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Poesie e Intervista al poeta ceco Petr Štengl (1960) a cura di Antonio Parente, La scena poetica ceca è diffusamente sparpagliata. È segmentata in gruppetti affini o antagonisti, che comunicano tra di loro sporadicamente oppure si incontrano solo casualmente. Ogni rivista ha la sua cerchia di simpatizzanti e sostenitori, così come ogni sito internet, club o circolo letterario. Non c’è nulla che li unisca. Non cercano (tranne rare eccezioni) di comunicare o collaborare tra di loro

foto A monument in Moscow to an early Soviet-era tactical nuclear bomb

Mosca, monumento dell’epoca sovietica al missile nucleare

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Petr Štengl nasce nel 1960 a Praga, dove tuttora vive. Ha studiato da tipografo ed è poeta ed editore. Dal 2006 è anche redattore capo della rivista di poesia contemporanea Psí víno (Vite vergine). I suoi testi sono apparsi su varie riviste ceche (anche online) e nelle sue due raccolte edite: Co říkal Zouplna (Cosa ha detto Zouplna), 2005 e 3+1, 2010. Da quest’ultima raccolta sono tratti i testi che qui presentiamo.

 Intervista a Petr Štengl

 Quando ha iniziato a scrivere poesie, e perché ha scelto questo genere letterario e non, ad esempio, i racconti, visto che i suoi testi mostrano una chiara struttura narrativa?

Sono sempre stato attratto dalla narratività. Ho iniziato a scrivere poesie, in maniera seria, convinta e con un certo interesse soltanto ben oltre i trent’anni. Non ho mai sentito di avere una robustezza letteraria tale da poter scrivere in prosa, che, tra l’altro, richiede tempo e concentrazione. Al momento, però, sto cercando, con un certo sforzo, di scrivere un testo prosastico, anche se non riesco a trovare tempo sufficiente per terminarlo.

Quando divenne redattore capo della rivista di poesia Psí víno (Vite vergine), alcuni componenti della redazione la abbandonarono, non condividendone il nuovo punto di vista: una poesia che non vuole essere “un distillato dell’esperienza e dell’identificazione metafisica personale”. Perché, secondo lei, una tale poesia è necessaria nella Repubblica ceca? Pensa che anche in altri paesi abbia lo stesso peso o significato?

La poesia ceca era addormentata, come la povera Rosaspina, e con lei l’intero regno poetico. Era venuto il momento di raggiungerla, facendosi strada tra il roveto, e risvegliarla. Provi ad andare in una qualsiasi libreria e, nel reparto (sempre più piccolo) dedicato alla poesia, provi a scegliere, ad esempio, cinque raccolte a caso e dia una scorsa alle diverse poesie. In questo modo ho trovato la risposta alla sua domanda.

Penso che la poesia nella quale credo funzioni in maniera universale e quindi anche altrove mantenga la stessa valenza. L’importante, come sempre, è cosa il lettore si aspetta dalla poesia e se sia davvero il compito della poesia quello di soddisfare delle aspettative. La poesia ha forse un significato diverso per il poeta e per il lettore? E c’è qualcosa che differenzi il lettore dal poeta? Io non riesco a vedere nessuna differenza.

Considera la scena poetica ceca fortemente frammentaria o piuttosto uniforme?

La scena poetica ceca è diffusamente sparpagliata. È segmentata in gruppetti affini o antagonisti, che comunicano tra di loro sporadicamente oppure si incontrano solo casualmente. Ogni rivista ha la sua cerchia di simpatizzanti e sostenitori, così come ogni sito internet, club o circolo letterario. Non c’è nulla che li unisca. Non cercano (tranne rare eccezioni) di comunicare o collaborare tra di loro. Da un certo punto di vista, ciò è un bene, in quanto, così facendo, l’arena poetica si sottrae, almeno limitatamente, ad una certa uniformità; d’altro canto, però, è una cosa abbastanza triste, in quanto i gruppi contrapposti non riescono ad instaurare una discussione comune. In parole povere, è un po’ la filosofia del “chi non la pensa come noi è contro di noi”. E il nemico, naturalmente, bisogna zittirlo e sotterrarlo.

Quali sono, secondo lei, le differenze principali tra la sua rivista e gli altri giornali e riviste di poesia cechi?

Inizierei col dire che nella Repubblica ceca le riviste e i giornali letterari si dividono in due categorie: quelli a basso costo con uscite trimestrali e quelli ad alto costo con uscite più frequenti (quindicinali). Questa circostanza permette ai quindicinali, ad esempio, di poter portare avanti le polemiche.

Dal punto di vista della concezione e dei contenuti, naturalmente, le riviste sono profilate abbastanza distintamente, ed è facile sapere cosa aspettarsi da ognuna di loro. Uno dei redattori precedenti di Psí víno la caratterizzò come un punk tra le riviste poetiche. Forse anche per questo motivo ha preferito, poi, lasciare la redazione.

Riesce a scorgere oppure si aspetta la nascita di una nuova corrente nella poesia ceca?

Spero che una tale corrente stia iniziando a nascere. La maggior parte dei redattori della nostra rivista sono anche autori e le loro opere iniziano a svincolarsi dalle varie classificazioni, nelle quali, di solito e con una certa predilezione, viene divisa la poesia. Le vari categorie di tale classificazione iniziano ad essere insufficienti. Ma ci sono anche numerosi altri autori – e anche loro sfuggono a qualsiasi classificazione –  i quali stanno già preparando la strada per quelli che, mi auguro, aspettano impazienti sulla linea di partenza. Tra gli altri potrei citare Pavel Ctibor, Vojtech Vaner oppure Filip Specian.

I suoi testi sono come una confessione personale, scettica e spesso cupa, ma alla fine l'(auto)ironia mette il sigillo ad ogni sua narrazione, evitando che il finale appaia eccessivamente negativistico.

È difficile per me dare un giudizio sui miei testi; forse li definirei delle tragicommedie.

Spesso lei scrive e descrive, in maniera più o meno velata, la vita durante il regime totalitario comunista. Perché crede che sia tuttora attuale una riflessione su quel periodo?

Quando si cresce e si trascorrono i migliori anni dell’adolescenza in qualsiasi tipo di ambiente, nessuna circostanza, nessun regime, pur se totalitario, può rubare l’atmosfera di quel periodo.

Allo stesso tempo, nei ricordi affiorano necessariamente le varie sfumature di quell’epoca. La storia si ripete in circoli e, com’è noto, senza passato né futuro. I peggiori sono poi i fautori del colpo di spugna sul passato. Un approccio assolutamente da fronteggiare. Basti pensare a quanto accadeva negli anni 1970 nella confinante Germania, quando i Tedeschi decisero, coerentemente, di fare i conti con il proprio passato nazista. Forse, se non ci fosse stata la RAF, non avrebbero mai deciso di farlo.

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Petr Štengl

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Poesie di Petr Štengl

Una volta, quando eravamo piccoli,
nostra madre ci portò a uno spettacolo sulla piana di Letná, dove c’era un enorme
tendone e dentro una gigantesca balena. Tutta morta. “Guardate che bocca enorme
che ha, e quant’è grossa!” guardammo stupiti.
Era tutt’altra cosa di quando nostra madre ci portò all’ospedale a trovare
il nonno che stava morendo e io a fatica lo riconobbi sul lettino. Talmente era tutto
pelle e ossa. Piccoletto. La balena era certamente meglio.

Viaggiavano insieme ogni mattina,
e quindi i conducenti e noi pendolari li conoscevamo già. Non ci sorprendeva
perciò il suo strillare e le grida. La camicia però l’aveva
sempre pulita e perfettamente stirata, come se sua madre, che
era sempre in piedi un po’ più in là, cercasse di stirarla meglio che poteva. Poi
iniziò a viaggiare da solo e sulla camicia si vedeva che la temperatura del ferro da stiro
segnalava ormai un freddo cane. Controllava se gli autobus erano in orario,
e se qualcuno ritardava, gli abbaiava dietro. Poi iniziò ad abbaiare al mondo
intero, ma sembrava piuttosto un ululato. Oramai viaggiava tutto trasandato
scapigliato e sporco.
E poi successe quella cosa con gli accalappiacani. Ora non c’è nessuno
che controlli i conducenti e quelli fanno i comodi loro.

* * *

Ci sbronzavamo come quei ganzi
dei libri. Alcuni di noi scopavano anche come ganzi. Avevamo le loro stesse
depressioni, i loro stessi complessi. Alle tre del mattino ci mettevamo i fiammiferi negli occhi e la sveglia alle cinque
per riuscire a prendere la prima metro e andare a sfacchinare. Cosa cazzo c’era che non andava?

* * *

Nell’angolo sotto al letto,
in fondo, vivevano dei folletti. Avevano gli occhi di spille
di vetro giallo e si facevano vedere soltanto quando ero solo. Non avevano paura della torcia.
Quando sfregavo un fiammifero scappavano via. Mamma s’arrabbiava
per i fiammiferi bruciati sotto il letto. Per sicurezza mi coprivo fino al mento
con la coperta. Loro si mettevano seduti sul suo bordo e osservavano come mi addormentavo. Sotto il cuscino nascondevo una scatola di fiammiferi. L’agitavo. Correvano
a nascondersi sotto il letto. Mamma aveva paura che diventassi un piromane.

* * *

Abitavamo al quinto piano
di un palazzone di dieci. Di fronte c’era una casa di cinque piani, quindi vedevo bene
sia i piccioni sul tetto, sia quella donna che nella finestra di fronte metteva la gamba
sul radiatore del riscaldamento. I colombi mi piacevano e anche quella gamba. Passavamo
ore intere alle finestre. Io fissavo quella gamba nuda con l’uccello in mano. Il coniglietto ad acquerello, appeso alla parete della camera del bambino, pelava la sua carota.

* * *

Lentamente brucio una foto dopo l’altra,
nella stufa c’entra tutta Varna e anche Spalato, l’intero Mar Nero, i cortei del primo maggio
e anche un vecchio tram, quello che si guidava con la manovella, la casa col giardino,
ereditata dai suoi parenti, tutto l’autobus con i gitanti e persino il tramonto sul Sahara. Questa sì che è una vera cremazione. Prima il muggito, che forza!, poi il tubo sbianca e il fuoco inghiotte con gusto le fotografie con le date e le lettere sul retro. Mentre moriva non c’era nessuno vicino a lei, al crematorio, invece, erano tutti allineati come ad una rassegna. È naturale, visto si sono ritrovati tra le mani una casa da due testoni. Riuscirono a farsi uscire anche una lacrima e a smoccolare il fazzoletto. Al mattino il paracenere è ricolmo. Vado a svuotare tutta quella sua vita anche con la casa. Sul pacciame.

* * *

Va a finire che ti vendo al circo,
mi diceva mia madre, ma, ad ogni modo, tenendole la mano, la seguivo ubbidiente a Letná verso il tendone illuminato. Il clown era quello che mi faceva più paura. Sicuramente nasconde da qualche parte una gabbia piena di bambini col moccolo! Per sicurezza comunque applaudivo anche a lui. Durante la pausa andammo a vedere gli animali. In una gabbia angusta era sdraiato un orso. Non si muoveva. Forse era morto. Dietro c’era una gabbia enorme coperta da un tendone. Per un attimo vi intravidi da una fessura dei ditini che si agitavano.
Poi vennero solo i cavalli. Giravano sempre in tondo accompagnati dallo schiocco della frusta.
Mi innamorai della cavallerizza con la tutina turchese e le orlature dorate.
Poi mia madre mi vendette al clown.

* * *

Il mio disegno
dei soldati sui carri armati coperti di lillà, risplendente di un bel dieci
scritto in rosso, era appuntato sul cartellone del mio primo anno della scuola d’obbligo. L’anno
dopo arrivarono gli stessi soldati con gli stessi carri armati. Sul cartellone era appuntato il mio disegno di un vaporetto, senza il dieci. Ma l’anno subito dopo sul cartellone era di nuovo appuntato il mio disegno dei soldati sui carri armati, coperti di lillà, e un bel dieci scritto in rosso.
I soldati mi riuscivano meglio del vaporetto.

* * *

Tornare dal lavoro
nell’appartamento vuoto
accendere l’abat-jour
un lungo DVD porno
il breve culmine gioioso
ripulire tutto
Andare a guardare nel frigo
è completamente svuotato
scendere in strada
al negozio di alimentari
Il riflettore del locale dei divertimenti
rastrella il cielo
solletica il basso ventre delle nuvole
il rombo dei motori si avvicina
finalmente il primo bombardiere

* * *

La mattina cerco almeno
di far spuntare sul mio volto
qualcosa che somigli a un sorriso

Di pomeriggio mando un’offerta
per aiutare le vittime del terremoto
dall’altra parte del mondo

Il resto della giornata lo trascorro a casa
finché non cessa lo spasmo dei muscoli mimici

* * *

Il fine settimana passato con la lametta e il polso
la settimana passata con una manciata di sonniferi
il fine settimana successivo poi lunghissimo
La vista dal tetto del palazzo di periferia
In dispensa le patate intuirono di poter cogliere
l’occasione e iniziarono a germogliare

* * *

Si sforzava di mangiare quanta più frutta e verdura possibile
e di limitare i grassi
A volte l’artrosi non gli consentiva di correre dietro al tram
Con serietà e responsabilità si scervellava
su chi votare
Acquistò una macchina per fare esercizi
ma era circondato da figure sempre più perfette
Inviava offerte per aiutare le vittime del terremoto
e dallo psichiatra andava soltanto una volta al mese
Per principio in città usava solo i mezzi pubblici
e faceva la raccolta differenziata correttamente

Quante altre cose dovrò elencarvi
prima che lui lo capisca

* * *

Nella valle un noce
quello piantato da mio padre
Entrò in convento e non generò più

Sotto la corona spoglia si scurisce l’anello
la terra inghiotte la sua amarezza
Qui cominciò il viaggio di Orfeo
Io verrei con te fino alla fine del mondo!
Vuoi farmi felice
ma io lo so
che dovresti fermarti davanti al noce

* * *

È statisticamente provato
che gli sceneggiatori di Hollywood
riescono a far piangere più persone
che i produttori di gas lacrimogeno
Sì nemmeno un ciglio resterà asciutto
nelle file per i lavatoi pubblici

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Le procedure della de-figurazione e della de-localizzazione in opera nel linguaggio poetico, Poesie inedite in italiano di Petr Hruška, traduzioni di Antonio Parente, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Dopo Franco Fortini, Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna, gli ultimi poeti pensanti del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta critico in grado di ri-orientare le categorie del pensiero poietico. Quello che oggi occorre fare con urgenza è riparametrare e ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico, anche perché dopo Fortini e Lunetta la resa dei conti stilistica del «poetico» è rimasta in sospeso

Pulsar rosso 2022Marie Laure Colasson, Pulsar rosso, acrilico 30×40 cm, 2022

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«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una»

(Charles Baudelaire)

Nel suo Éloge du maquillage (1863), Baudelaire accenna alla necessità di utilizzare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare mero artificio, fiction di un homo artifex, ultima emanazione dell’ homo Super Sapiens.

La «de-figurazione» è la procedura poetica di preferenza adottata da Petr Hruška, infatti il poeta di Praga pensa lo «spazio poetico» come uno spazio dis-locato, dove gli oggetti umani e le parole che non gli corrispondono più sono, come dire, spostati, lateralizzati:

La prima neve ha accentuato ogni cosa.
La libertà dei cespugli.
I metri quadri dei monolocali.
La tenuità dei bambini
delle famiglie separate.

*

le posizioni sconosciute degli interruttori
alcuni giorni di speranza
di cose spostate

*

In cucina il ricordo del sugo al pomodoro
come
ultimo
immane
atto criminale.

Oggi applicare ai testi la de-figurazione, la dis-locazione e la trasfigurazione è un obbligo giuridico per un poeta in quanto gli spazi interamente de-politicizzati delle società moderne ad economia glocale interamente dipendenti dai pubblicitari e dai logotecnici implica necessariamente una caratterizzazione eccentrica della testualità e del disallineamento frastico.

È il linguaggio pubblicitario e mediatico che impone al linguaggio poetico le sue regole di condotta, non più il contrario, come avveniva negli anni sessanta; si tratta di una modificazione del linguaggio che è avvenuta nelle profondità. Oggi la politica estetica la fa la pubblicità. Così come la politica la fa la comunicazione. Il discorso poetico che voglia tornare a fare della politica estera non può fare a meno di ri-appropriarsi delle procedure già adottate in amplissima  misura dal linguaggio pubblicitario e mediatico.

La de-figurazione  è una procedura retorica che consente di prescrivere una «figura» linguistica mediante una de-localizzazione frastica sistematica, mediante la introduzione nel testo proposizioni liberamente dis-locate, spostate, lateralizzate, liberate dalla cogenza referendaria del referente. Ciò vuol dire che si registra uno scarto del pensiero dal pensiero alla parola e dalla parola al referente che corrisponde ad una parola che non corrisponde più al pensiero pensato e né al pensiero non ancora pensato; tra il pensiero e la sua traduzione in parole si stabilisce uno spazio vuoto di significazione, ed è in questo spazio vuoto che opera il linguaggio poetico: nello spazio della de-figurazione iconica e della delocalizzazione frastica entro i quali sono inscritte ed operano forze linguistiche e extra linguistiche disgiuntive, contrastive e divisive, come appare chiaro da queste poesie di Petr Hruška dove l’espressione che mira al referente viene ad essere esautorata e sostituita da mini enunciati referendari, cioè in libera uscita espressiva. Così il referendum libertario ha sostituito la solidità del referente.

La globalizzazione, come sappiamo, è un processo ancipite, e quindi anche glocale, in esa agiscono vettori contrastanti ma divergenti: non vi è solo sconfinamento e apertura dei linguaggi al globo (in questo processo macro storico operano anche dinamiche di collocazione e glocalizzazione) ma ci si muove nel quadro di lateralizzazioni e di smottamenti linguistici, uno spazio impensabile fino a qualche tempo fa, ma è in questo spazio che si muovono le forze linguistiche che operano all’interno dei linguaggi: le linee di convergenza e di divergenza tra le varie tradizioni letterarie diventano complessificazioni di una realtà già in sé complessa. In questa accezione una «poesia europea» che fa della complessificazione e del dis-allineamento dei linguaggi il proprio motore di ricerca è già in atto nei più sensibili e ricettivi poeti europei. Oggi una poesia europea che non  abbia una qualche cognizione di questa problematica macro storica dei linguaggi è destinata a fare operazioni derivative ed epigoniche.  Pensare ancora con le categorie della poesia epigonica: «poesia lirica» e «post-lirica», sperimentalismo e orfismo, linee regionali e linee circondariali sono, permettetemi di dirlo, blablaismi, vagologismi, virtuosismi. La globalizzazione e la glocalizzazione in quanto processi macro storici non possono non attecchire anche alla forma-poesia, modificandola in profondità al suo interno.

È quindi impellente pensare la ri-concettualizzazione del paradigma del politico e del poetico. È viva l’esigenza di fuoriuscire da quelle formule dicotomiche che hanno caratterizzato la poesia del novecento secondo lo schema classico: avanguardia-retroguardia, poesia lirica poesia post-lirica; siamo andati oltre, occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza linguistiche ed extra linguistiche che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, avanguardia-retroguardia; da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dismettere per ri-fondare una nuova Ragione del poetico. Dopo Franco Fortini, Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna, gli ultimi poeti pensanti del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta critico in grado di ri-orientare le categorie del pensiero poietico. Quello che oggi occorre fare con urgenza è riparametrare e ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico, anche perché dopo Fortini e Lunetta la resa dei conti stilistica del «poetico» è rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione.

(Giorgio Linguaglossa)

Petr-HruskaCenni biografici

 Poeta e storico della letteratura, Petr Hruška appartiene a quella generazione di scrittori il cui debutto letterario si colloca nel fermento culturale ceco degli anni Novanta. Nato nel 1964 a Ostrava, ha dovuto scontrarsi con i limiti imposti da una società illiberale già nella scelta dell’indirizzo dei propri studi, cosa che lo ha portato inizialmente a laurearsi in ingegneria. Soltanto dopo la Rivoluzione di Velluto e la caduta del regime nel 1989 ha potuto dedicarsi agli studi letterari (lettere ceche e teoria della letteratura) e intraprendere la carriera accademica specializzandosi in poesia ceca contemporanea. Tuttora lavora al Dipartimento di Letteratura Ceca dell’Accademia delle Scienze. Debutta come poeta nel 1995 con la raccolta Obývací nepokoje (“Soggiorni inquieti ”, Sfinga 1995), accolta con grande favore dalla critica, alla quale seguono Měsíce (“Mesi ”, Host 1998) e Vždycky se ty dveře zavíraly (“La porta si chiudeva sempre ”, Host 2002); queste tre raccolte sono state pubblicate in unico volume con l’antologia Zelený svetr (“Il maglione verde” Host, 2004). Fin dall’inizio del suo percorso letterario l’autore si è distinto per la poetica vicina al quotidiano e per le ambientazioni prevalentemente domestiche, scelta che gli è valsa la definizione da parte della critica di “poeta della cucina”. La spiccata tendenza al realismo non era una novità nella poesia e in generale nell’arte ceca, ma anzi ha costituito un’istanza sempre viva e sentita fin dal periodo della seconda guerra mondiale, quando il collettivo artistico Skupina 42 (Gruppo 42) aveva affermato il bisogno in letteratura di riavvicinarsi al reale dopo gli slanci immaginifici delle avanguardie. Va sottolineato che tale poetica era fortemente malvista dal regime, poiché essendo concentrata sul quotidiano perdeva di vista i grandi ideali additati dal realismo socialista. Hruška si riallaccia dunque a questo filone letterario, pur sperimentando e intraprendendo sentieri stilistici e tematici tutti propri. La raccolta Auta vjíždějí do lodí (“Le macchine entrano nelle navi ”, Host 2007) si discosta lievemente dalla “poetica della cucina ” elaborata fino a quel momento per approdare a spazi urbani o connessi alla dimensione del viaggio, sempre però mantenendo le ormai tipiche atmosfere d’inquietudine che costituiscono l’impronta inconfondibile dell’autore. Nel 2012 esce la raccolta Darmata, che gli vale l’assegnazione del Premio Statale per la Letteratura. Con Darmata la scrittura di Hruška raggiunge una maturità espressiva notevole: la raccolta si configura come un’indagine sulle possibilità di ognuno di travalicare la propria solitudine per entrare in un’autentica prossimità con l’altro e comprende anche testi più sperimentali che testimoniano una riflessione sulle potenzialità comunicative della lingua. Nel 2017 viene pubblicata Nevlastní (“Di nessuno ”, Argo), antologia che raccoglie i testi editi e inediti il cui protagonista è un peculiare personaggio di nome Adam. Nella raccolta Nikde není řečeno (“Da nessuna parte si dice ”, Host), pubblicata nel 2019, la poetica hruškiana, pur mantenendosi fedele a se stessa, evolve ulteriormente nello stile e nei temi, manifestando un pensiero più maturo sui valori individuali e collettivi. Come già accennato, l’autore affianca alla creazione poetica l’attività di storico della letteratura, nell’ambito della quale vanno ricordate due monografie dedicate rispettivamente all’opera di Karel Šiktanc (2010), poeta surrealista praghese, e a quella di Ivan Wernisch (2019), grande poeta sperimentale e leggendario antologista mistificatore. Oltre a ciò ha curato un’antologia di versi di Ivan M. Jirous, icona dell’underground ceco, e l’opera omnia di Jan Balabán, prosatore di grande talento scomparso prematuramente, nonché amico intimo del poeta. Scrive inoltre anche articoli per le maggiori riviste, intervenendo attivamente nei dibattiti culturali del paese. Nel 2018 si è dimesso dal suo incarico di presidente di giuria del Premio Statale per la Letteratura a causa del suo disaccordo con i recenti sviluppi politici nel paese. Nel 2020 è stato pubblicato il volume V závalu (“Nella frana”, Revolver Revue) che raccoglie articoli, prose brevi e frammenti. Cinciallegra

(Elisa Bin)

Petr-Hruska Premio Valigie Rosse V edizione

petr hruska

Poesie di Petr Hruška

La prima neve ha accentuato ogni cosa.
La libertà dei cespugli.
I metri quadri dei monolocali.
La tenuità dei bambini
delle famiglie separate.
Una cinciallegra è volata nel mio timore
che se ora morissi
la mia ultima parola sarebbe
sevo.

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Sorriso a tutti denti

Le loro speranze ansiose
sorrisi gonfiabili di salvataggio
esperienze avventate
e altre mani madide

In questo stato di cose è il bimbo
cena inarrestabile
prima
di qualche altro giorno

.

Domenica

Il pomeriggio accalca alla finestra.
La calura
Tennessee Williams.

In cucina il ricordo del sugo al pomodoro
come
ultimo
immane
atto criminale.

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Stanislav Dvorský (1940-2020): L’inizio del gioco a cura di Petr Král, traduzione di Antonio Parente, Dvorský  Chiama questa poetica “costellazione di parole”, l’uso coerente del potere specifico, proprio solo della poesia, dei singolari collegamenti tra le parole stesse: di ingannevoli collegamenti lessicali, nei quali l’aspetto verbale – per metà di idee e per metà puramente fonico – e quello grafico coprono tutti gli altri (narrativo, riflessivo e metaforico), si rendono indipendenti  

Lucio Mayoor Tosi, stampa digitale, Pomodoro

Stanislav Dvorský

L’inizio del gioco

non ho nessun amico dietro le finestre scure d’azzurro
lancio soltanto dei sassolini con accortezza per non rompere nulla
ricordiamo ancora i giochi giudiziosi quando sull’acqua si formano dei cerchi sbadiglianti
il cordoglio sorride non ho nulla da perdere
nemmeno le mie mani mobili
nemmeno i miei amici
nella vuotezza zincata del profondo banco di mescita
tanti avanzi convincenti dell’eternità usignola
una volta ero un eccellente tiratore e i miei amici continuano ad applaudirmi
ho sparato già quasi tutte le cartucce
non riesco a fare centro continuo ad essere
come vivo come vivo

* * *

Tarda estate

il ponte di fili bianchi sospeso
sulla baia assente di palombari inchinati

una seppia morta da tre giorni
contempla qualcuno di loro con occhio riconoscente
tutto il limaccio al centro della maestà stagnante del vetro
non volge altrove il capo
culla in grembo il bimbo d’inchiostro

gli raccontai le mie allucinazioni jazzistiche
innalzai un recinto brunito intorno all’idiota
infastidito dagli ordini perenni sul foglio senza righe
alzai i tacchi
delle scarpe sotto il tavolo
pittai il recinto color pelle con vernice color pelle
in modo da non essere troppo visibile
in modo da non stare in piedi
avevo i miei riposi illuminati i ceppi floreali
del resto è la mia missione
poche volte il sistema solare comprende tutti i simboli esterni
perché persino facendo notevole attenzione l’intonazione sfugge dalle narici

lo chiamai col nome di battesimo
nessuno si voltò

Zborcené plochy (Piani distrutti, 1996)

* * *

Bottiglia Molotov

le fiamme disegnano mandrie di animali galoppanti lungo il soffitto del vagone frigorifero che con un ampio tornante si precipita sui binari chissà dove
apicoltori portalettere spazzini intere stazioni di inseminazione un’unica enorme moltitudine armata di forconi asce e attizzatori
si precipita con terrore su piazza Democrazia popolare

questi fenomeni sono visibili nelle nostre bevande
dove cala di sbieco il basso sole primaverile
quando un vento fresco spinge a soffi la tenda nel profondo della stanza

* * *

Tra le cosce di questa primavera

pezzi di cannelli di paraffina nell’attimo in cui cambiano sostanza

della tua eterna nudità (buia: sussurro “di nicotina”)
è anche così il punto focale della notte il resto della pelliccia
dopo un istante pieno di sego caldo

poi le arterie pulsano gemi il nastro al buio fruscia
(mettiamo Wheels of Fire basso basso)
e alla finestra si accendono azzurri i fumi alcolici
invano
senza futuro

Dobyvatelé a pařezy (Espugnatori e ceppi, 2004)

Stanislav Dvorsky 2018 Petr Kral

Stanislav Dvorsky e Petr Kral

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Petr Král

Black and Blue[2]

Quando conobbi Standa Dvorský, alla luce arancione della leggendaria “stagione del ‘59”, diventò subito per me l’amico-iniziatore (secondo la definizione di Sarane Alexandrian), colui col quale è possibile instaurare un vero dialogo, complice e contendente allo stesso tempo, colui che ci apre le porte del mondo e di ciò che vi sarà per noi di fondamentale, e che ci aiuta in maniera decisiva a chiarire i nostri pensieri.

[…]

Molti erano i tratti da noi condivisi, che costituivano la nostra esperienza e la nostra “memoria” comuni, se non altro grazie alla sistematica e reciproca comunicazione: l’esistenzialismo e il surrealismo, il poetismo e il dadaismo, la decadenza di fine secolo e l’ubriacamento degli anni Venti, le incisioni e le comiche mute, i vizi dei salottini e gli amori delle gite scolastiche, la canzone Zasu di Jaroslav Ježek e il Castello di Kafka, i vaporetti domenicali e i salotti in fondo al lago, Voskovec + Werich e Rimbaud con Verlain, la cicoria di Pečky e l’Hispano Suiza, gli smoking bianchi e i maglioni alla beatnick, l’assenzio e il jazz… Ognuno poneva l’accento su cose diverse e costruiva tutto in maniera differente; Standa lo faceva in maniera meno casuale, come se sapesse fin dall’inizio quello che voleva.

[…]

Dopo aver letto i suoi primi testi, fu chiaro che la nostra generazione aveva in Dvorský uno dei suoi autori chiave, il proprio poeta, il quale in modo unico ma essenziale riassumeva le idee, “le sensazioni” e le posizioni degli altri. In molti di quelli che allora lo conobbero i suoi testi ebbero di colpo un influenza determinate; ad esempio, l’opera di Karel Šebek non sarebbe stata la stessa senza di loro, e anch’io non sono sicuro se le mie “visioni” poetiche non siano per metà di Standa – tanto intimamente alcune delle sue immagini si sono impresse nella mia memoria.

