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Slavoj Žižek, da Kazimir Malevič a Marcel Duchamp, dal Quadrato nero su fondo bianco al ready made c’è già scritto il destino del modernismo con le sue avanguardie e le sue postavanguardie. Il Novecento è finito, e con esso anche le stagioni delle avanguardie e delle retroguardie, Che cos’è il Reale? Il Reale è sempre parallattico, Sul concetto di parallasse

Foto Malevitch Quadrato

Kazimir Malevič Quadrato nero, 1915, olio su lino, 79.5 x 79.5 cm, Galleria Tret’jakovMosca[1]

Slavoj Žižek

da Kazimir Malevič a Marcel Duchamp 

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il Quadrato nero su superficie bianca di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.

L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttametne esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»1

(S. Žižek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine, 2010 pp. 28-29)

pittura marcel duchamp 1

Marcel Duchamp

Slavoj Zizek, Il Trash sublime

«… nell’arte contemporanea il margine che separa lo spazio consacrato del bello sublime dallo spazio escrementizio del trash (i rifiuti), si sta gradualmente assottigliando fino ad arrivare ad una paradossale identità degli opposti: i moderni oggetti artistici sempre più escrementizi, trash (spesso in senso esattamente letterale: feci, corpi in putrefazione, ecc.) non sono forse esibiti per – fatti al fine di, destinati a riempire – il LUOGO Sacro della Cosa? Non è forse questa identità la “verità nascosta” dell’intero movimento? Qualsiasi elemento che reclami di diritto di occupare il Luogo Sacro della Cosa non è forse un oggetto escrementizio per definizione, un rifiuto che non può mai essere “all’altezza del suo compito”? Questa identità della definizione degli opposti (l’elusivo oggetto sublime e/o il rifiuto escrementizio) con la minaccia sempre presente che l’uno sconfinerà nell’altro, che il sublime Graal si rivelerà essere un pezzo di merda, è iscritta proprio nel nocciolo dell’objet petit a lacaniano.

Questa impasse è, nella sua dimensione più radicale, l’impasse che influisce sul processo di sublimazione, non tanto nel senso che la produzione artistica non sia più oggi capace di realizzare oggetti semplicemente “sublimi”, quanto in un senso molto più radicale. Si può affermare, infatti, che lo schema fondamentale della sublimazione – quella del Vuoto centrale, dello Spazio vuoto (“Sacro”) della Cosa esonerata dal circuito dell’economia quotidiana, che viene infine riempito da un oggetto positivo che è “elevato alla dignità della Cosa” (definizione lacaniana della sublimazione) – è sempre più minacciato. Ciò che qui è minacciat è proprio lo scarto tra il Luogo Vuoto e l’elemento (positivo) che lo riempie. Quindi, se il problema dell’arte tradizionale (pre-moderna) era quello di riempire il sublime vuoto della Cosa (il Luogo puro) con un oggetto bello – ossia come riuscire ad elevare efficacemente un oggetto comune alla dignità della Cosa – il problema dell’arte moderna è, in un certo senso, quello opposto (e molto più disperato): non si può più contare sul fatto che il Luogo sacro sia lì, pronto per essere occupato dai manufatti umani; perciò il compito è di sostenere il Luogo come tale, per assicurarci che questo stesso luogo “avrà luogo”. In altre parole, il problema non è più quello dell’horror vacui, riempire il Vuoto, ma piuttosto quello, innanzitutto, di CREARE il Vuoto. Diventa, perciò, cruciale la co-dipendenza tra un luogo vuoto, non occupato, e un oggetto elusivo che si muove rapidamente, un occupante senza un posto?

Il punto è che c’è semplicemente il surplus di un elemento rispetto agli spazi disponibili nella struttura, o il surplus di un posto che non ha alcun elemento che lo occupi; infatti, un posto vuoto nella struttura sostiene la fantasia di un elemento che presto o tarsi lo colmerà, mentre un elemento eccedente senza posto sostiene la fantasia di un luogo ancora sconosciuto che lo attende. Il punto è invece che il posto vuoto nella struttura è in se stesso correlativo all’elemento eccedente che manca al suo posto: essi non sono due entità diverse, ma il diritto e il rovescio di un’identica entità, quell’una e medesima entità che si iscrive nelle due superfici del chiasma di Moebius. In altre parole, il paradosso è che soltanto un elemento che è completamente “fuori luogo” (un escremento, un rifiuto o uno scarto) può reggere il vuoto di un luogo vuoto – cioè la situazione à la Mallarmè, in cui “nulla, tranne il luogo avrà luogo”; nel momento in cui questo elemento eccedente “trovasse il posto giusto”, non ci sarebbe più nessuno Luogo puro distinto dagli elementi che lo riempiono.

