotte nel campo della filosofia, dell’antropologia e della sociologia, sono approdate alla conclusione che sia fondamentale, per un rapporto equilibrato nella concettualizzazione del tempo nell’ambito di una civiltà industriale moderna, approdare alla coesistenza dei due piani: tempo quantitativo e tempo qualitativo, poiché da un lato una concezione esclusivamente lineare sottindenderebbe l’idea secondo cui gli eventi non si sovrapporrebbero mai, traducendosi nell’erosione dell’inteliggibilità stessa della categoria di tempo, in quanto vorrebbe dire che ogni istante del futuro fosse sempre e completamente diverso da ogni istante del passato. Al contrario, una concezione esclusivamente ciclica del tempo, renderebbe inconcepibile qualsiasi percezione dei nessi causali degli eventi, il che condurrebbe all’annullamento della distinzione tra passato e futuro, condannandoci a vivere in un eterno presente.
Sussunta alla categorizzazioni delle rappresentazioni temporali vi è, all’interno degli studi di antropologia culturale, anche la riflessione sulla memoria e come essa possa essere studiata, partendo dal presupposto che la memoria rappresenta una griglia interpretativa fondamentale per la nostra esistenza.
La possibilità di ricordare dipende dalla capacità di dimenticare e il rapporto tra memoria ed oblio permette l’atto stesso del pensiero. La memoria non è semplicemente un processo soggettivo, ma è anche un processo collettivo e la stessa è radicata nella sua idea di tempo.

Accanto alla dimensione della linearità primaria, che pone gli eventi oggettivi su una linea progressiva tra di loro che va dal passato verso il futuro, vanno estendendosi rappresentazioni culturali del tempo che procedono in senso contrario, ossia dal futuro verso il passato. Sono riflessioni che mettono al centro la rappresentazione culturale di tempo secondo la fisica occidentale odierna: infatti i fisici si chiedono, in rapporto all’idea di tempo, perché gli eventi non procedono all’indietro. Per riflettere su questa possibilità occorre tuttavia costruire una particolare concezione culturale, e filosofica, di tempo. In fisica, per esempio, vi è l’idea secondo cui il passato non scompare e il futuro non è inesistente; passato, presente e futuro esistono alla stessa maniera. In altre parole, secondo la fisica odierna ciò che è accaduto e ciò che dovrà accadere esiste già. È sicuramente un’idea di tempo che noi classifichiamo “scientifico” e quindi non calato all’interno della percezione quotidiana umana.

Per spiegare questa rappresentazione di tempo, i fisici usano il concetto di «fiume temporale», secondo cui, come sulla pellicola è già impresso un film intero esiste già nella pellicola, così nella la fisica odierna sarebbero già codificati già tutti i momenti della nostra vita. La differenza è che però per il film c’è un proiettore che sceglie ed illumina un fotogramma dopo l’altro, nella fisica invece non ci sono prove della presenza di un criterio ordinativo che scelga un istante piuttosto che un altro. Noi possiamo percepire la percezione dello scorrere regolare del tempo, ma il tutto potrebbe essere, secondo i fisici, pura illusione. Oggi infatti gli studiosi riflettono sul fatto che, se il tempo, come il fiume congelato, non scorre ed è già tutto creato, può essere possibile viaggiare nel futuro o nel passato e che anzi, si ritiene che ciò sarà presto possibile, sfruttando, come teorizzato a suo tempo da Einstein, una strana proprietà della gravità, che influenza il tempo rallentandone il passaggio. Più intensa è la forza gravitazionale e più il tempo rallenta. La fisica sostiene infatti che, viaggiando vicino un buco nero, i nostri movimenti apparirebbero rallentati. Si è anche ipotizzato che due ore in orbita attorno ad un buco nero equivarrebbero a circa cinquanta anni sulla Terra. Tornando dall’orbita di un buco nero, sarebbe quindi possibile, per i fisici, viaggiare nel futuro della Terra.

Un’ulteriore evoluzione di questa formulazione la teoria quantistica dei campi (Loop quantum gravity in inglese) in cui la geometria di riferimento è quantizzata. Nelle teorie classiche della relatività ristretta e della gravitazione la geometria di riferimento è continua: ragionando in una sola dimensione (anziché in 3), dati due punti distinti A e B sicuramente esiste un punto A’ intermedio tra A e B, un punto A” intermedio tra A e A’, un punto intermedio A”’ tra A e A” e così via all’infinito. Con la teoria quantistica dei campi, compiendo la stessa operazione di suddivisione tra A e B, tra A e A’ e tra A e A” si arriverà alla situazione di avere due punti A e A^ tra i quali non è presente nessun altro punto. Tornando alle tre dimensioni spaziali, ciò significa che partendo da un volume e suddividendolo in volumetti sempre più piccoli, c’è un valore minimo di volume non ulteriormente divisibile. In particolare il vuoto, quando esiste, appare dipendere dalla traiettoria dell’osservatore attraverso lo spazio-tempo.
Tutto ciò ci porta a considerare che evidentemente sempre più l’arte debba interpretare, nella sua rappresentazione mimetica della realtà, la disarticolazione dei paradigmi tradizionali, perché è solo nella frammentazione dell’apparente e dell’egocentrismo correlato, nel vuoto in cui si annidano i detriti delle segmentazioni profonde, che si possono ritrovare quelle tracce fondamentali per poter ricostruire le traiettorie di un mondo liquido come il nostro, esattamente secondo i dettami della poetica Noe.

Mauro Pierno

Mettiamo dei proiettili nei nostri fiori
infiliamoli nei siluri nelle camere da letto
nei soggiorni sulle spiagge nel ragù della domenica
nelle case nei telegiornali nelle televisioni sulle autostrade in mezzo al traffico nelle vacanze attorno a giardini ai parchi agli ospedali agli aereoporti ai teatri a bordo campo sui tram sui treni
sugli elicotteri nei giocattoli nelle merende tra una forchetta ed un coltello tra un bicchiere dell’acqua ed una caraffa di vino in mezzo ai piedi tra le mani tra le natiche i coglioni le fiche i pannolini i pannoloni le ciabatte le scarpe i santi le puttane.

Vincenzo Petronelli

TEATRO

Nessuno ne seppe più nulla
fino a quel giorno di marzo 2016.
I traghetti da Durazzo hanno orari incerti.
All’imbarco, una fila ordinata di transfughi
in pigiama e ciabatte.

Tre mesi di prugnole selvatiche e tabacco da masticare:
questo il referto.

“Avete solo il menù del giorno
o anche à la carte, Suor Pasqualina?”.
“Oggi pranzo fisso: stricnina e carne di cavallo”.

Ogni ultimo lunedì del mese
l’avvocato si recava in banca per effettuare i prelievi.

Cercarono a lungo, ma invano, la chiave della tenuta di Montaltino.
Un’icona di madonna ilirica
dietro il décolleté in conference call.

Nella vecchia madia
solo libri di poesie di Paul Muldoon e Rafael Alberti.
Non rimase più traccia
degli affreschi sui muri e delle vecchie auto.

Lo tsunami spazzò le isole per sempre.

Risuonano voci dai fondali marini:
“Se Dio vuole, il prossimo anno sarà migliore”

Cocomeri e grigliate sulle spiagge del Gargano
nelle domeniche d’estate:
per dessert, parmigiana di melanzane.

Gli arrotini di Cerignola, forgiavano parole nella pietra.
“Yo soy más valiente que tu: más gitano y más torero”.

Solo gli elettricisti ormai
continuano a coltivare la metafisica.
“Ha visto il mio ultimo quadro elettrico, Signora Grace?”

“Per quello che ho, non sto soffrendo”.
Al Saint John’s Hospital
Gordon Lachance ricordava i giorni felici a Castle Rock
nel suo ultimo romanzo.
“This is the end: my friend, ma la notte equatorial ti fa sognar”.

Oliva è uscito stamattina nella nebbia
per recarsi a scuola, baciando sulla fronte sua madre e sua sorella:
sarebbe rientrato per pranzo.

[1] Trad. dallo spagnolo: “Sono più coraggioso di te: maggiormente gitano e torero”. Verso tratto dal famoso brano di Federico Garcia Lorca: “En el café de Chinitas”

DANUBIO

Zuppe di cavolo e cipolla nel refettorio della vecchia scuola.

“Hogy vagy, Vittorio?”.
“Jól, köszönöm: csak nagyon hídeg van kint”.

Káta Néni aveva l’abbonamento all’opera:
adorava Mozart e Liszt.
“Una figlia di Liszt è nata a Como, lo sapeva?”.
“Certo: era molto prima delle “croci frecciate”

Alla fermata di Gyöngyösy útca, si cammina
con la mano sulle borse
guardando le incisioni di Barnard. Veloci,
scorrono mani zingare lungo fianchi ormai di donna.

“Stasera abbiamo appuntamento con Pétra e Zita
per “quattro matrimoni e un funerale”.
“Sul Rakpart , assaporerai l’umido del mio autunno.”

In fila per la distrubuzione del gulyás levés
a Keleti Pályudvar .
Per la notte, una luce da campo nelle cuccette del Venezia Express.
Il sermone del pastore calvinista, stasera
ricorda che gli ultimi saranno i primi.
“Padre, preferisco i primi: possibilmente anche con dei secondi”

Zsuzsa la bidella è rincasata tardi: le hanno offerto un contratto
ed un biglietto per Lugano.
Un numero in tasca ed una chiave pass partout.
“A víszontlásra továris” .
Le domeniche ai mercatini di Praga.

“Lassie Come Home, Furia, Rin Tin Tin.
Hanno rubato il tempo ai giorni nostri.
Al crepuscolo si attraversa volentieri la deriva.
Pizza all’ananas e birra Borsodi in bottiglia.

Nelle boutiques in centro la collezione autunno-inverno Nietzsche
annuncia le prime correnti dall’Himalaya.

With our lives we give lives e Remebrances
risuonano nel Parco degli Eroi.
Coppie di pattinatori danzano sul lago ghiacciato.
“Amo quest’atmosfera.
Non è male Budapest d’inverno, vero?”.

Un’auto in corsa con i finestrini neri.
Scrivere, in fondo, non ha molto senso.
Dissolvenza in campo lungo.

.

Trad. dall’ungherese: “Come stai Vittorio?”. “Bene, grazie: solo che fa molto freddo fuori”.
Zia Kàtàlin in ungherese
Milizie fasciste ungheresi
Lungo Danubio
Trad. dall’ungherese: “Zuppa di gulasch”: E’ questa la denominazione corretta del noto piatto della cucina magiara.
È una delle stazioni ferroviarie di Budapest: la stazione orientale
Trad. dall’ungherese: “Arrivederci compagni”. “Compagni”, qui inteso nel senso del glossario comunista, è riportato con la magiarizzazione del termine russo.
Brani tratti dalla colonna sonora del film Schindler’s List del compositore John Williams.

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Vincenzo Petronelli è nato a Barletta l’8 novembre del 1970, laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiede ad Erba in provincia di Como, dove è approdato diciotto anni fa. Dopo un primo percorso post-laurea impegnato come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e come redattore editoriale, ha successivamente intrapreso un percorso professionale nel campo della consulenza aziendale che lo ha condotto all’attuale profilo di consulente in tema di comunicazione ed export. È ricercatore nelle problematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare e la cultura di massa. Dal 2018 è presidente del gruppo letterario Ammin Acarya di Como, impegnato nella divulgazione ed organizzazione di eventi nell’ambito letterario e poetico. Alcuni suoi scritti sono presenti nelle antologie IPOET 2017 e Il Segreto delle Fragole 2018 (Lietocolle), Mai la Parola rimane sola, edita nel 2017 dall’associazione Ammin Acarya di Como e sulla rivista on line lombradelleparole.wordpress.com.

Francesco Paolo Intini

LA BILE SI MOSTRÒ IN CALZE NERE E GIARRETTIERA …MA LA NOTTE… MA LA NOTTE…

Il pianeta risucchiava la lava nei polmoni
senza un residuo di gravità avrebbe superato l’asticella a 2 e 50 Ampere

Dove sono i coccodrilli? Il Nung è infestato dagli gnu ripeteva
Il direttore delle poste
Tirò fuori dalle retrovie il ritratto del Caudillo.

La rivolta dei timbri contro i posacenere
Chi da una parte chi dall’altra le canzonette sconce, la roulette russa
le catene di sant’Antonio osè, gli appening tra mouse.

Bisognava fare squadra, sorprendere, insultare
Fucilare Lorca all’Oscar.