Nei suoi testi poetistico-dadaistici del periodo precedente il 1959, nei quali andava assumendo sempre più vigore l’influenza surrealista, traspare la sua caratteristica concezione delle tre componenti che – in diverse proporzioni e relazioni – formeranno l’intera sua opera: il lirismo, la narrazione poetica, il discorso sarcastico. Se la sua narrazione ha, fino a quel momento, una comunanza con le poesie-sogno del Nezval surrealista e il suo discorso con la provocazione dadaista, dietro il lirismo di Dvorský trapela soprattutto, ed è cosa non senza significato, Halas. E ciò sia per quel che riguarda la visione del mondo del poeta e il suo sviluppo personale, sia per il ruolo dello stesso Halas nello sviluppo della poesia ceca. Continua a leggere

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Intervista al poeta ceco Ladislav Fanta (1966) a cura di Antonio Parente, Topazi e giovinezza, Composizioni in cornice di Lucio Mayoor Tosi, “linguaggio di immagini concrete, materiali, senza alcuna censura, senza stilizzazione, artificialità di stile, laconicità e antilitterarità, l’impressione di piante secche, stantie tirate fuori da un vecchio erbario, Il tempo dei manifesti, delle raccolte di firme, di sfide e dichiarazioni aperte attraverso le quali i surrealisti si pronunciavano sui problemi del tempo, devono a mio parere registrare un cambiamento di prospettiva”

Foto Kikenli Incir

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Ladislav Fanta nasce a Uherské Hradiště nel 1966. Completata la scuola elettrotecnica, lavora come giornalista e operaio. Importanti per la sua formazione furono gli incontri con gli artisti Jaromír Čechura, Hynek Šnajdar, Leonidas Kryvošej e con i surrealisti Jiří Koubek, Pavel Řezníček e Milan Nápravník. A cavallo degli anni 1980 e 1990 prese parte alle attività del gruppo informale di giovani artisti e scrittori attivi nella città di Šternberk, accomunati oltre che dalle percezioni ed espressioni legate alle tendenze mondiali, anche dalla necessità di ricollegarsi agli impulsi del movimento surrealista. Questa generazione di autori nati tra il 1964 e il 1966 rifiutò di accettare in bianco la democrazia esteriore e commerciale, che iniziava allora a far sentire la sua rumorosa presenza in Cecoslovacchia. La coulisse del paesaggio di una piccola città e i banali “utensili” della vita locale, così come gli originali personaggi che la popolano, saranno per lui fonte di ispirazione anche in seguito, in testi che inventariano il passare irreversibile del tempo. Insieme allo scrittore e poeta surrealista Pavel Řezníček prese parte alla pubblicazione degli almanacchi inediti del più antico samizdat ceco, Doutník (Sigaro), presentando una stretta cerchia di autori (K. Šebek, E. Válková ed altri). Sempre con Pavel Řezníček, è anche autore di una raccolta di prosa grottesca, Miss Mléko a jiné burlesky (Miss Latte e altri burlesque), scritta utilizzando il metodo della corrispondenza.
Il suo interesse per la storia moderna e più recente, unito a quello per la psiche umana, lo capitalizza in una vasta ricerca teorica, che si tradurrà in una serie di analisi storico-sociali, in pubblicazione. È anche coautore, insieme a Jiří Koubek, del libro intervista Ne Deník: k 70. výročí založení Skupiny surrealistů v ČSR (Non Diario: per il 70° anniversario del Gruppo surrealista cecoslovacco), sulla crisi del surrealismo e sulle sue prospettive dopo il 1989. È anche curatore delle opere inedite di Milan Nápravník, raccolte, per il momento, in un primo volume intitolato Prokletá slast a jiné eseje (Piacere maledetto e altri saggi, 2019)
(Estratto del servizio pubblicato su Poesia, n. 314, 2016.)

Lucio Mayoor Tosi frammenti blu e celeste 2021

Ladislav Fanta

Topazi e giovinezza

La rada luce del sole penetra tra i cespugli
in centro: una scatoletta arrugginita ai piedi di mura fatiscenti
l’entrata dei campi da tennis
il vuoto glabro delle piste di rosticcio
raffiche di vento che sollevano tra l’erba pezzetti di carta bruciacchiata

né profeti
né forme verbali future
ma velocisti neri leggermente clini in avanti
in corsa per dire addio alle cose ormai inutili

correre e respirare l’odore delle stanze vuote
dove tutto rimane com’era
l’autunno solare delle ardesie piritiche
come se dipingesse queste giornate
di un incredibile calore che ricorda l’estate
movenze di palmi
inviate attraverso il vecchio sacchetto di plastica sfondato
da qualche parte in lontananza
nel grembo degli automatismi psicomotori
piantato nel tessuto spugnoso di via Cejl
come un proiettile caldo di Abu-Jamal

mentre uno parla e l’altro ascolta
è ancora una ferita viva e senza cicatrici
attorcigliare i bozzoli della corteccia grigiastra
e infilarli in tasca
le gabbie d’ascensore che salgono ad altezze vertiginose
sopra una strada che si ricopre appena di uno strato opaco di ossidi
non importa dove vai
il sole scalda l’aria fresca del mattino
ombre nel legno dei banconi dei bar negli specchi grigio-verdi delle pozzanghere e della cenere
il luccichio occasionale di una scatoletta di grasso artificiale ricoperta di secrezioni sempre più dure
riflette il cielo sconosciuto e desolato dei giorni futuri

ricordo le cerimonie del tè di Vlado Dančiak
chanoyu con sacchetti di LIPTON tirati sopra la superficie marroncina nell’esatto secondo
tutte quelle odi di ore e ore sulla bravura del reporter Martin Gregor Papucsek
registrate su un vecchio Walkman tenuto insieme dalla garza
che avvicini al mio orecchio
Pan Ram dove il cespuglio del tè cresce dalle ossa dei lavoratori
ricordo il “Dančiak Tea Comp.”
una scatolina nera che celebra la gloria del leggendario Beg ungherese Candragupta Vikramaditya
nella sua memoria a transistor grandi aree di pelle cupamente bluastra sospese
sigarette torte e la ricerca ostinata di infiammare accendino
il gigante di due metri di Žilina con i denti del colore degli infusi di tè forte in vasi di porcellana
̶ dal giallo pallido al nero

l’aria pura il ferro incontaminato della parola
dove la ruggine come macchie di caffè fa cadere scintille dai buchi
intorno agli edifici di torri di rocce tetti e buchi
quando la pioggia lontana copre gli aghi diradati e arrugginiti
la barba di cannella di madre natura
con l’aroma del caffè mattutino servito dalle cavità degli alberi
nel letto asciutto del fiume il sussurro insistente delle foglie
i fruscii variamente sparsi
ottoni ciondolanti indirettamente
per la superficie disabitata della terra

People loved John Coltrane
l’universo cosmico…
piega il vento freddo e costante
sa che sto arrivando e sempre una tale
nostalgia colossale
erbe d’Africa dove stelo dopo stelo scivola dolcemente nell’altro
ancora una volta il fruscio setoso dei pennelli
spezia l’umore quando la stagione delle piogge si allunga
la griglia nera arrugginita del giardino come quelle usate dai druidi per i loro garden-party
torreggia abbandonata nel mezzo di un container con il suo coperchio a tapparella
e con l’untuosità migrante del grasso e del carbone di legna
ora qualcuno spegne rapido nel posacenere la sigaretta fumata a metà e rimuove i rami sporgenti
tra i tagli della draga con un’enorme quantità di humus dove ogni tanto spigola il vento
un barbone
è già quasi impossibile sentire il polso
siamo di fretta per incontrare qualcuno
ma ciò che può essere dato deve essere dato
l’oceano tetro della natura lo sbatacchia ancora un paio di volte
ma poi è già intento a raggiungere la sua destinazione

lo stormo di storni e il raduno di migliaia di rondini alle pompe
di calore di scarto industriale
il solfito tiepido ti spiana le rughe
Pharoah Sanders
che muggisce come una mucca macellata al mattatoio.
le pantere nere di Bratislava.
L’Atomic Peace dura ancora
E la Atomic war nelle strade quando le percorri legame di particelle di un gioco d’azzardo
Pharoah
il sesso impollinato a mano come un’orchidea
Pharoah Pharoah
il gel rinfrescante del nevischio autunnale
inviti educati su cartelli di latta che chiedono di non entrare
a chi non ha bisogno di niente

il padiglione Anthropos di Pisáry è invaso dalla flora terziaria
il vento nella piscina abbandonata da tempo fa turbinare le carte e le foglie cadute
le lampade di sale dell’Himalaya
si sciolgono trasformandosi in pozze
d’un tratto sta arrivando e tu sei ancora qui
alla deriva con i volantini della pubblicità
con l’autunno indorato e abbagliante come una porta metallica spaccata in due
la luce che cade di lato trasforma gli ultimi resti della trappola a colla per le mosche
in un barlume che continua a diffondersi
e le increspature della luce nel segnale ottico
del bocchino mellifero
di John C.
un tavolino da campeggio e su di esso l’edam affettato sul foglio di giornale aperto
in una fattoria per disintossicarsi
il sole riscalda l’aria fresca del mattino
il pianeta con la sua regolazione equitermica
un fiume pieno di pellicce di volpe bianca
l’odore di una sigaretta il cui fumo un attimo prima di salpare via per sempre
sta per inviare un cablogramma

Solo di rado si spade il lontano fragore dei ramponi
penetra il sottile muro di carta da parati
la malinconia ciò che ne rimane: le macchie di sostanze tossiche
i mercoledì di swing a Židenice
il gravare indescrivibile del Great Glacier
i pezzi di ferro le funi sollevate e le gru mobili
il pianeta – quella vecchia scatoletta di sardine rivestita di miti
l’odore salato del mare che si trascina dietro una moto in corsa
funi e gru
una motocicletta che raggiunge il persistente odore salato del mare

(Brno, 2000 cca)

Lucio Mayoor Tosi frammento variegato 2021

Lucio Mayoor Tosi, Composition 2021

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Ladislav Fanta

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Romanzo Deserte Visioni (2001) di Milan Nápravník (1931), maestro del metodo fotografico dell’inversaggio, l’unione inversa di parti bilateralmente simmetriche, Traduzione di Antonio Parente con una poesia del poeta ceco, Samovar siamese

Strilli Lucio Mayoor Tosi
Testo e immagine di Lucio Mayoor Tosi

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 Milan Nápravník nasce in Cecoslovacchia nel 1931 e da circa quarant’anni vive in Germania. Conseguita a Praga la maturità scientifica, lavorò per un anno nelle miniere d’oro di Jílové, vicino Praga, dopo essere stato etichettato, essendo uno studente appassionato di jazz, come un “ammiratore dello stile di vita americano”. Dal 1952 al 1957 studiò drammaturgia alla Facoltà di Studi cinematografici dell’Accademia delle arti performative di Praga. Dopo tre anni di lavori provvisori, nel 1960 iniziò a lavorare alla Televisione cecoslovacca come direttore artistico della redazione per le Trasmissioni per bambini e ragazzi. Dalla seconda metà degli anni 1950 collaborò con il Gruppo surrealista di Praga, la cui attività non fu immune da intrichi perpetrati dalla polizia segreta e i cui tentativi di  esporre o pubblicare le proprie opere furono ostacolati dai divieti delle Autorità. Fece il suo debutto letterario nel 1966 con la raccolta Básně, návěstí a pohyby (Poesie, avvisi e movenze), pubblicata privatamente e in numero limitato nell’edizione Speciálky dal pittore František Muzika.  Emigrò dopo l’occupazione sovietica del 1968, dapprima a Berlino occidentale per alcuni mesi e, successivamente, a Parigi. Dal 1970 si è stabilito definitivamente a Colonia. Duranti gli anni dell’esilio, lavorò prima come redattore radiofonico e successivamente, dalla metà degli anni 1980, come pittore, scultore e fotografo artistico freelance.
Nel 1977 ha scoperto l’originale metodo fotografico dell’inversaggio: “l’unione inversa di parti bilateralmente simmetriche” di una struttura naturale (cortecce, pietre, ecc.). Nel 1978 organizzò a Bochum, in Germania, un’ampia mostra internazionale dell’arte surrealista e immaginativa, Imaginace (Immaginazione). Ha soggiornato più volte per lunghi periodi in Indonesia, dove ha portato avanti studi etnografici sulle isole Borneo (Kalimantan), Giava, Sulawesi, Bali e Nuova Guinea (Irian Jaja). Ha scritto varie opere poetiche, dalle quali è possibile tracciare lo sviluppo della sua arte, a partire dagli esperimenti linguistici, che sottolineano il carattere emozionale dell’espressione e dell’attività poetiche, fino alla poetica plasmata dalla contemplazione, che registra il movimento della realtà interiore. Quello che al momento è possibile considerare  il culmine dell’opera di Nápravník, l’opus magnum Příznaky pouště (Deserte visioni, 2001), è una vasta parabola sul minaccioso stato della civiltà contemporanea; contro il nostro mondo inquinato e sovrappopolato, contro l’aggressività e le tendenze distruttive, si pone il flusso iettatorio di pensieri e immagini della vita interiore, – “l’assiduo tentativo del narratore di conservare desideri, speranze, amore e immaginazione,  ‘e di non lasciare che alle nostre spalle le vie dei nostri desideri si coprano d’erba’ (A. Breton) e ciò nonostante tutto il pessimismo di Nápravník.” (rivista Tvar, aprile 2002). È autore anche di vari studi e saggi teorici. Negli anni 1990, suscitarono grande interesse alcuni suoi saggi dove metteva a frutto lo studio sistematico pluriennale nel campo della storia delle religioni.
(Antonio Parente)

Dalla lettera di Milan  Nápravník al traduttore Antonio Parente a proposito del romanzo Deserte visioni (14 febbraio 2013)

[…] Sicuramente avrà capito che non è necessario, o persino desiderabile, tradurre i capitoli mantenendo lo stesso ordine cronologico del libro. Scelga pure quelli di maggiore impatto emotivo e sistemi gli altri a suo piacere; sono molto curioso di vedere che tipo di testo verrà fuori. Le assicuro che anch’io ho disposto in larga misura i paragrafi del testo in maniera casuale.

Quali difficoltà e misteri può presentare questo libro? Il fatto di ignorare la causalità logico-letteraria, tipica dei romanzi, e spesso di invertire la freccia del tempo. Inoltre, ammette, come la vita stessa, il presunto “errore drammaturgico” vale a dire il deus ex machina. Come nella vita, c’è una ripetizione letterale della situazione nel testo e le storie si sviluppano fianco a fianco, parallelamente piuttosto che nella tensione drammaturgica delle dipendenze causali. La loro determinazione è data da un campo emotivo comune, oggettivamente creato (imposto) dai tempi e dalle situazioni in cui l’autore e in seguito il lettore si ritrovano. Pertanto, non è assoggettato ai dettami a priori del metodo letterario tradizionale, per cui se nel primo capitolo qualcuno inchioda un gancio al muro, ciò vuol dire che in uno dei capitoli successivi bisognerà appenderci almeno il cappotto. Altrimenti, quell’azione sarebbe drammaturgicamente ingiustificabile e quindi inquietante, indipendentemente dalle migliaia di ganci inutilmente inchiodati nella vita reale.

Non si tratta, però, di un gioco o una sperimentazione formale, ma di una ricerca filosofica. La logica causale della letteratura tradizionale crea, infatti, una falsa idea della significatività della vita e dei suoi processi; per secoli, i romanzi e in generale le opere narrative hanno poi a loro volta influenzato, nella civiltà europea, la vita reale delle persone, i loro pensieri e le loro convinzioni, il loro sforzo, per lo più ignorato, di conformare i comportamenti alla logica causale, secondo lo schema dei personaggi delle storie inventate dai romanzieri.

In realtà, questa è stata ed è la causa di molti disturbi comportamentali personali, che spesso portano a disastri sia personali sia dell’intera società. Ma qui mi sto già spingendo oltre.

Sono consapevole come questa breve dichiarazione lasci molte domande senza risposta. Spero, tuttavia, che la comprensione di base del problema su cui lavoro da alcuni anni richieda soltanto una riflessione sufficiente per diventare in generale più comprensibile. […]

Quarta di copertina:

Deserte visioni è la cronaca a-narrativa di quei momenti straordinari che sanciscono i nostri incontri con fatti che vanno al di là della realtà codificata. Nella tradizione surrealista, lo scritto si rifà alla vera essenza poetica, quella dell’esperienza e della filosofia della vita, alla poesia di pensieri ed emozioni, l’unica capace di creare un mondo in cui valga la pensa vivere, come anche all’inalienabilità della creatività e dell’intelligenza del pensiero e dell’azione umana.

In questo non-romanzo di critica filosofica e sociale alla situazione attuale in cui versa l’umanità, risuona chiaro l’incitamento dell’autore alla necessità di seguire l’imperativo morale di “non sottomettersi mai ai miserabilismi del tempo”.

DESERTE VISIONI

1.

Originò dalle ombre sedute, incollate sul cancello del gelo, irrigidito e frigido, un ramo nero spezzato abbandonato sul sentiero scalpicciato, coperto da una selvaggia erba allettata. Il cielo notturno scintilla del ghiaccio delle stelle, si ode il distante latrare della volpe del deserto, non lontano, da qualche parte dietro la sua testa, smotta una zolla di sabbia rinsecchita. Sente il lento ticchettio dell’orologio, percepisce l’attento brulicare di uno scarafaggio, l’alito del vento e la rete di respiri dell’ignota dormiente. Guarda il soffitto. Il vento giocherella con le ciocche dei suoi capelli e gli accarezza il viso lacero col gelo e l’ardore. La sente. Sente il suo respiro colmo di gelida fragranza. Sente il suo respiro di rocce e nuvole rotolanti nelle zolle di un ciclo cupo, immenso. Sente il tremolio degli immaginari, lo scintillio di candelieri di ottone, il cerchio che si stringe, le separazioni delle reti, sente il volo timoroso degli insetti che volteggiano sulla preda nascosta nel labirinto del cespuglio coperto di polvere. Sente, e quindi è ancora vivo. È quindi vivo, morbido, coperto di carne e di candida, folta pelliccia di sabbia secca, bianca, marmorea.

La pietra frigida preme contro la schiena, il ghiaccio gli stringe i palmi delle mani, il latrato della volpe, satellite invisibile, si allontana e ritorna, il vento ridirige l’eco alta sul suo corpo intorpidito e la porta altrove, nella notte silenziosa, dispersa nell’infinito. È solo. Non è capace di muoversi. È disteso solitario nella trappola del pentagramma, a braccia spiegate e gambe divaricate come un’asteria con le punte impietrite, trema per il freddo interiore e ascolta le voci suggestive e pericolose dell’irriconoscibile notte. È solo. Non può, non vuole, non ha la forza né la volontà, ma non ha più nemmeno bisogno di invocare. Tenta di muovere prima una mano poi l’altra, prima un piede poi l’altro, l’immagine della sua testa, del labbro superiore e inferiore spaccati dalla siccità, ma le labbra indurite e i muscoli irrigiditi del suo corpo non lo assecondano. Non è che pietra. Sente di essere insensibile e privo di curiosità. Immobile stagno di singolare conciliazione e tranquillità, la cui superficie d’acqua copre l’intera estensione del suo mondo. Cade. Sogna. Chiude gli occhi e crede di sognare, non sogna, prova a sognare, li apre e li richiude, si perde nel labirinto d’immagini che davanti a lui, nella sua mente, emergono dal buio.

Qui c’è la casa di pietra del silenzio, l’odore di caffè, lo smisurato giaciglio che si scompone, l’ombra di Gorgo che si allontana, dietro la quale si serrano le nebbie. Un attimo dura l’eternità dell’irresolutezza. Respira. Sì, respira, inghiotte e sente, ha prova della sua immobilità. Tasta con le dita dell’anima le pareti della cantina e gli sembra, a tratti forse gli sembra anche che le piante dei piedi si allontanino dalle umide scalinate del corridoio sotterraneo, che non sia più attaccato al suolo sodo della nascita, e di sentirsi, invece, librare irrimediabilmente. È l’attimo di spavento, sopravento, dello sgretolarsi lento. Si arrende per un attimo. Si lascia portare. Assapora la propria immobilità prodigiosa, remiga sul proprio corpo, ne ammira la fronte candida, le delicate narici, l’ombra dell’albero impietrito, il nero diamante del proprio cuore caparbio. Inorridisce e stupisce, vorrebbe sorridere felice, vorrebbe sorridere, ma il sorriso gli raschia le labbra di ghiaccio prima di riuscire a manifestarsi. Tenta di sorridere. Invano.

La cosa un po’ lo sorprende, un po’ lo spaventa, per un attimo si meraviglia e tenta un sorriso, ma quello ricade impotente nell’abisso dell’immaginazione come un foglio illeggibile, asciutto tra il fogliame secco di desideri da tempo marciti. Può darsi che sia morto. Esita. Può darsi che finalmente sia davvero morto. Esita. In qualche angolo lontano del deserto dietro la sua testa risuona come un respiro la silenziosa risata della iena che osserva la carpa rorida. Gli sovviene di essere forse finalmente morto. Si stupisce. Gli sovviene di essere finalmente morto. Ancora una volta può aprire e chiudere gli occhi, vede il buio, sente ancora il lontano sfrecciare di un’automobile, percepisce il brillio delle stelle e l’aria muffida della città non lontana. Non ha paura. Per un momento investiga gli indizi di paura, ma non ne è più sopraffatto. Al contrario. È assalito da una strana, numinosa voluttà, da un infinito sollievo, da urla, da un senso di liberazione, dal vento, dai sobbalzi di saette silenziose, dal rintrono vittorioso delle bianche onde marine! Tutte le inquietudini, la stanchezza, le afflizioni si perdono nel buio, non è gravato da alcuna responsabilità, nessuno gli chiede più nulla, non deve più preoccuparsi di niente e non deve più combattere contro nulla, contro nulla! Precipita! Si libra! Urla! Non deve più sopportare il peso del suo essere, la fiacchezza dello scheletro, i movimenti del corpo, la codarda dentatura che batte, il berciare di nemici stolti, le trivellature di coscienza, i singhiozzi di beati abbandonati, gli abbracci della vergogna, le bastonate sulle reni e lo scodinzolio di code turgide! Che voluttà!

Se questa è la Morte, esulta tra sé, fuori di sé dalla gioia, che si spande in lui come latte freddo, se questa è la Morte, che continui pure! Liberami anche di quel che resta del ragionamento che ancora mi tiene in vita! Prendi il corpo da cane che mi rende greve, e i vuoti pensieri che mi immelanconiscono! Sistemami il tuo limpido specchio sotto le labbra e abbi cura che lì non si formi più la rugiada dell’inutile e velenoso respiro!… La Morte, però, sembra tentennare. Indugia. Avvolta nel mantello della meditazione, lei stessa morente di inoperosità. Si alza il vento e soccombe, risuona silenziosa la notte, le ruote dentate dell’orologio girano lente, il sangue si assidera e la speranza un po’ alla volta si sgretola come la secca argilla del deserto. Il cretoso, imponente muro della città sul lato sinistro digrigna le sue travi nere verso il cielo stellato. Qualche minuto animale ombroso, non lontano dalla sua testa, alza il muso a settentrione ed emette un guaito silenzioso, segnale ferino concertato. Dal labbro marmoreo gli spiove un candido rivoletto di sangue. Precipita. Precipita e nulla può fermare la sua caduta. C’è il buio moltiplicato per se stesso, il buio, il regno del buio smisurato. Apre gli occhi morti. Riprende fiato. Riesce a muovere il braccio e può poggiare il gomito sulla sabbia sotto di lui. Lo spazio si restringe e un po’ alla volta si riapre. Può di nuovo muoversi e sollevarsi, sedersi, piegare le gambe, rifiatare e voltare la testa da entrambi i lati. È preda di una profonda delusione. Del rammarico. Si fa sempre più strada in lui la disperazione per un amore venuto meno. Sente l’odore del timo, pianta grigia piena di antiche promesse, e ode il distante ammonimento della civetta del deserto. Alla luce delle stelle vede il suo palmo cinque volte mozzato nelle dita, che non gli sono più di nessun aiuto.

Dalla città morta a lui non arriva altro che silenzio, lo scricchiolio di ceste rotolanti, il crepitio di esperienze rinsecchite, lo sgretolamento di muri e silenzio. Il tempo dura come la pietra. Inizia a pensare al suo cappotto, alle sue tasche affamate, tira fuori una fotografia ingiallita di una donna gialla, un cantuccio di pane, la rosa madre, una risoluzione, un’antichissima fiaba, sulla quale l’intera sua vita si stringe in un duro pugno nero, roso. Oramai stanotte forse non dormirà più. No: stanotte forse non morirà più. Dal suo occhio stilla lentamente una torbida goccia. Non c’è scampo. Ci sarà nuovamente bisogno di prodigarsi nell’estenuante ristrutturazione degli immaginari e del rintanarsi sotto la pelle del presente, l’unico vero nascondiglio davanti al clamore di parole da tempo disossate. Bisognerà di nuovo occuparsi della vita, del respiro, della digestione, della circolazione del sangue troppo caldo, troppo denso. Così scivola via una notte dopo l’altra. Il firmamento all’orizzonte inizia ad impallidire, alto in cielo si librerà di nuovo l’uccello con il piumaggio bigio, argenteo del desiderio. Per un attimo considera la possibilità di alzarsi. Continua a giacere. Mai.

Per un attimo considera la possibilità di continuare a giacere. Continua a giacere. Mai. Si distende e sprofonda in sé come una vecchia secchia vuota nel pozzo disseccato di una casa da tempo abbandonata. Forse solo per un attimo gli sembra di essere davvero vivo. Solo per un attimo gli sembra che la sua vita abbia ancora senso e ordine… Continua a leggere

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Petr Král (1941-2020), Poesie inedite dalla raccolta inedita Distanze, Un testo inedito degli anni settanta di Petr Král, con uno stralcio di una intervista a Pavel Řezníček nella quale si accenna alla nascita del movimento surrealista praghese degli anni Sessanta, Traduzioni di Antonio Parente

Antonio Parente 

Testo di Petr Král di fine anni 1970, uscito nella raccolta L’era dei vivi (1980).

 

Natura per tutti

                           Per Hélène Renon

1

Boschi al pomeriggio, a un passo e distanti dall’eterno fruscio delle banconote, boschi con un seducente ciuffo boschivo in mezzo ai boschi. E nel bel mezzo una casa bianca, inabitata. La casa solitaria custodisce il suo segreto, c’è un uomo solo sul tetto, l’ultimo giardiniere, a sorvegliarla. È in bianco, gli dona; bianco da sempre, il mare che tace discretamente sotto le lenzuola nelle soffitte vuote + il tracollo degli abbaini a fine pomeriggio. Per il sangue, si deve già andare un po’ più lontano: ai palchi macchiettati dei teatri chiusi fuori città, agli ultimi brandelli di sangue nei fumaioli desolati degli affumicatoi, e alle viscere scarlatte del viveur vestito di bianco mentre cammina pazientemente su e giù per la banchina vuota del porto, evitando accuratamente lo sguardo dei vitaioli intorno a lui. Il pomeriggio raggiunge il suo inesorabile apice. Qua e là una lingua pende ancora sul libro, qua e là dei sederi risvegliati luccicano di nuovo sulla radura; questo è il momento giusto, se mai ce ne sia uno per piantare la propria bandiera in mezzo alla gloria versata. Ora o mai più. Anche i corridori si fanno impazienti; solo dopo alcune false partenze riescono finalmente a partire in gruppo, prima che ognuno di loro si renda conto di essere di nuovo solo ad ansimare nel bosco.

E continuano anche le piccole faccende umane: il buttero arrossisce con successo e sistema una bistecca a sostegno del biliardo cigolante, i medici ridacchianti si allontanano dalla natura mansueta del parco verso il fresco delle sale operatorie. In lungo e in largo, singolarmente e in gruppo, siamo tutti una famiglia disseminata; i pallidi trionfano sugli abbronzati, e poi sono questi ultimi a prevalere, alcuni più miti e meno appariscenti di altri. Chiudete il libro, tanto è già pieno. Aprite la porta, tanto non c’è nessuno. I sorrisi dorati brillano appena a loro convenienza nell’erba esuberante; lo scoiattolo morto vola nella spazzatura, Rosaspina si fa il letto in cielo, siamo tutti ai piedi di un’unica scogliera; la casa bianca sorveglia il solitario sul tetto, che da tempo non si sente più a casa, in nessun luogo. Ognuno di noi dimentica sempre che anche il ritorno da un viaggio è solo un altro viaggio: quando ci troviamo nella radura e l’edificio familiare diventa di nuovo bianco in lontananza davanti a noi, tra gli steli del migliarino, stiamo solo navigando ancora una volta verso il porto dall’altra parte dell’oceano.

 

2

Poi ci spogliamo, un calzino, l’altro, un po’ schizzinosi e un po’ cospiratori mettiamo via i nostri straccetti dall’odore familiare, mentre il cavastivali ci guarda con la calma di chi durerà comunque fino alla prossima guerra. Sì, avete sentito bene: una folata di vento improvvisa, e nell’incogliere del crepuscolo è di nuovo impossibile sapere quando, perché e a chi si rizzino i capelli, e tanto meno su quale testa. Né alla fine ci si intende sul fatto che il sole sia solo una velatura occasionale su un mondo permanentemente grigio, o se il grigio sia, al contrario, solo un velo occasionale sull’oro di giornate sempre magnifiche. Ci vorrà ancora un po’ prima che ci si dissolva nei propri pensieri; ci saranno sempre dei resti non digeriti, se non quelli che ora discendono sull’erba lungo la pista deserta. Mentre il velodromo ci circondava con il nostro stesso silenzio, ci ergevamo qui taciturni al tempo in cui il centro del mondo avvizziva. Lenin? una semplice ombra, e poco più in là, un Casanova in un casto fremito.

Non c’è niente di peggio di quando cala la penombra, il lamento del vento nelle sue stesse viscere; quando ombreggia il crepuscolo, le teste che ricadono nel giorno sono teste inutili, cesti traboccanti di un bagliore vuoto. Chi può mai affermare che non abbiamo fatto nulla? Ognuna delle rovine di cui è imbottito il crepuscolo è opera nostra, comprese quelle che puntellano il cielo fatiscente. L’oscurità ha inghiottito i sentieri, ma l’uomo continua a disegnarne i labirinti nella notte del cervello. Rimanemmo in piedi e bagnati accanto alle gabbie degli animali fradici, circondati da ogni lato dalla pelliccia madida degli sterpeti, in attesa soltanto del fulmine globulare. Almeno questo era ieri; oggi ne parliamo soltanto, di nuovo, mentre lo stesso fulmine riverbera nelle profondità delle nostre gole. L’oggi, un pallido frammento di lampada dietro una cortina di gocce silenziose che tormentano la nuda autostrada. Il mammut dei tempi, Lenin? C’era una volta, o forse no; sussurrato. Possiamo piovere indisturbati.

 

Petr Král

Tutta la ruggine

Ma
donna tutta quella ruggine
di condutture corrotte cumuli caduti
rivelata nel terreno smosso da scavature
come forme quotidiane di seminterrati
sotto i piedi e le gambe
anche di dolce avvenenza del viandante e della viandante vivi Ma
donna e come sale qui pervade i corpi con severo crepitio
si drizza come il fruscio di foglie cadute la fiamma secca ma
donna in cui riarde
ciò che più non cova che mi riempie della tua carne
e in te stridono le mie ossa
porta a noi l’acuto brusio
del bosco antico dei suoi turbolenti rami delle venature infiammate
dei cespugli ardenti di cerve

* * *

“Ridi”, lo sollecitarono
Il cuore lo comprese
ma la bocca si irrigidì

Continuare a sparare alla cieca
o semplicemente sbandierare

* * *

Il bisogno di andare
seguire la strada
il marciapiede
Cicche e ciliegie
Nei vuoti
l’intera giornata nuova

Di notte il buio enfisema
nella sciamatura di stelle
Nella camera da letto
qua e là un fermaglio
Sotto il tavolo briciole
A volte una meteora
Un dente caduto
Una scalfittura di unghia
sulla parete
La saliva rimanente
all’angolo
Nell’occhio del paesaggio
solo una macchiolina d’albero
Subito una cicca
e poi un nocciolo
Il bicchiere che al tatto
si allontana di nuovo

* * *

Il bucato torna a noi
in uno sventolio spudoratamente candido
Il brandello di nuvole
dovrebbe ora consegnarlo qualcuno
se solo da qualche parte in Moravia
dietro l’impervia femminilità del declivio
dove continua a levarsi
e a scomparire
Le silenziose fabbriche del nulla
nuove città vuote

(dalla raccolta inedita Distanze)

Ecco uno stralcio della intervista inedita in italiano al poeta ceco Pavel Řezníček a cura di Viki Shock, pubblicata su Babylon n.7, 05., nella quale si narra un aneddoto in cui compare Petr Král circa la nascita della poesia del secondo surrealismo ceco, nella traduzione di Antonio Parente.  Continua a leggere

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Wanda Heinrichová: In ricordo di Petr Král (1941-2020), Poesie inedite di Petr Král, versione dal ceco di Antonio Parente

Il Mangiaparole n. 9 Petr Kral

[nella banda in alto, da sx, foto di Iosif Brodskij, Giorgio Linguaglossa, Alfredo de Palchi, Czeslaw Milosz. in cover Petr Král]

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Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941 da una famiglia di medici e muore il 17 giugno 2020. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico. È insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, nonché critico, collabora a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su “Le Monde e cinematografiche” su “L’Express”. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’”Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales” e dal ‘90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).
Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è anche autore di prosa: ricordiamo “Základní pojmy” (Praga, 2003), 123 brevi prose, tradotte in italiano da Laura Angeloni nel 2017 per Miraggi Edizioni. Attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte, Petr Král ha collaborato con la famosa rivista “Positif “e pubblicato due volumi sulle comiche mute. Antonio Parente ha tradotto di Král molte poesie in italiano pubblicate da Mimesis, Tutto sul crepusculo nel 2015.