duchamp-bicycle-wheel

m. duchamp bicycle wheel

Ed effettivamente, come suggerisce Gerard Wajcman il grande sforzo dell’arte moderna non è proprio quello di mantenere la struttura minima della sublimazione, uno scarto impercettibile tra il Luogo e l’elemento che lo riempie? Non è questa la ragione per cui il Quadrato nero su Fondo Bianco di Kazimir Malevič riduce il meccanismo artistico alle sue componenti essenziali, alla mera distinzione tra il Vuoto (lo sfondo, la superficie bianca) e l’elemento (la macchia del quadrato)? Dovremmo cioè sempre ricordare che il tempo verbale stesso (il futuro anteriore) del famoso rien n’aura eu lieu que le lieu (“nulla avrà avuto luogo se non il luogo stesso”) chiarifica che abbiamo a che fare con uno stato utopico il quale, per ragioni strutturali a priori, non può realizzarsi nel presente (non ci sarà mai un tempo presente in cui “solo il luogo stesso avrà luogo”). Non è semplicemente che il Luogo conferisca all’oggetto che lo occupa una dignità sublime; è che soltanto la presenza dell’oggetto sostiene il Vuoto del Luogo sacro, ma sarà sempre qualcosa che, retroattivamente, “avrà avuto luogo” dopo esser stato intralciato da un elemento positivo. In altre parole, se sottraiamo dal Vuoto l’elemento positivo, “il piccolo pezzettino di realtà”, la macchia eccedente che disturba l’equilibrio, non otteniamo il puro Vuoto equilibrato come tale; il Vuoto stesso, piuttosto, scompare, non è più lì.

Perciò il motivo per cui gli escrementi sono elevati al rango di opera d’arte, utilizzati per colmare il Vuoto della Cosa, non è semplicemente quello di mostrare come “anything goes – qualsiasi cosa va bene”, come l’oggetto sia, in definitiva, indifferente, dal momento che qualsiasi oggetto può essere elevato ad occupare il Luogo della Cosa: questo ricorrere agli escrementi testimonia, piuttosto, l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo sacro c’è ancora. Il problema è che oggi, nel duplice movimento della mercificazione progressiva dell’estetica, e dell’estetizzazione delle merci, un oggetto bello (piacevolmente esteticamente) può sostenere sempre meno il Vuoto della Cosa – è come se, paradossalmente, l’unico modo per mantenere il Luogo (Sacro) sia di riempirlo di rifiuti e di escrementi. Gli artisti contemporanei che espongono escrementi come oggetti d’arte, lungi dall’indebolire la logica della sublimazione, in realtà si sforzano disperatamente di salvarla. Le conseguenze di questo collasso dell’elemento nel Vuoto del Luogo sono potenzialmente catastrofiche: infatti, senza uno scarto minimo tra l’elemento e il suo Luogo, non esiste ordine simbolico: cioè, noi dimoriamo dentro l’ordine simbolico solamente in quanto qualsiasi presenza appare contro lo sfondo della sua possibile assenza (questo è ciò a cui Lacan allude con il concetto del significante fallico come significante della castrazione: è un significante “puro”, il significante come tale, nella sua accezione più elementare, in quanto proprio la sua stessa presenza evoca la SUA STESSA possibile assenza/mancanza).

Forse la definizione più concisa della rottura modernista in campo artistico è proprio che, grazie ad essa, la tensione tra l’Oggetto (arte) e lo Spazio che esso occupa è considerata riflessivamente: ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte non sono semplicemente le sue caratteristiche materiali, ma il luogo che occupa, il Luogo (sacro) del vuoto della Cosa. In altre parole, con l’arte modernista, si perde per sempre una certa innocenza: non possiamo più fingere di produrre oggetti che, in virtù delle proprie caratteristiche, cioè indipendentemente dallo spazio che occupano, “siano” opere d’arte. Per questa ragione, l’arte moderna si divide, fin dalle sue origini, proprio nei suoi due estremi, Malevič da un lato, Duchamp dall’altro. da una parte, l’enfatizzazione pura del vuoto che separa l’Oggetto dal suo Spazio (il Quadrato nero); dall’altra, l’esposizione di un oggetto quotidiano (una ruota di bicicletta) come opera d’arte, per dimostrare che l’arte non si fonda sulle qualità dell’opera d’arte, ma esclusivamente sullo Spazio che esso occupa, in modo che qualsiasi cosa, anche se è merda, possa “essere” un’opera d’arte se si trova nel Luogo giusto. E qualsiasi cosa venga fatta dopo la rottura modernista, anche se è un ritorno al falso neoclassicismo alla Arno Breker, è già “mediata” da questa rottura. Prendiamo un realista del XX secolo come Edward Hopper: ci sono almeno tre aspetti del suo lavoro che testimoniano questa mediazione. Primo, la ben nota tendenza di Hopper a dipingere paesaggi urbani di notte, soli, in stanze molto illuminate, visti dall’esterno attraverso una finestra (anche quando la finestra non è direttamente percepibile, il quadro è dipinto in modo tale che lo spettatore sia spinto a immaginare una cornice immateriale e invisibile che lo separa dagli oggetti raffigurati). Secondo, il modo in cui sono dipinti i suoi quadri e la sua tecnica iperrealista, producono nello spettatore un effetto di irrealtà, come se si stesse osservando qualcosa di onirico, spettrale, etereo, invece che comuni oggetti materiali (come l’erba bianca nei suoi quadri campestri). Terzo, il fatto che la serie di quadri raffiguranti sua moglie seduta in una stanza solitaria, fortemente soleggiata, mentre guarda attraverso una finestra aperta, sono percepiti come un frammento disarmonico di una scena globale, che necessita di un supplemento, che rimanda ad un invisibile spazio fuori campo, come il fotogramma di una sequenza cinematografica privo del suo contro-campo (e in effetti si può sostenere che questi quadri di Hopper siano già “mediati” dall’esperienza cinematografica).»*

* (S. Zizek, Il Trash sublime, Mimesis minima, Milano, 2013 pp. 33-37)

pittura Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years - 1915 to 1923 - to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, ...