Si trattò di richiamare alle armi roncole e bastoni
Carte napoletane, puttanieri, sifilitici del terzo tipo.
Che imparassero il ramino finalmente.

Sapete? Signor Kurtz, sarà un gioco da ragazzi. Qui nel sacco della tombola
ci sono medaglie per il 1812, carrozze e surgelati del 1799, altre che vedranno la luce del 1975.Cipolle e

carciofi in bustine da tre fucilati per muro a secco.
L’ultimo elicottero da Mergellina.Penzola da un ramo libero la donna di bastone.

E’ un’iguana, ma avrei giurato sugli artigli di un ramarro
Che Federico avrebbe avuto salva la coscienza.

Oh il più liquido tra i surreali non meritava funghi al suo debutto in terra
Davvero brutale recitare versi con la bocca piena di rane.

Allo stato larvale un thè al nickel è più che gradito.
Come faranno le spighe a sopportare quest’orrore?

Il toro ringrazia.
Persino il cobra scendendo da Wall Street non trova la foresta,
Sia dunque benedetto l’errore del verso profeta.

Il valore di Ruffo è nel non tenere fede
Penzoli l’amministratore tra i conti del bilancio preventivo
nessuna pietà per chi usava il pitale della regina.

Ora il Re è a caccia. Passerà da Portici il treno di lumache.
Se il Borbone si tuffa dal suo naso, Nelson prepara la frittata di limoni.
E dunque niente green pass al gran buffet soltanto restrizioni in stile impero.

I cannoni intonano la nona di Beethoven.
L’albero della libertà fuma il sigaro cubano.

All’onore della mensa nessun fantasma vale una brasciola barese.
Qui e là tornano i giullari a soffiare sulla minestra di Ferdinando

Mantenere i nervi saporiti, il soffritto in versi endecasillabi.
Mentre il Vesuvio mangia la pizza a metro e la gotta avanza.

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Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti  (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017) e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). È presente alla antologia La pacchia è strafinita di AA VV a cura di Versante ripido. Nel 2020 pèubblica la raccolta  Faust chiama Mafistofele per una metastasi (Progetto Cultura).

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Arsenij Tarkovskij (1907-1989), Poesie “Vita, vita” e “Ricordo di Anna Achmatova”, traduzione di Donata De Bartolomeo, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

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Arsenij Aleksandrovic Tarkovskij nasce nel 1907 a Elizavetgrad, oggi Kirovograd, in Ucraina. È all’ambiente familiare che Arsenij deve l’amore per la letteratura e le lingue – il padre è poliglotta e autore di racconti e saggi – come anche la conoscenza del pensiero di Grigorij Skovoroda. Nella seconda metà degli anni Venti frequenta i Corsi Superiori Statali di Letteratura e scrive corsivi su «Il fischio», rivista dei ferrovieri, a cui collaborano anche Bulgakov, Olesa, Kataev, Il’f e Petrov. Tra il ’29 e il ’30 inizia a scrivere poesie e drammi in versi per la radio sovietica, ma nel ’32, accusato di misticismo, è costretto ad interrompere la sua collaborazione. Nello stesso anno nasce il figlio Andrej. Inizia a tradurre poesie dal turkmeno, ebraico, arabo, georgiano, armeno. Nel dicembre ’43, dopo essere stato insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in guerra, è ferito gravemente e gli viene amputata una gamba. Nel ’46 viene rifiutata l’edizione del suo primo libro in quanto i suoi versi vengono ritenuti ‘nocivi e pericolosi’. Solo nel ’62 esce il primo volume di poesie: Neve imminente, cui seguiranno nel ’66 Alla terra ciò che è terreno, nel ’69 Il messaggero, nel ’74 Poesie, nel ’78Le montagne incantate, nel 1980 Giornata d’inverno, nel 1982 Opere scelte. Poesie. Poemi. Traduzioni. (1929-1979), nel 1983 Poesie di vari anni. Nel 1986 muore in Francia il figlio Andrej. Nel 1987 esce Dalla giovinezza alla vecchiaia, titolo deciso dalla casa editrice contro il volere dell’autore, e Essere se stesso. Muore a Mosca il 27 maggio ’89.
Le sue opere pubblicate finora in Italia in volume sono: Poesie scelte, Milano, Scheiwiller, ’89. Poesie e racconti, Pescara, Edizioni Tracce, ’91. Poesie scelte, Roma, Edizioni Scettro del Re, ’92. Costantinopoli. Prose varie. Lettere, Milano, Scheiwiller, ’93.

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Arsenij Aleksandrovic Tarkovski

Vita, vita

I

Non credo nei presentimenti e dei segni
non ho paura. Né la calunnia né il sarcasmo
io fuggo. Nel mondo non c’è la morte.
Tutti sono immortali. Tutto è immortale.
Non bisogna temere la morte né a diciassette anni
Né a settanta. Esistono solo la realtà e la luce,
in questo mondo non ci sono né buio né morte.
Noi tutti siamo già sulla riva del mare
ed io sono tra quelli che tirano le reti
mentre passa a branchi l’immortalità.

II

Vivete in casa – e casa non crollerà.
Io evocherò uno qualunque dei secoli,
entrerò in esso ed in esso una casa costruirò.
Ecco perché sono con me ad un unico tavolo
i vostri figli e le vostre mogli.
Ma c’è un unico tavolo per il bisnonno e per il nipote.
Il futuro si compie ora
e se io sollevo la mano
tutti e cinque i raggi rimarranno presso di voi.
Io ogni giorno del passato, come una puntellatura,
con le mie clavicole ho sostenuto,
misurai il tempo con la catena dell’agrimensore
ed attraverso esso sono passato, come attraverso gli Urali.

III

Io mi sceglievo il secolo secondo la grandezza.
Andavamo al sud, alzavamo la polvere sopra la steppa;
l’erbaccia fumava; il grillo campestre faceva il birichino,
toccava con i baffi i ferri dei cavalli e profetava
e, come un monaco, minacciava per me la rovina.
Io il mio destino alla sella allacciavo;
io, anche adesso, in epoche future,
come un bambino mi solleverò sulle staffe.
Sono soddisfatto della mia immortalità,
che il mio sangue scorra di secolo in secolo.
Per un angolo sicuro di costante calore
io avrei arbitrariamente pagato con la vita,
qualora il suo mobile ago
non mi avesse, come filo, condotto per il mondo. Continua a leggere

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Riprendere il filo dell’eredità Dada oggi è particolarmente significativo dopo gli eventi della pandemia Covid, della guerra di invasione dell’Ucraina e della conseguente belligeranza tra un Occidente delle democrazie che ricorre alle sanzioni e un Oriente neoimperiale guidato da potenze autocratiche e antidemocratiche. È chiaro che il gesto Dada di rottura radicale con le espressioni politiche e artistiche del passato è utilissimo oggi per ripensare una nuova forma di espressione artistica e un nuovo modo di comportamento etico, poietico e politico, Manifesti e testi del movimento Dada, Tristan Tzara, Francis Picabia, Philippe Soupault, Benjamin Péret, Erik Satie, a cura di Marie Laure Colasson

foto Marquis de Sade 1921 collage di Erwin Blumenfeld 24, 5 × 25

Marquis de Sade, collage 1921, Erwin Blumenfeldt

La maggior parte degli storici dell’arte fissa la data di nascita del movimento dada il febbraio 1916, la data di apertura a Zurigo del Cabaret Voltaire per iniziativa di Hugo Ball e della sua compagna Emmy Henning, con la collaborazione di Arp, Huelsenbeck, Janco e Tzara. In realtà la data di nascita di dada è immersa nel buio. La data di nascita di dada in Svizzera dovrebbe essere spostata al dicembre 1918, la data di apparizione sul terzo fascicolo di “Dada” del Manifesto Dada nel 1918 da parte di Tzara. Fino a quella data il movimento non appare dissimile da quelli di avanguardia che si affacciavano in quegli anni. Dada accoglie tra i suoi membri i cubisti, i futuristi, gli astrattisti e gli espressionisti, un eclettismo che è evidente nei primi due fascicoli di “Dada”, qui vengono pubblicati testi di Savinio, Meriano, Moscardelli e le illustrazioni di Picasso, Delaunay, Kandinsky e De Chirico, compresi gli espressionisti di “Der Sturm” di Berlino.

Però un generico spirito dadaista in Europa è già visibile nell’aprile del 1912, quando Cravan edita a Parigi “Maintenant” che può essere considerato il primo periodico dada. Nel 1913 a Neuilly, Duchamp crea il primo prototipo di opera plastica dada: la Ruota di bicicletta. Nel 1913 vengono realizzate in Russia e a Praga eventi che anticipano le famose serate dada di Zurigo, Parigi e Berlino, protagonista è Jaroslav Hasek, e in Russia i poeti futuristi David Burliuk, Majakovskij e Kamenski. È del tutto erronea l’ipotesi che il movimento Dada sia nato per filiazione dal futurismo italiano e russo, in Francia le origini sono più letterarie che artistiche (Jarry, Cravan, Vaché), in Europa centrale e in Belgio Dada è imparentato con l’espressionismo tedesco. Non esiste quindi un Dada puro e vergine ma vi sono tante diramazioni Dada quanti sono i dadaisti, ma è in Francia e in Svizzera che il movimento svilupperà le tendenze più estreme di ribellione ai valori borghesi indicati quali responsabili della prima guerra mondiale. Schematicamente, l’arco temporale in cui avviene l’intensificazione dei progetti dada varia dal 1916 al 1921, anche se alcune propaggini si estenderanno fino al 1925. L’attività dada è la più varia: manifesti, proclami, articoli, conferenze, poesie, aforismi, collages, rappresentazioni teatrali, narrativa breve, disegni, incisioni, pittura, assemblaggi, copertine di libri. Possiamo riassumere dicendo che Dada varia in corrispondenza del variare delle circostanze storiche e politiche dei tempi, Dada non si è mai configurata come una «scuola» quanto invece come uno spirito di rivolta totale e drastico nei confronti della produzione artistica e letteraria ufficiale, come ripulsa, liberazione e negazione di ogni valore borghese.

Riprendere il filo dell’eredità Dada oggi è particolarmente significativo dopo gli eventi della pandemia Covid, della guerra di invasione dell’Ucraina e della conseguente belligeranza tra un Occidente delle democrazie che ricorre alle sanzioni e un Oriente neoimperiale guidato da potenze autocratiche e antidemocratiche. È chiaro che il gesto Dada di rottura radicale con le espressioni politiche e artistiche del passato è utilissimo oggi per ripensare una nuova forma di espressione artistica e un nuovo modo di comportamento etico, poietico e politico.

(Marie Laure Colasson)

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“Parade” is a ballet with music by Erik Satie and a one-act scenario by Jean Cocteau. The ballet was composed in 1916–17 for Sergei Diaghilev’s Ballets Russes. The ballet premiered on Friday, May 18, 1917 at the Théâtre du Châtelet in Paris, with costumes and sets designed by Pablo Picasso, choreography by Léonide Massine (who danced), and the orchestra conducted by Ernest Ansermet.

Balletto Dada

La tecnica del taglio è un’estensione del collage alle parole, Tristan Tzara lo descrive nel Manifesto Dada:

PER FARE UNA POESIA DADAISTA

Prendi un giornale.
Prendi delle forbici.
Scegli da questo foglio un articolo della lunghezza che desideri per la tua poesia.
Ritaglia l’articolo.
Quindi ritaglia con cura ciascuna delle parole che compongono questo articolo e mettile tutte in un sacchetto.
Agita delicatamente.
Quindi togli ogni taglio uno dopo l’altro.
Copia coscienziosamente nell’ordine in cui hanno lasciato la borsa.
La poesia ti assomiglierà.
Ed eccoti qui: un autore infinitamente originale di affascinante sensibilità, anche se non apprezzato dal branco volgare.