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Petr Kral 2016 caffè Slavia, Praga

[Petr Král al caffè Slavia, Praga, 2018]

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Wanda Heinrichová: In ricordo di Petr Král

“Ma è una cosa che mi aiuta”, disse con voce alterata, quasi infantile, mentre tentavo di allontanarlo dal computer. “Vatti a riposare”, lo pregai, “altrimenti la gamba ricomincia a farti male”.

Ora mi dispiace. Mi pento delle mie parole insensibili, di non aver capito. Sono molte le cose di cui mi pento.

Fino alle ultime settimane, Petr trovava ore e minuti in cui il dolore non gli impediva di lavorare. Solo che lui non lo chiamava lavoro. La letteratura era la sua vera esistenza. Prendeva sul serio il suo servizio alla letteratura in tutta la sua giocosità, e al servizio della letteratura si dedicava come a nient’altro al mondo.

Leggo i manoscritti che ritrovo nel suo computer, ma nella bozza delle sue memorie non riesco a rinvenire l’aneddoto che mi raccontò una volta. Un tema al ginnasio: Cosa significa l’arte per me? Non so come se la cavarono i compagni di classe di Petr, ma lui rispose riempiendo l’intero quaderno. Stupito e allo stesso tempo perplesso, l’insegnante alla fine non valutò nemmeno la sua risposta. Posso immaginare come sia trasparito da quello scritto scolastico l’amore irresistibile di Petr per la pittura, il cinema, i libri, la poesia. Hanuš Schwaiger e i suoi Anabattisti forse invasero i quieti paesaggi di Kosárek, tanto Petr era pieno di immagini, fin da ragazzo. Ciò che lo colpiva non era esclusivamente la letteratura, era la poesia in sé. La poesia di luci e ombre, i movimenti delle creature, delle foglie, delle macchie, delle voci e dei rumori del mondo.

Petr percepiva nettamente la presenza della poesia, il suo rapporto con essa poteva essere paragonato solo ad una inclinazione religiosa. La venerava, l’amava, la sfidava, la cercava, la difendeva nel campo della critica. Incoraggiava instancabilmente i suoi compagni di viaggio con il suo profondo interesse per la poesia di altri artisti.

“Impariamo a guardare attraverso l’arte”, diceva, il più delle volte in relazione alla pittura.

Caratteristico di Petr considero questo suo approccio sequenziale: Lasciarsi incantare ed educare dall’arte e poi – non più con ingenuità, ma con un senso di nuova avventura – tuffarsi nella realtà.

La vita per una poesia, così Petr ha intitolato i suoi ricordi. Non è riuscito a portarli a termine, né è arrivato al racconto del tema che ho citato in precedenza. Quando i medici gli dissero che la prognosi era di pochi mesi, rifletté: “Dovrò fare diversamente, in qualche modo, a salti”. Raccoglieva tutto in appunti (scriveva sempre prima a mano), nel comporre e riscrivere il testo era arrivato alla soglia dell’adolescenza.

Durante l’agonia, Petr si tirava su nel letto, e probabilmente l’ultima cosa che ha detto è stata: “Qualcun altro dovrà finirlo al posto mio”. Non intendeva sicuramente solo le memorie, pensava anche ai saggi inediti sul cinema, che voleva fornire di note, alle traduzioni, alla poesia.

Un uomo ardente di febbre con gli occhi lucidi di stelle
incidono il soffitto con brucianti e misteriosi disegni di ornamenti turchi
o mappe di macchie sui muri dei cimiteri

solo l’ultimo sguardo frenetico di entrambi gli occhi
esala al soffitto un due punti prima dell’urlo
che già più non si avverte

:

(settembre 1957)

Questi versi Petr li ricordò un mese prima della sua morte, era ancora capace di alzarsi e andare al computer, e il computer ne registrò la data. L’intera poesia si intitola Dal sonno al risveglio, Petr la scrisse a sedici anni. E davvero è morto di febbre, bruciando.
Il mondo del ventunesimo secolo gli era già estraneo, eppure lo amava ancora, fino a esserne ossessionato, di esso amava ciò che lui chiamava i resti del mondo reale. Cosa intendeva per resti? Ricordo, ad esempio, un concerto raccolto, al Jazz Dock nel 2011, pochi spettatori, ma una musica formidabile. Il vecchio Lee Konitz suona il sassofono, non sul palco, che non c’è, è seduto proprio di fronte a noi. E poi pianoforte, contrabbasso e batteria, musicisti molto giovani, le luci del bar che si riflettono sul fiume notturno, la superficie rosa, soprattutto rosa della Moldava che luccica, Lee Konitz si alza, indica l’acqua tutt’intorno, alza lo sguardo e dice: “Queen Mary.” Non so cosa volesse dire Konitz. Il transatlantico Queen Mary non andò a picco, non fu mai affondato. Durante la guerra, fu verniciato di grigio, da cui il nome Gray Ghost. Non solca più gli oceani, le sue eliche sono state rimosse, eppure. È qui come Lee Konitz. Come te, Petr.

Petr Král

Tutta la ruggine

Ma
donna tutta quella ruggine
di condutture corrotte cumuli caduti
rivelata nel terreno smosso da scavature
come forme quotidiane di seminterrati
sotto i piedi e le gambe
anche di dolce avvenenza del viandante e della viandante vivi Ma
donna e come sale qui pervade i corpi con severo crepitio
si drizza come il fruscio di foglie cadute la fiamma secca ma
donna in cui riarde
ciò che più non cova che mi riempie della tua carne
e in te stridono le mie ossa
porta a noi l’acuto brusio
del bosco antico dei suoi turbolenti rami delle venature infiammate
dei cespugli ardenti di cerve

* * *

“Ridi”, lo sollecitarono
Il cuore lo comprese
ma la bocca si irrigidì

Continuare a sparare alla cieca
o semplicemente sbandierare

* * *

Il bisogno di andare
seguire la strada
il marciapiede
Cicche e ciliegie
Nei vuoti
l’intera giornata nuova

Di notte il buio enfisema
nella sciamatura di stelle
Nella camera da letto
qua e là un fermaglio
Sotto il tavolo briciole
A volte una meteora
Un dente caduto
Una scalfittura di unghia
sulla parete
La saliva rimanente
all’angolo
Nell’occhio del paesaggio
solo una macchiolina d’albero
Subito una cicca
e poi un nocciolo
Il bicchiere che al tatto
si allontana di nuovo

* * *

Il bucato torna a noi
in uno sventolio spudoratamente candido
Il brandello di nuvole
dovrebbe ora consegnarlo qualcuno
se solo da qualche parte in Moravia
dietro l’impervia femminilità del declivio
dove continua a levarsi
e a scomparire
Le silenziose fabbriche del nulla
nuove città vuote

(dalla raccolta inedita Distanze)

Altre poesie traduzione di Antonio Parente

Nei giorni invernali

Una mano nell’oscurità preme
l’interruttore, il neon lampeggia esitante. Il buio dormiente
soltanto da lontano striato da un’opaca apparizione: per metà un tremulo locale e per metà forse anche l‘intero paesaggio cinereo, con un mucchio fumante di abiti
– forse carne –
umidiccio di stelle e della colpa occulta. E di nuovo l’oscurità, di nuovo chiedere
soltanto: di cosa è impallidito il sangue, cosa di nuovo annega di notte
sotto la superficie delle parole. Tanto a lungo finché la luce s’impietrisce
e immota rivela
l’estensione originale di una scena cenerina, vuota.

(Per l’angelo, 2000)

Hotel Mercurio

Questa volta senza barba su ritratti illustrissimi
bussa qui nudo alla sua porta
forse ha in mano la chiave
e i bambini devono fare il giro fino al ponte
È autunno, i pescatori seduti sul ramo
gridammo la data odierna vendevano i biglietti di ieri
quei ragazzi però volevano vedere solo il culo della moglie del consigliere
che irradiava l’azzurro della sera dalla porta della stanza
dove pulisce il sangue

(L’era dei vivi, 1989)

Foto Lazslo Moholy Nagy 2

foto Lazslo Moholy Nagy

È qui

Buoni a nulla
e battifiacca, ah,
è qui, il giorno,
getta il suo sguardo su di noi.

Il giorno odierno, non chiede
nulla,
è qui, raccoglie il bucato,
aduna i resti delle famiglie.

Dimenticate il pudore
e le pretese, è qui,
veglia
ai piedi delle vie.

È qui il giorno,
mi conosce
quanto voi, apre in noi
gli stipiti,

scrive sulla nostra pelle
i messaggi per gli altri.
Il giorno,
è qui più di noi,

e in noi fa luce
da lontano, date pure
un’occhiata intorno,
travi, pennoni abbattuti;

alzatevi,
è giunto il giorno,
sdraiatevi,
è qui,

scarica la luce
sul marciapiede,
in piedi, lui stesso chiede
del giorno,

incede
senza vanto,
sale d’attesa, prestiti,
recessi,

capannelli vari,
grassi.
È qui il giorno,
avvicinatevi adagio,

senza lampada
e impacco,
passate
accanto agli attrezzi,

voltatevi
di spalle;
è ovunque,
ovunque gemono

i cardini, ristagnano
le acque ad alto fusto,
siete dappertutto inastati
nel giorno,

issate la bandiera, deponete
le valige,
vuoti e pervasi
dal giorno.

(Accogliere il lunedì, 2013)

Alla sconosciuta fulva del treno per Parigi, agosto

Con occhio cisposo scrivo
nel tuo
di biglia verde piena di bava e silenzio
di un mare straniero

spaccata dal rugginoso sole mentre la fai rotolare
verso il muro bianco
Fessura di bocca Zazzera arruffata contro il deserto
candore come uno scoppio e un grido

Il tempo scalpiccia qua e là
sulle assi I convogli
militari sospirando
avanzano tra i vagoni

Sollevati da un’ondata da un antico
terrore sei un animale di trasporto
Una lampada del corpo inestinto
raggiante nella casa ignuda degli anni del saccheggio

(Per l’angelo, 2000)

Giorni

Piedi nudi che continuano a vivere limpidamente
sfiorano leggermente la fresca notte
nella pietra

(Il continente rinnovato, 1997)

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Prose poetiche inedite di Karel Šebek (1941-1995) scritte per scommessa, e una poesia, Tentativo di suicidio, traduzione di Antonio Parente con un dialogo tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa

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A seguito di una scommessa tra Karel Šebek e Petr Král, vinta da quest’ultimo,  Sebek dovette scrivere per un anno tutti i sogni che faceva durante la notte.
Eccone alcuni inediti in italiano tradotti da Antonio Parente.

Karel Šebek, agente doppio di se stesso, castoro-conquistatore, protettore e protégé di sua nonna, usurpatore e liberatore segreto di Jilemnice, mascotte e fantasma degli Istituti di Dobřany, Sadská e Kosmonosy, guardiano notturno e scrivano che con la sua veglia ha impedito che la realtà si addormentasse per sempre.

Nato il 3 aprile 1941 a Jilemnice, misteriosamente scomparso nella primavera del 1995 (come lui stesso aveva predetto in un testo degli anni Sessanta Il mondo si punisce e piange: «I cani da caccia non fiutano ancora il luogo dove una volta mi smarrii del tutto»); dal momento che il suo corpo non è stato mai trovato, si può supporre si sia trattato di omicidio più che di suicidio, che in precedenza aveva invano tentato più volte. Cugino del poeta e psicoanalista Zbyňek Havlíček, fu grazie a lui che si avvicinò alla poesia e prese a conoscere i surrealisti di Praga, soprattutto i rappresentanti della «terza generazione surrealista», con i quali socializzò intensamente prima della partenza di alcuni di loro per l’esilio. Sempre con l’aiuto di Havlíček, divenne infermiere dell’ospedale psichiatrico di Dobřany, dal quale tentò di fuggire in Germania in compagnia di due ricoverati, e dove fece ritorno come paziente successivamente all’arresto del trio di fuggitivi da parte della polizia; soggiornò di nuovo a Dobřany anche prima della sua scomparsa, avendovi trovato l’anima gemella e protettrice (e anche co-autrice) nella dottoressa Eva Válková. Qui:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/09/22/karel-sebek-1941-1995-3-x-nulla-cura-e-introduzione-di-petr-kral-traduzione-di-antonio-parente-mimesis-hebenon-milano-2015-con-una-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-un-compiuto-progetto-poe/

(Petr Král)

Karel Šebek nasce a Vrchlabi il 3 aprile 1941 e scompare nell’aprile del 1995. Poeta, collagista, paracadutista di poesia. I suoi scritti sono apparsi, tra l’altro, sulle riviste ceche “Analogon”, “Literarni noviny”, “Tvar”, “Orientace”, “Host”, “Vokno” e “Doutnik”, in Francia su “La Crécelle Noire”, “Camouflage” e “Melog”, in Italia su “Hebenon”. Inoltre, è presente nelle antologie Surrealistické vychodisko (Via d’uscita surrealista, 1969), Cesti prokleti basnici (Poeti cechi maledetti, 1998) e Le surréalisme en Tchéchoslovaquie (Parigi, 1983). Ha alle spalle una trentina di tentativi di suicidio; l’ha sempre scampata, ma dall’aprile del 1995 risulta scomparso. Può darsi che si sia avverato il suo sogno da bambino, il suicidio. Ha pubblicato le seguenti raccolte: Ruce vzhuru (Mani in alto, 1990), Probud se andeli, peklo spi (Svegliati angelo, l’inferno dorme, 1994), Ani hlt motyla (Nemmeno un sorso di farfalla, insieme con Eva Valkova, 1995), Divej se do tmy, je tak barevna (Guarda nel buio, com’è varipinto, 1996) e 3xnulla per Mimesis, 2015.

Motto: La poesia è un indimenticabile gioco alla propria vita

Karel Sebek

Caro Petr,
non tutto è perduto, te lo assicuro, ho anche capito come fare per assolvere in tempo la prossima volta il mio dovere verso i sogni e verso di te: ogni notte che salterò, andrà ad aggiungersi a quella di Capodanno, quando, come d’accordo, tireremo a sorte di nuovo. E quindi ora dovrà aggiungere martedì notte, mercoledì notte e lunedi notte, immagino. Allora, arrivederci al 3 gennaio 1968, per l’estrazione a sorte, per il momento. Vedo che ancora una volta, mi sono sobbarcato un bel carico.
Ti ho spedito davvero una cartolina postale terribile, che sembrava provenire dallo stesso mondo dal quale l’ho effettivamente inviata, dal momento che te l’ho scritta in uno stato di coscienza parziale.
Scusami, non lo farò mai più.

Vorrei ancora salvare almeno i sogni della notte tra giovedì e venerdì e tra venerdì e sabato / oggi è sabato /.

notte 13-14 aprile 1967
Sto andando verso l’ospedale di Vrchlabi, dove devo recarmi per una ragione che non conosco, prendo una porticina che non ho mai notato prima, a quanto pare è un’altra portineria, più piccola, sostitutiva, che viene utilizzato solo in casi estremi, in realtà qui passano occasionalmente solo i dipendenti, due uomini che vi lavorano, i quali altrimenti fanno da guida ai pazienti per il parco dell’ospedale; tutto ciò mi viene spiegato, su mia domanda, da uno dei due uomini. Oltrepassata la portineria, il terreno cambia radicalmente, la distanza fino all’edificio principale dell’ospedale ora è circa dieci volte maggiore, e tra la “portineria” e l’edificio vi sono ovunque delle gole profonde, in realtà qui parrebbe una versione un po’ caricaturale o maggiorata della collina dietro l’ospedale dove in passato andavo sullo slittino durante le vacanza di fine semestre.
Quindi, tutto qui è accresciuto, la recinzione è stata estesa, e forse anche la portineria era originariamente solo una casetta nei campi, ed è perciò che allora non la notai.
Ci sono anche gli sciatori, ma niente neve – vanno molto veloce per i prati, credo abbastanza primaverili – in realtà tutti intorno si muovono sugli sci, il postino, “i pedoni”, i medici, un poliziotto che scia sul prato, riconosco in lui con stupore il mio compagno di classe di una volta, Kubáček – tutto accade proprio in quei giorni in cui ho smesso di tenere il diario. Per questo mi è sfuggito tanto in così poco tempo – in sogno cerco solo di pensare e di non vedere immagini – ora in sogno riesco con la sola forza di volontà a fermare nella sala del cinema la proiezione del film –

notte 14-15 aprile 1967
Come tante volte di nuovo in viaggio per una città straniera – ma questo accade a sogno già iniziato, non ricordo l’inizio, soltanto il momento in cui sto tornando tra dei gitanti dopo aver, nel frattempo, lasciato la gita e fatto ritorno a casa per un po’ – tra i gitanti cerco mio padre, ma mi vergogno a chiedere a qualcuno e così rimango in piedi vicino alla porta – nel frattempo qui tutti hanno imparato molto, mi sono perso tutti i giochi erotici fondamentali – dappertutto grandi gruppi di ragazze, una di loro mi dice che qui non esiste più l’idea di timidezza, innocenza, morale e così via – io non la capisco, credo che tutto questo sia soltanto un camuffamento a scapito mio.
In un altro momento del sogno, Martin decora la parte esterna del cinematografo con fotografie di alcuni attori del cinema russo, lo aiuto, deve essere uno scherzo, ho l’impressione di poter conquistare una ragazza se fossi capace di procurarle almeno un numero del giornalino Frecce veloci.
Fuori città, in pieno mattino, la fine di qualche festa alla quale hanno partecipato quasi tutti i cittadini, passo tra due ragazze, sono ancora in abito da ballo e mi chiedono se non possa aiutarle a svestirsi a casa loro. La terza ragazza, che le precede, dice che lei si veste sempre da sola in casa.
Improvvisamente mi ritrovo ai piedi di un ripido pendio, sopra ci sono sono alcuni libri, mi arrampico gattonando, ci sono vespe o api, devo fare ritorno, dall’altra parte della collina c’è un accampamento indiano, bisogno avvicinarsi di nascosto, ora riesco a discendere il pendio, quasi perpendicolare, e in maniera di certo magistrale. Lassù trovo dei libri pornografici, come realizzo in sogno, per ragazzette, o anche ragazze. Forse è una lettura pornografica come lo possono essere le immagini pornografiche di D.Tanning.-.
Per il momento è tutto. Come ti ho scritto sulla cartolina, ti invierò una lettera, te lo giuro, domenica durante il turno notturno / oggi ho intenzione di divertirmi, dovrebbe arrivare Martin / “L’età dell’oro” te la spedisco lunedì insieme alla lettera. Forse riceverai tutto in una volta, perché oggi è il sabato libero e quindi anche questa lettera, purtroppo, ritarderà. Buon
sabato e domenica.
Tuo Karel

20 aprile 67
Gesù, Petr, dr. Miroslav,
già mi avrai sicuramente mandato al diavolo, me e tutta Jilemnice, e senza alcun dubbio me lo merito. Mi sento come se tornassi ora dopo una settimana trascorsa in birreria. Improvvisamente sento una grande responsabilità, ma è già troppo tardi. Mi sono appena dato uno schiaffo.
Quando avrò finito di scriverti, vado alla posta a spedire questa lettera e a comprare un mucchio di cartoline postali e da domani schioccherà la frusta.

notte 18-19 aprile 67
Ricordo vagamente che il sogno ha inizio in soffitta a Vrchlabi, nella metà superiore dove si sale la scala. Ma all’improvviso c’è un lungo corridoio, dove si sentono degli spari. Anch’io sparo col revolver, ma le pallottole volano talmente lentamente che non solo riesco a vederle, ma che quando, per esempio, sparo in alto, il colpo non raggiunge il soffitto.
A lunga distanza da me, in quel corridoio, un canadese insegue un uomo che ride di lui e alla fine riesce a ucciderlo. Quando mi avvicino, vedo che si tratta di – Benjamin Peret, in sogno però somiglia in parte ad un mio compagno di classe Zdeněk Paulu, è morto, ma allo stesso tempo ride.
D’un tratto mi ritrovo in una grotta profonda, c’è l’intera famiglia reale, sui quadri alle pareti, ma sono vivi e conversano. Cercano di accordarsi, nei dipinti, su chi fuggirà dall’immagine nelle macchie sul muro. Non lontana, l’amante principe, la quale non appartiene alla famiglia reale, ed è già nascosta in una macchia monocromatica, è il suo profilo. Indossa un cappello. Tutto ciò lo vedo da un buco nel muro di una stanza dell’appartamento di Vrchlabi dei miei genitori. C’è anche un tesoro nascosto in una sorta di ingranaggio, è possibile trovarlo solo in determinati intervalli di tempo, quando le rotelle ruotano in una certa posizione. Si tratta soltanto di pochi secondi.
Ho dieci minuti di tempo per trovare il tesoro, mi dico in sogno. L’intero ingranaggio improvvisamente mi rimane in mano. – In un altro punto del sogno di quella stessa notte, Zbynek mi critica per il mio scorretto uso delle virgole nelle frasi. – Sto tornando al cimitero dalla festa di ieri insieme a Martin, sullo stesso luogo dove eravamo ieri ora c’è una tenda e dentro due pipe.
– In un altro momento della notte, divento testimone del furto di una cassa di bombe a mano, I probabili colpevoli sono due ragazzini, ne vengo a conoscenza grazie a due piccoli telefoni, ognuno dei quali può essere utilizzato solo su un orecchio.

notte 19-20 aprile 67
È mattina e io discendo il ripido declivio che parte da Kukaček, dove una volta ho campeggiato, è completamente deserto, improvvisamente in una curva incontro una bella donna in là con gli anni, diciamo di 35 anni, e cado subito tra le sue braccia. Mi dice che potrei fare l’amore con lei solo giù su un ponte. Lungo la strada, si spoglia, ma una volta giù improvvisamente mi rendo conto che si tratta di una trappola, e che lei è una specie di agente che sobilla la gente per farla iscrivere all’Accademia delle arti performative. Giù proiettano un film, e il paesaggio aperto diventa abbastanza rapidamente una stanza chiusa, si tratta di 8 1/2, ma è una versione del tutto diversa,
lo dico a qualcuno che mi siede accanto nel cinema, ma lui mi dice che oltre a questa seconda versione ne esiste anche una terza, completamente dissimile dalla prima, e che corrisponde soltanto a tratti alla seconda. Il film che sto vedendo si svolge in una stanzetta, dove su due buchi profondi si trovano delle tavole marce di pioggia, tavole che bisogna attraversare per arrivare in una stanza successiva e salvare una donna che si è suicidata lì. Cerco di oltrepassare le tavole di legno, c’è anche un bambino piccolo, ma così piccolo che riesce a starmi nel palmo della mano, mi sta quasi per cadere in uno dei buchi, ma all’ultimo secondo riesco a riafferrarlo. In quella stanza c’è bisogno di salvare la suicida, e per ciò devo trovare due fili. Mi aiuta un grassone che sbuffa orribilmente e soffia tutto intorno a sé, alla fine facciamo a gara a tirare quei fili, io vinco e lego le mai della donna così saldamente che i fili penetrano la carne fino a scomparirvi del tutto.
La donna ulula di dolore. Sono confuso. Il grassone ora è disteso dietro un paravento e alletta a sé il bimbetto con vari gesti piuttosto ripugnanti. Bisogna impedirlo, preferibilmente correre verso i genitori, ma lui (il grassone) e il bimbetto sono miei fratelli. Cerco di fare delle smorfie in direzione del paravento e l’omaccione davvero ripete quelle stesse smorfie, quindi mi convinco che si tratta di mio fratello: Improvvisamente il suo viso fa delle smorfie dal giornale (è un’immagine vivente sul giornale) – Un congresso psicoanalitico, dove sono stato invitato a dimostrare
sperimentalmente l’uccisione di due miei amici di scuola (Kašlík e Mařas), Vado al deposito munizioni per la pistola, mi sembra d’un tratto, di una grande facilità uccidere quelle due persone e mi sento di ottimo umore, come se avessi preso le pillole. Mi dico che quando sarà a corto di pillole, lo farò più spesso. Intorno a me due soldati gettano dalla porta del magazzino delle grandi mine. Dicono che devo portare verso un non meglio specificato lungomare un sacco che somiglia a una enorme zampogna, Non ce la faccio a portarlo, tutti i soldati mi scherniscono. A uno di loro dico qualcosa tipo e se invece di quei due uccidessi due tenenti? Un tenente si avvicina a me estraendo la pistola. È sicuro che mi sparerà. Ma lui mi dice che non me la passerò tanto liscia per questo. Prende una una sorta di piastra con dei chiodi appuntiti e me la sbatte in faccia. ho un chiodo per occhio. Continua a leggere

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Viola Fischerová (1935) Poesie scelte – Frammenti del discorso lirico nella poesia ceca – A cura di Annalisa Cosentino

Foto Jason Langer, Canary Wharf no. 1, 2008

Foto Jason Langer

Viola Fischerová nasce a Brno nel 1935. Figlia del filosofo Josef Ludvík Fischer, cresce in un ambiente di intellettuali e sin dagli anni dell’università frequenta scrittori e artisti tra cui ama ricordare ad esempio Vera Linhartová, Václav Havel, Jan Zábrana, Jan Vladislav, Mikuláš Medek (vedi l’intervista concessa a Michael Špirit, in «Revolver Revue» 28, 1995). La sua prima raccolta di versi, Propadání (Sprofondando), completata sul finire degli anni Cinquanta, non viene accettata nelle case editrici sottoposte alla censura del regime totalitario; alcune di quelle poesie sono uscite nel 1995 in «Revolver Revue».

Dopo il primo vano tentativo di pubblicare, la Fischerová smette per lungo tempo di comporre poesie; entra tuttavia proprio come poetessa nella coscienza dei lettori per alcuni suoi versi che Bohumil Hrabal – negli anni Sessanta già molto popolare – pone in epigrafe alla raccolta di racconti Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare (1965): «La latteria potrebbe vendere anche quando è buio / Cominciare a vivere da sola è più di una nascita / Si può intendere la mancanza di fede / come attenzione indiscriminata / Del resto metto un’inserzione per una casa / in cui non voglio più abitare». Questi versi contenevano il concetto di «attenzione indiscriminata» che sarebbe stato tanto produttivo nella poetica di Hrabal: se per la Fischerová era questo un modo per definire diffidenza e indifferenza, per il grande scrittore ceco aveva invece un significato positivo, indicava la capacità di osservare la realtà senza pregiudizi, prestandole un’attenzione incondizionata.

https://youtu.be/xgJGCQuKE54

Laureata in letteratura ceca e polacca, negli anni Sessanta la Fischerová lavora soprattutto alla redazione culturale della radio cecoslovacca, curando programmi dedicati alla letteratura e scrivendo tra l’altro adattamenti radiofonici di opere letterarie. Nell’autunno 1968, dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del patto di Varsavia, come altri intellettuali che avevano creduto nella possibilità di riformare il cosiddetto socialismo reale sceglie l’esilio insieme al marito Pavel Buksa (noto come scrittore con lo pseudonimo di Karel Michal) e si stabilisce a Basilea. Qui alterna varie occupazioni mentre studia per prendere una seconda laurea in germanistica e storia. Negli anni Ottanta si trasferisce in Germania, a Monaco, dove ricomincia a scrivere versi, affiancando nuovamente la poesia alla pubblicistica: collabora infatti con periodici e case editrici del dissenso e dell’esilio, e inoltre con la redazione di Radio Free Europe. È rientrata nel suo paese dopo i cambiamenti politici e istituzionali seguiti alla cosiddetta ‘rivoluzione di velluto’ del novembre 1989 e dopo la morte del secondo marito, lo scrittore Josef Jedlicka. Attualmente vive a Praga.

La costante tensione della riflessione esistenziale accomuna le poesie qui presentate in traduzione italiana, scritte a distanza di anni; sono pervase dal tema dell’assenza, del lutto e della perdita, condizioni psicologiche e materiali di cui si indagano le conseguenze nell’esistenza quotidiana di chi le subisce. Le cose di ogni giorno, con la loro implacabile presenza, si manifestano come segni dolorosi: così ad esempio la porta di casa, solitamente varco e soglia della sicurezza, non è altro che l’«ingresso in una ferita aperta»; i simboli più ovvi della gioia familiare – come ad esempio la vigilia di Natale – si capovolgono a significare la più pura assenza: del resto, nel percorso verso una vicinanza discosta, eppure ormai matura, cresciuta, autonoma, l’io lirico guadagna «una visione più chiara / dell’altra faccia / opposta delle cose». La faccia opposta delle cose non ne rappresenta il contrario ma il completamento, così come l’affinarsi della percezione non si realizza nei versi per ossimori: grazie ai frequenti accostamenti inusuali, la prospettiva si fa dinamica e si approfondisce, permettendo di scoprire altre dimensioni dell’esistenza.

Un’altra componente importante e produttiva nella poesia di Viola Fischerová è la memoria: i ricordi sono narrati attraverso la rievocazione lirica di eventi, ma soprattutto attraverso le sensazioni, le percezioni e i sentimenti riproposti nei versi con tale efficacia che a ogni lettura sembra di poter sperimentare nuovamente la loro intensità. Il lirismo dell’evocazione non ha nulla di astratto, le scene della vita spirituale si svolgono anzi in uno spazio ben individuato all’interno di coordinate fisiche, in luoghi descritti dalla loro componente emotiva, quasi avessero un carattere umano («La porta di casa / ingresso in una ferita aperta»; «Di notte mi dispiace / per quella via»;

«Ma chi mangerebbe / da piatti passati / e si ubriacherebbe / da bicchieri di prima» ecc.).

Il verso libero, mosso e scandito da pause diverse seppure distribuite con regolarità, risulta attraversato soprattutto da allitterazioni. La leggerezza della misurata tessitura fonica rivela una padronanza sicura della lingua; questa poesia dall’intonazione pacata e dall’espressione matura rifugge dai facili virtuosismi. L’andamento dei versi è dialogico: si percepisce molto forte la presenza di un interlocutore esplicito, un ‘tu’ cui l’io lirico si rivolge, che potrebbe talora identificarsi con una persona cara scomparsa, a volte è un dialogo con se stessi, altre volte sembra scandire le battute di una conversazione tra amici o, ancora, impersona un dio cui ci si appella. Pochissime poesie hanno un titolo, mentre sono individuate dall’incipit: si presentano così come tasselli di un unico discorso sempre ripreso.