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il Quadrato nero su superficie bianca di Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.
L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttamente esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»**

** (S. Zizek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine, 2010 pp. 28-29)

Sul concetto di parallasse

The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *

La definizione comune di parallasse è: lo spostamento apparente di un oggetto (lo spostamento della sua posizione rispetto a uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di osservazione che fornisce una nuova linea di visione. La svolta filosofica da aggiungere, ovviamente, è che la differenza osservata non è semplicemente “soggettiva”, a causa del fatto che lo stesso oggetto che esiste “là fuori” è visto da due diverse stazioni o punti di vista. È piuttosto che […] uno spostamento “epistemologico” nel punto di vista del soggetto riflette sempre uno spostamento “ontologico” nell’oggetto stesso. O, per dirla in Lacanese, lo sguardo del soggetto è sempre-già inscritto nell’oggetto stesso percepito, nelle vesti del suo ‘punto cieco’, quello che è ‘nell’oggetto più che nell’oggetto stesso’, il punto da cui il oggetto stesso restituisce lo sguardo

* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.

Il Reale parallattico

«Il “Reale” non è la disposizione effettiva, ma il nucleo traumatico di un antagonismo sociale che deforma la percezione dei membri della tribù della disposizione attuale delle case nel loro villaggio. Il reale è la X rimossa in base alla quale la nostra visione della realtà viene distorta anamorficamente, è al tempo stesso la Cosa a cui non si può accedere direttamente e l’ostacolo che impedisce questo accesso diretto, la Cosa che elude la nostra comprensione e lo schermo deformante che ci impedisce di cogliere la Cosa. Il definitiva, il reale è lo spostamento di prospettiva dal primo punto di osservazione al secondo. Pensiamo alla celebre frase di Adorno del carattere antagonista del concetto di società (quella individualista-nominalista anglosassone e quella organicista di Durkheim  della società come totalità che preesiste agli individui) appare irriducibile e sembra di avere a che fare con una vera antinomia kantiana che non può essere risolta tramite una “sintesi dialettica superiore e che eleva la società a una Cosa-in sé inaccessibile. Ad un secondo approccio, però, bisognerebbe notare come questa antinomia radicale che sembra precludere ogni accesso alla Cosa sia già la Cosa stessa: la caratteristica fondamentale della società di oggi è l’antagonismo inconciliabile tra il Tutto e l’individuo. Ciò significa che in fondo lo statuto del Reale è puramente parallattico e, in quanto tale, non sostanziale: non ha densità sostanziale di per sé, è solo uno scarto tra due punti prospettici, percepibile solo nello spostamento da un punto all’altro. Il Reale parallattico si contrappone così alla tradizionale nozione (lacaniana) del Reale come ciò che “ritorna sempre al suo posto”, come ciò che in tutti gli universi (simbolici) possibili rimane costante: il Reale parallattico è piuttosto ciò che rende conto della moltitudine di manifestazioni della stesso Reale sottostante».*

(da The Parallax View, 2006, trad. it. La visione di parallasse, il melangolo, 2013, pp. 41-42)

Žižek, Slavoj. – Filosofo e psicoanalista sloveno (n. Lubiana 1949). Tra i più importanti e incisivi pensatori contemporanei, docente di Filosofia e psicoanalisi all’European graduate school (Svizzera) e visiting professor presso numerosi atenei europei e statunitensi, muovendosi dalle teorie lacaniane ha sottoposto a una serrata revisione critica conflitti e contraddizioni della contemporaneità per come essi emergono dai modelli culturali proposti dalla letteratura popolare e dal cinema; di quest’ultimo ha indagato il gioco di sguardi incrociati tra autore, spettatore e oggetti in Gaze and voice as love objects (2004; trad. it. Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi, 2004), analizzandone il ruolo di strumento di formazione del desiderio e dedicando approfonditi saggi al lavoro di singoli registi – quali In his bold gaze my ruin is writ large (1992; trad. it. L’universo di Hitchcock, 2008), The fright of real tears, Kieslowski and the future (2001; trad. it. Paura delle lacrime vere. Krzysztof Kieslowski fra teoria e post-teoria, 2010), The art of the ridiculous sublime. On David Lynch’s lost highway (2000; trad. it. Lynch. Il ridicolo sublime, 2011). Pensatore a tutto campo, in anni più recenti Z. ha esteso la sua analisi a temi politici e sociali quali la guerra in Iraq (Iraq. The borrowed kettle, 2004; trad. it. 2004), la crisi del marxismo (First as tragedy, then as farce, 2009; trad. it. 2010), e dei modelli di sviluppo contemporanei (Living in the end times, 2010; trad. it. 2011). Autore estremamente prolifico, tra i suoi saggi più recenti occorre citare almento Less than nothing. Hegel and the shadow of dialectical materialism (2012; trad. it. 2013); The year of dreaming dangerously (2012; trad. it. 2013); Žižek’s jokes (Did you hear the one about Hegel and negation?) (2014; trad. it. 107 storielle di Žižek (La sai quella su Hegel e la negazione?), 2014); Islam and modernity. Some blasphemic reflexions (2015; trad. it. 2015); entrambi nel 2017, The courage of hopelessness: chronicles of a year of acting dangerously (trad. it. 2017) e Disparities (trad. it. 2017); Like a thief in broad daylight (2018; trad. it. 2019); nel 2020 la raccolta di articoli Virus, catastrofe e solidarietà e Pandemic! Covid-19 shakes the worldHegel in a wired brain (2020; trad. it. Hegel e il cervello postumano, 2021); Heaven in disorder (2022; trad. it. Guida perversa alla politica globale, 2022). Nel 2017 il filosofo è stato insignito del Premio Hemingway per “l’avventura del pensiero”. (Treccani)

16 commenti

Archiviato in filosofia

INTERVISTA DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A MAURIZIO FERRARIS SULLE QUESTIONI AFFERENTI A UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA (a proposito del suo libro appena edito Emergenze, Einaudi, 2016)

(Realizzazioni grafiche di Lucio Mayoor Tosi: i poeti della NOE)

INTERVISTA

Domanda: Una domanda preliminare: per conoscere il significato di una cosa, dobbiamo aspettare la rivelazione o, come si dice in gergo, l’ispirazione?, oppure dobbiamo «trovare» la cosa che cercavamo?