Tristan Tzara

Drogheria-coscienza
da “Cronache Letterarie”, n. 3-4, febbraio 1919

dalla lampada d’un giglio nascerà un principe così grande
che i getti d’acqua le fabbriche ingrandiranno
e la sanguisuga trasformandosi in albero di malattia
io cerco la radice immobile signore immobile signore perché allora sì tu capirai
vieni muovendoti a spirale verso l’inutile lagrima

umido pappagallo
cactus di lignite gonfiati tra le corna della nera vacca
il pappagallo scava la torre il santo manichino
nel cuore c’è un bambino – una lampada
il medico dice che non passerà la notte

poi se ne va in linee corte e acute silenzio formazione silicosa

quando il lupo cacciato si riposa sul bianco
colui ch’è scelto caccia i suoi prigionieri
mostrando la flora uscita dalla morte che sarà causa
e apparirà il cardinaldifrancia
i tre gigli chiarezza folgorale virtù elettrica
rosso lungo secco che liscia pesci e lettere sotto il colore

il gigante il lebbroso del paesaggio
si blocca tra due città
ci son dei ruscelli cadenza e le tartarughe delle colline si accumulano pesantemente
sputa sabbia impasta i polmoni si lana si schiarisce
l’animo e l’usignolo volteggiano nel suo riso-girasole
egli vuol cogliere l’arcobaleno il mio cuore è una stella marina di carta
nel missouri nel brasile nelle antille
se pensi se sei contento lettore divieni per un istante trasparente
il tuo cervello spugna trasparente
e in questa trasparenza un’altra ci sarà più lontana trasparenza
lontana quando un nuovo animale di blu si vestirà in questa trasparenza Continua a leggere

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Intervista al poeta ceco Ladislav Fanta (1966) a cura di Antonio Parente, Topazi e giovinezza, Composizioni in cornice di Lucio Mayoor Tosi, “linguaggio di immagini concrete, materiali, senza alcuna censura, senza stilizzazione, artificialità di stile, laconicità e antilitterarità, l’impressione di piante secche, stantie tirate fuori da un vecchio erbario, Il tempo dei manifesti, delle raccolte di firme, di sfide e dichiarazioni aperte attraverso le quali i surrealisti si pronunciavano sui problemi del tempo, devono a mio parere registrare un cambiamento di prospettiva”

Foto Kikenli Incir

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Ladislav Fanta nasce a Uherské Hradiště nel 1966. Completata la scuola elettrotecnica, lavora come giornalista e operaio. Importanti per la sua formazione furono gli incontri con gli artisti Jaromír Čechura, Hynek Šnajdar, Leonidas Kryvošej e con i surrealisti Jiří Koubek, Pavel Řezníček e Milan Nápravník. A cavallo degli anni 1980 e 1990 prese parte alle attività del gruppo informale di giovani artisti e scrittori attivi nella città di Šternberk, accomunati oltre che dalle percezioni ed espressioni legate alle tendenze mondiali, anche dalla necessità di ricollegarsi agli impulsi del movimento surrealista. Questa generazione di autori nati tra il 1964 e il 1966 rifiutò di accettare in bianco la democrazia esteriore e commerciale, che iniziava allora a far sentire la sua rumorosa presenza in Cecoslovacchia. La coulisse del paesaggio di una piccola città e i banali “utensili” della vita locale, così come gli originali personaggi che la popolano, saranno per lui fonte di ispirazione anche in seguito, in testi che inventariano il passare irreversibile del tempo. Insieme allo scrittore e poeta surrealista Pavel Řezníček prese parte alla pubblicazione degli almanacchi inediti del più antico samizdat ceco, Doutník (Sigaro), presentando una stretta cerchia di autori (K. Šebek, E. Válková ed altri). Sempre con Pavel Řezníček, è anche autore di una raccolta di prosa grottesca, Miss Mléko a jiné burlesky (Miss Latte e altri burlesque), scritta utilizzando il metodo della corrispondenza.
Il suo interesse per la storia moderna e più recente, unito a quello per la psiche umana, lo capitalizza in una vasta ricerca teorica, che si tradurrà in una serie di analisi storico-sociali, in pubblicazione. È anche coautore, insieme a Jiří Koubek, del libro intervista Ne Deník: k 70. výročí založení Skupiny surrealistů v ČSR (Non Diario: per il 70° anniversario del Gruppo surrealista cecoslovacco), sulla crisi del surrealismo e sulle sue prospettive dopo il 1989. È anche curatore delle opere inedite di Milan Nápravník, raccolte, per il momento, in un primo volume intitolato Prokletá slast a jiné eseje (Piacere maledetto e altri saggi, 2019)
(Estratto del servizio pubblicato su Poesia, n. 314, 2016.)

Lucio Mayoor Tosi frammenti blu e celeste 2021

Ladislav Fanta

Topazi e giovinezza

La rada luce del sole penetra tra i cespugli
in centro: una scatoletta arrugginita ai piedi di mura fatiscenti
l’entrata dei campi da tennis
il vuoto glabro delle piste di rosticcio
raffiche di vento che sollevano tra l’erba pezzetti di carta bruciacchiata

né profeti
né forme verbali future
ma velocisti neri leggermente clini in avanti
in corsa per dire addio alle cose ormai inutili

correre e respirare l’odore delle stanze vuote
dove tutto rimane com’era
l’autunno solare delle ardesie piritiche
come se dipingesse queste giornate
di un incredibile calore che ricorda l’estate
movenze di palmi
inviate attraverso il vecchio sacchetto di plastica sfondato
da qualche parte in lontananza
nel grembo degli automatismi psicomotori
piantato nel tessuto spugnoso di via Cejl
come un proiettile caldo di Abu-Jamal

mentre uno parla e l’altro ascolta
è ancora una ferita viva e senza cicatrici
attorcigliare i bozzoli della corteccia grigiastra
e infilarli in tasca
le gabbie d’ascensore che salgono ad altezze vertiginose
sopra una strada che si ricopre appena di uno strato opaco di ossidi
non importa dove vai
il sole scalda l’aria fresca del mattino
ombre nel legno dei banconi dei bar negli specchi grigio-verdi delle pozzanghere e della cenere
il luccichio occasionale di una scatoletta di grasso artificiale ricoperta di secrezioni sempre più dure
riflette il cielo sconosciuto e desolato dei giorni futuri

ricordo le cerimonie del tè di Vlado Dančiak
chanoyu con sacchetti di LIPTON tirati sopra la superficie marroncina nell’esatto secondo
tutte quelle odi di ore e ore sulla bravura del reporter Martin Gregor Papucsek
registrate su un vecchio Walkman tenuto insieme dalla garza
che avvicini al mio orecchio
Pan Ram dove il cespuglio del tè cresce dalle ossa dei lavoratori
ricordo il “Dančiak Tea Comp.”
una scatolina nera che celebra la gloria del leggendario Beg ungherese Candragupta Vikramaditya
nella sua memoria a transistor grandi aree di pelle cupamente bluastra sospese
sigarette torte e la ricerca ostinata di infiammare accendino
il gigante di due metri di Žilina con i denti del colore degli infusi di tè forte in vasi di porcellana
̶ dal giallo pallido al nero

l’aria pura il ferro incontaminato della parola
dove la ruggine come macchie di caffè fa cadere scintille dai buchi
intorno agli edifici di torri di rocce tetti e buchi
quando la pioggia lontana copre gli aghi diradati e arrugginiti
la barba di cannella di madre natura
con l’aroma del caffè mattutino servito dalle cavità degli alberi
nel letto asciutto del fiume il sussurro insistente delle foglie
i fruscii variamente sparsi
ottoni ciondolanti indirettamente
per la superficie disabitata della terra

People loved John Coltrane
l’universo cosmico…
piega il vento freddo e costante
sa che sto arrivando e sempre una tale
nostalgia colossale
erbe d’Africa dove stelo dopo stelo scivola dolcemente nell’altro
ancora una volta il fruscio setoso dei pennelli
spezia l’umore quando la stagione delle piogge si allunga
la griglia nera arrugginita del giardino come quelle usate dai druidi per i loro garden-party
torreggia abbandonata nel mezzo di un container con il suo coperchio a tapparella
e con l’untuosità migrante del grasso e del carbone di legna
ora qualcuno spegne rapido nel posacenere la sigaretta fumata a metà e rimuove i rami sporgenti
tra i tagli della draga con un’enorme quantità di humus dove ogni tanto spigola il vento
un barbone
è già quasi impossibile sentire il polso
siamo di fretta per incontrare qualcuno
ma ciò che può essere dato deve essere dato
l’oceano tetro della natura lo sbatacchia ancora un paio di volte
ma poi è già intento a raggiungere la sua destinazione

lo stormo di storni e il raduno di migliaia di rondini alle pompe
di calore di scarto industriale
il solfito tiepido ti spiana le rughe
Pharoah Sanders
che muggisce come una mucca macellata al mattatoio.
le pantere nere di Bratislava.
L’Atomic Peace dura ancora
E la Atomic war nelle strade quando le percorri legame di particelle di un gioco d’azzardo
Pharoah
il sesso impollinato a mano come un’orchidea
Pharoah Pharoah
il gel rinfrescante del nevischio autunnale
inviti educati su cartelli di latta che chiedono di non entrare
a chi non ha bisogno di niente

il padiglione Anthropos di Pisáry è invaso dalla flora terziaria
il vento nella piscina abbandonata da tempo fa turbinare le carte e le foglie cadute
le lampade di sale dell’Himalaya
si sciolgono trasformandosi in pozze
d’un tratto sta arrivando e tu sei ancora qui
alla deriva con i volantini della pubblicità
con l’autunno indorato e abbagliante come una porta metallica spaccata in due
la luce che cade di lato trasforma gli ultimi resti della trappola a colla per le mosche
in un barlume che continua a diffondersi
e le increspature della luce nel segnale ottico
del bocchino mellifero
di John C.
un tavolino da campeggio e su di esso l’edam affettato sul foglio di giornale aperto
in una fattoria per disintossicarsi
il sole riscalda l’aria fresca del mattino
il pianeta con la sua regolazione equitermica
un fiume pieno di pellicce di volpe bianca
l’odore di una sigaretta il cui fumo un attimo prima di salpare via per sempre
sta per inviare un cablogramma

Solo di rado si spade il lontano fragore dei ramponi
penetra il sottile muro di carta da parati
la malinconia ciò che ne rimane: le macchie di sostanze tossiche
i mercoledì di swing a Židenice
il gravare indescrivibile del Great Glacier
i pezzi di ferro le funi sollevate e le gru mobili
il pianeta – quella vecchia scatoletta di sardine rivestita di miti
l’odore salato del mare che si trascina dietro una moto in corsa
funi e gru
una motocicletta che raggiunge il persistente odore salato del mare

(Brno, 2000 cca)

Lucio Mayoor Tosi frammento variegato 2021

Lucio Mayoor Tosi, Composition 2021

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Ladislav Fanta

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Ilya Kaminsky è nato nel 1977 ed è cresciuto a Odessa, in Ucraina, All’età di quattro anni, ha perso la maggior parte del suo udito dopo una diagnosi errata. La sua famiglia ha ricevuto asilo dal governo degli Stati Uniti nel 1993, ha pubblicato Deaf Republic (Graywolf Press, 2019), Il suo libro d’esordio, Dancing in Odessa è del 2004, A leggerlo oggi sembra la prefigurazione di ciò che avverrà il 24 febbraio 2022, viene narrata una terra desolata viene bombardata e invasa da un esercito straniero e della strenua resistenza armata di un intero popolo… a cura di Giorgio Linguaglossa

Ucraina

Repubblica sorda di  Ilya Kaminsky è ambientato in un paese occupato, scosso da disordini politici. Quando i soldati intervenuti a sedare una protesta uccidono un ragazzo sordo, Petya, quello sparo omicida è l’ultimo suono udito dagli abitanti: sono diventati tutti sordi, e il loro dissenso corre ora attraverso il linguaggio dei segni. Le vite private dei cittadini si intrecciano con la violenza pubblica che li circonda: una coppia di sposi novelli, Alfonso e Sonya, in attesa di un figlio, la sfacciata Momma Galya, che istiga l’insurrezione dal suo teatro di burattini, e le ragazze di Galya, che insegnano giorno e notte la lingua dei ribelli, attirando i soldati dietro le quinte per eliminarli uno a uno. Premiato in tutto il mondo, Repubblica sorda è al tempo stesso una storia d’amore, un potente racconto in versi e una sfida aperta al silenzio di tutti noi di fronte alle atrocità del nostro tempo.

Nato il 18 aprile 1977, Ilya Kaminsky è cresciuto a Odessa, in Ucraina, nell’ex Unione Sovietica. All’età di quattro anni, ha perso la maggior parte del suo udito dopo una diagnosi errata. La sua famiglia ha ricevuto asilo dal governo degli Stati Uniti nel 1993. Ha conseguito la laurea presso la Georgetown University e ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università della California, Hastings College of Law.