(Annalisa Cosentino)

Dalle raccolte Zádušní básne za Pavla Buksu (Poesie in morte di Pavel Buksa; scritta tra il 1985 e il 1986, ma pubblicata a Brno solo nel 1993); Babí hodina (L’ora del tramonto; 1994), Odrostlá blízkost (Discosta vicinanza; 1996), Matešná samota (Solitudine madre; 2002), Nyní (Adesso; 2004)

Viola Fischerova

Viola Fischerová

(Traduzione di Annalisa Cosentino)

Domovní dveše
vchod do otevšené rány
nuova poesia ceca
Schody se lesknou Ani kapka krve ani pešícko
Celý náš život trval 16 let
a odehrál se ve tšech pokojích

***

V noci mi bývá líto té ulice
Není v ní jediné okno o nemž chci vedet kdo za ním bdí

***

Bože mnj
nemeli jsme nikdy jistotu že žít je samozšejmé
a nárok na to slušný Nebyli jsme vlažní Jestliže jsme první vyklízeli pole nehnala nás bázen ale stud
Tedy pýcha
První hších

***

Taky na mne nemyslíváš kolik dní?
Taky sis našel jiný život?

Co ale když se stmívá než se rozední

Dnes po celý vecer tkvely na cerné vode dve labute
a ani se nehnuly

***

A nekdy k ní pšichází
její nenarozený
Má plavé vlasy její nelásky
a stejný úsmev a zuby
Znstává nikdy však nepromluví

*

La porta di casa
ingresso in una ferita aperta Le scale brillano
Né una goccia di sangue né una piccola piuma Tutta la nostra vita
è durata sedici anni
e si è svolta in tre camere

***

Di notte mi dispiace per quella via
Non c’è neppure una finestra di cui vorrei sapere
chi vi veglia

***

Dio mio
non abbiamo mai avuto la certezza che vivere sia ovvio
e opportuno averne il diritto Non siamo stati tiepidi
Se abbiamo per primi sgombrato il campo
non ci ha spinto il timore ma il pudore
Quindi l’orgoglio Il primo peccato

***

Anche tu non pensi a me da quanti giorni?
Anche tu hai trovato un’altra vita?

E se facesse buio prima di albeggiare

Tutta la sera oggi fissi sull’acqua nera due cigni
senza muoversi

***

E talvolta le si avvicina il figlio non nato
Ha i capelli biondi del suo nonamore e lo stesso sorriso gli stessi denti Rimane ma non parla mai Continua a leggere

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l’Espressionismo, la Poesia Ceca espressionista, poesie di  František Halas, Jiří Orten, Vladimir Holan a cura di Antonio Sagredo con Quattro poesie inedite di Antonio Sagredo in stile ontologico e neo-espressionista

Gif espressionismo nosferatu

gif dal film Nosferatu

Sull’Espressionismo

I termini temporali entro cui si svolse l’espressionismo sono alquanto complessi e discutibili. Il grande germanista Ladislao Mittner fa parecchia fatica nei volumi della sua straordinaria “Storia della letteratura tedesca” a mettere dei paletti non solo  cronologici, ma pure nel labirinto di tematiche e problematiche che si svolsero (meglio: sconvolsero) tra gli anni 1907-1926. Questo intervallo di tempo è un tempo allargato definito dallo studioso F. Martini, rispetto all’intervallo 1910-24 (il così detto “dodicennio nero”, in definitiva il “falso splendore di un decennio d’oro”) o al 1919-33 (”i 14 anni di obbrobrio” come avrebbe detto lo stesso Hitler). Il germanista Paolo Chiarini pone la data di nascita dell’espressionismo negli anni 1905-06.

    Nel 1907 vi furono due eventi: l’esposizione di van Gogh a Monaco e la retrospettiva di Cezanne nel Salon d’Automne.  È R-M. Rilke, su suggerimento della scultrice preespressionista Paola Beker-Modersohn, a cui dovette l’ammirazione per Cezanne, a dare una delle definizioni più azzeccate dell’arte nuova figurativa definendo le “mele” del pittore come “inafferrabili o anche “incomprensibili”, e cioè non più mele di una arte culinaria, ma di una “arte dell’assoluta discrepanza fra l’io e la realtà, per effetto della quale la realtà si presenta all’io come angosciante nella sua incomprensibilità. Questo si riflette nella “nuova musica” specie nel secondo quartetto (1907) di Schönberg  già “consapevole di un addio al passato e primo tentativo di una nuova musica cosmica”.1]

    E allora in Germania si parlò “degli anni ’20 come degli anni (amari) , anni dello stordimento di una generazione che si gettò nel piacere con la disperazione di un suicida… anni in cui vissero  sconosciuti o appena conosciuti o isolati Musil, Brecht, Berg, Wittgenstein, Bloch, Kästner e Tucholsky””, tutti speranzosi di voler creare un tedesco umano  e nuovo, e invece… 2].

     Arte figurativa, arte letteraria, arte musicale e arte teatrale sono i quattro principali snodi del movimento espressionista, la cui definizione resta sospesa: “non è facile dire che cosa propriamente significhi”; essa secondo il Mittner è una sorta di “comoda approssimazione”, un minimo comune multiplo che ci permette di collegare fra loro determinati fatti artistici appartenenti ad una determinata età.” Insomma uno degli aspetti più originali e validi  dell’espressionismo è la tentata e talora realizzata sintesi artistica nella tendenza cosmico-lirica e di quella politica-morale”.3] Una linea adottata da tutti gli autori, ognuno secondo il suo stile e la sua disciplina; p.e. visibilissima nella poesia di G. Benn. E per finire sulla sostanza espressionista lo studioso A. La Penna vede  “nell’espressionismo «l’esasperazione violenta dell’espressione», mentre il barocco suscita il sospetto che l’esasperazione sia un giuoco futile, esagerazione vana più che esasperazione vera” (rivista , 1963, p.181).

Kandinskij, che fu anche poeta, da par suo nei suoi saggi cerca di dare varie definizioni dell’espressionismo già dal 1912, ma “non riesce, né tenta infine di definirlo in alcun modo” e pure dice “cose notevolissime sui rapporti fra le forme ed i colori, ma trascura di esaminare partitamente quelli fra i colori ed i suoni” . Quest’ultimo rapporto (mi) sorprende, poiché il suo maestro il pittore lituano Čurljonis compose la musica in/coi colori, specie le note di Beethoven.

    Insomma, e per finire, l’intervallo tradizionalmente accettato dell’espressionismo sono gli anni 1910-24, ma suscettibili di essere ampliati certamente, diciamo 1905-1933, secondo quanto scritto più su. Quasi parallelamente all’espressionismo si muove il futurismo, ma con una vita un po’ più breve, ma con la stessa intenzione di abbattere  il vecchio mondo, cioè il mondo di ieri decadente-naturalistico.

Sempre il Mittner mette a fuoco nel paragrafo §393 (La musica atonale e dodecafonica) l’arte della musica con le altre due arti: la pittura e la letteraria, facendo spiccare le personalità più evidenti: Schönberg (che fu anche pittore), Berg e Webern.

Alban Berg è con il Wozzeck, del 1921, più che con l’opera Lulu del 1928 che al confronto appare più debole almeno in apparenza, che raggiunge risultati positivi, e cioè rivela “insospettate possibilità insite nel procedimento atonale” e p.e. “il bel concerto di Berg per violino dice chiaramente che se la dissonanza è infelicità, la consonanza è felice riconciliazione”; il punto fondamentale è ancora chiarito dal Mittner (§393, p. 1202) quando scrive che Berg “accetta il principio dello Sprechgesang che rompe la cristallizzazione della vocalità melodrammatica che wagneriana, eppure recupera le forme del bel canto e del recitativo drammatico, aprendole a nuove e più sensibili possibilità espressive”

   Questo aspetto a dir la verità è più evidente in Lulu, dove il recitativo é predominante; e non credo affatto che sia limitativo.

   Dunque l’espressionismo si rivela il solo movimento capace di coinvolgere tutte le arti possibili: nella musica il tono diviene atonale; la pittura (si) disgrega e (si) ricompone distruggendo con l’urlo dei colori; la cinematografia col montaggio cinetico rivela possibilità oltre la semplice trama; l’architettura distrugge i fronzoli floreali e altro e bada all’essenziale geometrico sviluppando con nuovi materiali costruttivi prospettive impensabili; il teatro, p.e. con Pirandello viene frazionato con la psiche fino all’esaurimento della stessa; il romanzo con Joyce non è più lo stesso.

   L’espressionismo coinvolge tutte le culture europee; in Boemia, p.e. Kubin “disegna situazioni terrificanti che sono assolutamente irrazionali eppure hanno tutta l’aria di poter essere narrate anche in chiari termini razionali”; in suo romanzo Die andere Seite (L’altro lato) anticipa, secondo il Mittner, i procedimenti sinestetici e geometrici di Kandinskij (Mittner, § 394, p.1205).

espressionismo Otto Dix, I mutilati di guerra, 1920

Otto Dix, I mutilati di guerra, 1920

Da Kubin al “Golem” di  Meyring, e da questi a Kafka

Si innesta a questo punto la poesia ceca del ‘900 che con František Halas ha il suo poeta forse più rappresentativo dell’espressionismo poetico, che nel barocco boemo del ‘600 trova il suo fondamento naturale. Secondo il maggior critico ceco F. X. Šalda, “Halas è il poeta della sconnessione del mondo, dei nodi, dei groppi, delle intermittenze, degli abissi, degli iati nella struttura del cosmo.” (A.M. Ripellino, F. Halas, Imagena, Einaudi 1971, p. 18)… continua lo slavista:” Per molti critici Halas era in concetto di uno dei più accaniti accòlti boemi dell’espressionismo. E in effetti i suoi temi di morte e marasma, il piglio brutale, la forza esplosiva, le contorsioni, gli sfinimenti lo apparentano agli espressionisti, anche se la < la volontà di cristallizzazione astratta>, per usare parole di Šalda, la tettonica a strati, a fratture, a sovrapposizioni derivano dal cubismo”.

   Amò, Halas, la poesia di Trakl tanto da essere accusato dal poeta “poetista” V. Nezval di “traklismo”. “Comunque fu la lettura di Trakl interpretato da B. Reynek (poeta e incisore cattolico) a immettere i germi dell’espressionismo nelle tessiture di Halas”, specie nei versi della raccolta “Il gallo spaventa la morte”; ma Trakl influì su tanti scrittori e poeti cechi di primo piano; perfino su Vladimir Holan.  Anche il giovanissimo e sfortunato Jiří Orten fu grande ammiratore del poeta austriaco. Insomma un filo diretto c’è tra la poesia ceca e i poeti espressionisti tedeschi-austriaci.

1] Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, §391 – L’Espressionismo – pp.1190-1191, Einaudi 1982

2] ]  L. Mittner, ibidem, § 261, p.858

3] L. Mittner, ibidem, §391, p.1189

FRANTIŠEK HALAS (1901 – 1949)

František Halas

(da Sepie, 1927, Seppia)

La poesia

Migliaia di raggiri e imposture
trappola tesa nel buio
arte dello spionaggio
a cui ti abbandoni da solo

seguendo le tue tracce e condannandoti
per i segreti svelati
punito soprattutto da te stesso
le tue liriche libro di lagnanze

Hai agonizzare la poesia per una parola andata a traverso
non morirà mai tuttavia
un giorno troverai le tue parole come il terno di una lotteria
e l’avrai vinta

Stretta è la rosa centifoglia dei poeti
ami soltanto quelli con la lingua serpentina
di cui metà è querimònia di angeli
e metà assalto

Ultima Tule dove ti allontani
con dolcezza infinita per le cose che hai conosciuto
con voce tutta falsa congedandoti
dalla soave malsanía che ti ha perduto

(trad. A. M. Ripellino, 1971)

*

Scarmigliato dal fascino audace in una corazza di nebbie
Beve sino al fondo l’alcool delle rose
Il volto pieno di giorni impiastricciati

Intriso di sangue rugginoso l’abito pende fra i rovi
Il relitto del giorno cola a picco col suo equipaggio di ombre
Lo strazio della terra si placa nel buio smanceroso

Corre nudo da una pratolina la moneta orfanile dell’aurora
stringendo nel palmo
dall’angoscia pigola un uccello nel raro fogliame al risveglio
nelle sorgenti si sciolgono le rusalche

Mestizia antica offusca i suoi occhi afflitti
Il sole imperatore negro incoronato
Sorge pian piano da guazzi melmosi

Cade la noce imputridita della bella testa
nella sua cavità qualcosa insieme sboccia e marcisce
con le orbite vuote una cerbiatta vaga nel bosco e geme

Un pipistrello il patto con l’inferno sulle membrane delle ali
dorme nel cantuccio di una grotta

(trad. A. M. Ripellino, 1971)

*

Paesaggio velenoso

Nelle àgate oleose di acque funeste
un fiore più làido di un morbo si allarga
e gelatina di rospo abominevoli
La strada maneggio di spettri striscia scabbiosa
solo un ronzío velenoso di mosche carnarie
l’erbaio gialleggia impuro come calunnia

Della propria laidezza si consola con l’arte
qui il sole incendiando dovunque la desolazione
e gioielli di coleotteri martella dalle carogne

Il contagio maligno si estende sino alle nuvole
gelosamente conservando la loro pioggia
e nel tramonto livido si uccidono gli scorpioni

(trad. A. M. Ripellino, 1971)

*

Jiří Orten

Jiří Orten

Jiří Orten

Fu un dicembre generoso. Sulla radura innevata
c’era qualcuno con la tavolozza in mano.
Nevicava, nevicava nel suo dipingere.
Era inconsapevole, dipingeva

questo nudo inverno, le sue compatte ossa,
la valle della nostra origine, profonda, più che non volesse,
e l’altezza dei seni nella ripida ebbrezza.
Sul modello nevicava.

Dio mio, qui ha svolazzato il corvo, cosa vuole,
da dove viene?
Fu un dicembre generoso. Sulla tavolozza nevicava
e la tavolozza era vuota.

Questa terribile impotenza a impossessarsi del dipingere,
che cade sulle tele,
come neve bianca, che non sa, non sa nemmeno
perché deve cadere!

Questa terribile impotenza a trattenere ciò che fugge!
Si è indebolita la tua mano,
hai la lingua impedita, e non sa dire
a quello, cosa si scioglie:

o eterna metamorfosi, si scioglie tutto ciò che è nascosto,
o eterna metamorfosi, dove sarà la mia anima,
finché mi sciolgo in neve, dove sarà, in quale donna
e in quali nevai?

Fu un dicembre generoso. Sulla radura innevata
c’era qualcuno con la tavolozza in mano.
Nevicava, nevicava nel suo dipingere.
Lui era inconsapevole, dipingeva.

.
1939
(trad. Antonio Sagredo – Katerina Zoufalová, 2006)
*

Eternamente

Si piega sulle ginocchia la notte,
si piega e non lo crede.

Nulla più mi trattiene alla vita,
di scatto taccio,

mentre le madri dei morti
sono pronte ad un’altra volta.

Pietà si deve avere
di tutti noi superstiti.

Sbagliare eternamente, fino ad essere puri.
Eternamente.

Si piega sulle ginocchia la notte.
Pregherai stasera, Desdemona?

.
1940
(trad. di G. Giudici e V. Mikeš, 1969)

*

Deviazione

Nubi di polvere si alzano dietro la carretta.
Commosso il boia si volta inorridito.
Tra poco la testa chiomata rintronerà a terra.
Voi fatevi più avanti, spettatori!

Era già condannato da sempre. A lungo nella cella maturò.
Aveva tempo. E spesso di tra le sbarre un bagliore
C’era, forse di sangue. Non pensa all’accusatore.
Vuol giustiziare se stesso.
Vuole? Non sa. In un languente sogno si perde,
fino all’ultimo vuole sognare la nuvola, un giovane seno,
compatire i carnefici, andare diritto al patibolo
e cantare, cantare fino all’estremo!

1941 (trad. di G. Giudici e V. Mikeš, 1969)

.

vladimir-holan

Vladimir Holan

Vladimir Holan

Non sai

Non sai più se hai mentito
a tal punto che oggi il rimpianto s’è contraddetto
dilatando la colpa che fuggendo con te
ti rivuole indietro
a colori ravvicinati.
Non sai più se per le percosse
ci scordammo l’offesa
che le accompagnava.

Non sai… ma la brughiera era sferzata da una bufera di neve!
Ma quella voce… “Non vi perdonerò mai”.

*

Quante volte
Quante volte, scrutando con gli occhi,
passeggiavi presso un orologio o sotto una vecchia acacia,
ma le loro sembianze si deformano facilmente.
Per la fatalità nei sensi e per l’anima negli echi
hai conosciuto la paura della morte,
questa è l’attesa… Soltanto dopo
gli spettri sono concreti… Ma la gelosia
nessuno la difenderebbe…

(trad. Antonio Sagredo, 1983)

http://riviste.unimi.it/index.php/itinera/index – Sabrina Orivelli, Kirchner e Murnau: ricorrenze iconiche, tematiche e semantiche dalle arti figurative al cinema

German Expressionism has had from the beginning a multidisciplinary character and the works of the painters, pertaining to that current, have strongly influenced the filmmakers of the subsequent decade. More specifically, it is possible to find in some sequences of Nosferatu by Friedrich Wilhelm Murnau several formal features that have characterized the production of expressionist Ernst Ludwig Kirchner, as well as the direct quotation of some works of him, including The Red Tower in Halle, Two Women in the Street and Five Women in the Street. The reproduction in the frames of specific works of art, the image distortion, even the make-up of actors resume then aesthetic elements first developed by Murnau and are intended to convey to the viewer a sense of anxiety compared to the reality, to the contemporary society, to the city life, even manifesting an inner struggle, that has united Kirchner and Murnau itself.

espressionismo 2

Quattro poesie inedite di Antonio Sagredo

Il libro… oggi

Il libro aprì le mie mani per segnarmi come un monatto irriverente,
nella mia mente avvilita i misteri della metonimia antica,
e quella malattia che traverso il nome si chiama, se volete, Poesia.
Sorrise il lucido dorsale per mostrarmi la sua identità cartacea.

E mi sfogliò le epoche come uno stregone distilla il suo veleno cortigiano.
Mi accecò come un bardo la parola per cantare la mia corteccia irrazionale.
Il furore dell’infanzia esondò come la bellezza di Rosalia!
Come la beatitudine di Smeralda inquisì lo spasimo della materia!

Per coprire d’oscurità i triviali segreti celebrò le distinzioni delle pagine
con le affilate misture di Salafia, e gli spettri delle sue formule
per vincere d’immortalità i suoi sembianti. Per il trionfo della maschera
il trucco di una pelle si ritirò sdegnoso dietro la propria inconsistenza.

Il libro… oggi, è un cavaliere insopportabile e vincente.
La macchina non ha piedi, né cammini tracciati dai sentieri,
e passi tardi e lenti per stampare i tempi e gli ignobili pensieri.
Come un geniale attore che alle scene assegna gli atti, i gesti, e i fallimenti.

Roma, 5/12 novembre 2011

*
Il cielo si scurì per neri ombrelli

Dai confessionali cinguettava una condanna ambigua senz’appello,
sinistro era il calvo battito di un giudice in gramaglie nere.
Non avevo più i conforti estremi di un’anima eretica, la carne arsa
e quella fede irregolare che un celeste trono nega a malincuore.

Mi tallonava l’inutile urlo della croce e la sua smorfia stercoraria
che dal capezzale mi pianse la perdita di astragali e aliossi.
Come uno stendardo si levò la beffa simile a una profezia teatrale!
E io vidi, non so, patiboli in stiffelius e quinte martoriate come golgotha

e coi reggicalze ben in vista alati putti e sacerdoti celebrare beati,
sotto i portici del granchio, sanguinanti spine, lombi e glutei!
Ah, Dante, non avevi più urina e saliva, ma la tua lingua era ancora toscana,
cordigliera e velenosa… perfino gli uccelli scansano questa croce! – gridò.

Il cielo si scurì per neri ombrelli… tuniche codarde e orbite di livide veroniche
oltraggiarono i tramonti – chiodato dai suoi miracoli l’Incarnato pulsava
per un coito dismesso a malincuore – per un altro sesso, come un velo mestruato,
depose il divino Verbo nel postribolo – fu l’inizio della nostra croce, e la sua gloria!

I giorni che trascorsi nello specchio gelano epoche e finte apocalissi.
Promise al suo sosia e gemello le meraviglie della Terra e degli Universi
tutti, ma quel bosco fu avvelenato dalle bacche del tasso: miserie del martirio!
finzioni! resurrezione dei vivi! fede dei misteri!… compassione, per loro… ecc… ecc….

Roma, 29 settembre 2011

*
Camera

Forse tu, domani, stupita vedrai il mio trionfo calpestare l’ardesia,
le consolari ammutolite e il riflesso ostinato di un Kaos nelle cisterne
vuote… il clamore del mio volto fu sorpreso da un cratere attico
e umiliato l’incarnato in una gabbia dalla mia storia scellerata.

Nei laboratori dei presagi ho scovato non so quale fattura inquisita,
la promessa di una risurrezione mi stordiva… mi svelava una fede
il negromante a squarciagola: ecco, questi sono gli altari,
dove ancora nei secoli si canterà la favola di un qualsiasi Cristo!

Era inverno. Come un latino antico carezzava la soglia di codici miniati
e sul leggio la potenza di un centrale impero. Raggirava la città zebrata
con Keplero, e tra insegne, bettole e vino nero, respiravano l’ansia,
la carta e l’inchiostro – e con lo sguardo la neve, la polvere della decadenza.

Lastricate d’attese e geometrie le nuove leggi simulavano la memoria.
Raffiche di gelo salmodiavano le nostre ossa, i numeri cedevano il segreto
al secolo più virtuoso, straziata la nemesi e sformata la pietra angolare.
Gli occhi e le dita computavano nuove orbite e principi matematici.

Maldestro è il tradimento! Come il trono è una maschera inabile,
capriccio e parvenza di se stesso! E mi vaneggia lo specchio di incubi,
eventi e sembianti… e come si trastulla nel giardino, e in questa
stanza mia, che è Tutto per me – per fortuna – ma non è la Storia!
.
Vermicino, 16-20 maggio 2008

*
Non ho mai incrociato una fede umana o divina con un pianto di legno nella Casa,
– sul pianerottolo una marionetta gioca con la testa di Maria Stuarda.
Ha di gelatina gli occhi e non lacrime vomita, ma trucioli e colla di coniglio!
Il lutto non s’addice ai Cesari e alle stelle… Gesti, gesti a me! Soccorrete le mie mani!

Ma io che faccio qui o altrove se il boia non ha un nobile rancore sulla lingua
e mescolare non sa con l’accetta dell’attesa e dell’accidia un colore di Turner.
Il Nulla azzera i giudizi sui patiboli, e il resto di un delirio è nello specchio.
E dov’era vissuto il mio corpo quando offriva sangue alla sua ombra?

Sono rose nere queste quotidianità, ma non sono le mie rose!
E come posso rifiutare un destino che ad ogni sua domanda mi risveglia?
Io sono esente per grazia umana, e nella mia parola non c’è risposta!
E non ho l’acrimonia del vivere, solo voglio esserci quando accadrà.

Svegliatemi dopo la mia immortalità! La pantomima è piena
di vento nelle apocalissi, negli incendi e nelle distruzioni! – i tre profeti
farfugliano : Scusi – lei – sente – molto – la – nostra – differenza?
La confessione è un’arma terrificante… il Poeta: io me ne fotto!

Roma, 29 ottobre 2011

Il libro… oggi

Il libro aprì le mie mani per segnarmi come un monatto irriverente,
nella mia mente avvilita i misteri della metonimia antica,
e quella malattia che traverso il nome si chiama, se volete, Poesia.
Sorrise il lucido dorsale per mostrarmi la sua identità cartacea.

E mi sfogliò le epoche come uno stregone distilla il suo veleno cortigiano.
Mi accecò come un bardo la parola per cantare la mia corteccia irrazionale.
Il furore dell’infanzia esondò come la bellezza di Rosalia!
Come la beatitudine di Smeralda inquisì lo spasimo della materia!

Per coprire d’oscurità i triviali segreti celebrò le distinzioni delle pagine
con le affilate misture di Salafia, e gli spettri delle sue formule
per vincere d’immortalità i suoi sembianti. Per il trionfo della maschera
il trucco di una pelle si ritirò sdegnoso dietro la propria inconsistenza.

Il libro… oggi, è un cavaliere insopportabile e vincente.
La macchina non ha piedi, né cammini tracciati dai sentieri,
e passi tardi e lenti per stampare i tempi e gli ignobili pensieri.
Come un geniale attore che alle scene assegna gli atti, i gesti, e i fallimenti.

Roma, 5/12 novembre 2011

Onto Sagredo

Antonio Sagredo, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Antonio Sagredo (pseudonimo Alberto Di Paola), è nato a Brindisi nel novembre del 1945; vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Ha pubblicato dieci poesie nella antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016) e la sua prima silloge in italiano, CapricciArticoli e saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).

Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).

Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche. Nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. A. Di Paola e K. Zoufalová. È in uscita, per Chelsea Editions di New York, Poems Selected poems di Antonio Sagredo.

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Antologia bilingue della Poesia Ceca contemporanea a cura di Antonio Parente Sembra che qui la chiamassero neve – Poeti cechi contemporanei (Milano, Mimesis Hebenon, 2005 pp. 228 €  16,00) Michal Ajvaz, Petr Kabes, Petr Kral, Milan Napravnik, Pavel Reznicek, Karel Siktanc, Jachym Topol – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Brno Del Zou - Izoumi, 2012Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Segnalo un libro davvero importante e insostituibile come questo pubblicato dalle edizioni Mimesis Hebenon nella collana diretta da Roberto Bertoldo a cura di Antonio Parente Sembra che qui la chiamassero nevePoeti cechi contemporanei (Milano, Mimesis 2005 pp. 228 €  16,00). Devo riconoscere la capacità critica e la competenza del curatore Antonio Parente nell’aver saputo individuare con precisione i valori poetici degli autori presentati (Michal Ajvaz, Petr Kabes, Petr Kral, Milan Napravnik, Pavel Reznicek, Karel Siktanc, Jachym Topol), ed elogiare la perizia del traduttore che ha saputo ricostruire in un ottimo verso libero italiano il testo ceco originale. Ma l’aspetto più rilevante che mi preme sottolineare è il «nuovo» e «diverso» concetto di poesia che emerge dai numerosi testi qui presentati; con «nuovo» intendo qui individuare il valore discriminante rispetto alla linea maggioritaria che oggi sembra occupare gli scaffali della poesia italiana contemporanea. Innanzitutto, la sapiente costruzione mediante le immagini «doppie», o a «elica» (le eliche doppie, e anche le volute della scala a chiocciola), a doppio binario; in secondo luogo, la capacità di questi poeti cechi di accoppiare elementi eterogenei e contraddittori allo scopo di determinare l’immagine con più nettezza di particolari e maggiore precisione metaforica. Ecco una vera e propria dichiarazione di poetica.

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare nella sabbia…

(Michal Ajvaz)

Ecco un esempio concreto di superamento del simbolismo per giungere ad un tipo di poesia post-simbolica. Così, se nella tradizione del Novecento il simbolo si risolve nella riunione di due immagini, nel ricongiungimento in un’unità pur se disgiunta e scissa, qui non indica più il ristabilimento di una unità in nome di una immagine pacificata e negoziata, non è più l’immagine di un tempo perduto (e da ritrovare) da cui deriva l’elegia, o del tempo scisso (da restituire al mittente) da cui deriva l’antielegia; nei poeti cechi qui presentati l’immagine prodotta non è più il risultato di una sintesi pacificata e pacificatrice ma mantiene lo strappo, la lacerazione originaria, anzi, accresce il senso di disappartenenza e di disarticolazione del testo poetico. La connessione implica e statuisce una disconnessione, la sutura implica e statuisce la lacerazione, l’immagine complessa che ne deriva non è più «negoziata», ma implica e statuisce il divorzio, la scissione, la disappartenenza, lo spaesamento, lo straniamento tra l’autore e il testo, tra l’autore e il lettore.

La «nuova poesia ceca» non ricerca affatto alcuna conciliazione fra ricerca sperimentale e cultura di massa, non persegue il raggiungimento di una coabitazione tra arte sperimentale e arte di massa, il felice o infelice accordo fra l’oggetto artistico e l’oggetto merce. Alla luce abbagliante della coabitazione spaesante nella società delle immagini virtuali, la poesia si trova paradossalmente a suo agio, i poeti qui convenuti sembrano prediligere un irrealismo magrittiano in direzione di un’arte a-concettuale, anti acustica. Prediligono a una «poesia verticale» una «poesia orizzontale». Una dizione piana, che non teme di apparire quasi noiosa, una oggettistica per lo più banale, e chi più ne ha più ne metta ma è la connessione spaesante tra gli oggetti che determina la «nuova visione», è la dis-connessione tra gli oggetti quella che determina la «nuova poesia ceca», del tutto fuorviante e a-concettuale per un lettore italiano abituato al minimalismo nostrano con tanto di perbenismo davvero piccolo borghese.

Come si può notare, i colori sono sordi, freddi, l’esposizione da realismo o iperrealismo, da abbecedario e da settimana enigmistica, volutamente «basso», «triviale»; alla lettura non ci coglie nessuna emozione vertiginosa e nessuna estasi, il lettore è trasportato, come su una scala mobile o un nastro semovente, attraverso palcoscenici e quinte che trascorrono dall’ordinario routinario allo strampalato post-surreale. Tra il surreale e il reale c’è di mezzo il mare, la poesia abita un corridoio di immagini e considerazioni oziose, respingenti, prosaiche, insensate che danno il senso complessivo di iperrealtà; di qui la procedura iperrealistica auto respingente che viene però sempre immediatamente decontestualizzata dallo scorrere dei fotogrammi delle immagini ordinarie, post-surreali e/o grottesche. All’improvviso, si rivela lo squarcio, la scissione; l’enigmatico deprivato di enigma appare ancor più enigmatico. La scrittura si rivela come montaggio di istantanee che fotografano l’impossibile e il grottesco. I frammenti sono accatastati l’uno all’altro senza apparente ordine, senza rigore formale. Una poesia terremotata e disartizzata le cui membra disiecta giacciono ad imperitura memoria. Nella poesia di questi cechi possiamo ancora riconoscere attraverso l’assurda tessitura dei testi l’assurda struttura del mondo, la profonda intercapedine che esiste tra il nome e tra i nomi, non più soltanto tra il nome e la cosa. Il significato se ne è andato a farsi benedire. Il problematico è stato disartizzato ed evirato. Ciò che rimane sono i poeti che non possono più abitare poeticamente il mondo.

Classificato a ragione come uno dei principali rappresentanti del surrealismo ceco, Pavel Řezníček ha sempre messo in dubbio veementemente sia la così spesso proclamata «morte del surrealismo», sia la possibile evoluzione di questo movimento in una sorta di ‘neosurrealismo’ o ‘postsurrealismo’. Lo stesso autore ci confida la ricetta dei suoi testi: «Vedere le cose senza illusione e criticamente, aggiungendo umorismo, possibilmente nero».