Risposta: «Non c’è un in sé della natura umana, non c’è un significato pentecostale, bensì un divenire storico, in cui la tecnica gioca un ruolo costitutivo: capiamo che cosa vogliamo e chi siamo dalle tecniche che adoperiamo. La rivelazione non si è affatto conclusa con l’Apocalisse; continua, appunto per merito della tecnica, che è la protesi di ogni costruzione».

Domanda: Che cosa dobbiamo fare per conoscere noi stessi?

Risposta: «Oggi siamo in una condizione migliore per rispondere a un interrogativo vecchio come il “Conosci te stesso!” iscritto nel tempio di Apollo a Delfi. Per conoscere noi stessi, per rispondere alla domanda: “Che cos’è l’uomo?” (interrogativo antropologico) è necessario rispondere alla domanda: “Che cosa è la tecnica?” (interrogativo tecnologico). Dopotutto, anche l’enigma di Edipo la cui risposta è “l’uomo” aveva come chiave di volta un apparato tecnico, il bastone».

Domanda:  Lei afferma che il «capitalismo» è stato assorbito dalla e nella «tecnica». Infatti lei scrive:

«a lungo il capitalismo è stato il collettore delle esigenze tecniche della umanità, il grande quadro di spiegazione, ma anche il Grande Fantasma di un Significato Pentecostale. Oggi dobbiamo superare questo quadro di spiegazione e riferirci al reticolo documentale che costituisce la società e che oggi si manifesta in modo particolarmente visibile nel web […] In definitiva, quello che è avvenuto è stato effettivamente lo spossessamento del capitale per opera non della classe operaia, bensì dei mezzi di produzione, ossia appunto per opera della tecnica».

Non le pare una affermazione un po’ troppo perentoria?

Risposta: «Non siamo noi i costruttori dei nostri totem e dei nostri tabù: sono loro che ci precedono e ci costituiscono. Il più delle volte, ben lungi dal negoziare o dall’offrire consenso, seguiamo le norme senza pensarci o senza discuterle o anche – ed è comunissimo… – senza condividerle. Proprio come nessuno ha bisogno di conoscere il funzionamento degli ascensori per usarne uno, così ben pochi conoscono le norme a cui aderiscono e che gli sono state inculcate dall’educazione e dalle abitudini, cioè dagli elementi essenziali della costruzione del mondo sociale»

Testata politticoDomanda: Lei ha scritto: «è nuova ontologia che viene ad alimentare l’epistemologia». Poiché sulla rivista sulla quale scrivo, abbiamo parlato a dismisura di «nuova ontologia estetica», ci può dire qualcosa in proposito? In particolare: quando sorge una nuova ontologia, ciò significa che qualcosa si è mosso, laggiù, in quello che lei chiama «reale»? Mi spiego meglio: una nuova ontologia apre le porte ad una nuova epistemologia? Ad una nuova arte? Ad una nuova poesia? Possiamo affermare che stanno così le cose? Oppure, che una nuova ontologia è preceduta da una nuova epistemologia?

Risposta: «Dopo l’essere (che non necessariamente ha senso) e prima del sapere (che necessariamente ne ha), c’è la fenomenologia, la dottrina per cui qualcosa si manifesta come qualcosa e in cui ha luogo l’emergere di fenomeni che manifestano un senso, come direzione da cui, nel tempo, potrà (ma non necessariamente dovrà) emergere un senso, come comprensione… non sembra esserci alcunché di magico: certe trasformazioni avvengono e non sembrano richiedere l’intervento di un significato pentecostale. Butto il sale nell’acqua della pasta e il sale si scioglie».

Domanda: ne deduco che l’ontologia è una ricerca di senso, giusto?

Risposta: «Nel periodo cambriano, tra i 540 e i 485 milioni di anni fa, i trilobiti smisero di girare in tondo e seguirono una direzione. Ciò che li portò a dar senso alla loro esistenza, e a incontrare un ambiente molto più vasto di quanto non conoscessero in precedenza. Più vasto e più attrezzato, in realtà, perché a sua volta possedeva dei sensi, che non dipendevano, anche nel caso dei trilobiti, da un senso conferito dal pensiero, bensì dalle direzioni, dalle resistenze e dagli inviti degli individui.

Parlando di senso come direzione sono consapevole di proporre un uso filosoficamente anomalo di questa parola. Solitamente con “senso” i filosofi intendono il modo di darsi, la modalità di presentazione di un oggetto a un soggetto. Ma senza il senso come movimento (che precede ogni comprensione) non avremmo il senso come modalità di presentazione, e poi come comprensione di un significato.

L’esempio della poesia e della versificazione è illuminante: il significato deriva dalla prosodia invece che precederla, il che giustifica le teorie circa l’origine poetica del linguaggio».

Domanda: Si può dire che una ontologia è una lettura del tempo, dello spazio e della storia?