Kaminsky è l’autore di Deaf Republic (Graywolf Press, 2019), vincitore dell’Anisfield-Wolf e del LA Times Book Awards e finalista per il National Book Award, il National Book Critics Circle Award e il TS Eliot Prize; Dancing in Odessa (Tupelo Press, 2004), che ha ricevuto numerosi premi tra cui il Dorset Prize e l’American Academy of Arts and Letters Metcalf Award; e Musica Humana (Chapiteau Press, 2002).

L’American Academy of Arts and Letters ha descritto le sue poesie come “una controparte letteraria di Chagall in cui le leggi di gravità sono state sospese e i colori riassegnati, ma solo per rendere la realtà quotidiana molto più indelebile”.

I premi e gli onori di Kaminsky includono la Lannan Literary Fellowship, il Whiting Writers’ Award, la Ruth Lilly Poetry Fellowship, il ForeWord Magazine Book of the Year Award in Poetry e una Creative Writing Fellowship 2019 del National Endowment for the Arts. Nel 2019, ha ricevuto l’Academy of American Poets Fellowship, che riconosce il successo poetico distinto.

Oltre ai suoi scritti, Kaminsky è anche editore e traduttore di molti altri libri, tra cui Dark Elderberry Branch: Poems of Marina Cvetaeva (Alice James Books, 2012) e The Ecco Anthology of International Poetry (Harper Collins, 2010).

Alla fine degli anni ’90 ha co-fondato Poets For Peace, un’organizzazione che sponsorizza letture di poesie negli Stati Uniti e all’estero. Ha anche insegnato alla San Diego State University e ha lavorato come impiegato legale presso il National Immigration Law Center e presso il Bay Area Legal Aid, aiutando i poveri e i senzatetto a superare le loro difficoltà legali. Detiene la cattedra Margaret T. e Henry C. Bourne Jr in Poetry e dirige il programma Poetry@Tech presso Georgia Tech, e sarà l’editore ospite per Poem-a-Day nel dicembre 2021.

Il suo libro d’esordio, Dancing in Odessa (2004), è stato pubblicato negli Stati Uniti da Tupelo Press. Presentiamo la poesia che dà il titolo al libro.

Ilya Kaminsky reads his poem “We Lived Happily During the War”

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Dancing in Odessa

We lived north of the future, days opened
letters with a child’s signature, a raspberry, a page of sky.

My grandmother threw tomatoes
from her balcony, she pulled imagination like a blanket
over my head. I painted
my mother’s face. She understood
loneliness, hid the dead in the earth like partisans.

The night undressed us (I counted
its pulse) my mother danced, she filled the past
with peaches, casseroles. At this, my doctor laughed, his granddaughter
touched my eyelid—I kissed

the back of her knee. The city trembled,
a ghost-ship setting sail.
And my classmate invented twenty names for Jew.
He was an angel, he had no name,
we wrestled, yes. My grandfathers fought

the German tanks on tractors, I kept a suitcase full
of Brodsky’s poems. The city trembled,
a ghost-ship setting sail.
At night, I woke to whisper: yes, we lived.
We lived, yes, don’t say it was a dream.

At the local factory, my father
took a handful of snow, put it in my mouth.
The sun began a routine narration,
whitening their bodies: mother, father dancing, moving
as the darkness spoke behind them.
It was April. The sun washed the balconies, April.

I retell the story the light etches
into my hand: Little book, go to the city without me.

Ballando a Odessa

Vivevamo a nord del futuro, i giorni aprivano
lettere con la firma di un bambino, un lampone, una pagina di cielo.

Mia nonna gettava pomodori
dal terrazzo, lei svolgeva la fantasia come una coperta
sulla mia testa. Io dipingevo
il volto di mia madre. Lei capiva
la solitudine, nascondeva i morti in terra come partigiani.

La notte ci spogliò (contai
i suoi battiti) mia madre ballava, colmava il passato
di pesche, casseruole. Per questo il mio dottore rise, sua nipote
mi sfiorò le palpebre – io baciai

il dietro del ginocchio. La città tremò,
una nave fantasma che salpa.
E il mio compagno di classe inventò venti nomi per dire Ebreo.
Era un angelo, non aveva nome,
lottavamo, sì. Mio nonno combattè

i carri armati tedeschi con i trattori, portavo una valigia piena
di poesie di Brodsky. La città tremò,
una nave fantasma che salpa.
A notte, mi svegliai per sussurrare: sì, vivevamo.
Vivevamo, sì, non dire che era un sogno.

Nella locale fabbrica mio padre
raccolse una manciata di neve, me la mise in bocca.
Il sole iniziò il suo racconto abituale,
illuminando i loro corpi: madre, padre che danzavano,che si muovevano
mentre il buio parlava dietro di loro.
Era aprile. Il sole lavava i terrazzi, aprile.

Io ripeto il racconto che la luce incide
nella mia mano: Piccolo libro, vai nella città senza di me.

guerra ucraina
from Deaf Republic

And when they bombed other people’s houses, we
protested
but not enough, we opposed them but not
enough. I was
in my bed, around my bed America
was falling: invisible house by invisible house by invisible house.
I took a chair outside and watched the sun.
In the sixth month
of a disastrous reign in the house of money
in the street of money in the city of money in the country of money,
our great country of money, we (forgive us)
lived happily during the war.

*
E quando hanno bombardato le case di altre persone, noi

protestammo
ma non abbastanza, ci siamo opposti ma non

abbastanza. Io ero
nel mio letto, intorno al mio letto l’America

stava cadendo: casa invisibile per casa invisibile per casa invisibile.
Ho preso una sedia fuori e ho guardato il sole.

Nel sesto mese
di un regno disastroso nella casa del denaro

nella strada del denaro nella città del denaro nel paese del denaro,
il nostro grande paese di soldi, noi (perdonaci)

vivemmo felicemente durante la guerra.

*

Our country is the stage.

When soldiers march into town, public assemblies are officially prohibited. But today, neighbors flock to the piano music from Sonya and Alfonso’s puppet show in Central Square. Some of us have climbed up into trees, others hide behind benches and telegraph poles.

When Petya, the deaf boy in the front row, sneezes, the sergeant puppet collapses, shrieking. He stands up again, snorts, shakes his fist at the laughing audience.
An army jeep swerves into the square, disgorging its own Sergeant.
Disperse immediately!
Disperse immediately! the puppet mimics in a wooden falsetto.
Everyone freezes except Petya, who keeps giggling. Someone claps a hand over his mouth. The Sergeant turns toward the boy, raising his finger.
You!
You! the puppet raises a finger.
Sonya watches her puppet, the puppet watches the Sergeant, the Sergeant watches Sonya and Alfonso, but the rest of us watch Petya lean back, gather all the spit in his throat, and launch it at the Sergeant.

The sound we do not hear lifts the gulls off the water.

*

Il nostro paese è il palcoscenico.
Quando i soldati marciano in città, gli assembramenti pubblici sono ufficialmente proibiti. Ma oggi i vicini affollano la musica per pianoforte dello spettacolo di marionette di Sonya e Alfonso nella piazza centrale. Alcuni di noi si sono arrampicati sugli alberi, altri si nascondono dietro panchine e pali del telegrafo.
Quando Petya, il ragazzo sordo in prima fila, starnutisce, il burattino sergente crolla, strillando. Si alza di nuovo, sbuffa, agita il pugno verso il pubblico che ride.
Una jeep dell’esercito sbanda nella piazza, vomitando il proprio sergente.
Disperdetevi immediatamente!
Disperdetevi immediatamente! il burattino mima in falsetto di legno.
Tutti si bloccano tranne Petya, che continua a ridacchiare. Qualcuno gli mette una mano sulla bocca. Il sergente si volta verso il ragazzo, alzando il dito.
Voi!
Voi! il burattino alza un dito.
Sonya guarda il suo burattino, il burattino guarda il sergente, il sergente guarda Sonya e Alfonso, ma il resto di noi guarda Petya appoggiarsi all’indietro, raccogliere tutto lo sputo in gola e lanciarlo contro il sergente.
Il suono che non sentiamo solleva i gabbiani dall’acqua.

Ucraina_esplosioni
from Deaf Republic:

1.

Such is the story made of stubbornness and a little air,
a story sung by those who danced before the Lord in quiet.
Who whirled and leapt. Giving voice to consonants that rise
with no protection but each other’s ears.
We are on our bellies in this silence, Lord.

Let us wash our faces in the wind and forget the strict shapes of affection.
Let the pregnant woman hold something of clay in her hand.
For the secret of patience is his wife’s patience
Let her man kneel on the roof, clearing his throat,
he who loved roofs, tonight and tonight, making love to her and her forgetting,
a man with a fast heartbeat, a woman dancing with a broom, uneven breath.
Let them borrow the light from the blind.
Let them kiss your forehead, approached from every angle.
What is silence? Something of the sky in us.
There will be evidence, there will be evidence.
Let them speak of air and its necessities. Whatever they will open, will open.

*
da Repubblica dei Sordi:

1.

Tale è la storia fatta di testardaggine e un po’ d’aria,
una storia cantata da coloro che hanno danzato in silenzio davanti al Signore.
Chi si voltò e saltò. Dando voce a consonanti che salgono
senza protezione se non le orecchie dell’altro.
Siamo sulle nostre pance in questo silenzio, Signore.

Laviamoci la faccia al vento e dimentichiamo le rigide forme dell’affetto.
Lascia che la donna incinta tenga in mano qualcosa di argilla.
Perché il segreto della pazienza è la pazienza di sua moglie
Lascia che il suo uomo si inginocchi sul tetto, schiarendosi la gola,
lui che amava i tetti, stanotte e stanotte, facendo l’amore con lei e dimenticandola,
un uomo con un battito cardiaco accelerato, una donna che balla con una scopa, alito irregolare.
Lascia che prendano in prestito la luce dai ciechi.
Lascia che ti bacino sulla fronte, avvicinati da ogni angolazione.
Che cos’è il silenzio? Qualcosa del cielo in noi.
Ci saranno prove, ci saranno prove.
Lasciamo che parlino dell’aria e delle sue necessità. Qualunque cosa apriranno, si aprirà.

10.

I kissed a woman

whose freckles
aroused our neighbors.

Her trembling lips
meant come to bed.
Her hair falling down in the middle

of the conversation
meant come to bed.
I walked in my hospital of thoughts.

Yes, I carried her off to bed
on the chair of my
hairy arms. But parted lips

meant kiss my parted lips,
I read those lips
without understanding

soft lips meant
kiss my soft lips.
Such is a silence

of a woman who
speaks against silence, knowing
silence is what

moves us to speak.

*

ho baciato una donna
le cui lentiggini
hanno eccitato i nostri vicini.

Le sue labbra tremanti
volevano dire di venire a letto.
I suoi capelli che cadono nel mezzo

della conversazione
volevano dire ci venire a letto.
Ho camminato nel mio ospedale dei pensieri.

Sì, l’ho portata a letto
sulla sedia delle mie
braccia pelose. Ma le labbra socchiuse

volevano baciare le mie labbra dischiuse,
ho letto quelle labbra
senza capire

cosa significassero quelle labbra morbide
che baciano le mie labbra morbide.
Tale è il silenzio

di una donna che
parla contro il silenzio, sapendo
che il silenzio è ciò che

ci spinge a parlare.

Marie Laure Colasson Struttura 30x30, 2020

Marie Laure Colasson, Fire, Dissipativ Structure, acrilic, 30×30, 2021 –
il loro appartamento tranquillo, per terra, acqua sporca dai loro stivali.

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11.

It is December 8 and my brother Tony was killed by the soldiers. December 8 and the police are reopening the Southern Trolleyways. December 8 when my wife lifts Tony’s body from the ground, his arm tied over her shoulder—her face is damp, her hair dirty. And the soldiers unveil the damn Trolleyways, and I stand feeling (a quick march of bumps across my back and thighs) nothing.

When she comes home, I run a bath for Sonya and wash her hair, gently mixing the finest of my brother’s shampoos with quiet precision, while Sonya cries and cries.

*

È l’8 dicembre e mio fratello Tony è stato ucciso dai soldati. L’8 dicembre la polizia sta riaprendo la Southern Trolleyways. L’8 dicembre, quando mia moglie solleva il corpo di Tony da terra, il suo braccio legato sulla sua spalla – il suo viso è umido, i suoi capelli sporchi. E i soldati svelano i maledetti Trolleyways, e io sto in piedi senza sentire (una rapida marcia di colpi sulla schiena e sulle cosce) niente.

Quando lei torna a casa, preparo un bagno per Sonya e le lavo i capelli, mescolando delicatamente i migliori shampoo di mio fratello con silenziosa precisione, mentre Sonya piange e piange.