Vorrei limitarmi ad indicare ai lettori lo stratagemma impiegato da Pavel Řezníček: l’inserimento nel corpo del testo poetico di lacerti del «reale», del «quotidiano», però decontestualizzati e spostati lateralmente in modo da sconvolgere l’orizzonte di attesa del lettore, sorprenderlo, scuoterlo e coglierlo d’infilata. Procedimento questo adottato dalla poesia italiana per la prima volta da autori italiani appartenenti alla Poetry kitchen. Leggiamo alcune righe del poeta ceco:

appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany

foto Pavel Řezníček
Tre poesie di Pavel Řezníček

Sala macchine del carciofo

L’orichicco quel vecchio spilungone
e il fruscio di banconote tra le mani delle ortiche
qualcosa si allontana e qualcosa si adagia accanto a noi
ai nostri corpi alla nostra cenere
il silenzio della lampada e la meteora dell’asciugamano
scompartimento sotto frane di pepe e arpione
portavano la megera tutta di arance sbucciate
e di piume di sparvieri che imbrattavano tutte le finestre del mondo
è solo una vampata quella che balugina
nella sala macchine del carciofo
un fazzoletto gettato sul chimico
che ispeziona la pancia del defunto Lévy-Bruhl
Il Canale di Panama e l’incidente d’auto (o di flauto?)
verga di nocciolo martelli pneumatici e la pazzia del pompelmo
appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany
meteora dell’asciugamano gettato sul ring del destino
un passante in lontananza di notte si soffia il naso su un globo di diamanti

La seppia pascola il ragno

Portava sempre due sacchi
Il cammello alla stazione
Non dovresti credere a queste facce piatte come la pietra
Prendi metà saccarina e metà caramello
Il cucciolo di felino non lo si riconosce
Quando finalmente inizierà la guerra?
Tutto palpitante per il Modern Jazz Quartetto
Due lanterne verdi due sigari verdi
Fece amicizia con un uccello
Portava sempre tre sacchi
Ragni con cappelli in testa
I ragni pascolano le seppie
Le seppie pascolano le puttane
Un cane micaceo picchiettava il muso
Un fiammingo
Le calze azzurro chiaro
Portava sempre tre sacchi portava quattro sacchi
Ma non le servì a nulla:
Il martello di pietra centrava sempre in pieno
La carriola
Nella quale portavano
la testa di Charles Bukowski

Le febbrili visioni di un surrealista: Omicidi, supplizi, macinatura in polvere di vivi…

(Dedicato al compagno Štěpán Vlašín per la sua recensione del mio “Caldo”nel giornale comunista HALÓ)

Nei boschi e durante la guazza
flicorno cistifellea madreperla coltelli
nel ricordo di colui che sforbiciava i giornali e faceva bambini dal formaggio
inzaccherare l’occhio
la calce porta la bicicletta
nella calce farina nelle uova sangue
la puzzola interprete della Luna
non dovremmo leccare la stufa ogni musicante poi mescolerebbe con la carriola
quello che non si deve svelare
il lebbrosario di San Giacomo
le grancasse sono in valigia qualcosa come frittate
e gli schizzi di sangue dei tuoi seni rappresentano una marcita
zeppa
di segreti granchi e aragoste massacrati
che confessano di essere aragoste
e quello che è un fungo è cristallo e i funghi sono persone
con la lingua perforata dal ferro da maglia
Poi ridusse le persone vive in polvere
e quei pochi assassinii che gli caddero dalle tasche erano un affare da nulla
come i peli che crescono dal naso di Messerschmidt
che era non solo professore
ma anche un aereo fatto con la busta
di plastica del latte
Allora: quei pochi assassinii che erano un affare da nulla
si trasformarono in pariglia di cani eschimesi husky
e la città O. si trasformò nel condrosarcoma del dio Aion
sì quello della grotta di Mitra
dove si asciuga il bucato della trascendenza

Foto, giostra con sedili

Una poesia di Karel Siktanc

Con la chiave apro Le tre rose bianche Apro la casa
Al pavone Chi si è trasferito? E chi rimane ancora
qui nel rione? Silenzio dietro le porte soltanto
in quella oltre il cortile s’ode una nota chiave Giovane
apro a me stesso

E me stessa mando altrove

Con la chiave apro la casa Alla sirena Ai tre cervi schiudo
e qualcuno sosta nel corridoio oscuro E nome dopo nome in un grido
Forse sono condannati a morte Forse
immortali chissà Nel negozio di corone funebri
ci sono dei bimbi in piedi

E intorno alla bara cantano qua e là

Con la chiave apro Ai tre violini E Alla bianca cavallina
E le pareti vuote dagli Smetana E dalla corrente una canzoncina
Volevo imparare a suonare l’organo Sembrare un coro
Non essere solo come ora Ma è troppo tardi È rimasto soltanto un leggio

che non reggerebbe più la partitura

Con la chiave apro la casa Alla ruota d’oro Apro Ai tre orsi nolenti
Avevo una casa dove capitava E adesso sarà solo altrimenti Apro la casa Al giglio
Apro Ai due amenti Avevo soltanto una
casa

E adesso sarà solo altrimenti

Con la chiave apro Al paradiso Ah, la mia fanciullezza non sento di appartenere qui
vai tu al mio posto Sento che chiedi di mamma
Sento che ti aggiri per casa di nascosto Apro il cancello Ai due
soli Qualcuno corre a prendermi una candelona E passi come se
camminasse in scarpe da cannoniere

rimbombano per via Sperone

Con la chiave apro la casa Dell’angelo Apro
Agli astri e tutte le donne che mi mentirono sono qui
sui piani lungo i pilastri “Cosa cerchi?” “Niente!”
mento mentito e sorrido ai forestiere E
nella mano bianca degli argentieri

risplende il gioiello del mio dispiacere

Apro
Chiudo a chiave

e fa freddo dappertutto E buio

È la santa Angoscia già dal principio del mondo

foto milan-napravnik-il-nido-del-buio
Una poesia di Milan Napravnik

ALL’IMBRUNIRE

È l’ora dell’eterna notte
Alcuni sono morti altri sono usciti barcollando dal cinematografo
pallidi come lenzuoli
Una foglia d’acero ha traslocato lungo il marciapiede
Dal tavolato di un bar sbarrato al negozio di generi alimentari
Ha danzato tra piedi pazientemente in fila
per un pezzo di carne
È salita all’altezza del primo piano di un fatiscente casamento
Ha dato un’occhiata alla stantia camera da letto degli amanti
Ha volteggiato oltre i fili del tram fino al recinto-orinatoio
E da lì via verso la grande lavanderia esalante il tanfo di sapone
Finché non si attaccò alla cornice del negozio
dove si vendono teste di gesso

Croci ornamentali ad uncini e senza
Semplici convinzioni e istruzioni per strangolare i miscredenti
Al negozio
Dove ogni acquirente è accolto con un dirugginio di denti
in caso
Avesse intenzione di chiedere il prezzo reale
di questa merce vergognosa
Come un animale randagio
Un cane senza litorale
Scalciato da ogni tempo nell’inguine scheletrico
Che si nasconde in biblioteche e musei inariditi
Animale senza seta ma compagno perseverante degli incubi notturni
Striscia per le gallerie di quadri lungo ritratti di nuvole morte
Lungo nature morti olandesi con la frutta fresca e una mosca
Lungo paesaggi roccoco scintillanti di sole
e popolati di pastori di pecore
Lungo battaglie navali dove gli eroi assassinati
cadono pittoreschi dal ponte di navi da guerra
In onde marine dipinte con maestria
E lungo visioni incurvate dei santi dipinti
Dell’altare di pingui cardinali
e macilenti eremiti
Di fetide monache con le fiche ricucite
Tutto in un sol boccone di manipolazione estetica
Nulla solo l’Arte un’unica e sola stronzata una truffa
Tutto solo un unico e solo aborto della civiltà
Mi dispiace, signor Péret
I tuoi tentativi di riconciliare la poesia con la lotta sui monti catalani
non hanno avuto successo
Non ti sei mai tradito ma i tuoi occhi mi raccontavano la storia
Le gocce di sangue anarchico sulla foglia di fragola riverberavano di purezza
Come il sole nel calice di Rémy Martin
Che bevemmo in primavera in un bar
della rumorosa Place Blanche
Non potevi morire con un’espressione di soddisfazione
Solo scomparire con tristezza
Meraviglioso amico dell’inflessibile disperazione
Sei vissuto sul solatio di un intelletto come oggi
non ci tocca più
Del quale sappiamo solo grazie alle testimonianze dei nostri antenati
Testimoni aviti di una tradizione remota
Viviamo al gelo
Il cielo è eternamente coperto da un triplo strato di nubi
La città è soffocata da veli di grevi zeli
E dal timore del quotidiano stritolamento dell’inutile desiderio
Leggende dappertutto crude come la carne sui ganci delle sale
alle tre e mezzo di mattina
Non si può raccontare una storia che scaturisce dalla struttura
molecolare del vino
Le inesauribili sfere di piselli con un mormorio si mescolano
al vello stradale
Dove ci sono i caffè c’è anche il caffè da asporto e le cartine di catene
Punte di seni cresciuti sulle conchiglie del tempo
L’incantevole patina di rosa
Le graticce marine di svettati come un bicchiere di Bordeaux
Se dico graticce intendo graticce
Non la fine del mondo
E nemmeno memorie astanti di cerchi alla mano e cravatte orbe
Qualche cancello di interminabili campi di patate
Rime guaste di colla
Indescrivibili cortocircuiti di sterco
E le selvagge carceri della metro che sfumano nel buio dietro ciglia
aggettanti
I tunnel affondano nella terra
Pourquoi j’écris moi-même?
Dis-moi reflet de cobalt
Pourquoi le vol de corbeaux qui t’entoure
comme le charbon étreint le feu?
Non conosco la ragione del mio respiro
Né la mia passione per le fiamme che di solito spegne la birra della ragione
Tanto meno l’indirizzo dei miei destinatari
Ad ogni modo dicono che ce ne siano pochissimi
Sembra che alcuni siano irrintracciabili
Alcuni non ne hanno il coraggio
Altri hanno fretta
Altri forse non sanno leggere
Ma la maggior parte è in effetti defunta dalla nascita

foto Poeti cechi contemporanei
Una poesia di Jachym Topol:

Al mattino un pezzo di stella attraversò in volo l’aria
e si sotterrò nel marciapiede
vicino alla casa dove abitiamo. Sfondò il lastrico
e fece a pezzi le tubature. Dal cratere zampilla l’acqua.
presi nella palma un pezzo
di quella materia nera compatta
quando si raffreddò. Era come un teschio ma più pesante.
a mezzogiorno la luce si intensificò
e penetrò la tenda.
E la rivista ghignò. La statua ballonzolò. Il Signore del mondo
sollevò un libro da terra e lo gettò via. “La cultura europea
è nata dal racconto di una storia.” Ma qui non succede nulla.
Ti voleva uccidere una stella. La rivoluzione è finita
accenditi una sigaretta. Gli intellettuali vanno in gita
in Provenza. O mi vendo oppure no.
Se sì
potrò andare in tassì per almeno tre mesi.
Ho sempre ammirato quelli nati prima
avevano per più decenni
la possibilità
di riflettere su quello che succede cos’è l’amore la morte la solitudine ecc.
e sono sopravvissuti
e non hanno risolto niente. Oggi la violenza scoppiava in ogni secondo
nei movimenti nelle parole la tensione avvelenava l’aria densa pesante
irrespirabile come se arrivasse dal deserto. La sera arrivò in quel
vestito rosso e dice: “Oggi c’è l’eclisse. Spero
che te lo ricordi. Guarderemo dal tetto della casa
verso la strada.”
Mentre il cielo si spaccava in pezzetti
una voce diceva: “Sì, l’inferno,
lì ci sono merde cadaveri e coltelli e vermi
come qui…”
poi all’orizzonte la luce si spegneva
prima i suoi contorni opachi
poi iniziarono a sparire anche le nubi
ambrate e vermiglie
lucenti come la luce
e poi guardammo nel buio
e non si vedeva niente

(Martedì ci sarà la guerra, 1992)

Michal Ajvaz 1

Michal Ajvaz

:

Tre poesie di Michal Ajvaz

Petřín

Allo Slavia il caffè costa otto corone e quaranta,
sebbene lo preparino da elitre di coleotteri.
Prendono comunque buona cura del divertimento:
al centro di ogni tavolo c’è un pianoforte in miniatura,
sul seggiolino siede un nano
e suona una melodia sentimentale.
I nani hanno l’abitudine di fare un sorso dalle tazze;
i clienti non vedono di buon occhio la cosa, si dice
che i nani abbiano varie malattie.
In sostanza i clienti e i nani si odiano,
di continuo gli uni sparlano degli altri col personale.
Ne vien fuori una gran confusione, soprattutto quando (come proprio in questo momento)
passa per il locale una mandria di renne.
Con quelle renne bisognerebbe proprio fare qualcosa.
Non ho nulla contro le renne vere, queste invece
sono spesso posticce. Una ha un guasto,
è ferma vicino al mio tavolino e perde delle rotelle dentate.
Per la verità, mi sono più simpatici i koala,
che si arrampicano senza sosta sui clienti,
anche se ufficialmente si continua a sostenere
che l’ultimo fu catturato venticinque anni fa.
(Ma sappiamo come vadano queste cose.) È già notte, ascolto la silenziosa melodia
strimpellata sulla tastierina e guardo la buia Petřín,
le enigmatiche luci sul suo declivio che penetrano
come malvagie costellazioni il mio volto sbiadito nel vetro,
ricordo la mia ragazza, la quale anni fa si unì
come psicologa ad una spedizione che aveva il compito
di mappare l’area ancora inesplorata di Petřín.
Siede adesso nel palazzo della leggenda e guarda
attraverso il fiume verso le finestre accese dello Slavia?
Oppure è stata rapita dai selvaggi indigeni di Petřín
che continuano a minacciare la città?
Gli abitanti della Città Piccola spesso nel mezzo della notte
sentono in lontananza il loro canto strascicato.
Secondo il bonton non si dovrebbe parlare di queste cose.
Fanno tutti finta di non sentire il lugubre corale
che da lontano si mescola alle conversazioni,
e tuttavia sanno che la malvagia musica inconfessata
si infiltra tra le loro parole, libera i remoti significati della foresta vergine in esse contenuti.
Di cosa stiamo conversando, in effetti?
È chiaro che tutti, dopo un po’, vorrebbero
interrompere le conversazioni e unirsi al lontano canto.
Le norme della buona educazione però non lo permettono.

(In E i ligli tarri, 2002)

*
La foca

D’accordo, ho passato una mano di marmellata su una vecchia foca nella metro, ma non dimenticate anche che fui l’unico
ad indovinare il nome della medusa viola fosforescente
sotto l’oscura superficie d’acqua nella Piazza della Città vecchia,
lungo la quale abbiamo veleggiato in barchetta,
sotto facciate silenziose, ubriachi di birra.
Successe l’ultima notte dell’Età dell’oro.
Fate assegnamento su un argomento sofistico con un Cartesio
di peluche, ma avete dimenticato la malerba della scrittura indecifrabile, grazie alla quale inarrestabilmente, con silenzioso fruscio, crescono le nostre poesie più aggraziate,
e come è evidente, anche lo scalfito manichino automatico,
che di notte siede nello scompartimento buio del treno sganciato
su un binario morto della stazione di Smíchov
e parla con disprezzo delle vostre sterili estasi
nelle cupe piazzette dei villaggi. Penso sia già ora di rassegnarsi
al fatto che la sciovia abbia trascinato via il nostro direttore
all’interno di un tempio barbaro, verso un altare con una spina di metallo,
di iniziare ad abituarsi al fatto che i corpi di alcuni corpi siano coperti da un guscio bianco d’uovo,
lo battiamo leggermente assorti con un cucchiaino
e lo sbucciamo, un po’ alla volta appaiono sulla pelle rosata i versi tatuati dell’epos dei lupi, che corrono lungo i corridoi lucenti della facoltà di filosofia,
del grasso pesce voltante, che vola dentro la birreria Carlo IV
e come impazzito sbocconcella le teste dei clienti –
e tutto si ripete nuovamente, anche con conchiglie cacciatrici di cuccioli,
come un gruppo di statue d’oro al centro di una piazza spopolata in una città straniera,
rilucente nell’inesorabile meridiano del sole.

(In E i ligli tarri, 2002)

Turisti

Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

L’uccello

Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato,
che non era in neanche una delle premesse.
Non è più valido,
nella conclusione da qualche parte penetra sempre qualche animale sconosciuto.
L’uccello siede sulla mia scrivania
e mi punta col suo lungo becco ricurvo.
Ci guardiamo a vicenda silenziosi e immobili per dodici ore
e nel momento in cui squilla il telefono
mi becca proprio in mezzo alla fronte.
Mi sento venir meno
e sogno che piazza S. Venceslao sia ricoperta da una giungla impenetrabile
e di essere disteso di notte ai piedi del monumento a S. Venceslao,
tra la boscaglia di rami e liane traspare il neon azzurro della Casa della moda
e la sua luce si riflette sulle foglie umide delle palme.
Mi assopisco in un nido di foglie
e sogno di essere nella birreria di Doubravčice,
è piena di gente e l’aria è irrespirabile;
un vicino di tavolo, uno zingaro, mi sussurra all’orecchio:
“Due cose mi riempiono di ammirazione e rispetto:
il cielo stellato sopra di me e le stupende tigri che passeggiano
nell’estesa rete di corridoi sotterranei sotto Praga.
Lo dico affinché non disperiate tanto
per l’impossibilità di rispondere ad alcune domande.
Non che un domani si troveranno delle risposte, ma
quando le tigri saliranno in superficie,
le domande si porranno in altro modo”.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

petr kral 1

petr kral

Due poesie di Petr Kral

Edward Thomas (1878-1917)

I

Non solo gonne di fogliame
e sotto precocemente insinuante nelle grazie il buio arroventato da improvvisi fulgori come cascate di gioielli Se il passante getta lo sguardo al di là degli alberi
sarà omaggiato di bronzo da campana illividito del cielo di cenere conciliantemente pulsante
di un palombo e del suo immobile conficcamento
presso l’ardesia intenerita del comignolo La tipula dello stupore nella luce dispersa
ronza silenziosamente alle distanti
cupole E così da qualche parte
qualcosa è redenta senza grido

II

Oltre alla liquida notte nel fogliame anche diamanti
della fugace luce, sbriciolati qui dalla mano di nessuno,
il dorso del tetto lì oltre gli alberi è contornato
con un singolo tratto; stupore
immoto ammutolito.
Il cielo finora limpido adagio impietrisce oltre il vecchio
comignolo, un refolo vellutato lenisce la pietra del comignolo quasi in cenere,
un colombo si abbarbica dietro il comignolo come pietra alleggerita di luce.
E da qualche parte – forse solo in lontananza – qualcosa
è redenta così senza rumore.

(Per l’angelo, 2000)

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ROMA, VENERDì 11 marzo H. 17.30 Aleph Trastevere, vicolo del Bologna, 72 presentazione del POETA CECO PETR HRUSKA, “Le macchine entrano nelle navi” (ed. Valigie rosse, 2014) Intervengono Katerina Zoufalova, Antonio Sagredo, Silvia Beatrice Bellucci, Giorgio Linguaglossa. Sarà presente l’autore, canterà Yvetta Ellerova. Seguirà coktail – Petr Hruška – “Le macchine entrano nelle navi” (Valigie Rosse, 2014). Prefazione di Jan Štolba, traduzione di Jiří Špicka con la collaborazione del poeta Paolo Maccari – Commenti di Jan Štolba, Antonio Sagredo e Giorgio Linguaglossa

foto Eve Arnold, Silvana Mangano at the Museum of Modern Art, New York, 1956

Eve Arnold, Silvana Mangano at the Museum of Modern Art, New York, 1956

Commento di Jan Štolba dalla Introduzione a “Valigie Rosse

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Petr Hruška, nato nel 1964, è emerso da una generazione che ha ancora pienamente vissuto gli anni della cosiddetta «normalizzazione», l’ultima fase del regime comunista. Erano gli anni di uno strano tempo senza tempo, di acque stagnanti, quando il regime aveva tutto il Paese sotto il suo controllo, la propaganda politico-culturale dominava i media e tramite essi ostentava un’immagine di onnipotente felicità e benessere. È vero che a quest’immagine non credeva nessuno, ma quasi tutti scuotevano la testa in segno dell’ubbidiente assenso e addirittura, a loro volta, lo realizzavano con le loro personali fughe nelle casette di campagna… Gli anni della normalizzazione erano anni della «noia tautologica» (Václav Havel) e della famigerata «calma per lavorare», così esaltata, in opposizione a un qualsiasi moto di disturbo attivato da un’opposizione o da una critica sociale, da Gustav Husák, l’allora presidente della repubblica, il «presidente dell’oblio», come l’ha definito Milan Kundera. gli anni della normalizzazione erano anni in cui apparentemente non accadeva niente. ciononostante il paese era occupato dall’invisibile armata sovietica e decine di dissidenti erano perseguitati senza scrupoli, carcerati ed espulsi in esilio […] le persone si trovarono a dover fronteggiare dilemmi non facili anche in situazioni in cui non rischiavano una diretta repressione. E soprattutto la sfera dell’arte e della letteratura erano strettamente sorvegliate dagli ideologi del regime. Hruška non pubblica durante la normalizzazione, difficilmente sarebbe stato possibile. Per i gusti del regime la sua poesia era troppo cruda e sincera, anche se Hruška non trattava argomenti politici, il regime di allora avrebbe riconosciuto immediatamente la sua voce che parlava libera e senza limitazioni ideologiche. Simili voci erano giudicate automaticamente inammissibili e pericolose: manifestavano infatti la verità interiore sullo stato della società… aprivano spazi umani dentro cui il regime non aveva accesso con le sue goffaggini, gli schemi ideologici e le menzogne.
Lo stretto legame con la realtà: è questa la prima radice della poesia di Hruška. Sorprende come le poesie della sua prima raccolta, Soggiorni irrequieti, siano grezze, come riescano a creare un contatto tangibile con le cose, ma come, allo stesso tempo, siano anche inequivocabilmente, stuzzichevolmente ellittiche. Tali poesie ci rapportano in modo fisico e sensoriale con una ineludibile realtà. Tuttavia, ci permettono di intravedere una certa assenza che si trova invischiata nella realtà: urtiamo fisicamente contro la realtà, ma pur sempre troviamo in essa molto di indescrivibile e di ineffabile. Così, cerchiamo subito di riempire come possiamo questo spazio vuoto… Hruška cerca sin dall’inizio di introdurci nello spazio di questa camera di soggiorno irrequieto, dell’intesa-non intesa con la realtà.
.Petr hruska invitoDEFINITIVO
L’impressione che ci dà la poesia di Petr Hruška è quella dell’immediatezza… Un umile “maglione verde” può diventare il segno di tutti quegli anni che abbiamo vissuto con la nostra compagna. Oppure, un incontro inatteso con la propria moglie nell’oscuro della dispensa di casa può diventare miracoloso: due individui che si conoscono intimamente si incontrano improvvisamente nel buio, come due estranei che si attraggono. Dentro le nostre vite viviamo ininterrottamente altre intime ed eccitanti vite… la poesia di Hruška appare diretta e sempre a portata di mano, ma questo non vuol dire che sia banale o semplicistica. Nelle immagini che strappa alla realtà egli riesce a cogliere il mistero dell’istante con mirabile sottigliezza a svelare lo stato d’aggregazione del tempo fatale che viviamo in ogni secondo della nostra vita […]
Nell’antologia Le macchine entrano nelle navi del poeta ceco Petr Hruška i componimenti si snodano con un potente piglio affabulatorio che sa raggrumarsi in suggestive sintesi liriche, come pure mimare il parlottio delle città contemporanee, con l’irrespirabile inquinamento dei luoghi comuni e di una gremita solitudine […] Hruška si discosta dalla tradizione melico-metaforica della poesia ceca avvicinandosi piuttosto a quella anglosassone, rappresentata da Whitman e Williams, edificata su immagini, sensazioni, visioni. Hruška ha suscitato l’attenzione della critica fin dalla sua prima, aspra e laconica raccolta poetica, Soggiorni irrequieti del 1995) finendo per diventare una delle voci poetiche più rilevanti dell’epoca libera dopo la Rivoluzione di velluto.
Nella sua poesia, la misura della concretezza da sempre si accompagna a una straordinaria capacità di cogliere in ogni evento un sostanziale momento metafisico, una sutura invisibile ma fondamentale dentro l’esistenza umana, dove il quotidiano si incontra con il trascendente […] L’originalità e l’unità della personalità poetica di Hruška si è rivelata in pieno nel volume Zelený svetr (Il maglione verde, 2004) e il premio di Stato conferitogli nel 2013 per la sua ultima raccolta poetica, Darmata (2012).
Con una sorta di delicata crudezza di accenti e di dettagli, Hruška non di rado ricorderà ai lettori l’impeto disarmato di certe immagini di Piero Ciampi, come «il testicolo della nuda lampadina al soffitto». Fenomenico e frizzante, questo libro, di stampo fortemente ciampiano, va a indagare quel reticolato vivo e incostante che è l’umanità.
«Hruška non pubblicava durante la normalizzazione, difficilmente sarebbe stato possibile. Per i gusti del regime la sua poesia era troppo cruda e sincera. Anche se Hruška non trattava argomenti politici, il regime di allora avrebbe riconosciuto immediatamente la sua voce che parlava libera e senza limitazioni ideologiche. Simili voci erano giudicate automaticamente inammissibili e pericolose: manifestavano infatti la verità interiore sullo stato della società, quell’autentica, unica e intima verità dell’uomo».
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Commento di Giorgio Linguaglossa
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Vorrei dire che io non intendo affatto, quando sostengo una tesi pubblicistica della poesia, escludere i poeti che fanno una poesia dei propri ricordi personali, altrimenti sarei uno sciocco oltre che un mediocre analista della poesia (evito di definirmi critico). Però, c’è modo e modo di fare una poesia dell’«io», tutto sta a chiedersi dove sta l’«io», questo presunto e supposto «io», il quale è, com’è noto, una ipotesi psicologica e filosofica della modernità e che la modernità ha dissolto, smantellato e decostruito con le analisi della filosofia recente (Lacan, Derrida, Meyer, Lyotard, Eco, etc). Io vorrei presentare come esempio di una poesia a vocazione privatistica ma con esiti, nella sostanza pubblicistici, una poesia non di un poeta italiano, per non essere accusato di tirare acqua al proprio mulino, e di indicare gli amici, io prenderò ad esempio un poeta europeo, e neanche di massimo livello, perché sarebbe facile citare un grande poeta europeo per esplicitare le proprie tesi. Citerò invece una poesia del poeta ceco contemporaneo (che mi ha fatto conoscere Antonio Sagredo) Petr Hruška in un libro pubblicato da Valigie rosse (2014), traduzione di Jiří Špička con la collaborazione del poeta Paolo Maccari.
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Il maglione verde
dopo tutti gli anni insieme
il maglione verde
né pioviggina
né imbrunisce
mi alzo
da dietro abbraccio
il maglione verde.
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Mi sembra una poesia semplicissima, anzi, addirittura elementare. Una poesia che parla di un “maglione verde”, Un ricordo privato, privatissimo. Eppure, la poesia tocca una corda universale, diventa, alla lettura, il nostro maglione verde, magari brutto e fuori moda, ma il nostro di noi tutti, maglione verde. Per me questa è una ottima poesia pubblicistica.
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foto vuoto in alto.