Risposta: «Kant osserva che la divisione dello spazio dipende strettamente dalla nostra costituzione fisica, dal fatto che abbiamo una testa e dei piedi (alto/basso), una fronte e una nuca (davanti/dietro), una destra e una sinistra.

Proprio questa serie di determinazioni dello schema corporeo ci permette di riconoscere gli oggetti: in un foglio, distinguiamo perciò l’alto, il basso, il recto, il verso, e il senso della scrittura (poco importa se da sinistra a destra o altrimenti). e questo vale anche per i nostri giudizi sulle regioni cosmiche. Orientarsi nello spazio significa trovare l’Oriente, e di lì distinguere rispetto all’Occidente, al Settentrione e al Meridione. ma questo non è possibile senza il sentimento della destra e della sinistra, che è una intuizione sensibile e corporea che regola anche le nostre intuizioni astronomiche, matematiche e speculative – ossia il nostro orientamento nel mondo e nel pensiero. Questa prospettiva fa emergere il senso dal corpo e dall’ambiente, urta frontalmente con il costruttivismo kantiano…».

Domanda: Anche noi urtiamo ad ogni momento con il costruttivismo dei «tolemaici», di coloro i quali affermano che non c’è bisogno di nessuna «nuova ontologia», in specie «estetica», perché quella che ci hanno lasciato in eredità dal Novecento ci è sufficiente.

Risposta: «Le cose esistono solo per dei soggetti, che dunque ne sono responsabili a più titoli, dal moralista kantiano al pastore dell’essere heideggeriano…»

Domanda: Lei scrive: «Prima o poi, dice il proverbio, la verità viene a galla. È proprio così. La verità, e la realtà a cui si riferisce, emerge per forza propria, e non viene costruita con le deboli facoltà degli esseri umani, come hanno immodestamente preteso tanti filosofi».1]

Io non ne sarei così sicura.

Risposta: «La coscienza, il sapere, i valori e i filosofi trascendentali sono pezzi di realtà, esattamente come l’elettricità, la fotosintesi e la digestione, ed emergono dalla realtà così come crescono i funghi. Il mondo intero, cioè la totalità degli individui, è il risultato di una emergenza che non dipende né dal pensiero né dagli schemi concettuali sebbene questi possano ovviamente conoscerlo. Ma la fisica e la logica, empirismo e trascendentalismo sono semplici approssimazioni agli individui, designati con nomi generali – particelle elementari, dinosauri, gasometri, manometri e binari del tram. La sola esistenza è quella degli individui, e la conoscenza perfetta è conoscenza di individui, ed è storica tanto se si occupa dei Comneni quanto dei gasteropodi, delle galassie o dei bacilli della tubercolosi. Non siamo né nel migliore né nel peggiore dei mondi possibili, ma nell’unico che ci sia, e che non è né una superficie piatta e banale, una chora indifferenziata o un impasto per biscotti, ma formata, robusta, indipendente e dotata di una ricchezza spaziale e di profondità temporale più ampia di tutti i mondi possibili, fatta di una immensità di eventi rilevanti o senza effetto, di meraviglie, di vite memorabili, di mostruosità e di stupidità senza nome. Qualcosa è sopravvissuto, e tra quegli individui ci siamo, in questo preciso momento, voi e io. 2]

Domanda: Gli uomini sono esseri quadridimensionali?

Risposta: «Gli individui sono fatti di spaziotempo, e della registrazione che rende possibili; di qui la loro natura quadridimensionale. i punti dello spazio, proprio come gli istanti del tempo, sono tenuti insieme dalla memoria, che nello spazio assicura la compresenza di punti, linee e superfici, mentre nel tempo permette che il presente ricordi il passato, qualificandosi appunto come presente. A livello ontologico, il quadridimensionalismo come iscrizione della traccia (perché questo, in ultima istanza, è il quadridimensionalismo: che insieme al lungo, al largo e al profondo ci sia anche il passato) assicura l’evoluzione, ossia lo sviluppo delle interazioni. in secondo luogo, a livello epistemologico, quello in cui la memoria ricorda, il quadridimensionalismo permette la historia, la ricostruzione dello sviluppo temporale degli individui. Se Proust ne avesse avuto il tempo, avrebbe potuto scrivere la storia dell’universo. Provo a spiegare questa affermazione magniloquente.

La domanda ontologica “che cosa c’è?” può allora venire articolata in due domande distinte: da una parte “che cosa c’è per noi, in quanto osservatori interni allo spazio tempo?”; dall’altra “che cosa ci sarebbe per un osservatore privilegiato, che osservasse lo spaziotempo dal di fuori?”. Dall’interno dello spaziotempo incontriamo entità tridimensionali che si estendono nello spazio e persistono nel tempo. Dal di fuori, invece, ci osserverebbero entità quadridimensionali estese sia nello spazio sia nel tempo. La Recherche prova a guardare, dall’interno dello spaziotempo, le cose come le si vedrebbero dall’esterno dello spaziotempo. La conclusione di Proust è che questo sguardo assoluto vede le cose “oltre che con gli occhi, con la memoria”. Osservati in questo modo – nella matinée Guermantes – gli ospiti della principessa appaiono finalmente al Narratore “come giganti immersi negli anni”. Nella prospettiva proustiana, la domanda ontologica “che cosa c’è per noi, in quanto osservatori interni allo spaziotempo?” ha una risposta tridimensionalista soltanto se ci si limita ad osservare con la percezione; la risposta risulta invece quadridimensionalista se si osserva anche con la memoria. Ecco perché Prosut sostiene che la vera vita sia la letteratura: perché è la vita registrata, fissata in un documento, e resa quadridimensionale.