12.

remember Tony arguing in front of his mirrors, the soldiers
were painting the trees, Tony sat

on the floor of white hair, and all the trees were
painted white. And he spat at Alfonso’s irony, but when

they played accordion, the fourth among us had no name.
“I am not sleeping with Tony! He simply cuts my hair!”

—but our dinner is a tiny blue fish and, with my lean brother-in-law,
we are playing cards. I pull spade after spade after spade but

this skinny sparrow, this barber no simple soul, takes me
with his fingers by my nose and kisses me, quickly, on the lips!

When Tony washed my hair, when Alfonso
kissed between my toes, when my lips

trembled, when the fourth one laughed, when Tony slept, slept in the earth,
on the empty streets of our district, a bit of wind

called for the life which no one knew, a life
which daily took all of us: my neighbor

taken, his wife taken, their apartment quiet.
I say this slowly, as if unaffected:

their apartment quiet, on the floor, dirty water from their boots.

*
ricorda Tony che litiga davanti ai suoi specchi, i soldati
stavano dipingendo gli alberi, Tony si sedette

sul pavimento di capelli bianchi, e tutti gli alberi erano
verniciato bianco. E sputò sull’ironia di Alfonso, ma quando

suonavano la fisarmonica, il quarto di noi non aveva nome.
“Non vado a letto con Tony! Mi taglia semplicemente i capelli!”

-ma la nostra cena è un pesciolino azzurro e, con il mio magro cognato,
stiamo giocando a carte. Tiro spade dopo spade dopo spade ma

questo passero magro, questo barbiere non semplice anima, mi prende
con le sue dita sul mio naso e mi bacia, velocemente, sulle labbra!

Quando Tony mi lavò i capelli, quando Alfonso
mi baciò tra le dita dei piedi, quando le mie labbra

tremarono, quando il quarto rideva, quando Tony dormiva, dormiva nella terra,
per le strade vuote del nostro quartiere, un po’ di vento

chiamato per la vita che nessuno conosceva, una vita
che ogni giorno ci prendeva tutti: il mio vicino

presa, sua moglie presa, il loro appartamento tranquillo.
Lo dico lentamente, come se fossi indifferente:

il loro appartamento tranquillo, per terra, acqua sporca dai loro stivali.

Ucraina 2

13.

Love cities, this is what my brother taught me

as he cut soldiers’ hair, then tidied tomatoes

watching Sonya and I dance on a soapy floor—
I open the window, say in a low voice, my brother.

The voice I do not hear when I speak to myself is the clearest voice.
But the sky was all around us once.

We played chess with empty matchboxes,
he wrote love letters to my wife

and ran outside and ran back, yelling to her, “You! Mail has arrived!”

Brother of a waltzing husband, barber of a waltzing wife

(I do not speak, you do not speak, we
do not speak, we do not speak, we do not)

waltzing away from himself
on Vasenka’s warm bricks —

he blessed us with his loneliness, a light winged being.
“Your legs stick out of your trousers too much!”

— Tony, yell at me. I need propping up

in this hairy leg business. A man on earth escapes and runs and yells and stands in silence-silence

which is a soul’s noise.
At the funeral I, embarrassed by resistance fighters

standing up to shake my hand, said
I wear your trousers, in the right hand pocket, a hole.

I wrap your hearing aids in this white t-shirt—

with brief gifts

you go my eye-green brother.
And I, a fool, live.

*
Amo le città, questo è quello che mi ha insegnato mio fratello

mentre tagliava i capelli dei soldati, poi riordinava i pomodori

guardando Sonya e io ballo su un pavimento insaponato —
Apro la finestra, dico a bassa voce, fratello mio.

La voce che non sento quando parlo a me stesso è la voce più chiara.
Ma il cielo era tutto intorno a noi una volta.

Abbiamo giocato a scacchi con scatole di fiammiferi vuote,
ha scritto lettere d’amore a mia moglie

e corse fuori e corse indietro, urlandole: “Tu! La posta è arrivata!”

Fratello di un marito valzer, barbiere di una moglie valzer

(Io non parlo, tu non parli, noi
non parliamo, non parliamo, non lo facciamo)

valzer lontano da se stesso
sui caldi mattoni di Vasenka,

ci ha benedetto con la sua solitudine, un essere alato leggero.
“Le tue gambe sporgono troppo dai pantaloni!”

– Tony, sgridami. Ho bisogno di sostenermi

in questa faccenda delle gambe pelose. Un uomo sulla terra fugge e corre e urla e sta in silenzio, silenzio

che è il rumore di un’anima.
Al funerale io, imbarazzato dai combattenti della resistenza

alzandomi per stringermi la mano, disse
Indosso i tuoi pantaloni, nella tasca destra, un buco.

Avvolgo i tuoi apparecchi acustici in questa maglietta bianca—

con brevi doni

tu vai fratello mio dagli occhi verdi.
E io, uno sciocco, vivo. Continua a leggere

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Poesie kitchen di Mauro Pierno, Francesco Paolo Intini, Riflessione di Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa, L’ipotiposi della repetitio e l’Enkleidung, Una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità si stabilisce tra le parole e le frasi come se ogni singola unità frastica attendesse di trovare la propria giustificazione dalla unità frastica che immediatamente la precede o la segue… non si tratta di somiglianza o di dissimiglianza tra le singole unità frastiche ma di uno slittamento, una vicinanza che è una lontananza, una contiguità che si rivela essere una dis-contiguità, una prossimità che si rivela essere una dis-prossimità

L’ipotiposi della repetitio di Mauro Pierno

È l’ipotiposi della repetitio che nella composizione di Mauro Pierno ha luogo. la repetitio assunta a tropo retorico fondamentale dell’Enkleidung, della modellizzazione secondaria qual è il testo poetico. Un dispositivo semplicissimo, un esempio inequivocabile di diafania applicata alla poesia della NOe. È la prima volta che un poeta italiano si misura con queste procedura, la poesia non ha un inizio e non ha una fine, potrebbe continuare all’infinito in quanto priva di epifania e priva del limite, è un esempio di modellizzazione all’infinito della narrazione letteraria in quanto non c’è più niente da modellizzare e da raccontare, il tramonto del plot in poesia non potrebbe essere più chiaro, è questo, il dado è tratto, così è se si vuole e se non si vuole.

La narrazione letteraria è un’elaborazione secondaria e, perciò, un Einkleidung, si tratta di un vestito di parole, un rivestimento, il travestimento di qualcosa d’altro. La narrazione dissimula e maschera la nudità dello Stoff. Come tutti le narrazioni, come tutte le elaborazioni secondarie, l’Einkleidung vela e rivela una nudità preesistente. Lo svelamento della nudità produce stupore e raccapriccio, è un trauma insopportabile per il sistema simbolico del «soggetto scabroso», e allora la nudità va ricoperta, nascosta, celata.

Il tema nascosto de I vestiti nuovi dell’imperatore [fiaba di Andersen] è il cuore del problema. Ciò che l’Einkleidung formale, letterario, secondario vela e disvela, è il sogno di velamento/disvelamento, l’unità del velo (velamento/disvelamento), del travestimento e della messa a nudo. Tale unità si trova, in una struttura indemagliabile, messa in scena sotto la forma di una nudità e di una veste invisibili, di un tessuto visibili per gli uni, invisibile per gli altri, nudità allo stesso tempo apparente ed esibita. La medesima stoffa nasconde e mostra lo Stoff pre-simbolico, vale a dire che la verità è ciò che è presente mediante una velatura simbolica.
Se penso a certe figure della mia poesia: il re di Denari, il re di Spade, l’Otto di spade, il Cavaliere di Coppe, Madame Hanska, Ençeladon, Cogito etc.; se penso a certi ritorni di figure tipicamente kitchen che si incontrano e si rincorrono da un libro all’altro e da un autore all’altro della poesia kitchen non posso non pensare che tutte queste figure non siano altro che Einkleidung, travisamenti, travestimenti, maschere di una nudità preesistente, di una nudità primaria, della freudiana «scena primaria» che non può essere descritta o rappresentata se non mediante sempre nuovi travestimenti, travisamenti, maschere, sostituzioni. Si ha qui una vera e propria ipotiposi della messa in scena della nudità primaria fatta con i trucchi di scena propri della messa in scena letteraria. E se questo aspetto è centrale in tutta la nuova ontologia estetica, una ragione dovrà pur esserci.

(Giorgio Linguaglossa)

Mauro Pierno

Cento coperchi
cento valvole
cento dentifrici
cento spazzole
cento parrucche
cento peluche
cento coltelli
cento cucchiai
cento occhiali
cento spalliere
cento quaderni
cento colori
cento penne
cento libri
cento cartelle
cento zaini
cento computer
cento bretelle
cento magliette
cento mollette
cento zollette
cento caffè
cento pentole
cento stivali,
cento assorbenti
cento uniformi
cento viti
cento anelli
cento pettini
cento bracciali
cento poltrone
cento biscotti
cento costumi
cento giacche
cento grucce
cento cartelli
cento zaini
cento palloni
cento calzini
cento pesci
cento pani
cento vini
cento cassette
cento stendini
cento asciugamani
cento corde
cento coriandoli
cento mensole
cento armadi
cento camicie
cento ovetti
cento berretti
cento zebre
cento bicchieri
cento bambole
cento profumi
cento soffitte
cento scope
cento lampade
cento pile
cento adesivi
cento cd
cento cornetti
cento cravatte
cento matite
cento mattoni
cento martelli
cento microfoni
cento bengala
cento tricicli
cento pattini
cento biciclette
cento auto
cento mollette
cento tappeti,
cento carri
cento cassaforti
cento pietre
cento ombrelloni
cento pullman
cento treni
cento orologi
cento organi
cento chitarre
cento spartiti,
cento cipolle
cento fiori
cento tamburi
cento rotelle
cento pneumatici
cento biliardi,
cento materassi
cento cuscini
cento fazzoletti
cento lavatrici
cento ascensori
cento piscine,
cento medaglie
cento scontrini
cento bambini

Francesco Paolo Intini

AUGH

Alesia ha qualcosa di Custer da mostrare:
Nei teepee si bruciano squaw e cuccioli vietnamiti

La celluloide mostra i protagonisti.
Avrà la sua vendetta il capo cheyenne
o sarà sorpreso nella toilette del campo?

Al bisonte è negato un barattolo d’erba cipollina
E dunque niente tundra siberiana

Il cecchino sul francobollo
spara al capo Xylella e dunque l’ulivo dai capelli bianchi
Può ricongiungersi all’ultimo mohicano

Alle stelle lo scalpo del benzinaio.
Tirano pure i distributori di lecca lecca

Tra le scorie del Tempo
L’ora piange il minuto e il secondo
È fermo a centrocampo

Si attende l’arbitro, ma la corriera da Giove
Ritarda di un dinosauro e mezzo.

TUTTI AL CAFFÈ VOLTAIRE

C’è la possibilità che il pesco armi il giardino
E dunque si gonfino gonne sugli sfiati d’aria

Balla una gemma sbattendo i tacchi
Tic-toc-toc-toc-tic-to-to-to-tic

Il primo albero che si stanca scemo è
Il secondo mangia il ramo di un lecca lecca

Un nocciolo lasciò la postazione nella polpa
e da quel momento gli scheletri abbandonarono la carne
ma non ci fu seguito tra le leve dei cambi.

L’orchidea avanza di un milligrammo:
che vi pare della modella grassa?

Il tempo firma un contratto miliardario
con il mandorlo. Una tromba vi seppellirà
ma intanto esce linfa buona dai piccioli.

Potremo sfamare la televisione di stato
Con le merendine all’albicocca.

Anche il suono è ottimo:
i tegami suonano l’inno nazionale:
Dlin Dlen abbasso la CO2

I nuclei sono occupati in un’orgia planetaria
e non vogliono saperne della calvizie di Einstein.

Sugli schermi del ciliegio
Un ippopotamo annuncia la fusione con la Luna
E il primo lotto di crateri last minute.

Nota di Marie Laure Colasson

Nella poesia kitchen il pensiero logico-sequenziale, di tipo “alfabetico”, sembra essere stato in buona parte sostituito da un tipo di pensiero nello stesso tempo “olistico” e “multi-tasking”.
Il dizionario Garzanti scrive che con multi-taksing «si dice di sistema operativo (informatico) in grado di eseguire contemporaneamente più programmi alternando il tempo dedicato all’esecuzione di ciascuno di essi.
Etimologia: ← voce ingl.; comp. di multi- ‘multi-’ e il v. to task ‘assegnare un compito’.»