Commento di Antonio Sagredo

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Il poeta Petr Hruška è nato a Ostrava (1964), terza città della Repubblica ceca con 300.000 abitanti, situata nella regione della Moravia-Slesia. Centro carbonifero per eccellenza: si estrae carbone dal 1763. Città metallurgica, siderurgica, produce ferro e acciaio. Al tempo del comunismo era detta “Cuore d’acciaio della Repubblica”.
Le miniere furono chiuse gradatamente nel 1989, 1994 e 1998. A testimonianza di quella che fu un tempo vi è un museo di Archeologia industriale. La presenza incombente delle antiche miniere è sentita dal poeta Hruška (che ne scrive in molti versi), poi che la città in gran parte poggia su questi giacimenti di carbone e sulle gallerie delle miniere. Di un altro poeta di Ostrava, Vilém Závada (1905-1982), Angelo Maria Ripellino (nella sua Storia della poesia ceca contemporanea, del 1950) scrive che era “una terra povera, triste, centro carbonifero inquinatissimo… il cielo pesante e fumoso copre tutto d’un grezzo colore di cenere”, che agisce in profondità sul verso di Závada che è “verso pesante e nodoso, spoglio d’ogni melodia, formato di parole dure e scabre”. Il grande critico letterario František Xavier Šalda dice che il verso di Závada è fatto di un “fangoso orrore che ti strangola per intere pagine… ovunque caligine… descrizione pesante [che crea] un verbalismo assillante”.
Petr Hruška è un ingegnere specializzato nella depurazione (1987) che coltiva la sua passione: poesia e letteratura; ma dopo la caduta del regime comunista, alla facoltà di Scienze Umanistiche di Ostrava, consegue un dottorato con una tesi sulla “Prosa e poesia nella subcultura ceca contemporanea” (1990-1994), e un ulteriore titolo accademico (2003) all’Università Masaryk di Brno (tesi su “Il surrealismo del dopoguerra e la reazione al modello d’avanguardia nella poesia ufficiale”). In entrambe le università è lettore di Letteratura ceca. Lavora anche all’Accademia delle Scienze Umanistiche di Praga.
Hruška ha studiato profondamente la letteratura ceca dal dopoguerra in poi, difatti è stato coautore del IV° volume di Storia della letteratura ceca 1945-1989; del secondo volume del Dizionario degli scrittori cechi dal 1945 e del Dizionario delle riviste letterarie ceche e delle Antologie dei periodici e degli almanacchi (1945-2000).
Per cui è storico importante della letteratura ceca. Coltiva le sceneggiature sia in teatro che in televisione, articolista, organizzatore di serate letterarie e festival ed esibizioni culturali a Ostrava e altrove; è anche attore e ha recitato nel cabaret di Jiří Suruvka. Scrive su importanti e storiche riviste ceche, quali Literární noviny, Tvar, Host, Slovenská literatura, ecc. ha vinto il prestigioso Premio Jan Skácel (1922-1989), che fu un grande poeta. Ha collaborato inoltre con poeti e scrittori della sua stessa generazione come Jan Balabán (1961-2010), , Pavel Šmíd, Sabina Karasová, Radek Fridrich, Patrik Linhart e Petr Motýl che è anche pittore , autore teatrale, critico d’arte, ecc. (taluni di questi poeti sono suoi amici personali)
Ha pubblicato varie monografie su poeti cechi, tra cui una importante sull’anziano poeta ceco Karel Šktanc (1928-). Pubblica su varie riviste straniere, e saggi di letteratura in Francia, Paesi Bassi, Russia, Ungheria, Belgio, USA, ecc.
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I suoi libri di poesia pubblicati in Repubblica ceca sono:
1995 – Soggiorni irrequieti – (Obývací nepokoje; Sfinga, Ostrava 1995, ill. Adam Plaček:
1998 – Mesi – (Měsíce; Host, Brno, ill. Zdeněk Janošec-Benda
2002 – La porta si chiudeva sempre – (Vždycky se ty dveře zavíraly; Host, Brno, ill. Daniel Balabán
2004 – Maglione verde – (Zelený svetr; Host, Brno, una raccolta dei tre libri precedenti, più una collezione di prosa Odstavce, ill. Hana Puchová
2007 – Le macchine entrano nelle navi – (Auta vjíždějí do lodí; Host, Brno, ill. by Jakub Špaňhel
2012 – Darmata – (Darmata; Host, Brno, ill. Katarína Szanyi [anagramma della parola Dramata (Drammi)]; con questa raccolta ha vinto il Premio di Stato per la letteratura.
2015 – Una frase – (Jedna věta; Revolver Revue).
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Petr Hruska copPetr Hruška e i poeti e artisti cechi
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Durante la Seconda guerra mondiale in Repubblica Cecoslovacca sorsero diversi “Gruppi” formati da poeti e artisti di varia estrazione culturale e sociale.
Gruppo ’42 (Skupina ’42), con Jaroslav Seifert (Praga 1901 – 1986); Ivan Blatný (1919-1990), Jiří Orten (1919-1941); JiřÍ Kolař (1914-2002); Kamil Bednář(1912-1972) e altri.
Gruppo Ra – 1946 – (legato al marxismo viene sciolto nel 1949) – propugna il Neosurrealismo…
Gruppo dei Poeti cattolici
Gruppo Mladá Fronta (Fronte della Gioventù)
Gruppo Rudé právo (omonimo del giornale di regime comunista)
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Quando Hruška comincia a scrivere sulla poesia e letteratura ceca dal dopoguerra in poi (periodo su cui ha scritto pagine essenziali) tiene presente tutte le istanze che questi gruppi vollero esprimere. Tra le varie istanze è da sottolineare quella che volle ristabilire un nuovo e diverso Surrealismo (del Gruppo Ra), avviando la fase di un secondo surrealismo che non ebbe affatto lunga vita, anche se un critico d’eccezione come Karel Teige scrisse, per la mostra di questo “neosurrealismo” a Praga – tenuta al salone Topič – nel novembre-dicembre 1947: “Questo non è il canto del cigno, ma l’empirico prologo della prossima azione; non è il tramonto, ma l’alba di un nuovo giorno”. (nel Manifesto del 1947 del Gruppo Ra). Frase che Ripellino bolla come “anacronistica ortodossia”. (in A.M.R., Storia della poesia ceca contemporanea, le edizione d’Argo, Roma 1950, pag. 97).
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foto le maschereLa tematica del vivere quotidiano e la sua umanità
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Tenendo presente la naturale inclinazione di Hruška per tutte le vicissitudini umane che si svolgono nella quotidianità, siano esse banali, mortali, consuetudinarie, drammatiche, prive di volontà di riscatto, ecc., (aspetto sostanziale sottolineato nella prefazione di Jan Štolba), ho notato comunque nella sua poesia una tradizione che viene rispettata (senza scomodare K.H. Mácha, il padre della poesia ceca), e che inizia con Božena Němcová, grande scrittrice dell’800, assurta a simbolo della sofferenza del suo popolo. E la poesia ceca va avanti per tutto l’800 su questo tema (influenzata fortemente da una cultura folcloristica che poco concede all’allegria) fino a che il dominio austro-ungarico è sconfitto, e nasce la repubblica cecoslovacca.
La poesia ceca abbandona questo suo triste e malinconico tema dominante anche per l’avvenuta autonomia e sovranità politica di un nuovo Stato: l’euforia è dunque dominante; e infine con la corrente del Poetismo dei primissimi anni ’20 celebra la gioia di vivere in tutte le manifestazioni possibili; ma dura poco poi che le prime avvisaglie (fra tante altre di altri poeti) di una malinconia quasi drammatica che ritorna, sotto altre forme, si hanno col poema di Vitězslav Nezval l’Edison del 1928.
Il Surrealismo e l’espressionismo accentuano questa fine della spensieratezza, e già s’intravede una poesia dalla fine degli anni ’20 in poi (tutte le arti seguono questo andazzo) con presentimenti pessimistici già in parte delineati (faccio soltanto alcuni nomi) con Holan, Josef Hora, Vilém Závada (già su ricordato), František Halas che, alcuni anni dopo, con la sua raccolta Staré ženy del 1935, (Vecchie donne) descriverà i tristi pomeriggi domenicali della gente comune, una esistenza piatta, orizzontale; con Jaroslav Seifert (futuro Premio Nobel, che simbolicamente premia tutti i suoi compagni di strada) che diviene il mesto cantore di Praga.
Il sentimento pessimistico si unisce a un fatalismo che non lascia speranza alcuna, e ancora di più sotto il regime comunista. Assistiamo alla falcidie dei poeti coi loro destini tragici (faccio giusto due nomi) p.e. come il poeta cattolico Jan Zahradníček che muore poco dopo essere uscito dalla prigione; o come quello dell’ amico-poeta Josef Kostohryz (1907-1987), che si fa 14 anni di carcere duro per poi essere assolto per non aver commesso alcunché, e che nel suo poema Mohyly (Tumuli) racconterà la sua esperienza. Insomma, la poesia ceca ritorna al suo secolare destino d’essere poesia tristissima sia per sua implicita natura che per eventi esteriori, e che si esprime alternativamente con versi aspri o melici, tragici o metafisici, baroccheggianti; insomma negli anni bui del dopoguerra in poi prevalgono versi funerei, nerastri, davvero pervasi da presagi oscuri che si cerca di stemperare con contorcimenti linguistici. E infine, dopo la caduta del comunismo, e, per giungere ai giorni nostri, si manifesta con una semplicità disarmante, ma mai banale, come in Petr Hruška, p.e., uno dei maggiori rappresentanti della poesia ceca odierna.
Dal mio punto di vista la poesia di Hruška si origina anche dalle assillanti quotidianità studiate analiticamente… quasi operazioni da bisturi: una vivisezione continua che diviene ossessione e che talvolta sfiora una troppa e calcolata ostentazione di ciò che si osserva, come del resto in tantissimi poeti cechi. E se la poesia di Halas è una poesia segnata da una “tenerezza ferita”, timida e stanca accettazione del provvisorio, una sensitiva mestizia (tklivost), l’angoscia per la fugacità del tempo e per lo sfiorire, la sua amarezza per il disagio dei poveri” (Ripellino), anche Petr Hruška , secondo Štolba nella prefazione a questo libretto, “offre anche tenerezza nella sua poesia”. Questo termine, “tenerezza”, è presente due volte.
È Halas (e non solo questi) che si schiera contro il mielismo (il prefatore Jan Štolba dichiara che anche Hruška è contro il mielismo ), contro le lambiccature linguistiche, contro i vocaboli arcaici, disprezza la melodia e il posticcio ottimismo. Certo, è ovvio che la sua poesia ha aspetti marcatamente distinti da quella di Halas, che è pieno di strabilianti metafore. Certo che il quotidiano umanistico di Hruška non è affatto “malsano” come quello di Halas. L’umanismo di Hruška è invece pervaso da sentimenti misericordiosi, compassionevoli, così come nella poesia Štěkot (L’abbaio) e Co ještě chci (Cosa voglio ancora). Halas non è mai melico (per ripicca verso alcuni suoi accusatori scrisse qualcosa di assolutamente melico:, e lo fece burlandosi dei suoi detrattori). Ma, infine, scrive Halas “la poesia è il sangue della libertà”.
Questa frase lascia in eredità ai poeti cechi e in generale a tutti i poeti slavi e non, che vissero interamente sotto il dominio sovietico (noi sappiamo che furono per primi i poeti russi a sanguinare). Hruška ha fatto una breve esperienza di cosa vuol dire non poter pubblicare sotto un potere che non ti lascia respirare liberamente: aveva 25 anni quando questo potere scompare nel 1989. Poi ha potuto cantare come ha sempre desiderato, ma non ha cantato il trionfo e tutte le su sfaccettature, ha cantato l’alta profondità che si cela nell’umano o nel disumano e che si maschera (ma non tanto) sotto la quotidianità, o sotto la sua “apparente” banalità.
Allo stesso modo, anche Hruška presenta una caratteristica della poesia di Halas che è assenza di verticalità, slanci verso l’alto per celebrare qualcosa… la loro poesia è puramente orizzontale, come il tempo quotidiano che è incapace di darti un sogno, ma solo di descrivere o di rappresentare con le parole lo svolgimento terribilmente eguale del ticchettio temporale, e in questo svolgimento figure concrete che si muovono, quasi automi votati alla rassegnazione di vedere nella propria vita domestica sempre le stesse cose, stessi movimenti, stessi pensieri, ecc. Ma è indubbio che lo stile dei due poeti è diverso: lo stesso tema è ovvio che sia cantato con aspetti poetici completamente distinti.
Come dice Ivan Wernisch della poesia di Hruška: “Lei riesce a scrivere poesia priva di cose inutili e senza fronzoli lirici”. Ma lo stesso poeta conferma: “La poesia non è la decorazione della vita”. Insomma la sua poesia nonostante tutto deve poter “togliere la sicurezza dal lettore e deve demolire qualsiasi estetica lirica”.
Forse per questo motivo che il prefatore Jan Štolba scrive nella introduzione a questo volumetto di poesie di Petr Hruška che il poeta “si discosta non poco dalla tradizione melico-metaforica della poesia ceca avvicinandosi piuttosto a quella anglosassone rappresentata da Whitman e Williams edificata su immagini, sensazioni, visioni”. [William-Carlos]. Lo stesso traduttore delle poesie di Hruška, Jiří Špička, in una e-mail che mi ha inviato dice con candore: ”io non trovo molto Whitman in questi versi; su Williams non mi posso esprimere, perché lo conosco troppo poco”. Personalmente ho dubbi seri circa questo avvicinamento di Hruška ai due poeti americani o alla poesia americana in generale, che è parecchio melica; se mai, senza andare tanto lontano, avvicino la poesia di Hruška a quella concreta e realisticamente quotidiana dell’inglese Philp Larkin; e per finire a certe opere del pittore americano Edward Hopper. E giusto per essere molto più vicino a Petr Hruška, nella sua stessa terra natale, accosto due poeti: Zbyněk Hejda (1930-2013) e Katerina Rudčenková (1976-); spero in futuro che qualche studioso possa confrontare questi tre poeti.

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Poesie di Petr Hruška – “Le macchine entrano nelle navi” – Valigie Rosse, 2014
*
(dalla raccolta Soggiorni irrequieti 1995)

è giorno
gennaio
una luce acuta
si può usare in svariati modi
entrare per sbaglio in un vicolo cieco
dove una sorpresa
dove una donna sorpresa e magra
alzerà
gli occhi

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Tutto quel piccolo parco

Da qualche parte ci deve essere
tutto quel piccolo parco
ma per quale via
diomio
nel crepuscolo spicca
il chiodo arrugginito del novembre
nella memoria danno freddo
i cuscinetti delle altalene
e i pali
degli uccelli

*
(dalla raccolta “Mesi” – 1998)

Luglio

a Jan Balabán

Alla finestra della camera notturna
come al finestrino del treno
ma fuori sta immobile
il buio dell’albero
dietro la schiena gli animali guardano
sul pigiamino
*
Luglio

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Il maglione verde
dopo tutti gli anni insieme
il maglione verde
né pioviggina
né imbrunisce
mi alzo,
da dietro abbraccio
il maglione verde.

*
(dalla raccolta La porta si chiudeva sempre – 2002)

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La porta

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La porta si chiudeva sempre, da sola,
per tutti gli anni, con uno scatto lento.
Ora non si muove di un dito.
Di fronte a lei una donna, raccoglie una larga
sottoveste, colpevole, che di notte è caduta dalla corda.
L’uomo guarda la donna con la sottoveste. Forse il vento.
In un istante della notte.
Tutti e due vorrebbero sapere precisamente quando
è accaduto, tutti e due vorrebbero vivere quell’istante.

Petr-Hruska Premio Valigie Rosse V edizione

petr hruska

La dispensa

Una volta ci imbattemmo uno nell’altro nel buio della dispensa,
catturati a vicenda – con il sangue d’oca e il petrolio,
con le camicie di casa rimboccate,
con gli sporgenti tumori delle patate.
Siamo venuti a predare.
Si sente il respiro colto sul fatto,
il magro filamento di luce, che filtra dal finestrino
giace sotto l’imbarazzo steso fra di noi.
*
Inizio di primavera

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Già stavamo per sederci sul letto. Poi l’uomo si è ricordato
che l’ala posteriore era rimasta aperta. Ha strascicato lungo il corridoio,
attorno ai buchi neri delle officine e degli spazi.
Attorno ai buchi neri delle maniche su un appendiabiti comune.

La casa era spalancata, infilata in se stessa.
La mano sul chiavistello, ha visto accanto ai noccioli
sotto il tetto l’ultimo pezzo di neve.
Giaceva bianco e grosso, come un animale con la testa drizzata,
come una spalla nuda.
Come soltanto, così tanto, poche cose nella vita.
Giaceva bianco e inappropriato, vicino alla porticina dell‘ala posteriore.

Ha strascicato indietro, lento e silenzioso,
tante volte la donna si fosse già addormentata.

*

Prima del bagno

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ti sei spogliata
con le mani quarantenni
e ti sei girata
verso i cassetti
dove da un tempo terribilmente lungo
abbiamo creme e rasoi e utensili
ho sviato gli occhi
davanti a quella bellezza,
e ricordo soltanto
il dorso bianco
della monografia di Giotto

*
(dalla raccolta Le macchine entrano nelle navi, 2007)

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Mentre siamo in cucina

.
Entreremmo nel buio
i rami gialli degli aceri selvatici
si allungherebbero avidi
sull’auto
In un luogo ai margini
ci sarebbe una cappella imbrattata
ma potrebbe anche non esserci
neanche quella lamiera abbandonata alla pioggia
potrebbe non esserci niente
Scenderemmo
staremmo insieme in piedi
irresoluti e fermi
dentro la luce dei fanali e nei maglioni
– uno stupendo fumo della bocca
Solo dopo
scenderei giù,
a chiedere la strada.

*

.
Le macchine entrano nelle navi

.
Le macchine entrano nelle navi,
nell’alto inguine bianco
che rimane immobile,
nel trionfo assordante del rumore
Funi tese ganci cardini noi due
dopo un lungo viaggio
un lucido strapazzo del metallo
mandriani delle macchine in camicie bagnate
Un tumulto immenso, eppure una calma
della realtà imperiosa
non possiamo strapparci
– appartiene a noi –
da quella sozzura del mare in porto
da fetore dei mezzi pesanti
che entrano lenti nelle navi immobili

*
Dopo l’incidente

.
Per ora mettete le cose qui.
Qualcuno ha fatto spazio sulla mensola,
nel cassetto o nell’armadio.
E qualcuno dopo l’incidente
mette qui i suoi oggetti personali,
miseri e orgogliosi.
Non importa che è successo.
Non importa in quale orfanotrofio siamo.
Tutto indietreggia davanti la terribile bellezza
di quel per ora,
in cui qualcuno sta mettendo ordine tra le cose rimaste.

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petr hruska

(dalla raccolta „Darmata“ – 2012)

Cincia

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La prima neve accentua tutto.
La libertà degli arboscelli.
I metri quadrati dei monolocali.
La sottigliezza dei bambini
delle famiglie divise.
La cincia è volata dentro la mia paura
che se fossi morto ora
la mia ultima parola sarebbe
sego

*
L’eccedenza del padre

.
Quella carne,
quella pesante carne in eccedenza del padre,
che corre verso di voi.
Già state indietreggiando.
Già notate la manica
bruciata del giaccone,
il gomito sporco.
Ma ancora state in piedi,
guardando avanti,
vi dite padre,
un’eterna guardia di notte,
che in questo momento è entrata nella luce;
alabarde e vessilli
disordinati dall’inquietudine.
Ha gettato nuovamente pietre nel buio,
contava e ascoltava,
quando e quale si avrà risposta.
E ora corre qui,
nel vostro crescere,
l’eccedenza del padre.

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L’abbaio

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La madre guarda
il figlio che un’altra volta sta imitando il retriever.
Lui ha ventisette anni,
lei quarantacinque,
tutti e due al mondo fino al collo.
Hanno provato diverse cose,
per lo più tramite annunci e tramite dottori.
Tutti e due plausibilmente credenti.
Tutti e due regolarmente in quel bar ventiquattrore,
reali come un gancio
di bellezza.
Il figlio appoggiato contro il tavolo
la madre che ascolta immobile,
fin dove giunge, qui,
l’abbaio del retriever.

*
Un bel tonno

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Un bel tonno
per essere scossi
da quell’insopprimibile argento del pesce
sbattuto sui fogli del giornale
giornale morto per i pesci.
Un bel tonno
che sarebbe bastato per un po‘ di tempo
che una altra volta
avessimo sentito freddo a i polsi,
riguardo al pesante argento del mondo,
portarlo a lungo
le schiene ripide
dei palazzi delle banche
e poi a casa aprire il giornale insieme
i brutti ceffi pre-elettorali macchiati di pesce
danno l’impressione di essere ancora più birbanti
un grande corpo sull’asciutto del giornale,
sull’asciutto del tavolo
Un bel tonno
per increspare
i logori volant del silenzio domestico,
per ricordarsi ad un tratto
tutto quello che cazzo
volevamo qui.

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SEI POESIE di MICHAL AJVAZ (cura e traduzione di Antonio Parente) da Autori vari, da “Sembra che qui la chiamassero neve. Poeti cechi contemporanei”, Hebenon-Mimesis, Milano 2004 con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa.

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

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Giorgio Linguaglossa

Michal Ajvaz si riallaccia a quella grande tradizione filosofico-fantastica che fa capo a Borges, Calvino, Perec. Il suo è un viaggio fantastico attraverso un futuribile, modernissimo e improbabile mondo quotidiano di Gulliver. I personaggi che intervengono nelle poesie di Ajvaz sono persone qualsiasi, i nostri vicini di casa, magari un po’ stralunati, che sembrano venuti da un altro pianetaAjvaz presenta delle situazioni dove personaggi improbabili attraversano il nostro quotidiano come fosse una dimensione onirica, e attraversano la dimensione onirica come fosse il nostro quotidiano. Ajvaz tratta il quotidiano alla stregua di una dimensione onirica e farsesca, con tutto ciò che ne consegue in termini di svalutazione della Storia e delle ideologie. Non si dimentichi che Ajvaz proviene da quella generazione che ha vissuto il 1968 praghese, i carri armati sovietici, la restaurazione e la fine violenta della Primavera di Praga, il gelo della nuova guerra fredda, la fine del comunismo e l’inizio di una nuova era capitalistica, il liberismo sfrenato e una sfrenata liberalizzazione dei mercati. Una vera ecatombe della semiosfera e della ecosfera politica e antropologica del popolo praghese. E che cosa poteva fare la poesia praghese dinanzi a questi eventi macrostorici? Che cosa poteva fare Ajvaz se non rispondere con una carica energetica notevolissima, con un nuovo «realismo onirico», come è stato chiamato o «irrealismo onirico», come io lo chiamerei? Forse, la poesia reagisce come la coda di un rettile: si ritrae istintivamente di fronte alla crudeltà della storia. Se il «realismo» rientra in quella grande ideologia della semiosfera che crede che il «reale» stia lì e noi qui a rappresentarlo, l’irrealismo di Ajvaz parte dal presupposto opposto, che il «reale» è scomparso e che noi dobbiamo ricreare il «reale» ogni volta che gettiamo uno sguardo su di esso. Ha scritto Boris Groys: «La vittoria del materialismo in Russia portò alla totale scomparsa nel paese di qualsiasi materia».1  Verissimo. Potremmo dire, parafrasando Groys, che la dittatura staliniana, la fine prematura della primavera di Praga del ’68, ha finito per far scomparire presso la poesia ceca i concetti di «reale» e di «materia», ha decretato la scomparsa di tutte le ideologie che peroravano la bontà  e l’eternità di quel «reale» e di quella «materia». Ecco la scaturigine profonda dell’«irrealismo» post-surreale di Ajvaz. Perché un certo tipo di poesia «realistica» consegue sempre da un certo concetto di «reale», è un atto di formazione estetica di quel «reale», un rafforzativo di una certa visione del mondo, rientra, insomma, in un determinato concetto della semiosfera e della sua utilizzazione in chiave conservativa. Ecco, a me sembra che la poesia di Ajvaz ci dica che non c’è nulla che valga la pena di conservare, che non c’è un «tutto», e che esso «tutto» è soltanto una costruzione ideologica che serve di «rinforzo» di una certa visione di un certo «reale». «Le relazioni verticali in poesia / sono fittizie», scrive Ajvaz. Appunto, un concetto di «relazione verticale»  in poesia ha cessato di essere stilisticamente propulsivo, vitale; ciò che resta di vitale è tutto ciò che non rientra in questo tipo di concetto di «relazione verticale», gerarchica.

L’autore ceco non pensa più di disporre del potere di regolare il «reale» e di «dominare» il materiale poetico, concetto questo tipico delle avanguardie novecentesche, in Ajvaz il testo è una relazione orizzontale non gerarchica. È una poesia che si affida alla procedura metonimica. Ecco, leggiamo: la mattina dei turisti giapponesi entrano nella stanza dove il poeta vive, ecco quello che accade:

I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale 
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.

Oppure, ecco un nano che strimpella su un pianoforte allo Slavia caffè dove il caffè «costa otto corone e quaranta», e succede un gran parapiglia con i clienti del bar, perché «i clienti e i nani si odiano»… Ed ecco che all’improvviso irrompe «una mandria di renne», e, subito dopo compaiono dei koala che litigano con gli avventori del bar, e poi ecco «un animale bianco» che non sa cosa fare… etc. È un tipo di poesia dove l’organizzazione sintattica ha smesso di funzionare come relazione razionale verticale, dove il «dominio» ha cessato di esercitare le sue qualità taumaturgiche e le sue bontà razionali, dove l’unica regola ferrea è quella della orizzontalità di tutto quanto noi designiamo con l’antiquato concetto di «reale» e quant’altro.

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare
nella sabbia.

Vorrei richiamare la classificazione di Cesare Segre, delle posizioni del «narratore» rispetto al «testo», procedura che può essere adottata anche in poesia, anzi, che mi sembra calzare a pennello per la poesia di Michal Ajvaz. La sottopongo alla attenzione dei lettori. Si tratta di una procedura di «irrealismo onirico»:

1) narratore presente come personaggio nella storia (omodiegetico) che analizza gli avvenimenti dall’interno (intradiegetico);

2) narratore presente come personaggio nella storia (omodiegetico) che però analizza gli avvenimenti dall’esterno (extradiegetico);

3) narratore assente come personaggio dalla storia (eterodiegetico), che analizza gli avvenimenti dall’interno (intradiegetico);

4) narratore assente come personaggio dalla storia (eterodiegetico), che analizza gli avvenimenti dall’esterno (extradiegetico).

La caratteristica della poesia di Michal Ajvaz è che egli utilizza un po’ tutti questi punti di vista insieme secondo una procedura multicentrica e poliprospettivistica.

 I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.

*Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato

La grande qualità di Ajvaz è quella di saper inserire nello scorrimento del «verosimile» delle sue poesie delle deviazioni di senso, delle proposizioni incidentali e parentetiche che sospendono e sviano il senso, i significati delle poesie per convogliarvi un sopra senso, un sotto senso, dei sensi obliqui, significati diagonali, spostati, ellittici. È una procedura sconosciuta alla poesia italiana del secondo Novecento, perché noi in Italia non abbiamo avuto una scuola poetica surrealista e siamo rimasti orfani, orfani di un approccio squisitamente «realistico» al problema del «reale». Abbiamo avuto delle ottime manifatture di bottega (la cd. linea lombarda è una di queste) che hanno però prodotto risultati estetici prevedibili e, in qualche modo, programmabili e programmati. In Ajvaz invece abbiamo un poeta che ha fatto tesoro della procedura surreale o surrazionale di costruzione del testo poetico, senza dubbio Ajvaz ci presenta dei testi che esulano dagli stilemi realistici della nostra tradizione letteraria,  il nocciolo di questa procedura è costituito dalla deviazione.
Nel brano riportato è davvero bizzarra quella invenzione dei turisti che entrano ed escono dall’appartamento mentre fotografano tutto, e quel treno espresso internazionale che passa per la camera da letto. Si tratta di inserti a metà tra il surrazionale e l’assurdo che ci svelano un nuovo rapporto con il «reale» cui siamo abituati.
Se lo stile di un autore è individuato dal sistema delle deviazioni (deviazioni dalla langue, dal linguaggio letterario, dai cliché e dai modelli letterari invalsi in un sistema letterario), dobbiamo riconoscere che i testi di Ajvaz risultano avere uno stile di eccellente fattura.
Credo che da Ajvaz ci sia molto da imparare.

  1. Groys Lo stalinismo, ovvero l’opera d’arte totale, Garzanti, 1998 p. 28

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Michal Ajvaz, grafica di Lucio Mayoor Tosi

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

La foca

D’accordo, ho passato una mano di marmellata su una vecchia foca nella metro, ma non dimenticate anche che fui l’unico
ad indovinare il nome della medusa viola fosforescente
sotto l’oscura superficie d’acqua nella Piazza della Città vecchia,
lungo la quale abbiamo veleggiato in barchetta,
sotto facciate silenziose, ubriachi di birra.
Successe l’ultima notte dell’Età dell’oro.
Fate assegnamento su un argomento sofistico con un Cartesio
di peluche, ma avete dimenticato la malerba della scrittura indecifrabile, grazie alla quale inarrestabilmente, con silenzioso fruscio, crescono le nostre poesie più aggraziate,
e come è evidente, anche lo scalfito manichino automatico,
che di notte siede nello scompartimento buio del treno sganciato
su un binario morto della stazione di Smíchov
e parla con disprezzo delle vostre sterili estasi
nelle cupe piazzette dei villaggi. Penso sia già ora di rassegnarsi
al fatto che la sciovia abbia trascinato via il nostro direttore
all’interno di un tempio barbaro, verso un altare con una spina di metallo,
di iniziare ad abituarsi al fatto che i corpi di alcuni corpi siano coperti da un guscio bianco d’uovo,
lo battiamo leggermente assorti con un cucchiaino
e lo sbucciamo, un po’ alla volta appaiono sulla pelle rosata i versi tatuati dell’epos dei lupi, che corrono lungo i corridoi lucenti della facoltà di filosofia,
del grasso pesce voltante, che vola dentro la birreria Carlo IV
e come impazzito sbocconcella le teste dei clienti –
e tutto si ripete nuovamente, anche con conchiglie cacciatrici di cuccioli,
come un gruppo di statue d’oro al centro di una piazza spopolata in una città straniera,
rilucente nell’inesorabile meridiano del sole.

(In E i ligli tarri, 2002)

Michal Hajvaz copertina

Turisti

Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

Michal Ajvaz

Michal Ajvaz

L’uccello

Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato,
che non era in neanche una delle premesse.
Non è più valido,
nella conclusione da qualche parte penetra sempre qualche animale sconosciuto.
L’uccello siede sulla mia scrivania
e mi punta col suo lungo becco ricurvo.
Ci guardiamo a vicenda silenziosi e immobili per dodici ore
e nel momento in cui squilla il telefono
mi becca proprio in mezzo alla fronte.
Mi sento venir meno
e sogno che piazza S. Venceslao sia ricoperta da una giungla impenetrabile
e di essere disteso di notte ai piedi del monumento a S. Venceslao,
tra la boscaglia di rami e liane traspare il neon azzurro della Casa della moda
e la sua luce si riflette sulle foglie umide delle palme.
Mi assopisco in un nido di foglie
e sogno di essere nella birreria di Doubravčice,
è piena di gente e l’aria è irrespirabile;
un vicino di tavolo, uno zingaro, mi sussurra all’orecchio:
“Due cose mi riempiono di ammirazione e rispetto:
il cielo stellato sopra di me e le stupende tigri che passeggiano
nell’estesa rete di corridoi sotterranei sotto Praga.
Lo dico affinché non disperiate tanto
per l’impossibilità di rispondere ad alcune domande.
Non che un domani si troveranno delle risposte, ma
quando le tigri saliranno in superficie,
le domande si porranno in altro modo”.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

Michal Ajvaz

Michal Ajvaz

Fiume sotterraneo

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare
nella sabbia. Il foglio bianco dopo l’ultima lettera del rigo
ancora indistintamente espira parole insabbiate (ora piuttosto
soltanto il loro profumo), di tanto in tanto si solleva
nel candido vuoto un frammento di frase, un’immagine indistinta
come l’allucinazione di un esploratore polare sulla distesa di neve.
Sono immagini di sogno di porti pullulanti di gente sul molo,
immagini di una giungla dove sui ruderi del tempio sorge un sole rosso,
nei sui raggi rilucono roride statue d’oro, gli uccelli stridono.
Riusciremo a seguire l’orma del verso che svanisce?
Non annegheremo nella pagina bianca,
avremo abbastanza coraggio da lasciare la riva sicura del nero tipografico?
Sembra che se non impariamo ad ascoltare la confidenza della pagina vuota,
non capiremo neanche il senso delle parole stampate.
Il senso delle parole si alimenta delle linfe del tutto, che si estende
fino alla foresta vergine e fino alla riva. L’oceano è vicino.
Quando vi troverete alla fine del verso,
dimenticate la stupida abitudine di tornare all’inizio
del seguente e continuate, superate finalmente il confine.
Non abbiate paura di perdervi nel giardino di immagini che maturano.
Andate finalmente per una volta fino alla fine del cammino,
verso l’inferriata argentea: già da anni vi aspettano pazientemente.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

hebenon

Petřín

Allo Slavia il caffè costa otto corone e quaranta,
sebbene lo preparino da elitre di coleotteri.
Prendono comunque buona cura del divertimento:
al centro di ogni tavolo c’è un pianoforte in miniatura,
sul seggiolino siede un nano
e suona una melodia sentimentale.
I nani hanno l’abitudine di fare un sorso dalle tazze;
i clienti non vedono di buon occhio la cosa, si dice
che i nani abbiano varie malattie.
In sostanza i clienti e i nani si odiano,
di continuo gli uni sparlano degli altri col personale.
Ne vien fuori una gran confusione, soprattutto quando (come proprio in questo momento)
passa per il locale una mandria di renne.
Con quelle renne bisognerebbe proprio fare qualcosa.
Non ho nulla contro le renne vere, queste invece
sono spesso posticce. Una ha un guasto,
è ferma vicino al mio tavolino e perde delle rotelle dentate.
Per la verità, mi sono più simpatici i koala,
che si arrampicano senza sosta sui clienti,
anche se ufficialmente si continua a sostenere
che l’ultimo fu catturato venticinque anni fa.
(Ma sappiamo come vadano queste cose.) È già notte, ascolto la silenziosa melodia
strimpellata sulla tastierina e guardo la buia Petřín,
le enigmatiche luci sul suo declivio che penetrano
come malvagie costellazioni il mio volto sbiadito nel vetro,
ricordo la mia ragazza, la quale anni fa si unì
come psicologa ad una spedizione che aveva il compito
di mappare l’area ancora inesplorata di Petřín.
Siede adesso nel palazzo della leggenda e guarda
attraverso il fiume verso le finestre accese dello Slavia?
Oppure è stata rapita dai selvaggi indigeni di Petřín
che continuano a minacciare la città?
Gli abitanti della Città Piccola spesso nel mezzo della notte
sentono in lontananza il loro canto strascicato.
Secondo il bonton non si dovrebbe parlare di queste cose.
Fanno tutti finta di non sentire il lugubre corale
che da lontano si mescola alle conversazioni,
e tuttavia sanno che la malvagia musica inconfessata
si infiltra tra le loro parole, libera i remoti significati della foresta vergine in esse contenuti.
Di cosa stiamo conversando, in effetti?
È chiaro che tutti, dopo un po’, vorrebbero
interrompere le conversazioni e unirsi al lontano canto.
Le norme della buona educazione però non lo permettono.