Domanda: il problema che si pone a noi oggi, a distanza di cento anni da La Recherche, è questo: ma noi sappiamo che esso [il segno] esiste come «traccia» di un qualcosa che non le preesiste, di un passato che non è mai stato presente e che non può essere rievocato perché è stato revocato. Vale a dire che non possiamo più ripetere l’operazione di Proust tale e quale, ne deriva che la quadridimensionalità proustiana si deve vestire di nuovi modi di rappresentare il tridimensionale e il quadridimensionale. Ed è quello che noi stiamo tentando di indagare con la nostra proposta di una Nuova Ontologia Estetica che si muova nell’orizzonte del mondo quadri dimensionale, un quadri dimensionalismo esperito dall’«interno», cosa molto diversa dal quadridimensionalismo visto dall’«esterno» come finora è stato fatto dalla poesia e dal romanzo del novecento.

Risposta: Il quadridimensionalismo dell’osservatore proustiano è però differente da quello dell’osservatore esterno. Per quest’ultimo non esistono passato, presente e futuro; esistono soltanto relazioni temporali di precedenza e successione. Invece per l’osservatore proustiano c’è un istante temporale privilegiato, il presente, il punto dello spaziotempo in cui l’osservazione avviene. Questo fa sì che, all’osservatore proustiano, le cose appaiano come sdoppiate, con uno sdoppiamento che si riproduce nella distinzione tra io narrante e io narrato: da una parte, un’apparenza tridimensionale che la percezione presenta come presente (come tuttora esistente); dall’altra, una profondità quadridimensionale che la memoria rappresenta come passato (come non più esistente).

Dunque già nell’esperienza percettiva gli individui non appaiono perfettamente tridimensionali, bensì muniti di una scia quadridimensionale, di una connessione con il passato che favorisce l’integrazione di percezione e memoria. Ma con l’abitudine questa scia si stempera, perde luce. Il tempo passato – il ricordo – diventa piatto, film o scrittura sedimentata, impronta ripetuta e scolorita di una sensazione, una madeleine, un selciato sconnesso, il tintinnio di una posata provocano la resurrezione del passato, ossia fanno apparire il tempo nello spazio. Il passato, nella sua profondità quadridimensionale, è accessibile all’esperienza in quanto ricordato dalla memoria, ed è ricordato dalla memoria in quanto ripetuto dalla materia.

Questo può apparire contro intuitivo, giacché la nostra rappresentazione degli individui è tridimensionale. A ben vedere, però, la quadridimensionalità fa parte di individui comuni che rientrano nella nostra esperienza più ordinaria…».1]

1] i testi citati di Maurizio Ferraris sono tratti da Emergenze, Einaudi, 2016

costantina-donatella-giancaspero Donatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, (Edizioni d’arte Il Bulino, Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013. Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).

Maurizio_Ferraris_2011Maurizio Ferraris (http://www.labont.it/ferraris/) insegna Filosofia teoretica nell’Università di Torino, dove dirige il Centro Interuniversitario di Ontologia Teorica e Applicata. Visiting professor nelle principali università europee e americane, collaboratore del «Sole 24 ore», direttore della «Rivista di Estetica», ha scritto piú di trenta libri, di ermeneutica, estetica e ontologia, tra cui Storia dell’ermeneutica (1988), Estetica razionale (1997), A Taste for the Secret (con Jacques Derrida, 2001), Il mondo esterno (2001), Dove sei? Ontologia del telefonino (2005, Premio Filosofico Castiglioncello), Sans Papier. Ontologia dell’attualità (2007), La fidanzata automatica (2007) e Manifesto del nuovo realismo (2012). Per Einaudi ha curato e introdotto L’altra estetica (2001), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione (2012, con Mario De Caro) e ha pubblicato Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani (2008) e Emergenza (2016).

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ROBERTO BERTOLDO INTERVISTA SUL PENSIERO DEBOLE a cura di Giorgio Linguaglossa: Crisi del sistema teologico della modernità, Il postmoderno, quindi il postmoderno forte, non finirà – La crisi del soggetto, L’arte è ineliminabile Continuità, discontinuità, invarianti Modello problematologico – Cambio di paradigma – L’arte è ineliminabile – Il poeta non può non farsi carico della complessità del mondo e dei suoi mali, Il Nuovo Realismo

Intervista a Roberto Bertoldo a cura di Giorgio Linguaglossa

Domanda: A metà degli anni Ottanta i saggi del volume curato da Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo (Feltrinelli 1983) sul pensiero debole contribuirono ad introdurre una nuova terminologia: “crisi”, “negativo”, “declino”, “disincanto”, “dismissione” “abbandono, “oblio”, “tragico”, “morte”. Oggi, qual è a tuo parere la costellazione di categorie alla quale dobbiamo fare riferimento per comprendere il mondo che abbiamo intorno?