L’idea della «nuova poesia» si può riassumere così: disattivare il significato da ogni atto linguistico, de-automatizzarlo, deviarlo, esautorare il dispositivo comunicazionale, creare un vuoto nel linguaggio, sostituire la logica del referente con la logica del non-referente. Ogni linguaggio riposa su delle presupposizioni comunemente accettate. Non è qui in questione ciò che il linguaggio propriamente indica, ma quel che gli consente di indicare.
Scrive Giorgio Linguaglossa: «Una parola ne presuppone sempre delle altre che possono sostituirla, completarla o dare ad essa delle alternative: è a questa condizione che il linguaggio si dispone in modo da designare delle cose, stati di cose o azioni secondo un insieme di convenzioni, implicite e soggettive, un altro tipo di riferimenti o di presupposti. Parlando, io non indico soltanto cose e azioni, ma compio già degli atti che assicurano un rapporto con l’interlocutore conformemente alle nostre rispettive situazioni: ordino, interrogo, prometto, prego, produco degli “atti linguistici” (speech-act)».
Per la «nuova poesia» è prioritaria l’esigenza di disattivare l’organizzazione referenziale del linguaggio, aprire degli spazi di indeterminazione, di indecidibilità, creare proposizioni che non abbiano alcuna referenza che per convenzione la comunità linguistica si è data.

Una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità si stabilisce tra le parole e le frasi come se ogni singola unità frastica attendesse di trovare la propria giustificazione dalla unità frastica che immediatamente la precede o la segue… non si tratta di somiglianza o di dissimiglianza tra le singole unità frastiche ma di uno slittamento, una vicinanza che è una lontananza, una contiguità che si rivela essere una dis-contiguità, una prossimità che si rivela essere una dis-prossimità… si tratta di una dis-cordanza, di un dis-formismo che si stabilisce tra i singoli sintagmi… anche le unità di luogo e di tempo della mimesis aristotelica sembrano dissolversi in una fitta nebbia e, con la dissoluzione della mimesis, viene meno anche la giustificazione di un io plenipotenziario e panottico, viene meno anche la maneggevole sicurezza del corrimano del significato. Modus tipico di questa procedura è la poesia di Francesco Paolo Intini.
È una poesia che fa larghissimo impiego di «sovraeccitazioni», di shock, di continui sussulti, di strappi, di traumi… È perché viviamo in una società traumatizzata, che fa del trauma una necessità di vita e una necessità del mercato. Basta osservare il panorama della politica di oggi: Trump, Bolsonaro, Putin, Erdogan, Salvini, Meloni, Orban, parte dei 5Stelle, i populisti nazionalisti e sciovinisti fanno amplissimo uso della sovra eccitazione; gli stessi media Facebook, Instagram, Twitter, i telegiornali lottizzati e non etc non sono altro che una vetrina e un diario di notizie che puntano sulla sovra eccitazione; la stessa forma-merce, nel design e nel marketing punta tutto sullo stato di sovra eccitazione delle masse di possibili acquirenti. Tutto punta allo stato di eccitazione e di surplus di eccitazione, non vedo perché la forma-poesia ne debba rimanere estranea.

Ha scritto Lucio Mayoor Tosi:

«La scrittura NOE è più vicina al pensare stesso, ne riprende le modalità. Per questo, nonostante le stranezze, i salti semantici, penso si tratti di poesie ri-conoscibili. Perché tutti pensano, e spesso parlano, in modo incoerente. NOE è vicina all’aspetto sorgivo del pensiero… come anche tutta la poesia di sempre, solo che in altri modi si avverte il profumo del potpourri, violette e lavanda, cose del consueto, del corredo.»

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.
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Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione.

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Uno spettro si aggira per il mondo della poesia di accademia che si fa in Italia, Lo spettro della poetry kitchen, Poesie kitchen di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Gino Rago, La poesia kitchen si fa con quello che abbiamo in frigorifero, Moda, Moschino Fall winter 2022

foto Moschino Fall winter 2022

Moschino, Fall winter, 2022 – esempio di compostaggio ibrido di elementi kitsch. Nell’ipermoderno la Moda anticipa le tendenze artistiche ed interpreta al meglio lo spirito dei tempi –

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Lo spettro della Poetry kitchen

Uno spettro si aggira per il mondo della poesia di accademia che si fa in Italia…
Lo spettro della poetry kitchen
Possiamo perimetrare il luogo vacante del soggetto a misura dell’insuccesso della simbolizzazione

Il detto secondo cui «l’io non è più padrone in casa propria», significa che l’io è uno straniero a se stesso, che nella soggettività si annida una alienazione primaria non eliminabile

non possiamo pensare nulla che preceda il linguaggio, il Reale appare, da un lato come una eccentricità interna ad esso, dall’altro come un eccedente della struttura linguistica

La parola è il cavallo di Troia, una volta che fa ingresso nella città delle parole, si perde nelle strade più svariate, e il significante è il suo cavaliere che crede ingenuamente di guidare il cavallo secondo i suoi desideri, ma si inganna

Il Reale in sé non è assolutamente nulla, è semplicemente
un vuoto nella struttura simbolica che segnala una impossibilità. Il Reale non equivale a qualcosa di esterno che non si lascia catturare dalla rete simbolica ma rappresenta la smagliatura stessa all’interno di tale rete

È il linguaggio pubblicitario che impone al linguaggio poetico le sue regole, si tratta di una modifica del linguaggio che è avvenuta nelle profondità. Oggi la politica estetica la fa la pubblicità

Wo Es war soll Ich werden, significa, per Lacan, che l’io non emerge dall’abisso dell’inconscio come un’isola dal mare, ma è un luogo di emersione della verità del soggetto ciò che riconduce l’io alla sua dimensione immaginaria

(citazioni a cura di Marie Laure Colasson)

“L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata”. “Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto” .1

La diafania del mondo del capitalismo cognitivo rende incognito ciò che non è diafanico, ciò che appare in superficie non corrisponde più a ciò che è nel profondo e che affiora dal profondo perché non c’è più profondità ma soltanto superficie superficiaria.

Se tutto è linguaggio implica che nulla è linguaggio, il linguaggio corrisponde direttamente con il nulla.

Nelle condizioni del capitalismo diafanico e del totalitarismo putiniano la poiesis semplicemente non ha un luogo, non ha luogo. L’arte totalmente oscurata di cui narrava Adorno è divenuta ratio del profitto, e quindi deiettata fuori della logica del capitalismo cognitivo che si regge sulla legislazione inconscia del profitto. La poiesis oggi in Occidente non è neanche legislazione inconscia di un qualcosa d’altro ma linguaggio superficiario della superficie.

(Giorgio Linguaglossa)

1 T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, 1970, trad. it. pp. 32,33

Francesco Paolo Intini

A mio avviso il vuoto che circonda la poesia Noe somiglia paradossalmente alla bevanda in cui sono immerse le bolle di gas. Ogni verso ha questa possibilità, di andare oltre, deflagrare in qualche altro universo, germinare altrove portandosi dietro il Dna del poeta che la pressione del proprio tempo ha conficcato nel profondo della lattina. E dunque c’è lo stare assieme dominati dalla legge della serendipità e da poche altre che entrano in funzione quando si è stretti nello stesso spazio e c’è che poi, all’atto dell’apertura del sigillo, ciascun verso viaggia per suo conto, mettendo un microsenso al posto di guida.
In quale terra si approda? Dove porta la forza propulsiva della spuma?
Anche indietro nel tempo dove il presente tocca qualche zolla del passato:

I piemontesi entrarono in casa nostra a cavallo sotto la neve di febbraio.
“Qu’est qu’il y à dans cet enfer?”. Le truppe distribuivano pasticcini al vaiolo.
Questa mattina il generale Cialdini sorseggia un tè, nel caffè Francesco II.

Ma lo spazio è dominato da onde distruttive non previste da alcuna teoria o proprio perché banali nella loro crudeltà e semplicità scartate a priori perché ritenute impossibili e irreali. Cosa può una semplice bolla di piacevole iridescenza contro un mare in tempesta?
C’è da mettere nella stiva un po’ di tutto anche “un tailleur nuovo per il giorno dell’ Apocalisse” come fa l’ottimo Vincenzo Petronelli e quelli come me che si riconoscono in queste pagine:

Le insegne già spente oltre l’ora del coprifuoco. “Avete il green pass?”
Il cameriere serve spezzatino in zuppa e filetto Stroganoff.
“Volodymyr, per il giorno dell’Apocalisse pensavo di indossare il nuovo tailleur”.

Basterà il desiderio di non arrendersi per sopravvivere?
I nuclei di alcuni atomi scalpitano nelle ogive, non vedono l’ora di passare ai fatti dopo anni di noia ad aspettare. Stalin e Kruscev e tutti quelli che a loro tempo fecero da controparte della cortina, sembrano giganti a confronto con gli attuali lillipuziani, pasticcioni e vanagloriosi che agitano lo spettro della distruzione finale come se fosse qualcosa di trattabile da cui riprendersi subito dopo con delle benda qui e là e qualche disputa accesa nei salotti buoni della televisione.
In tutta questa crudeltà di animi che spazio c’è ancora per la parola dopo che, spogliata di qualunque bellezza, rivela il mostro al suo interno?

Francesco Paolo Intini

Colazione al plutonio

L’uomo nero si spaventa per il nucleo sottosopra.
Chi l’ha sabotato?

E mentre il sospetto cade sull’ acciuga della margherita
nell’ altro universo, dove il nulla è un signor qualcuno,
chi fischietta indifferente e chi porta la valigia delle 10.25.

Dall’uovo di T.S. Eliot spunta un T-Rex
E il via vai è forte tra Wall Street e il tegamino.

Gino Rago

da Storie di una pallottola e della gallina Nanin 

La poetry kitchen è anche la poiesis della cucina;
ma il frigorifero è vuoto.
Dunque, lottare con il vuoto, ma vuoto non è il frigorifero,
il vuoto è nelle parole stesse.
Siamo alla fine della immortalità, bisogna ricorrere alle metafore cinetiche.
chi intenda fare poetry kitchen dev’essere nella consapevolezza
che della funzione di vedetta su una nave

n. 11

Il commissario Montalbano spegne la sgaretta.
Poi fa un monologo interiore a bassa voce.
Dice:
«Madame Colasson,
la pallottola calibro 7.65 del suo revolver può ridurre ad uno scolapasta
quel distinto Signore di Stavrakakis
e invece ha colpito
un platano del libro di Gino Rago I platani sul Tevere diventano betulle,
mentre il suo autore, il distinto poeta,
correva dietro le sottane di Catherine Deneuve…
Lo so, non è stata Lei a sparare…
Ritengo che in qualche modo abbia la sua parte quel Linguaglossa,
il titolare dell’Ufficio Affari Riservati di via Pietro Giordani,
l’energumeno che ha trattato la tangente per 65 milioni di dollari
con gli emissari di Putin.
Anche i leghisti, lo sa, sono una banda bassotti della peggiore specie,
dove possono arraffano…
Stia attenta anche a quel filosofo greco
che si spaccia per marxista…
In verità, io dei marxisti non mi fido,
preferisco loro la crossdresser Ewa Kant,
presidia sempre il marciapiede al Moulin Rouge…»

Il dottor Montalbano riprende fiato.
Poi dice:
«Madame Colasson,
vede quel Signore lì? Quello con la giacca a quadretti?
E’ Alain Robbe-Grillet.
Sì, lo scrittore.
Crede di essere un avatar, un calzolaio, un aiuto lavapiatti.
Sta là dietro,
nel retrobottega, in cucina come addetto alla lavanderia
e alle pulizie dello stabile,
al pronto soccorso delle parole in ortopedia.

Nella sala d’attesa dell’aeroporto
Liz Taylor e Audrey Hepburn litigano.
Vogliono un posto in una Struttura dissipativa della Colasson,
invece vi precipita Italo Calvino con tutte le scarpe.
Adesso Marlon Brando fa il posteggiatore abusivo a Fiumicino
e Robert Mitchum fa l’autista di taxi in “Taxi driver”.

Sulla testa di Robbe-Grillet cadono palloncini colorati,
carte da gioco,
un corno di corallo, una statuina decapitata, un collare per cani,
una crema di aloe, un totem in alabastro,
una confezione di taralli
e un tubetto di dentifricio “Colgate” con fluoro activ…

Madame Colasson, Lei non ha un alibi!».

Mauro Pierno
Compostaggio (luglio 2021)

Laura aveva 10 anelli: uno per ogni dito
quanti i figli nati anche con i cesarei.