(In E i ligli tarri, 2002)

Parchi

Dopo che apparve nell’ingresso un animale bianco,
non ci fu più ragione di evitare le aree proibite della città.
Passando per la tavola calda illuminata con pareti piastrellate,
ci avviammo verso gli estesi parchi, da dove da anni e anni
trasudavano febbri, nebbia, il vizio molesto della germinazione
all’interno di guardaroba serrati, tra pagine di libri,
dove poi iniziarono a crescere i lattari. Non leggevamo più,
raccoglievamo funghi in biblioteca. Le malattie di mobilia
si infiltrarono nei nostri sistemi filosofici, accumularono
i loro succhi nel garbuglio di frasi condizionali e causali,
dai concetti alitò il respiro dell’erba imputridente. Cristalli di veleno estraneo,
che interessano solo alle malvagie statue di malachite, che si avvicinano,
adesso già definitivamente, lungo le cupe rampe delle case
in stile liberty, tutto ciò che è rimasto dagli anni passati.
Dopo che apparve nell’ingresso un animale bianco,
non ci fu più ragione di evitare le aree proibite della città.
Fummo insigniti della sconfitta, fredda e radiosa
come luci di locomotive negli spessi specchi della prima repubblica
nelle camere estranee con la luce spenta vicino alla ferrovia,
la porticina si apre verso uno strano paradiso, in foglie bagnate
oltre la macchia di umidi cappotti maleodoranti di dolciastro.

(In E i ligli tarri, 2002)

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia ceca, realismo magico, surrealismo praghese

POESIE SCELTE di František  Halas (1901-1949),  IL BAROCCO AUTUNNALE DELLA POESIA CECA, Traduzione di Angelo Maria Ripellino e Presentazione critica di Antonio Sagredo

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Presentazione critica di Antonio Sagredo

  Addensatore di tortili metafore, talvolta putrefatte e purulente, che brillano come armille… e se vuoi mettile dove vuoi… e il poeta  le preferisce intorno ai polsi, così che mani e dita siano preservate dalla consunzione, o intorno alle caviglie, così che i malleoli siano pronti a spiccare la danza! Taluni  sul capo, così che il cerebro risulti vivificante per chi lo mira; o sul cuore, così che il battito mai non cessi di brillare e di risonare come un fatuo fuoco!

Le parole che formano poesie di “lagnanze” e di doglianze stanno lì come i quattro angeli attaccaticci (che in Holan sono “quadricefali”) intorno al capezzale rabescato d’ombre e di specchi viola, e sottostanno a questo martirio metaforico e  settecentesco pazienti, poi che credono – nonostante una continua e sconfortante disillusione – alla loro risurrezione che è la colpa degli angeli adulti: “le tue ali nere quando perdi le bianche con l’infanzia” ….e le parole allora fanno da sfondo teatrale così che “la funebrità si apprende anche ai paesaggi” (A. M. Ripellino)*. Questa dilatazione spazial-teatrale oltre la quinta cartonesca, non segna, ma graffia una  geografia anche secentesca, come negli arazzi di nero-oro granito di certo gongorismo, che noi sappiamo tinto da metafisici presagi oscuri.

[* Segnati con asterisco sono i  commenti critici di A. M. Ripellino,  in František  Halas, Imagena, Einaudi 1971].

Non è tutto qui il mondo di cui si nutrono le parole halasiane, poi che se dovessimo pensare a rigogliosi giardini primaverili, non abbiamo scampo alcuno! (vedi i titoli di due poesie più in avanti)… noi saremo allora circuiti da fiori cimiteriali che anelano alla luce, e non sappiamo se invano, poi che ancora una volta ricadiamo nei meravigliosi labirinti acherontei. Il nero, il buio è ossessione halasiana.

È davvero uno strazio per il lettore non respirare aria diversa e salubre pure c’è “il benefico ossigeno del buio” (un palliativo o uno scherzo del poeta?!), ma questi, il lettore, è così attratto dalle immagini di strabiliante barocco, che non gli danno requie, ma gli donano regalie visionarie di rarissima bellezza (“cisterna di gemiti” ; “la tenebra tende le orecchie” o ossimori rivoltati come un guanto  quando si tratta di “ travolgere con una parola la valanga” ; o quando “il buio scartoccia granturco” ; e ancora riflessioni mnemoniche  come lo stupendo “Sono memoria dell’acqua / gelo” e la condanna con cui ogni poeta deve fare i conti: il fardello eterno è che  “Porti il tuo lutto manoscritto non finito” .

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  Soltanto quando dice di bambini il volto del poeta si irradia come quello di Hölderlin… “ Solo sulla testa dei bambini cade il rispetto delle luci/nella gorgiera della propria innocenza dormono quieti…””,  “Sono andato dai bimbi ad imparare/molte cose del cielo ancora sanno…”.

Non gli è secondo Holan quando scrive “ Ci sono i bambini… in verità solo loro…/Purezza di cuore, evidenza del miracolo/negato a noi adulti…

La gioia quindi non  è del tutto esclusa dal mondo annerito di Halas: ha lampi di luce che sono rari, ma brillano per questo ancora di più: tu li vedi da lontano, proprio tu che sei immerso in questa catacomba terrestre dove regna il tenebrore!, ma  l’orrore o il terrifico non regnano fine a se stessi, soltanto le parole-immagini rimandano ad essi, sono le fonti che poi si fanno reali consistenze; infatti a scorrere i titoli delle raccolte o quelli delle poesie già t’accorgi che genere di passaporto possiedi per entrare in quel mondo malubre che dell’Acheronte ha tutti gli splendori e i cantucci più sinistri.

P.e. nella raccolta Sepie (Seppia, 1927) i titoli delle poesie sono chiari: Non voglio la primavera, Quiete, Presso una tomba, Il silenzio, L’ombra, e così via; e nella raccolta: Kohout plaší smrt (Il gallo spaventa la morte, 1930) la musica non cambia: De profundis, Paesaggio velenoso, Autunno in primavera; nelle raccolte Tvař  (Il volto, 1931); Hořec (Genziana, 1933); Dokořán (Spalancato, 1936), lo studioso annota “una tenerezza ferita, una sensitiva mestizia l’angoscia per la fuggevolezza del tempo e per lo sfiorire”*;  Certo è che non di dileguano i termini che hanno a che fare con le atmosfere cimiteriali, che sono appannaggio di un neo-barocco egemone e recidivo che vede coinvolti i maggiori poeti cechi, come Vladimir Holan e Vitězslav Nezval (specie col suo poema surrealistico Il becchino assoluto, da me tradotto tantissimi anni fa e lo stesso cantore di Praga Jaroslav Seifert, e tant’altri).

Halas “è il più barocco tra i lirici boemi”* di quel periodo… è poeta autunnale… e comprendete allora perché alla fine della sua vita Ripellino intitolò la sua raccolta Autunnale barocco; questi conobbe e frequentò il poeta, e così ce lo descrive:”  Lo ricordo negli ultimi mesi, quando ormai andava da stregoni e da semplicisti in cerca di guarigione: ricordo i suoi trasognati occhi cerulei. L’alta fronte con un organetto di rughe. Dopo il colpo di stato del febbraio del 1948, mentre lo stalinismo già volpeggiava negli arcani casamenti di Kafka, Halas deluso e spaurito del baratro in cui il comunismo veniva precipitando, ripeteva agli amici < Ho ingannato la gente >. Si spense il 27 ottobre 1949 a Praga ”.*

Quell’ “alta fronte con un organetto di rughe” veniva sempre messa in risalto dal disegnatore caricaturista Adolf Hoffmeister, quando ritraeva il poeta. Il poeta era nato a Brno nel 1901, da una famiglia operaia molto indigente. Lavorò come commesso in una libreria di Brno. Questo lavorò gli permise di conoscere alcuni poeti importanti, come Jiří Mahen, caposcuola dei poeti di Brno.

Halas occupa nella poesia ceca del secolo scorso un posto di primaria importanza, e per “il culto della parola” tra i primissimi in Europa. Per questo lo accosto a Mallarmè, Hugo Hofmansthal, Paul Valéry.

Quasi sicuramente la prima notizia in Italia che abbiamo di Halas si deve a Wolf Giusti che sulla Rivista di letterature slave pubblicò in italiano due poesie del poeta; la prima dal titolo Seppia (che da il titolo alla raccolta Sepie, 1927); e la seconda dal titolo Le paludi masuriane. – Nel 1942 invece Luigi Salvini traduce una poesia dal titolo Il Riconoscimento nell’antologia Il “Corallo” di San Venceslao.  Poi nel 1949 A. M. Ripellino sulla rivista Europa Nuova pubblica in italiano due poesie tratte dalla raccolta Il gallo spaventa la morte (1930), (per queste tre informazioni, di cui avevo perso memoria, ringrazio l’amico boemista Giuseppe Dierna)…..

František Halas con Vladimir Holan

František Halas con Vladimir Holan

…e finalmente nel 1950 viene da A. M. R. pubblicata a Roma una Storia della poesia ceca contemporanea, Le edizioni D’Argo, in 400 esemplari; possiedo gli esemplari nn. 310 e 311; all’interno di questo testo si trova “Halas e il culto della parola” che è il titolo del paragrafo alle pp. 58-65. Dedica questa sua opera  A Ela [sua consorte]  e agli amici del Gruppo 42, poi ringrazia critici, pittori, poeti… in tutto quindici autori (fra cui lo stesso Halas) e studiosi tra i più notevoli del panorama internazionale di allora; cito soltanto alcuni di rinomanza mondiale: Roman Jakobson, Vladimír Holan, František Hrubin, Jiří Kolař, Ludvík Kundera, Jaroslav Seifert, Karel Teige.

 Halas non disdegnò di far parte di movimenti artistici e correnti poetiche che animarono i primi anni del ‘900, a cominciare col Devětisil (è il nome di un fiore: il farfaraccio; che Majakovskij riferisce come “nove forze”, ma poi gli fu spiegato) e il Poetismo frequentato dai poeti, scrittori e artisti più importanti; alcuni di essi assursero a fama europea perché operarono con saggi e  traduzioni in lingua ceca dei maggiori poeti e artisti europei come Apollinaire e Cocteau, Breton, Max Ernst, ecc.; Karel Teige, p.e., il teorico del surrealismo ceco, fu uno dei primi a parlare di Majakovskij in  Europa!

Il Poetismo che inneggiava alla gioia della creazione e del progresso, “in realtà era d’una cupezza che sprofonda nella più nera disperazione”.*. Ne è testimonianza il poema Edison di V. Nezval.

Per chi voglia approfondire i rapporti tra i poeti-artisti-scrittori cechi e quelli del resto d’Europa rimando agli studi più recenti, esaurienti e puntigliosi, del boemista Giuseppe Dierna, oltre alla già citata Storia della poesia ceca contemporanea.

Halas, poi, a differenza di tanti altri poeti e artisti cechi non obbedì ai dettami dei poeti, p.e. in specie dei surrealisti francesi e da questi si distanziò, perché nello spirito ceco è nello stesso presente altamente la proprietà della ricezione per eventi culturali stranieri, come quella di una spiccatissima autonomia. Perciò tenne presente più l’eredità di un “antesignano dei poeti surrealisti cechi”  il maggior  poeta ceco, il romantico Karel Hynek Macha. E anche per questo fu anche un surrealista a modo suo “con una tecnica opposta a quella di Nezval ” * , (che non sto qui a spiegare); e pure fu un espressionista che si dedicò ai trionfi di figurazioni mortali in disfacimento, come con più competenza clinica operò il dottor  Gottfried Benn; ma è da George Trakl che trae linfa per quel lasciarsi andare, quasi alla deriva, intristito e illanguidito nello sfiorire dell’autunno.

Ma senza andare troppo fuori dalla Boemia (da questo fuori noi ricaviamo che ebbe rapporti simpatici con autori di un passato boemo – oltre che dai suoi contemporanei – che cantarono gli sfinimenti e gli sfasci mortali della vita… che se ne va sconfortata nei regni dell’ombra… questa anch’essa toccata dallo squallore di un corpo in disfacimento)… nel territorio boemo noi troviamo dunque l’humus ideale (in comune con altre figure boeme) per i suoi sollazzi ombrosi, tenebrosi, spazio dove il regna il silenziario indisturbato, dove la parola stessa sua incrina il culto che ha per essa… e il poeta è davvero negato allora al verticale, al sollevamento, a quell’elevarsi in alto, e mostra a tutto spiano la sua tendenza ad essere una creatura “orizzontale” *, come proprio dei defunti, e la poesia dal titolo Il cimitero ne è una conferma senza rimedio alcuno! “Solo in Naše Paní Božena Némcová [Nostra Signora Božena Némcová – celeberrima scrittrice dell’800] e in Ladění [Accordo] le parole… hanno un alone di luce non sfrangiata dal lutto, un lievito di fede” *.

František Halas

František Halas

Ma non pensate che il poeta si crogioli in questo nichilismo, in visioni funeree, in varie malubrità… egli sa bene che per vivificare la sua poesia deve in essa cambiare qualcosa (forse eliminare – almeno temporaneamente dal suo stile solito quegli inceppamenti, sconnessioni, antiche parole che fratturano il verso scomponendolo – retaggio cubistico -, per promuovere l’approccio a diverse tematiche) e difatti con la raccolta Staré ženy (Vecchie donne, 1935) si apre al mondo, come dire al prossimo sofferente e quindi canterà quelle donne: spose e madri che vivono il pesantissimo quotidiano e usa la tecnica della letania, che tra l’altro si avvale dell’anafora, così cara a Otokar Březina, poi a Nezval e altri; e mentre scrivo questa raccolta è qui davanti a me: è una edizione del 1947, che comprai a Praga nel 1973; è illustrata e fu pubblicata in 15 mila esemplari. Halas dedicò questa raccolta a un poeta e artista, Antonin Procházka e consorte; ed è una grande emozione toccare queste pagine. Ma non si può dire tutto, qui. Ma dirò della sua alta denuncia civile, del 1938, per alto tradimento dell’Europa occidentale, in specie della Francia (con cui in un passato prossimo c’era stata una specialissima intesa culturale!), nei confronti della sua terra nei versi de il Canto dell’angoscia… denuncia fu la svendita della sua patria al potere nazistico.

Halas compose altre raccolte di cui cito soltanto i titoli: Torso naděje (Torso di speranza, 1938), la prosa Já se tam vrátím (Io vi tornerò, 1939), Naše Paní Božena Némcová (Nostra Signora Božena Némcová, 1940), Ladění (Accordo, 1942), Znameni potopy (Il segnale dell’inizio, 1945),V řadě (In fila, 1948), la raccolta postuma A co? (Ebbene?, 1957).

(Antonio Sagredo)

Termino con alcuni suoi versi tratti da Znamení potopy (Il segnale del diluvio, 1945) :

È vero Voi vorreste
un granaio di grandi parole
e innanzi ad esso mucchi di corone

Vi piacerebbe meglio non vedere
il ripieno di morti che trabocca dalla trincea
e i gravitelli degli annegati

È vero Tutto si riduce a un giuoco
Col grembo Con le banconote
Buffoni Buffoni

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Poesie di František Halas
(le traduzioni dei versi di F. Halas sono di Angelo Maria Ripellino – in František Halas, Imagena, Einaudi 1971)
(dalla raccolta Sepie – Seppia, 1927)

Non voglio la primavera

Primavera agghindata stagione smeralda
spocchiosa primavera lunatica
tutti si affannano invano a cercare viole màmmole
non inghiottirò questa lusinga

Non voglio nemmeno sentire il chiacchierìo delle foglie
e non voglio bere ciò di cui nutri le gemme
solo questo mio autunno solo esso può cogliere
come sia rattrappito il lucignolo dello struggimento

.
La poesia

Migliaia di raggiri e imposture
trappola tesa nel buio
arte dello spionaggio
a cui ti abbandono da solo

seguendo le tue tracce e condannandoti
per i segreti svelati
punito soprattutto da te stesso
le tue liriche libro di lagnanze

Hai visto agonizzare la poesia per una parola andata a traverso
non morirà mai tuttavia
un giorno troverai le tue parole come il terno di una lotteria
e l’avrai vinta

Stretta è la rosa centifoglia dei poeti
ami soltanto quelli con lingua serpentina
di cui metà è querimonia di angeli
e metà assalto

Ultima Tule dove ti allontani
con dolcezza infinita per le cose che hai conosciuto
con voce tutta falsa congedandoti
dalla soave malsanía che ti ha perduto
(dalla raccolta Kohout plaší smrt – Il gallo spaventa la morte, 1930)

Il paesaggio da noi

Berlina è il cielo di questo paese
nel sonno irrompe un lémure impaziente
sui calvari senza croci il corallo dei sorbi si posa

Solo sulla testa dei bambini cade il rispetto delle luci
nella gorgiera della propria innocenza dormono quieti
vaga un viandante stringendo al cuore un àspide

Superbo un nero cavallo cammina per il firmamento
dalla criniera gli pendono colori morti
nere rose fatte di fulíggine

Una piccina rannicchiata tra le viole
le ali spiumate delle brutte spallucce si vergogna
spaventata dall’ombra del fumo

Principesse mutate in raganelle mangiano qui miosòtidi
Ombra di tigri le agghermiglia tra le canne
I bambini al tenue collo appendono velenosa ergotina di frumento

.
Versi

Malgrado la fortuna della vista
così cieco
malgrado il dono dell’udito
così sordo

Nel vento foglia nell’amore solo
nelle ragne uccello nella pioggia canto
nella rosa verme nella speranza dolo
nelle parole sangue nell’ugola pianto

Malgrado la fortuna della vista
così cieco
malgrado il dono dell’udito
così sordo

(dalla raccolta Tvař – Il volto, 1931)

.
Autunno

Cielo d’autunno da mille ali di uccelli vezzeggiato
con guazza di speranza inumidisci le nostre gole tese
gli occhi rivolti all’alto allarga con l’afflato
per nuove ahimè quanto apprensive attese

Osserva le oche spezzano contro la siepe le ali
quando grigie volano a mezzogiorno
immagine dell’anima che ha scorto per un attimo
la nota solo ai morti bellezza del ritorno

Scoppiate membrane di nebbie per albe immature
per la beltà che si aggira in sempre nuovi stupori
per gli alberi selvatici che non conobbero cure
e ancora acerbi serrarono le tenerezza dei fiori

(dalla raccolta Staré ženy –Vecchie donne, 1935)

*

Vecchie signore piene di buio e di trapasso
mani cadute nel grembo due morte cose incrociate
nel grembo nell’annoso palazzo della vita
o casa natía della vita casa natía fatiscente
il soppalco delle ginocchia è crollato soltanto lo squallore vi si annida
mie vecchie donne sonnecchianti sotto il mondo
grembi di vecchie donne
cisterna di gemiti e di lacrime infantili
sordine di singhiozzi maschili
voi grembi di vecchie donne
culle vuote
giacigli raggelati
sepolcri di attimi d’amore
incantesimi disincantati
custodie di misere ossa
nascondigli di gesti dimenticati
padiglioni schiantati
luoghi di roghi spulati
ospizi del rosario
acconti abbandonati dei futuri

voi grembi di vecchie donne
nessuna testa li allevia
strati di afflizioni vi si ammucchiano
delizia mutata in niente dagli anni
solo il palmo degli sfaceli vi sémina
voi grembi di vecchie donne
non reggerebbero più il peso dell’amore
un morente non vi esalerebbe l’ultimo fiato
e un lattante scoppierebbe in pianto
perché l’ossuta li assídera
voi grembi di vecchie donne
gèmina felicità delle gambe a malapena saldata
e la gloriosa incubatrice della vita è raggelata
voi grembi di vecchie donne

(dalla raccolta Dokoran – Spalancato, 1936)

František Halas

František Halas

Nella pioggia

La tibia di un ramo dalla tomba della notte sporge
la pioggia risuona quest’arpa di Mácha
mia amara lunare misericorde
mia corda di sangue purpurea
Ora in pesanti pezzi cade il buio
l’albero trema deserto di foglie
caduta è la rocca dei sogni e si erge un nudo muro
schiccherato dalla compassione

(dalla raccolta Naše Paní Božena Némcová – Nostra Signora Božena Némcová 1940)

.
Morte di nostra Signora

Sono spalancate le finestre e si sente la morte sbadigliare
L’anima è fuggita più leggera della luce su un foglietto
La guardia dei ceri raddrizza le lance vibratili

La favella nel cuore languisce. Silenti piangenti
Se ne vanno le lavatrici dei morti

Dorme defunta è gialla crivellata
E la stella Diana sul suo capo
Seminare vorrebbe un ovario di collera

(dalla raccolta postuma A co? – Ebbene, 1957)

.
Quando la bomba esploderà

Striscerà più lontano
solcando la melma
Si aprirà
Una conchiglia
Pallido sesso delle acque
Tutto comincerà di nuovo
tra l’apatía dei primi pesci
e le stelle
plàncton dei poeti antichi
si scrolleranno dal tedio
nel tempio delle galassie

(dalla raccolta Znameni potopy – Il segnale del diluvio, 1945)

*

Umide macchie crescono sui muri
nei buchi della fame nei rifugi della fame
si approssima il Diluvio

Con muffa di broccato
con ghiacciato lezzo dei cadaveri
con purulenza vaiolosa

la mia ingordigia disegno sui muri
sul volto dei poveri pongo una granfia

Ormai si approssima il Diluvio

Antonio Sagredo

Antonio Sagredo

Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Antonio Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza.

La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984,(pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).

Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).

Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. A. Di Paola e K. Zoufalová.

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TRE POEMETTI di Milan Nápravník da “Il nido del buio” “Ruggine di sangue”, “Samovar siamese”, “All’imbrunire”, traduzione dal ceco di Antonio Parente

Foto Bronislava Nijinska by Man Ray, 1922; November 1922Milan Nápravník Il nido del buio traduzione dal ceco di Antonio Parente Mimesis Hebenon, 2009 pp. 124 € 13

   MILAN NÁPRAVNÍK nasce in Cecoslovacchia nel 1931 e da circa quarant’anni vive in Germania. Conseguita a Praga la maturità scientifica, lavorò per un anno nelle miniere d’oro di Jílové, vicino Praga, dopo essere stato etichettato, essendo uno studente appassionato di jazz, come un “ammiratore dello stile di vita americano”. Dal 1952 al 1957 studiò drammaturgia alla Facoltà di Studi cinematografici dell’Accademia delle arti performative di Praga. Dopo tre anni di lavori provvisori, nel 1960 iniziò a lavorare alla Televisione cecoslovacca come direttore artistico della redazione per le Trasmissioni per bambini e ragazzi. Dalla seconda metà degli anni 1950 collaborò con il Gruppo surrealista di Praga, la cui attività non fu immune da intrichi perpetrati dalla polizia segreta e i cui tentativi di  esporre o pubblicare le proprie opere furono ostacolati dai divieti delle Autorità. Fece il suo debutto letterario nel 1966 con la raccolta Básně, návěstí a pohyby (Poesie, avvisi e movenze), pubblicata privatamente e in numero limitato nell’edizione Speciálky dal pittore František Muzika.  Emigrò dopo l’occupazione sovietica del 1968, dapprima a Berlino occidentale per alcuni mesi e successivamente a Parigi. Dal 1970 si è stabilito definitivamente a Colonia. Duranti gli anni dell’esilio, lavorò prima come redattore radiofonico e successivamente, dalla metà degli anni 1980, come pittore, scultore e fotografo artistico freelance.

Praga

Praga

Nel 1977 ha scoperto l’originale metodo fotografico dell’inversaggio: “l’unione inversa di parti bilateralmente simmetriche” di una struttura naturale (cortecce, pietre, ecc.). Nel 1978 organizzò a Bochum, in Germania, un’ampia mostra internazionale dell’arte surrealista e immaginativa, Imaginace (Immaginazione). Ha soggiornato più volte per lunghi periodi in Indonesia, dove ha portato avanti studi etnografici sulle isole Borneo (Kalimantan), Giava, Sulawesi, Bali e Nuova Guinea (Irian Jaja). Ha scritto varie opere poetiche, dalle quali è possibile tracciare lo sviluppo della sua arte, a partire dagli esperimenti linguistici, che sottolineano il carattere emozionale dell’espressione e dell’attività poetiche, fino alla poetica plasmata dalla contemplazione, che registra il movimento della realtà interiore. Quello che al momento è possibile considerare  il culmine dell’opera di Nápravník, l’opus magnum Příznaky pouště (Deserte visioni, 2001), è una vasta parabola sul minaccioso stato della civiltà contemporanea; contro il nostro mondo inquinato e sovrappopolato, contro l’aggressività e le tendenze distruttive, si pone il flusso iettatorio di pensieri e immagini della vita interiore, – “l’assiduo tentativo del narratore di conservare desideri, speranze, amore e immaginazione,  ‘e di non lasciare che alle nostre spalle le vie dei nostri desideri si coprano d’erba’ (A. Breton) e ciò nonostante tutto il pessimismo di Nápravník.” (rivista Tvar, aprile 2002). È autore anche di vari studi e saggi teorici. Negli anni 1990, suscitarono grande interesse alcuni suoi saggi dove metteva a frutto lo studio sistematico pluriennale nel campo della storia delle religioni.

(Antonio Parente)

Praga Agosto 1968 i tank sovietici sono nelle strade di Praga una ragazza fischia gli invasori

Praga Agosto 1968 i tank sovietici sono nelle strade di Praga una ragazza fischia gli invasori

Milan Napravnik

Milan Napravnik

RUGGINE DI SANGUE

Nebbie autunnali sfumano nelle vallate di ogni supplica
Soffi di vento schivo si spargono in baratri d’erba
E solo le canne d’india si raddrizzano
Quando sentono la parola forse
Oppure la parola spero
La realtà però nel frattempo si è ammantata di brina
E una lontana risata che frana dai monti
Sul granito dei rupi rocciosi si frange in grida
Che si accrescono nel vento degli echi come cellule maligne
in metastasi d’impotenza

Persino la roccia clastica di errori e proprie limitazioni
È capace di sanguinare
Sospesa sul proprio essere su rugginosi ganci di dolore
Il suo capo stanco pieno di domande che sobbalzano confusamente
fa cenni indecisi su tutti i lati
Non è chiaro se si tratti di un’espressione di assenso o di disaccordo
Invano ricorda il posto al caldo nell’incrinatura del contesto
Dove una volta inalava l’odore dei cespi di spigo
E osservava le eleganti movenze della mantide religiosa
Che ricambiava il suo sguardo con ostentose simpatie
Come può dimostrare soltanto una serva sanitaria
alla lampante sfortuna
Del resto la sua ingordigia risanata sa bene
Ciò che si è indebolito e non può null’altro che ruggine
Chiunque fissi è condannato a morte

Il primo gelo porta il romantico bestiame dai monti
Verso la valle della realtà
Sfuggenti profezie che strisciano tra le rovine del convento
I cui abitanti sembra si fossero un tempo sterminati da soli
mordendosi a vicenda i peni
E questo dimenticato anfratto dei Pirenei
Dove fortunatamente non porta più nessun cammino
Percepisce il loro mormorio funesto
Come un magico ologramma per lo stoccaggio di quanti
di orrore contrattato

Mentre il vento autunnale lo barcolla di speranza in speranza
Mentre le arterie coronariche sono costrette dal gelo
Questo fantasma si aggira coi ganci tra le costole
Con le pietre delle illusioni nello stomaco
E con in pugno i cristalli di ghiaccio del proprio seme
Accecato dal dolore
E schiacciato dal peso di propositi derisi
Come incarnazione di uno stupido Minotauro
Nell’infinita spirale della poesia
Che ingorda continua a divorare i propri figli

Sì è un poeta
Lo certificano centinaia di pedate
Che ha incassato direttamente in faccia
Alcuni coltelli alle spalle
E le profonde ferite per le frustate di derisione
Poiché ha peccato contro il pio e sensato alternarsi
dei giorni e delle notti
Dei giorni zeppi di proficuo lavoro
Della lotta per il potere
E della costruzione di argini contro la paura archetipica
di un’esistenza senza ripe
Poiché cocciutamente sostiene che all’irrazionalità del desiderio
Di libertà e amore
Si deve in ogni circostanza sacrificare
qualsiasi razionalità di arricchimento

È una torbida mattina di un settembre macchiato
Una giornata di pallida lama
Dall’ancor caldo giaciglio si diffonde l’aroma della notte vegliata
Il lenzuolo è coperto di spine di rosa sanguinanti
Oltre la finestra imbrunisce
E la colonna della pallida cella
È coperta dall’edera immune dell’implacabile disprezzo

Milan Napravnik Il nido del buio
SAMOVAR SIAMESE

Mentre vagabonda per il mercato
Dalle tasche bucate gli scorrono zolle di silenzio
Scruta le crudeli palle d’oro
E le collane di diamanti di pretzel appesi al filo
della magia nera
La vecchietta in cappotto che vende mobili Luigi XIV
Frammenti di macchinette
Lunghi sipari di facezie
Curvi bilancieri iridescenti tubi degli obblighi e un coltello patrizio
Poi stringe la mano al venditore di baccani
E si ferma davanti alla mostra di specchi scannatori
Dall’amico Jean-Louis Bedouin uomo dal vino amaro
E dal carattere forte
Armadi di umorismo schietto e di rabbia creativa
Je n’écris rien au cours de douze ans! urla
con disperata alterigia
Je n’ai pas perdu l’usage de mom sens!