Risposta: La terminologia a cui si allinea, secondo Gianfranco Marrone, il pensiero debole è evidentemente quella dei filoni filosofici che sono stati raccolti sotto l’egida di una filosofia continentale pretestuosamente unitaria, contrapposta alla presunta filosofia analitica. Parlo di pretestuosità e presunzione perché considero poco attendibile il divario tra filosofia analitica e continentale se non forse a livello linguistico, nel senso che la prima è più metalinguistica, almeno nella versione wittgensteiniana, quella per esempio con cui Wittgenstein apre il Libro blu. Così basti pensare ai divari parziali presenti nella cosiddetta filosofia continentale tra la psicanalisi e il marxismo o tra la fenomenologia e l’esistenzialismo, correnti a loro volta assai stratificate. Succede la stessa cosa di quando vengono opposti genericamente platonismo e aristotelismo. Insomma, si produce più confusione che precisazione. In questo contesto Rovatti e Vattimo hanno avuto il merito di segnalare con più chiarezza la condizione di crisi del sistema in varia misura teologico della modernità, per aderire però, come avviene in genere nel Novecento, al logicismo. Si potrebbe considerare avventata quest’ultima affermazione, ma non bisogna scordare che se con logicismo intendiamo in senso ampio il fondamento logico del pensiero, tutto dipende poi da quale logica, intenzionalmente o meno, adottiamo. Sotto questo aspetto le logiche polivalenti vengono validate dal relativismo, a cui approda proprio il pensiero debole, con deriva nichilistica. La mia posizione è invece orientata verso lo scetticismo e il nullismo, il primo riscattato anche dalle stesse tesi logicistiche (prossimamente uscirà un mio breve saggio che chiarisce questo punto) e il secondo come superamento del nichilismo. La rinuncia al fondamento metafisico non deve significare la rinuncia alla certificazione del mondo fenomenico e di un pensiero sistematico, mentre la rinuncia al dominio, così come quella al dogmatismo, insite nel pensiero debole sono socialmente necessarie. Se tutto questo può andare sotto il nome di “crisi”, “disincanto” e “morte”, per quanto quest’ultima da intendersi in modo epicureo, sono d’accordo con Rovatti e Vattimo, ma terminologie come “negativa”, “declino”, “dismissione”, “abbandono”, “oblio” sono ancora indizi di dipendenza dal moderno. E infatti il pensiero debole, a differenza del pensiero di Lyotard, è antimoderno, non postmoderno.

Domanda: Continuiamo ancora a definire con Lyotard il mondo di oggi come postmoderno. Ma ci sarà pure un termine di questa cosa chiamata post-moderno, prima o poi finirà anche il post-moderno. e poi, che ci sarà dopo il post-moderno?  

Risposta: Lyotard parla di «costruzioni instabili», non «deboli», e sono ovviamente d’accordo con lui. Sono “disincantatamente” favorevole alle costruzioni sistematiche instabili perché richiedono un impegno costante e profondo; c’è nel titanismo dei pensatori sistematici, soprattutto se accompagnato da scetticismo e fallibilismo, la stessa forza dei braccianti che traggono dalla terra il loro e nostro effimero sostentamento, è così che l’intellettuale può arrogarsi il diritto di appartenere al popolo.

Come ho detto, il pensiero debole è antimoderno, non postmoderno. La sua operazione di indebolimento del moderno in chiave relativistica è stato necessario, ma per essere postmoderni bisogna liberarsi da questo decandentismo che esalta il negativo, il declino, l’abbandono, ecc., e purtroppo si è spesso considerato postmoderno questo decadentismo. Ecco perché in Nullismo e letteratura ho parlato di postmoderno forte, o postcontemporaneo, in contrasto con il postmoderno debole, o decadentismo o antimoderno. Così il postmoderno, quindi il postmoderno forte, non finirà, se non come concetto, perché ogni avanguardia, da non confondersi con lo sperimentalismo, assume carattere postmoderno se si accompagna ad una visione scettica e nullistica. Che ci sarà dopo? Bisognerebbe chiederlo a Italo Svevo: nella Coscienza di Zeno è stato chiaro. Ma lui era un borghese e dal Risorgimento in poi i borghesi, come i nobili nell’età Moderna, non amano le rivoluzioni, preferiscono l’apocalisse pur di non perdere il proprio potere.

Domanda: In che rapporto sta il pensiero debole con la fenomenologia di Husserl, la ontologia di Heidegger e l’ermeneutica di Gadamer? Qualcuno ha detto che è la prosecuzione dell’ermeneutica, qual è il tuo avviso?

Risposta: Fenomenologia, ontologia ed ermeneutica hanno un aspetto che le accomuna: l’antipsicologismo. Il pensiero debole resta in questo ambito, ma Rovatti rinfaccia alla fenomenologia husserliana il tentativo di trascendentalizzazione del soggetto. Per quanto riguarda Heidegger, il pensiero debole aderisce all’andare verso le cose stesse, al percorso però non alla sua finalizzazione. Circa i rapporti con Gadamer, Vattimo parla chiaramente di «fondazione ermeneutica», ma nel suo aspetto ontico, per quanto metasingolare, e non in quello ontologico, se non di «ontologia debole», ovvero di memoria e non di rappresentazione dell’Essere. Ovviamente poi i rapporti sono molto più vari e complessi.

 Domanda: A tuo avviso la crisi del soggetto, di quello cartesianamente posto, è un fattore positivo o negativo?