Il mare dall’oblò.
A Venezia il parrucchiere per signore von Aschenbach.

La rotta degli alluci coincide con il prossimo anticiclone che trafùga oggetti alla primavera.

Dove i treni non si fermano
lì è il luogo ove sostare.

Le relazioni verticali in poesia sono fittizie. In realtà ogni verso è parte di un lungo testo orizzontale

Sopravvivere all’attacco dei versi. Pandemia che provoca vomito e bifida la lingua.Optare per l’uno o l’altro.

Buon Giorno Signor Klister. Ha risolto il problema?
Con tutto il materiale indiziario in suo possesso,
dovrebbe giungere a conclusione il contezioso con le parti offese.

Il piano finale è senza interruzione. Le divise corte,
con calzoncini alle ginocchia. Le magliettine estive.

Una giraffa dialoga con il tempo sul tempo del tempo
prende il suo tempo seduta su uno sgabello da bar

gesticola e discute con un corvo che fuma un sigaro avana

Ed un becco di pappagallo che noi perdemmo nel ventitré, pre, preprepreprepre pre pre

Venite in vacanza qui
Comfort, camere sanificate, picnic,

Colazione a buffet, piscina con idro, sale relax
e penne bic

La Ladyboy Aris fa sesso con il Macho Zozzilla
Gli dice: «Il Green Pass passerà»

Prima, una bella vacanza, poi l’abitudine.
– Eh.

Ciò che conta è quello che manca, ciò che manca è quello che conta. Sta scritto nel thriller.

È ora che ti scegli un marito se non vuoi superare la trentina e trovarti nel dimenticatoio. Anche questo sta nel thriller.

“Non abbiamo già abbastanza guai,
da andarceli a cercare a tutti i costi? Cosa c’è, ti puzza
l’aria, che vuoi andar via da qua?”, con gli occhi accesi

Noi camminiamo sulla riva del mare
È ieri. È oggi. Ci si accosta, ci si sorride
Precipitiamo. Pioggia. Sole. E di nuovo pioggia
Sappiamo che l’inverno non è lontano
È ieri. È oggi. Rammento soltanto le tue mani.
Sappiamo che ieri è già domani. Continua a leggere

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Poesie di Vincenzo Petronelli, Il vuoto come spazio creativo, La poesia del modernismo di Herbert istituisce la metafora assoluta che collima con il pensiero intuitivo. Nella metafora viene immediatamente ad evidenza l’eterogeneo e il contraddittorio che permeano l’esistenza quotidiana degli uomini. «Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», scrive Adorno in Dialettica negativa. Ciò che nel linguaggio si rispecchia, il linguaggio non lo può rappresentare, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Saul Steinberg Lady in bath 1

Saul Steinberg, woman in bath, 1949 – L’attesa

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Non è Aristotele che nel De memoria sostiene che gli umani sono: «coloro che percepiscono il tempo, gli unici, fra gli animali, a ricordare, e ciò per mezzo di cui ricordando è ciò per mezzo di cui essi percepiscono [il tempo]»? – Dunque, possiamo dire che la Memoria sarebbe una funzione della coscienza del tempo. Anzi, dopo Heidegger si dovrebbe parlare di una funzione della temporalità nel suo rapporto con l’esserci, la nostra esistenza si situerebbe negli interstizi tra le temporalità dell’esserci. La temporalità immaginaria e quella empirica. Il «vuoto» non è affatto una esperienza, non si può fare espereinza del «vuoto», il «vuoto» avviene e basta, avviene nel linguaggio come mancanza di linguaggio, infatti la nuova poesia della nuova fenomenologia del poetico intende il «vuoto» come distanza dai propri contenuti personali, dalle fraseologie giustificazioniste dell’io.

La poesia esistenzialista del modernismo novecentesco si situa nella zona di congiunzione tra temporalità e memoria. Quella zona opaca, insondabile dove hanno luogo gli eventi opachi e porosi, quei momenti di lacerazione dell’esistenza che noi percepiamo distintamente attraverso la lente della memoria. Là sono situati i momenti significativi dell’esistenza di cui noi stessi nulla sappiamo, ma che cosa sia quella lacerazione e che rapporti abbia con la memoria, è davvero un mistero. L’esperienza dell’esserci heideggeriano è fondamentalmente ubiqua: abita la memoria e la temporalità.

Bene illustrano questa condizione spirituale i tropi adottati dalla nuova poesia della nuova ontologia estetica, in particolare i concetti di disfania e di diafania, in una certa misura, concetti gemelli che indicano il «guardare attraverso» della diafania e il «guardare tra» della disfania. Guardare attraverso i linguaggi. La parola poetica si situerebbe dunque «tra» due manifestazioni (Phanes è il dio della manifestazione visibile, la luce,) e «attraverso» esse perspicere due modi diversi di sondare la memoria. È in questo guardare obliquo, in diagonale che si situa il discorso poetico della «nuova ontologia estetica», dove il tempo dello sguardo indica la temporalità dell’esserci. La metafora è il non identico sotto l’aspetto dell’identità.

Foto Descending Man, Photo by Jason Langer
Descending man, Jason Langer

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La poesia lavora incessantemente attorno ad alcune poche metafore, ma per giungere alle metafore fondamentali occorre un pensiero poetico che speculi intorno alle cose fondamentali, ecco perché soltanto il pensiero mitico riesce ad esprimersi in metafore, perché nel mito la contraddizione e la metafora sono di casa e tra di esse non c’è antinomia e una medesima legge del logos le governa. Ad esempio, in questa a quartina di Zbigniew Herbert è rappresenta una metafora fondamentale:

il proiettile che ho sparato
durante la grande guerra
ha fatto il giro del globo
e mi ha colpito alle spalle

La poesia del modernismo di Herbert istituisce la metafora assoluta che collima con il pensiero intuitivo. Nella metafora viene immediatamente ad evidenza l’eterogeneo e il contraddittorio che permeano l’esistenza quotidiana degli uomini. «Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi»,1] scrive Adorno in Dialettica negativa. «Ciò che nel linguaggio si rispecchia, il linguaggio non lo può rappresentare».2] È questa l’aporia del linguaggio. La tautologia e la contraddizione mostrano che esse si trovano, convergono, nella metafora, la quale contiene in sé sia la tautologia (il non-identico è lo stesso che l’identico) che la contraddizione (il non-identico non è l’identico). Da ciò se ne può dedurre che nella metafora convergono tutte le aporie del linguaggio, il lato effabile e il lato ineffabile, il dicibile e l’indicibile. Talché voler estromettere la metafora dal discorso poetico è come voler aggiustare Procuste mettendolo sul letto di Procuste.

Il discorso poetico del modernismo tende «naturalmente» alla metafora e alla metonimiaNella poesia modernista classica l’assurdo e il derisorio si fondano sul reddito di cittadinanza della storia, nient’altro che un titolo di borsa, gli uomini sono i titolari di questo titolo a scadenza fissa, titoli trimestrali, decennali e ventennali che valgono fin che valgono, fin quando lo stato non dichiara default. La storia, che dopo il 1989 è stata destituita in storialità, aveva senso per il modernismo proprio perché ha un significato e la poesia modernista aveva il compito specifico di presentare il falso e il similoro, da Eliot al primo Montale fino a Herbert. La nuova poesia della nuova fenomenologia del poetico invece parte dal concetto opposto: la storialità non richiede più l’ausilio della memoria e del tempo, la memoria e il tempo si sono frantumati e il linguaggio poetico assume l’opzione sospensiva, sospende il tempo e lo spazio, i suoi frasari sfiorano sempre il corrimano dell’assurdo e delll’ultroneo,  scoprono il «fuori significato» e il «fuori senso», il «fuori tempo» e il «fuori spazio».

1] T.W. Adorno, Dialettica negativa, Verlag, 1966, trad. it. Einaudi di Carlo Alberto Donolo, 1970 p. 42
2] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 1979 p. 33

Lucio Mayoor Tosi Germinazioni

Lucio Mayoor Tosi, Untitled, acrilico su legno 80×80, 2022

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Due poesie di Vincenzo Petronelli

Il vuoto come spazio creativo

Affinando sempre più il proprio percorso, la Nuova ontologia estetica ha individuato la sua dimensione valorizzante nella poetica delle sedimentazioni della parola, partendo dalla raccolta differenziata dei residui, dai reflui depositati tra le macerie dei discorsi e delle scritture, per giungere alla ricostruzione delle tessere affastellate nel vuoto della nostra epoca, tratteggiandone, ma con la peculiarità di un’attitudine quasi pre-analitica, la filogenesi stessa. Il concetto di vuoto, più volte ripreso da Giorgio Linguaglossa su L’Ombra delle Parole è illuminante nel rappresentare epistemologicamente la poetica della Noe. La nuova ontologia estetica, in fondo, si caratterizza per il suo impegno verso una ridefinizione critica della poiesis e, conseguentemente, di una sua palingenesi, che non può non partire, come sempre del resto, nelle fasi di ri-generazione dell’uomo, da un’iniziale deflagrazione, che disarticoli le impalcature del “sistema”.

Del resto si tratta di una riflessione ben nota ai filosofi, agli antropologi e storici delle religioni, agli studiosi di psicanalisi: «In ogni chaos c’è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto» così suona un aforisma di Carl Gustav Jung.

Il vuoto, come sottolinea Giorgio Linguaglossa, che nella visione materialistica dominante nella nostra società, viene inteso come nulla, come dissoluzione di spazi pieni (semplicemente perché lo spazio vuoto non è contemplato nella cultura del “riempimento”, dello sfruttamento intensivo dei contorni) è in realtà l’anfratto in cui si cela lo spazio vitale, l’energia creativa del cosmo.

Si sa che le scienze suddette (filosofia, antropologia, storia delle religioni, psicanalisi) fondano proprio sulle contrapposizioni binarie, le spiegazioni delle teorie della vita e del cosmo: esattamente come evidenziato nell’aforisma di Jung, chaos e cosmos.

La ricerca antropologica ha da tempo messo in evidenza come alla base di vari sistemi e modelli culturali, sia antichi che contemporanei, si trovino teorie e credenze che ripropongono tale classificazione dualistica della realtà, fondate ad esempio sulla polarità sessuale, oppure su opposizioni proprie della sfera spirituale: basti pensare ad esempio alla contrapposizione sacro/profano, puro/impuro. Come ha evidenziato la filosofa Francesca Gambetti, lo stesso logos, il ragionamento, la matrice della riflessione filosofica, nasce come tentativo di sottrazione ordinante delle vicende umane dal caos. I grandi miti cosmogonici della Teogonia esiodea si basano proprio sulla narrazione della nascita dell’universo, a partire dallo spazio del chaos primigenio, del kosmos, come verrà definito dai Pitagorici.

La teogonia, a partire dalle vittorie di Kronos e di Zeus, ritrae cosmicamente il trionfo dell’ordine sovrano sulla natura, per poi successivamente, quando tempo cosmico, tempo religioso e tempo degli uomini finalmente si integrarono, a partire dal VI secolo a.C., sostituire alle genealogie divine quelle umane, che fondandosi sugli stessi schemi, raccontano colonizzazioni, fondazioni di città ed esplorazioni, per approdare dalle cosmogonie alle cosmografie, ed essere infine traslate verso le narrazioni dei primi filosofi.

Ecco, la potenza del vuoto è nella sua immensa forza creatrice, ma c’è bisogno di uno sconvolgimento tellurico per valorizzarla, essendo ormai la nostra società imballata comodamente nei suoi depositi ingombranti, nei quali è ormai scaffalata anche buona parte della produzione della cosiddetta intelligencija, protesa esclusivamente ad una concezione dell’impegno intellettuale intesa come perpetuazione del proprio scranno.

Guardandosi bene ovviamente, dai rischi insiti in qualsiasi forma di “ordinamento” post rivoluzionario, la Noe si pone precisamente come detonatore di tale forza tellurica, in grado di ristabilire non tanto un nuovo modello poetico in sé per sé, quanto una nuova visione del mondo, per il tramite della poesia, che rifletti realmente la condizione dell’uomo di oggi.

Fragmenta historica 2

Lady D’Ardboe legge poesie di Proust al sabato nel suo salone sul Donegal.
Suo marito cura la scabbia con lo spritz ed alleva vitelli via internet.

Dall’uscio, la ragazza vede gli animali inginocchiati: in fondo
anche la figlia di un pastore può sfiorare le costole del Signore.

Il carico di droga è già sbarcato a Brandon Bay.
In quest’esercizio non si fa credito. Non si accettano resi sul venduto.