Risposta: Decisamente negativo. L’impostazione logicistica di Cartesio, per quanto ancora classica, aveva il merito di aprire al soggettivismo immanente, dimostrando al contempo, tra l’altro, quanto la logica e la psicologia possano cooperare, anche se forse abbiamo dovuto aspettare Freud per questo, nel quale tuttavia esse hanno cooperato male. Ma il punto essenziale è un altro: il Cogito ergo sum determina lo smacco della successiva fondazione coscienzialista, sia quella di Husserl più ancorato all’intenzionalità sia quella più religiosa di Sartre. Ripudiare il soggettivismo immanente significa perdere di vista la singolarità degli esseri viventi e la stretta connessione d’essa, e del contesto noumenico, con l’individualità e il mondo fenomenico; e significa trascurare il fatto che la libertà consiste nell’autenticità della propria condizione. Poi senz’altro è vero che tutto è comunque sfuggente, a maggior ragione i soggetti immanenti, che sono soggetti non funzionali, quindi solo potenzialmente soggetti. Tuttavia l’apertura verso di essi, vale a dire verso le singolarità degli oggetti fenomenici, è basilare per l’applicazione di una vera dialettica, dialogica e non solipsistica, conciliante e non dispotica. E perché ciò avvenga occorre recuperare, diversamente da quanto sostiene il pensiero debole, un proprio pensiero forte, che non significa inappellabile. Perché è impossibile un dialogo costruttivo se i dialoganti non hanno una personale e profonda visione del mondo e se, soprattutto, non chiariscono, e primariamente a se stessi, la propria fondazione pregiudiziale.

Domanda: Continuità, discontinuità, invarianti, modello problematologico, cambio di paradigma. Oggi si parla di tutto ciò con un po’ di superficialità e non si comprende più che cosa sia la «realtà», come coglierla, come rappresentarla. A tuo avviso, quali sono le categorie basilari per afferrare la «realtà»? Può sembrare una domanda banale, ma io vedo che c’è una grande confusione in giro.

Risposta: Non è una domanda banale perché non è banale ciò a cui si riferisce. La realtà è tutto quanto poniamo come oggetto, quindi tutto quanto percepiamo, fosse anche un’immaginazione, e anche ciò che il nostro corpo coglie solo a livello di sensazione, sebbene quest’ultima oggettività è ancora meramente potenziale. Parlo però, non a caso, di percezione, non di interpretazione. Parlo quindi dell’oggetto reale, non della realtà pretenziosamente oggettiva. Tutto è reale, anche l’oggetto che ne ricaviamo, ma bisogna viverla questa realtà affinché mantenga la propria integralità. Perché anche l’immanenza è reale, anche il noumeno. Dopo Kant, i romantici hanno concesso all’arte di coglierlo e rappresentarlo, purtroppo non di spiegarlo. Spiegazione, giudizio, chiarezza discorsiva non sono pane per i nostri denti cariati.

Domanda: C’è anche chi afferma, che viviamo finalmente nel migliore dei mondi possibili. Che il nostro modello di sviluppo obbedisce ad un modello di ragione che non si può mettere in discussione. Chi lo dice avrà pure le sue ragioni, visto che il modello alternativo, il socialismo, è finito come tutti sappiamo. Qual è il tuo avviso?

Risposta: Sono dell’avviso che il socialismo non sia finito, ma sia assorbito dall’anarchismo, un Anarchismo senza anarchia, come si intitola un mio saggio. La ragione si è sfaldata, non tanto perché, come dopo l’illuminismo, ha dimostrato la sua debolezza come strumento di aggregazione sociale e politica, ma soprattutto perché non è solo la sua applicazione induttiva a intriderla di irrazionalità, è essa stessa irrazionale. La logica di cui si compongono certe demenze lo dimostra.

Domanda: Che ne pensi di quello che recentemente è stato chiamato il “Nuovo realismo”?

Risposta: Come ho descritto prima la realtà, puoi notare che la mia visione d’essa come noumenico-fenomenica può rientrare senz’altro in ciò che viene chiamato “nuovo realismo”, tuttavia non nel modo illuministico e ontologico di cui parla Maurizio Ferraris. La mia posizione è stata sempre più complessa e infatti non rigetta, nonostante tutto, il postmoderno, quello forte almeno. Al contrario dell’impronta illuministica ho parlato di immanenzione e di estanomalogia (cfr. Istinto e logica della mente) e, in luogo dell’ontologia, di fenomenognomica (Cfr. Principi di fenomenognomica e Sui fondamenti dell’amore). L’analisi del mondo, delle sue individualità fenomeniche, non può prescindere dal recupero delle singolarità e della loro dazione, ma questo recupero non può avvenire nell’ambito del principio del terzo escluso. Mi sembra che il realismo delineato da Ferraris sia figlio di una concezione classica della mente, il mio invece risente pienamente dell’idea di “mente estesa”.

Domanda: Pensi che nel prossimo futuro ci sarà ancora un posto per l’arte? In fin dei conti, ci sono state intere epoche che non hanno avuto un’arte significativa, dove interi generi sono scomparsi, per riapparire magari nell’epoca successiva, o che avevano un’arte decorativa, funzionale alle istituzioni del Potere. Qual è il tuo avviso?

Risposta: L’arte è ineliminabile. Può essere deprivata del suo statuto ontologico e fenomenognomico, addirittura di quello gnoseologico, può divenire puro strumento ludico e di evasione, ma è ineliminabile. Il problema dunque non è se avrà un posto ma, come sostieni giustamente, quale arte? “Decorativa” o “significativa”? Il mio timore è che venga cancellato l’intellettuale creativo, perché oggi, dopo l’abbraccio tra filosofia e poesia avvenuto in modo finalmente accurato nell’età romantica, il poeta non può non farsi carico della complessità del mondo e dei suoi mali.

alfredo de palchi roberto bertoldo

alfredo de palchi e roberto bertoldo

Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri. 
Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia straniera Hebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofia AsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.

Bibliografia:

Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010.

Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011;

Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011. Pergamena dei ribelli Joker 2011, Il popolo che sono Mimesis, 2015. Nel 2016 pubblica il romanzo Satio per Achille e la Tartaruga.

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