Al confine orientale, i contadini nell’afterhour scattano selfies.
Rifugiati di etnìa Pashtun accucciati in primo piano, implorano la grazia.

La donna avrà cinquant’anni, forse novanta. Cerca pezzi da rivendere
il carburatore, forse lo spinterogeno: sputa in terra con la bocca impastata.

Joseph Ward combattè contro gli inglesi nell’Easter Riding.
Suo nipote ha fatto carriera, assicurando carichi d’armi verso lo Zimbabwe.
Hic et nunc: qui ed ora, in saecula saeculorum.

Le insegne già spente oltre l’ora del coprifuoco. “Avete il green pass?”
Il cameriere serve spezzatino in zuppa e filetto Stroganoff.
“Volodymyr, per il giorno dell’Apocalisse pensavo di indossare il nuovo tailleur”.

“Gli Yankees peggiori sono proprio quelli di sangue irlandese.
Ormai preferiscono gli spaghetti all’Irish stew”.
“Padre, mi ha appena sfiorata. Sono impura?”.

Nella sua camera del Metropolitan, Artemidora ha una flebo nel braccio.
Una macchia di limone si allarga sul suo letto.
Dopo pranzo arriva il “cessato allarme” via mail.

Fragmenta historica 3

I piemontesi entrarono in casa nostra a cavallo sotto la neve di febbraio.
“Qu’est qu’il y à dans cet enfer?”. Le truppe distribuivano pasticcini al vaiolo.
Questa mattina il generale Cialdini sorseggia un tè, nel caffè Francesco II.

Chamberlain ordina sushi formula all you can eat tramite whatsapp
dopo aver scongiurato la guerra. A tavola con lui, Breton legge Il capitale.

Ivan Ilič discute con il fornaio dal braccio anchilosato ed i baffi
asimmetrici; si scambiano gli elmetti e le croci sul petto.

Si accede dall’entrata di servizio, al porto di Barcelona nel 1937.
I proletari surrealisti cantano melodie in minore: “Adios Guernica y que será, será”.

L’Uruguay ha un capezzolo turgido ed il grembo dilatato.
Sigarette, whisky y coño: “what a wonderful world!”
La poltrona shiatsu davanti al fonte battesimale.

L’ultima volta che hanno visto Tanya offriva bottiglie molotov in piazza.
I soldati decifravano la guepière, contando i denti tra le dita.

“Perché non cucini per i nostri difensori, non lavori calzini a maglia?”
“Buon Dio! Perché non vieni a riprenderti i guerrieri?”

Era il sesto giorno della creazione dell’Ucraina ed era primavera.
L’arcangelo Gabriele era il fantasma dell’opera al teatro di Kyiv.

Al mattino, si torna come sempre a lavorare
Sotto la coperta livida di Cork.

.

Vincenzo Petronelli, è nato a Barletta l’8 novembre del 1970 e risiede ad Erba in provincia di Como, dove è approdato diciotto anni fa. Dal 2018 è presidente del gruppo letterario Ammin Acarya di Como, impegnato nella divulgazione ed organizzazione di eventi nell’ambito letterario e poetico. Alcuni suoi scritti sono presenti nelle antologie IPOET 2017 e Il Segreto delle Fragole 2018 (Lietocolle), Mai la Parola rimane sola, edita nel 2017 dall’associazione Ammin  Acarya di Como e sulla rivista on line lombradelleparole.wordpress.com.

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Poesie di Giorgio Linguaglossa da Distretto n. 18 Il Signor Dobermann è entrato nella mia stanza, si è guardato intorno con sospetto. I canarini all’improvviso cessarono di cantare. All’epoca non c’era ancora l’energia elettrica, non era ancora venuta l’era dei pulsanti e degli interruttori. L’ospite mi ha chiesto con delicatezza di aprire la gabbia dei canarini, di strozzarli con le mie mani, uno ad uno, ed io mi sono voltato a guardare la tartaruga col carapace che si illumina e la finestra aperta

Lampada, foto

foto di Marie Laure Colasson (2022), l’abat jour di Stanza n. 89

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Giorgio Linguaglossa

da Distretto n. 18

(di prossima pubblicazione con Transeuropa Ed.)

Il Signor Dobermann è entrato nella mia stanza, si è guardato intorno con sospetto. I canarini all’improvviso cessarono di cantare. All’epoca non c’era ancora l’energia elettrica, non era ancora venuta l’era dei pulsanti e degli interruttori. L’ospite mi ha chiesto con delicatezza di aprire la gabbia dei canarini, di strozzarli con le mie mani, uno ad uno, ed io mi sono voltato a guardare la tartaruga col carapace che si illumina e la finestra aperta dalla quale il vento del nord è entrato nella stanza e ha spazzato via i corpi dei pennuti. Un corvo che io capii essere un messaggero del buon augurio prese a picchiettare sul vetro della finestra, la spalancai ma non c’era più, volato via, gli alberi però erano ancora là, aspettavano qualcosa… le tazzine del caffè erano rovesciate, le cicche delle sigarette riempivano i posaceneri

«Chi è il Signor Dobermann?»
«Non lo so»
«Chi è K.?»
«Non lo so»
«Cogito?»
«È morto. È stato un personaggio delle mie poesie, tanto tempo fa»
«Enceladon?»
«Non lo so. Anche lei è stata un personaggio delle mie poesie»
«Un personaggio immaginario?»
«Sì»
«Madame Hanska?»
«Una mia invenzione»
«Anche lei un personaggio delle sue poesie?»
«Sì»
«Madame Tedio?»
«Anche quella, una mia invenzione»
«Marco Flaminio Rufo?»
«Un personaggio di Borges»
«Lei parla sempre con personaggi inesistenti?»
«Sì, che c’è di male?»
«Lei è un mitomane, caro poeta, un baro»
«Sì… forse»
[…]
«Mi parli della sua infanzia»
«Non ho avuto una infanzia»
«Mi parli di Lei»
«Non saprei cosa dirLe»
«Ogni sua affermazione…»
«È una negazione»
«Mi parli delle sue passioni»
«Non ho passioni, le ho perdute»
«Donne?»
«Anche quelle…»
«Di suo padre?»
«È morto»
«Sua madre?»
«Non ho avuto una madre»
«Si riconosce colpevole?»
«Di che cosa?»
«Del delitto»
«Cogito sa tutto»
«Non ha nessuno al mondo?»
«Nessuno»
«Allora, può morire»
«Sì»
«O forse, vivere…»
«Sì».
«Ha dei ricordi?»
«Hmmm…»
«In una sua poesia scrive di aver discusso con Ponzio Pilato»
«Sì, ci ho parlato»
«E che le ha detto?»
«Non ricordo»
«Possibile, non ricorda nulla?»
«Era avvolto in una toga rossa»
«E poi?»
«Aveva mal di testa»
«Ha incontrato Jeshua Hanozri?»
«Sì»
«Lo ha visto di persona, intendo, in viso?»
«Era di spalle»
«Le ha parlato?»
«Parlava»
«A chi parlava?»
«A degli straccioni»
«Straccioni?»
«Sì, la folla che lo salutava come un Messia»
«Che cosa diceva?»
«Non ricordo»
«Non ricorda nient’altro?»
«Nient’altro»
«Mi dica un suo ricordo. Qualsiasi.»
«Non ho ricordi»
«Non ha niente altro da dirmi?»
«Niente»
«Tutto qui?»
«Tutto qui»

Distretto n. 18

È entrato nella stanza all‘ora della pausa pranzo.
Si è seduto sulla sedia a dondolo
– il Signor K., in maniche di camicia –
«Un Campari?».
Guardò attraverso la finestra aperta
dalla quale un vento sporco rimestava gli angoli della stanza come alla ricerca
di una refurtiva nascosta.
«Non c’è fretta, caro Linguaglossa, c’è posto per tutti
per le visioni, le revisioni e le permutazioni…»

Gli impiegati di banca entravano ed uscivano dai bar,
sembravano preoccuparsi di qualcosa d’altro;
li percepivo nella nebbia, come se ci fosse un filtro,
i polsini delle camicie con i gemelli in finto oro, le spille, i fermacravatte
con le cravatte dozzinali,
il fumo delle sigarette tra gli scaffali e le bibite, le mani
che si stringono alle maniglie…
ricordo il profumo di un vestito femminile
non saprei dire…

Esteves è uscito dalla tabaccheria, s’è voltato, mi ha visto,
mi ha salutato con un cenno;
io mi sono alzato dalla sedia, sono andato alla finestra,
e gli ho risposto: «ciao Esteves!»,
poi la nebbia gialla è entrata nella stanza

La nebbia gialla strofina il petto sui vetri della finestra,
la pioggia fitta sui vetri,
le persone negli autobus vorrebbero dire qualcosa,
si tengono ai ganci;
una donna si ripassa il rossetto sulle labbra, fa una smorfia,
si osserva allo specchietto

Rivedo Giusy attraverso un acquario,
appoggiata allo stipite della porta;
mi getta un’occhiata, sorride, si volta all’indietro.

«Ricordi, Alberto?, ero con il mio terrier, “Coccobill”,
al luna park, all’Eur, sulla Grande Ruota!
stavamo così stretti!, poi venne il buio, una pioggia fitta…
lo ricordi Alberto?»;
io mi schernii: «no, non lo ricordo…»,
dissi,
però non le ho detto che non ero io…

La pioggia cadeva fitta
mi venne in mente che fosse una estranea;
dissi semplicemente:
«un caffè, ti va?», così,
per prendere tempo.
«chiudi la porta, Giusy».
Aggiunsi:
«Non dimenticare di chiudere sempre la porta alle tue spalle».

Mi sporsi dalla finestra per vedere
se gli alberi erano ancora lì.
«C’è troppo caldo qui, non si respira…», dissi

La incontrai molti anni dopo sulla Berkeley street,
la spider rossa parcheggiata tra gli alberi
il tubino aderente
il décolleté rosso fuoco

Cadeva una pioggia fitta sullo Stanbergersee.
«ripariamoci, andiamo via di qui,
fa freddo…»,
dissi.

Nel linguaggio della metafisica le cose sono collocate nel loro «luogo» (Ort) presso il quale il dire si spoglia di tutte le finzioni della retorica e della inautenticità della vita quotidiana; in base a questa categoria la perdita del «luogo» significa la dispersione dell’esistenza e la dissoluzione della memoria, infatti noi avvertiamo la «presenza» dell’esistenza soltanto quando ci allontaniamo dall’esistenza, quando siamo ex stasis, quando abitiamo la «presenza» di un’altra temporalità, una temporalità estraniata; avvertiamo la distanza dal tempo soltanto quando abitiamo un altro tempo e un altro spazio, in ciò penso risiede il significato dell’ek-esistenzialismo della  poesia di Distretto n. 18, in quello slogamento, in quella divaricazione che si apre tra un tempo, quello del quotidiano, e l’altro, quello dell’immaginario.  Andrea Emo in Quaderni di metafisica (Quaderno 359, 1973), ha una posizione tipicamente modernista, per il filosofo italiano il «passato e la memoria sono il regno di Dio» («Nel passato… è l’unica sede dell’assoluto… (ché) il passato e la memoria sono il regno di Dio… e (solo) nel passato si manifesta l’assoluto che siamo»). Oggi, in pieno Post-postmodernismo, siamo usciti fuori da questa equazione: Passato=Memoria, la poiesis più evoluta ne è consapevole, gli eventi della pandemia e della guerra di aggressione all’Ucraina rendono evidente che siamo in presenza di eventi traumatici, la storia destoricizzata in storialità ci ha posto davanti alla storialità che è ridiventata storia, e l’Occidente è chiamato a riepilogare la propria storia e a respingere la barbarie che viene dall’Est. Questa presa di consapevolezza dell’Europa ci pone davanti all’imperativo della assunzione delle proprie responsabilità, e la poesia anche deve assumersi le proprie responsabilità.1

1 R. Gasparotti, Note sul pensiero di A. Emo, in Andrea Emo, Quaderni di metafisica 1927/1981, Bompiani, Milano 2007, p. 1388. Essere e nulla non sono allora contrapposti, bensì co-implicati, in quanto «gli enti appaiono dal nulla, da quello specifico sfondo abissale che consente loro di ex-sistere, di star-fuori dal Principio, per poi, attraverso un ulteriore atto di negazione, farvi ritorno: ogni ente manifesta il ni-ente e, nel mondo, l’eternità rinasce con gli enti come effimera» (p. 86)
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