Mon sens
Si fa strada nel labirinto di cerchi veneziani
E dà una scorsa a libri di autori ignoti
che immolarono ai propri scritti tutto il loro sangue
S’incurva di cordoglio per l’eccedenza di chiavi
Per la brillantezza delle lucerne delle barche
Per le scatole di fotografie brunite di sconosciuti bruniti
Palpeggiate consunte e ingiallite
Per i documenti di bruniti destini e speranze
Che ancor oggi vanno a fargli visita in sogno
Qui si trovano anche schiere di cent’occhi di bottiglie più disparate
Mare di spezie
Lacrime di strumenti d’ottone per conciare i palmi
E casse e riviste opache che ricordano i tempi di una volta

Non ha ancora fame ma già lo stuzzicano con crauti e senape
Qui c’è anche una credenza stile impero del diciannovesimo secolo
E un antico cassettone su cui posò la mano Mirabeau
Alcuni abiti difettati
Un calamaio di stagno e un frac piomboso
Le grezzi reti di bimbi sgomenti accecati dalle curve
Che sottraggono la lesina
Scogli d’intralcio lame di morti muraglie agglomerate
E profezie
Che lo illudono che incontrerà una donna
Con la quale potrebbe fondersi per dar vita ad una creatura androgena
Senza dover per questo perderla
Soltanto astiose profezie che simulano grandine dorata
Astiosa sfera dell’impossibile

Certo
Tutto è solo ciarpame
Le grezze scodelle per il male hanno migliaia di anni
Così come i ciottoli di agata
Lo zolfo postumo dei sogni
Dune di morte e vento nel non lontano cimetière de Batignolles
dove riposa il siderale André Breton
La curva del girasole
Che segue la luce della Luna da sud a nord
Il cratere della solitudine nel bel mezzo di monti forestieri
Pietra-stella
L’oro del tempo
L’istinto sovversivo dei geni creativi
L’acciaio degli spari
L’infinita preghiera della poesia all’infinita indifferenza dell’essere

Che farne delle angosce che nessuno vuole?
Non si può pagare qualcosa in più affinché qualcuno le porti via da lui
Non le si possono regalare a meno che il regalo non debba somigliare ad un assassinio
Non ci si può far strada da vedenti attraverso i vicoli ciechi
Alla fine del cimitero compra la statua spezzata del figlio
Veritiera solo perché
È senza testa

milan napravnik cop

ALL’IMBRUNIRE

È l’ora dell’eterna notte
Alcuni sono morti altri sono usciti barcollando dal cinematografo
pallidi come lenzuoli
Una foglia d’acero ha traslocato lungo il marciapiede
Dal tavolato di un bar sbarrato al negozio di generi alimentari
Ha danzato tra piedi pazientemente in fila
per un pezzo di carne
È salita all’altezza del primo piano di un fatiscente casamento
Ha dato un’occhiata alla stantia camera da letto degli amanti
Ha volteggiato oltre i fili del tram fino al recinto-orinatoio
E da lì via verso la grande lavanderia esalante il tanfo di sapone
Finché non si attaccò alla cornice del negozio
dove si vendono teste di gesso

Croci ornamentali ad uncini e senza
Semplici convinzioni e istruzioni per strangolare i miscredenti
Al negozio
Dove ogni acquirente è accolto con un dirugginio di denti
in caso
Avesse intenzione di chiedere il prezzo reale
di questa merce vergognosa

Come un animale randagio
Un cane senza litorale
Scalciato da ogni tempo nell’inguine scheletrico
Che si nasconde in biblioteche e musei inariditi
Animale senza seta ma compagno perseverante degli incubi notturni
Striscia per le gallerie di quadri lungo ritratti di nuvole morte
Lungo nature morti olandesi con la frutta fresca e una mosca
Lungo paesaggi roccoco scintillanti di sole
e popolati di pastori di pecore
Lungo battaglie navali dove gli eroi assassinati
cadono pittoreschi dal ponte di navi da guerra
In onde marine dipinte con maestria
E lungo visioni incurvate dei santi dipinti
Dell’altare di pingui cardinali
e macilenti eremiti
Di fetide monache con le fiche ricucite
Tutto in un sol boccone di manipolazione estetica
Nulla solo l’Arte un’unica e sola stronzata una truffa
Tutto solo un unico e solo aborto della civiltà

Mi dispiace, signor Péret
I tuoi tentativi di riconciliare la poesia con la lotta sui monti catalani
non hanno avuto successo
Non ti sei mai tradito ma i tuoi occhi mi raccontavano la storia
Le gocce di sangue anarchico sulla foglia di fragola riverberavano di purezza
Come il sole nel calice di Rémy Martin
Che bevemmo in primavera in un bar
della rumorosa Place Blanche
Non potevi morire con un’espressione di soddisfazione
Solo scomparire con tristezza
Meraviglioso amico dell’inflessibile disperazione
Sei vissuto sul solatio di un intelletto come oggi
non ci tocca più
Del quale sappiamo solo grazie alle testimonianze dei nostri antenati
Testimoni aviti di una tradizione remota
Viviamo al gelo
Il cielo è eternamente coperto da un triplo strato di nubi
La città è soffocata da veli di grevi zeli
E dal timore del quotidiano stritolamento dell’inutile desiderio

Leggende dappertutto crude come la carne sui ganci delle sale
alle tre e mezzo di mattina
Non si può raccontare una storia che scaturisce dalla struttura
molecolare del vino
Le inesauribili sfere di piselli con un mormorio si mescolano
al vello stradale
Dove ci sono i caffè c’è anche il caffè da asporto e le cartine di catene
Punte di seni cresciuti sulle conchiglie del tempo
L’incantevole patina di rosa
Le graticce marine di svettati come un bicchiere di Bordeaux
Se dico graticce intendo graticce
Non la fine del mondo
E nemmeno memorie astanti di cerchi alla mano e cravatte orbe
Qualche cancello di interminabili campi di patate
Rime guaste di colla
Indescrivibili cortocircuiti di sterco
E le selvagge carceri della metro che sfumano nel buio dietro ciglia
aggettanti
I tunnel affondano nella terra

Pourquoi j’écris moi-même?
Dis-moi reflet de cobalt
Pourquoi le vol de corbeaux qui t’entoure
comme le charbon étreint le feu?
Non conosco la ragione del mio respiro
Né la mia passione per le fiamme che di solito spegne la birra della ragione
Tanto meno l’indirizzo dei miei destinatari
Ad ogni modo dicono che ce ne siano pochissimi
Sembra che alcuni siano irrintracciabili
Alcuni non ne hanno il coraggio
Altri hanno fretta
Altri forse non sanno leggere
Ma la maggior parte è in effetti defunta dalla nascita

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EDISON di Vítĕzslav Nezval (1900-1958) POEMA IN CINQUE CANTI a cura di Antonio Sagredo

Vítezslav NEZVAL , pí. BRETONOVÁ , André BRETON , Paul ELUARD ,Josef SŠÍMA , Adolf HOFFMEISTER

Vítezslav NEZVAL , pí. BRETONOVÁ , André BRETON , Paul ELUARD ,Josef SŠÍMA , Adolf HOFFMEISTER

Il poema in cinque canti Edison del poeta ceco Vítĕzslav Nezval (1900-1958) fu concepito nell’autunno del 1927. Fu pubblicato per la prima volta a Praga nell’estate del 1928. Nel 1930 fu inserito assieme ad altri poemi nel volume Básnĕ noci (Poesie della notte) dedicato, non a caso, alla memoria del poeta moravo Otokar Březina.

      Nezval ha un avvio poetico danzante, giocoso, spumeggiante, rutilante, spensierato, così come i suoi compagni di strada che si riuniscono in un gruppo denominato Devĕtsil (farfaraccio, chè una pianta con foglie grigiastre e pelose e fiori piccoli di color rosa o bianco).

      Il Devĕtsil esalta la poesia proletaria, poiché l’eco della rivoluzione russa ridesta nuove forze creatrici che percorrono tutte le generazioni europee. Perciò il Devĕtsil attinge a mani spiegate dalle avanguardie artistiche straniere il culto della tecnica e della elettricità, della macchina e del movimento, e pure dagli sperimentalismi pittorici (cubismo) e da quelli poetico-linguistici (parzialmente dal futurismo italiano con Martinetti nel 1921 e molto dal futurismo russo tramite Roman Jakobson a   Praga nel 1920).

   Si esalta questo gruppo di poeti per il cinematografo muto, per  il western americano e il circo (come i russi), e per i nuovi toni musicali e architettonici e infine per la scultura tutta fondata sul moto continuo della forma. Ma è che tutte le arti sono esaltate.  Il Devĕtsil è formato dunque da poeti, pittori, scrittori, registi, saggisti, caricaturisti, critici d’arte e letterari, architetti, ecc.

Vitezslav Nezval con Soupault 1928

Vitezslav Nezval con Soupault 1928

  La poesia ceca contemporanea nasce dalla poesia Zone di Apollinaire (che fu a Praga nel 1902) tradotta da Karel Čapek:. La pittura, invece, tramite il gruppo Osma – che si rifaceva a Munch – si accosta a Picasso e Braque con i pittori  Filla, Kubišta e Zrzavý. Nezval, dunque, visse questa iniziale fase ottimistica e ardimentosa – e pure vitalistica perché protesa verso il sociale – che indifferentemente riuniva maestri come Rimbaud (colore-parola) e Jarry (le stramberie circensi) e gli esperimenti del dada.

      Questi entusiasmi trovarono le atmosfere adatte nei caffè praghesi, specie allo Slavie, dove infatti nacque il Poetismo, nel 1924, che mise fine all’epoca del Devĕtsil, il quale s’era dimostrato fin troppo “programmatico, pesante gioco, qualcosa come una pratica ascetica e una grave regola che escludeva dalla  gioia della vita i suoi mali assortiti adepti” (F. X. Šalda). E allora i poeti e gli artisti cominciarono a “trascurare la tematica sociale e l’elemento didascalico e concentrarono la loro attenzione sulla forma e sul puro gioco delle metafore” (A. M. Ripellino).

   Questo nuovo orientamento era straordinariamente confacente allo spirito di Nezval, e perciò ecco scaturire dal suo canto le irrefrenabili e rutilanti metafore, i giochi acrobatici tra parole, associazioni da vertigine e analogie impensabili; in tutto questo circo delle parole la pantomima nezvaliana è felicemente pazza, non si decanta, è perennemente in moto; e poi, ancora, come cascate di fuochi d’artificio l’uso ossessionante delle anafore (che già Březina  usava) che stordiscono il lettore e lo conducono in paesi lontani, esotici, in una sorta di piani sovrapposti, musicali e colorati; e come in una scatola magica: visioni inesprimibili e indicibili.

       Furono questi poetisti “cavalieri dell’immagine” che vollero vivere la vita come era effettivamente nei loro sogni immagnifici, e non vollero subirla affatto; e tutto ciò che era stato vitale nel Devĕtsil fu ripreso, non per dire e affermare con parole teoriche e vuote, ma per vivere concretamente con atti, con gesti, con reali viaggi (il poeta Biebl, p.e., si recò a Giava).

Vitezlav Nezval al Louvre

Vitezslav Nezval

Nei versi di Nezval  c’è tutto questo amore, passione per il corpo in giro per il mondo, come l’elettricità che collega, comunica con l’America, con Parigi, con l’Africa… così nel suo teatrale  Depeše na kolečdkách (Dispacci a rotelle), che una compagnia teatrale universitaria (gli Skomorochi) mise in scena nel 1971, a Roma,  al teatro Abaco – diretta dal Ripellino.

   Ma, al contrario di quanto pensava il teorico del gruppo Karel Teige, questi avventurosi spostamenti, mascheramenti, questi indiavolati viaggi – vere e proprie metafore geografiche (stupende quelle di Majakovskij), assillanti peregrinazioni reali o immaginarie – nascondono una certa angoscia, angustia, timore, perdita della quiete… e il poeta Halas detta: muffa, putrefazione, ossa, atmosfere meste, dolorose, insanguinate.

      A tre anni, dunque, dalla nascita del Poetismo, il poema Edison “poesia d’incubi”(?) , costringe  Nezval ad accostarsi alla prigione lunare – romantica/byroniana – di Karel Hynek Mácha, al canto cosmico di Otokar Březina, alle ballate indicibili e paurose di Karel Jaromír Erben.  È che Nezval ha bevuto troppo alla coppa dell’ebrezza, ma la sua metafora non perde vigore, efficacia, invece assume una più pesante corposità: è martellante come prima, ma non è più spumante, e diviene un  gravido e denso vino rossastro, che in controluce genera fluttuanti colori non più vivaci, e quindi: il viola, il marrone, il verdastro, il bianco spettrale e lattescente, un grigiastro mercurio: è il nuovo immaginoso congegno del poeta che stavolta smaschera, incide, deforma la realtà. La  sua visione è adesso la fuga, un non ritorno.

      L’Edison  è tutto questo: una  macchina senza moto, elettricità che è trucco e non più gioia: fa male comunicare: troppe tragedie in atto; e allora non più la felicità universale, ma il vacuum cosmico. La pantomima di Nezval s’incrina e s’avvia ad incontrare la poesia funebre e metafisica boema di secoli prima, ma che proprio dal 1927 (anno dell’Edison) al 1945 celebrerà di nuovo, come una volta, ancora i suoi fasti.

      L’Edison è una stralunata, beffarda ombra, suicida e assassina allo stesso tempo… è simile al reale fittizio, che senza requie vela e disvela, del poeta russo Alexander Blok! – La città di Praga è una “baccante di neve” che si specchia vanamente nel suo fiume, nero, la Vltava, poiché non si riconosce se non come ubriaca prostituta, vomito variopinto di luci riflesse, viandante insensato che fissa una stella… inebetito… impiccato che oscillando vuole cantare versi, ma strozzati!

        Praga-America-Praga… e il viaggio è compiuto – se viaggio c’è stato – finito in un bicchiere d’alcool sui banchi umidi dei bar, sulle stelle avvelenate, sulla neve non più candida… e sotto i ponti di un fiume oramai torbido e desideroso di nuovi suicidi.   Il caleidoscopio coloratissimo delle forme barocche – ma come viste da una vetrata gotica – dell’Edison  è macchiato dai sogni impossibili di chi è destinato a divenire l’ombra di una pantomima che si strazia e si tortura.

(pubblicato nella rivista “L’Ozio” 3, gennaio-aprile 1987, traduzione di Antonio Sagredo) -(D.P.A.)

vitezlav nezval cartolina

vitezslav nezval

1° Canto

Le nostre vite sono tristi come il pianto
Una volta, verso sera, usciva da una bisca un giocatore
nevicava, fuori, sopra gli ostensori dei bar
l’aria era umida poiché si avvicinava la primavera
ma la notte sussultava come una prateria
sotto le granate dell’artiglieria delle stelle
le ascoltavano sugli umidi tavoli
ubriachi curvi su bicchieri d’alcool
donne seminude con penne di pavone
malinconici come i tramonti

Ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte.

Ritornavo a casa passando per il ponte delle Legioni
cantando in segreto un motivetto
ubriaco di luci notturne delle barche sulla Vltava
il duomo di Hradčany sonava le dodici esatte
mezzanotte di morte la stella del mio orizzonte
in questa umida notte di fine febbraio

Ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte.

Chinandomi dal ponte io vidi un’ombra
l’ombra del suicida che cadeva negli abissi
ma c’era qualcosa di opprimente che piangeva
era l’ombra e la tristezza di un giocatore d’azzardo
gli dissi signore per carità chi è lei
con una voce triste mi rispose nessun giocatore
ma c’era qualcosa di triste che taceva
ed era un’ombra che sporgeva come una forca
un’ombra che cadeva dal ponte gridai ah, no!
voi non siete un giocatore! no, voi siete un suicida
Andavamo tenendoci per mano, salvi
andavamo mano nella mano trasognati
fuori città, verso la periferia di Košiře
ci salutavano da lontano ventagli notturni
danzavano gli alcools sui chioschi della tristezza
andavamo mano nella mano insieme taciturni

ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte.

Aprii la porta e accesi il gas
portai a dormire la mia ombra della strada
dissi signore per noi due questo è sufficiente
ma non era più l’ombra del mio giocatore
era soltanto un fantasma o una illusione?
me ne stavo solo nel mio solito cantuccio

ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte.

Mi sedetti dietro un tavolo sopra un cumulo di libri
dalla finestra osserva come cade la neve
osserva i fiocchi come s’intrecciano in ghirlande
con la loro chimerica nostalgia
ubriaco di ombre inafferrabili
ubriaco di luci affondate nelle ombre
ubriaco di donne che inseguono sogni e serpenti
ubriaco di donne che seppelliscono la loro giovinezza
ubriaco di avventurose crudeli belle donne
ubriaco di voluttà e di schiume insanguinate
ubriaco di tutta la crudeltà che istiga e tortura
ubriaco di raccapricci e di lutti della vita e della morte

Mi dissi dimentica già le ombre
sfogliando giornali vecchi di una settimana
scorsi il grande ritratto di Edison
che affogava nel fetore della nera stampa
c’era accanto la sua più nuova invenzione
sedeva nel talare come un sacerdote medievale
ma c’era qualcosa di bello che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte

Vitĕzslav Nezval

Vitĕzslav Nezval

2° Canto

Le nostre vite spiccano come carcasse.
Una volta, verso sera, tornava un rapido
fra il Canada e il Michigan
attraverso gole di montagna di cui non so il nome
camminava lungo i corridoi un piccolo fattorino
col berretto calcato sugli occhi
ma c’era qualcosa di bello che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte

Suo padre era sarto calzolaio e spaccalegna
mercante di grano aveva una capanna una soffitta una cantina
ed un eterno girovagare che tanto ci seduce
morì di malinconia per la sua terra e di giovanile tristezza

Papà tu sapevi cos’è l’eterno struggimento
oggi di te non c’è che cenere stella o lampo
papà, tu sapevi che dovunque ci sono dei villani
fra i santi e i tagliaboschi
tu hai conosciuto i vagabondaggi e la fame
vorrei morire come te anche giovane e insolente
ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte

Io non so dove e se hai una tomba
è rimasto del tuo sangue soltanto un orfanello
guarda già in Canada sillaba i tuoi libri
guarda già si rallegra di andare a vedere le corse
guarda già legge le biografie famose
l’enciclopedia e le antiche epopee
guarda è già adolescente guarda come il tempo passa presto
guarda non gioca più: legge libri di chimica

Anch’io spesso da bambino sono stato un eroe
anch’io leggevo i libri di Darwin
anch’io giocavo più seriamente degli altri
con l’acido solforico nel piccolo laboratorio scolastico
col catalizzatore e l’ammoniaca con la bobina rumkorf
ma perché volevo essere anch’io un suonatore d’arpa
ma perché amavo anche l’organetto
ma perché giocavo anche alle favole
che mi è rimasto qualcosa di opprimente che straziava
tristezza e lamento della vita e della morte

Tommaso tu non eri un homme de métier
tu hai letto “l’analisi della malinconia”
anche tu hai conosciuto il dolore la tristezza il lamento e l’amore
nei libri, a Detroit, fra migliaia di volumi
anche tu hai sognato di viaggi per mare
nel tuo primitivo laboratorio
che hai agganciato alle carrozze di un treno merci
in cui hai arricciato le ali di uccelli di carta
GRAND TRUNK HERALD! VELKÝ VESTNÍK in carrozza!
Componi! Stampa! Guerra! Scontri! Erosione!
Gridi appena uscito! Comprate! Nuove notizie!
Incendio in Canada e Piccolo corriere di Giava

ma c’era qualcosa di bello che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte.

Una volta ti sei gettato d’un tratto sotto le ruote
neppure un’anima viva tutt’intorno
ma già trascini il fanciullo tra i repulsori
hai salvato la sua vita e ricevi i miei ringraziamenti

Eccoti al lavoro nel calzaturificio
le macchine schizzano fuoco come vesuvi
su ogni scarpa quanto hai sospirato
so che hai ereditato l’inquietudine di tuo padre vagabondo

Giri come un facchino da un cortile all’altro,
una volta te ne sei andato deluso da New York
errando in questa metropoli americana
eri deciso a gettarti su qualsiasi cosa
forse allora giocavi a carte forse bevevi anche
forse là hai lasciato il meglio delle tue forze

ma c’era in questo qualcosa di bello che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte

Vitĕzslav Nezval

Vitĕzslav Nezval

3° Canto

Le nostre vite sono come circoli viziosi
una volta se ne andava per New York un avventuriero
era un pomeriggio col sole tiepido di maggio
un passante si fermò in silenzio su Broadway
davanti al palazzo West Union Telefraph
dove fischiava come su un quadro di distribuzione
era questo uno strillone e un grande inventore

Mille inventori hanno fatto crack
le stelle non deviarono dalle eterne traiettorie
guardate come vivono serenamente migliaia di uomini
no questo non è lavoro neppure energia
questa è un’avventura come sul mare
a chiudersi in un laboratorio
guardate come vivono serenamente migliaia di uomini
no questo non è lavoro questa è alchimia

Piccola domenica ah quanti rintocchi di campane
centralina senti i campanelli telefonici
i vostri orecchi ascoltano gli amanti
i defraudatori che discorrono di cambiali
i banditi californiani e i notturni assassini
i discorsi telefonici della Grande Praga

Il mondo gioca col vostro timpano
siete divenuto zampillo elettrico
fotomotori di uccelli meccanici
se ne vanno verso le stelle da dove vi ritornano
come dall’uccellatore all’angolo della periferia
annunciando la vostra gloria dai cartelli,
sonnecchiate cinque ore al giorno questo vi basta
in questo somigliate al giocatore d’azzardo

Ogni volta vivere di nuovo e avere una mania
una volta avete scorto in Pennsylvania
la notte e la lampada ad arco da Baker
avete provato la tristezza così come me ieri
sull’ultima pagina del mio romanzo
come un acrobata che attraversò la corda
come una madre che partorì il bambino
come il pescatore che tirò la rete gonfia
come l’amante dopo la dolce voluttà
come l’incedere dei cavalieri dopo la battaglia
come la campagna nell’ultimo giorno della vendemmia
come la stella che si spegne all’alba
come l’uomo che in un attimo perse la sua ombra
come Dio che ha creato la rosa, la notte e il giusquiamo
come Dio che desidera creare le nuove parole
come Dio che deve creare sempre di nuovo
impastando col suo respiro nuovi calici
fa precipitare la nuvola gonfia d’acqua sui campi arati
ma c’era in questo qualcosa che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte.
Una sera ai primi di ottobre di quell’anno
misuraste sconfortato il vostro grave passo
lungo il laboratorio del celebre Menlo-Park
fra i regali e la sua corrispondenza
fantasticando girando i pollici per abitudine
avete mescolato a caso i fili di carbonio
l’uccello delle nostri notti con cui a lungo vegliamo
la frusta dei fantasmi delle ombre con cui li cacciamo
i luminosi chirotteri delle passeggiate fantastiche
l’angelo sopra gli stemmi dei cantoni e dei portoni
la rosa dei ristoranti dei caffè e dei bar
le fontane sul viale nell’oscurità della notte
i rosari sopra i ponti dei fiumi delle metropoli
aureola di prostitute di strada
le corone sopra le ciminiere dei piroscafi
lagrime che stillano dalle altezze sopra i piani
sopra il catafalco delle città che le reprime
sopra gli edifici dei templi vecchie mummie
sopra i caffè dove vi sono anime scipite nel fumo
sopra gli specchietti dei vini, sopra il loro eterno inverno
sopra il catafalco della città di languide esalazioni
sopra la mia anima una chitarra scordata
su cui come un accattone delle luci dei sogni e dell’amore
suono e piango cambiando le maschere
con la passione del trovatore io principe e re vagabondo
di una città lussuriosa la famosa Balmoral
dalla sua celebre porta entro sempre nel sogno
attraverso il nero cordone dei miei sudditi e dei carcerati
dei principi delle stragi e delle isteriche carmagnole
delle fiacchere della pazzia e di ruote rabescate
di sadiche passioni per cui suonano le campane
di chimere volanti dai letti sopra i balconi
ubriaco di crudeli avventurose belle donne
ubriaco di voluttà e di schiume insanguinate
ubriaco di tutta la crudeltà che istiga e tortura
ubriaco di raccapricci e di lutti della vita e della morte

Vítězslav Nezval cop

4° Canto

Le nostre vite sono senza ritorno
agonizziamo nei rottami delle illuminazioni
come l’effimera e come i fulmini dei tuoni
già si librano le luci tra le foglie degli alberi
già freme nella neve il filo elettrico
già si avvicina il tempo delle passeggiate luminose
già cercheranno le anime sotto i raggi rontgen
come gli ittiosauri sotto il neogene
già si avvicina all’alba la lancetta d’oro
già siamo testimoni della cinematografia
già per noi schiacceranno gli interruttori
le spettrali ombre del giocatore d’azzardo
già risuonano i gridi e gli applausi
già Edison s’inchina ai suoi ospiti

Già è di nuovo triste l’anima dopo la festa
già siete nello studio e non ci sono più ospiti
quanti inventori hanno fatto crack
le stelle non deviarono dalle eterne traiettorie
guardate come migliaia di persone vivono serenamente
no, questo non è lavoro né energia
questa è un’avventura come sul mare
a chiudersi in un laboratorio
guardate come vivono serenamente migliaia di uomini
no questo non è lavoro questa è poesia

Questa è una intenzione e un po’ il caso
diventare il presidente del proprio popolo
diventare il poeta che superò tutti voi
diventare l’allodola che ruba il seme duracino
essere sempre un fortunato giocatore alla roulette
essere lo scopritore del settimo pianeta.

Migliaia di mele caddero sul naso del globo
e soltanto Newton ha saputo approfittare del suo bernoccolo
migliaia di uomini hanno avuto l’epilessia
e soltanto san Paolo vide i sacramenti
un migliaio di sordi vaga senza nome
e soltanto in uno di loro trovammo Beethoven
migliaia di pazzi già si trascinano verso l’oltremare
e soltanto Nerone seppe incendiare Roma
migliaia di invenzioni ci arrivano in un anno
soltanto in una di loro c’era già quella di Edison

Già di nuovo non dormire già di nuovo non avere certezze
già di nuovo bruciare tutto ciò che arriva alle mani
carbonizzare la iuta il pelo scimmiesco il bastone
le secche foglie delle palme le corde sulla viola
già di nuovo vagare nella propria incredulità
sopra il bambù del ventaglio giapponese
ahimè signore ahimè è questo un ventaglio d’amore
una volta ne avete ricevuto uno da una maschera sconosciuta
quando da giovane con lei vi incontraste al ballo
chi era ah signore rammentatevi
vi congedaste col suo profumo sul ventaglio
ah già di nuovo bruciare tutto ahimè già si contorce
forse era una delle vostre parche –
già di nuovo caricare la sveglia per la notte
già di nuovo con l’alambicco già di nuovo essere Colombo
già di nuovo organizzare la caccia fra i bambù
girare il mondo in lungo e largo
alla ricerca del magico legno del suo ventaglio
come un uomo che cercava quattro capelli d’oro
come un palombaro le perle fra le ombre delle alghe
come Cristo fra le tenebre della via Appia
come un cercatore della felicità tra le nebbie dell’oppio
come l’ebreo errante alla ricerca di una casa
come una madre che vaga dietro il cimitero
aspettando la voce dei bambini dell’oltretomba
come il lebbroso della sua malattia
come l’eremita assetato che cerca Iddio
come gli dei la propria morte quando hanno sete di epoche
come il poeta cieco il suo vero volto
come il viandante lo sguardo sull’aurora boreale
come il pazzo durante l’ultimo giorno del giudizio
come un bambino l’allodola impastando la zolla

Se ne sono andati in Brasile
in Giappone terra di belle magnolie
all’Avana a morire di malaria
come muoiono i missionari
signore avevate di certo un sorriso sul volto
la morte in agguato sotto il bambù
già si presentano per voi dodici sostituti
già si preparano i loro zaini
Mac Gowan trascorse là quasi due anni
si diresse verso il grande Rio delle Amazzoni
le sue acque non hanno né principio né fine
lottò per la vita spesso avventurosamente
sulle rapide di acque mortali
si batté al coltello con avidi cercatori d’oro
arrivando a New York sparì senza lasciare tracce

Come amarvi strade senza meta
voi notti tropicali ubriache di sole
voi luce delle luci voi notti del dolore
voi luci annegate in fondo al mare
voi che morivate così allegramente
divenite voi ora angeli di bambù
io vi ricordo ma chi ancora piange
già di nuovo produrre nuovi interruttori
già di nuovo immergersi in fondo agli alambicchi
già di nuovo avviare una nuova elica
guardate invecchiamo e il tempo passa così veloce
già di nuovo cercare gli elementi per la nuova alchimia
guardate invecchiamo e voi avete ottanta anni
guardate i vessilli come ai raduni dei sokol
le vostre pallide mani come un bianco gesso
no ah questo non è ancora un funerale

ancora vedersi sempre davanti la propria ombra
ancora scomporre gli elementi con gli acidi
ancora di nuovo in brandelli la pelle delle mani
ancora trovare un congegno per le strade verso l’oltretomba
ancora cantare e non avere mai pace
ancora l’ago magnetico per lo spirito umano
ancora dimenticare tutto ciò che strazia
tristezza e angoscia della vita e della morte

Vítězslav Nezval

Vítězslav Nezval

V Canto

Le nostre vite sono consolanti come il riso
Una volta di notte sedendo su un cumulo di libri
ho visto d’un tratto affogare nel fetore della nera stampa
la neve e un grande ritratto di Edison
fu dopo la mezzanotte d’un febbraio avanzato
che mi sorpresi a parlare con me stesso
come se mi fossi ubriacato con un forte vino
discorrevo con la mia ombra assente

Come risonava il refrain sempre qui con lo stesso tono
in punta di piedi m’avvicinai sino alla soglia del balcone
un mare di luci davanti a me palpitava in lontananza
sotto di esso gli uomini già dormivano nei loro letti
ma la notte sussultava come la prateria
sotto le granate dell’artiglieria delle stelle
ascoltavo in silenzio il rintocco delle torri
mirando da lontano le onde sui moli
ombre di suicidi per cui non c’è salvezza
ombre di vecchie puttane di strada
ombre di auto che hanno travolto ombre che camminano
ombre di miserabili che vagano senza tetto
ombre di gobbi ai crocicchi delle strade
ombre gonfiate di rosse ulcere sifilitiche
ombre di uccisi che vagheranno per sempre
intorno alle ombre della coscienza e alle ombre del delitto
ombre camuffate in divise militari
ombre di ubriachi sconvolti dall’amore
ombre di santi che diventarono poeti
ombre di coloro che invano hanno sempre amato
lamentose ombre di meteore di donne perdute
esili ombre di adultere principesse.

ma c’era qualcosa di bello che straziava
l’oblio sul lamento della vita e della morte.

Siate bella siate triste buona notte
più radiosa delle meteore e del loro potere
che un giorno abbiamo conosciuto nelle chiare notti canicolari
riflettori privi delle ombre come fruste
che ci fustigavano sino a una vertigine bruciante
arrivederci segnali che sulle rotaie
mi invitate alle lontananze come rose soffocanti
arrivederci stelle baci della mia anima
che mi aprite i bagni nei giardini
oscuri balsami e odore di garofani
viaggi sulle ali luminose degli aerei
arrivederci crudeli delizie di tanti Edison
sorgenti di pozzi petroliferi voi gloriosi razzi
nobili delle terra senza etichetta
arrivederci stelle che cadete dai bastioni
arrivederci ombre in lontananza sui lungofiumi
ombre del tempo per cui non c’è alcun rimedio
dolci ombre ombre di sogni e di ricordi
ombre azzurre del cielo negli occhi di una bella donna
ombre delle ombre delle stelle negli specchi di acque spumeggianti
ombre di sentimenti sinora senza nome
ombre fugaci come notturni echi
ombre pallide dal colorito opalescente
ombre di respiri di bambini non nati
ombre di madri che pregano per i loro figli
ombre di chimere lungo le città straniere
ombre di voluttà che turbano il sonno delle vedove
ombre di chimere e desiderio della propria casa
Siate bella siate crudele buon giorno
più bella delle meteore delle lagrime e dei giuramenti femminili
amore con cui siamo stati sulle vette delle montagne
raccogliendo i nidi delle stelle e le meteore
arrivederci più belle dei sogni e delle fate
già di nuovo caricare l’orologio per la notte
amico guarda quanti vivono serenamente
no questo non è lavoro questa è poesia

Già di nuovo cogliere nei sogni pallidi gigli
già di nuovo andare al café Slavia
già di nuovo sorbire il nero caffè quotidiano
già di nuovo avere nostalgia e piegare la testa
già di nuovo non dormire, non avere certezze
già di nuovo bruciare tutto ciò che arriva alle mani
già di nuovo udire i suoni di un pianto rattenuto
già di nuovo possedere l’ombra di un giocatore d’azzardo

Le nostre vite sono come la notte e il giorno
arrivederci stelle uccelli bocche delle donne
arrivederci morte sotto il biancospino in fiore
arrivederci addio arrivederci addio
arrivederci buona notte e buon giorno
buona notte
dolce sogno
Edison di Nezval: a. II, n. 3, gennaio-aprile 1987

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Poema in cinque canti “Edison” del poeta ceco Vitĕzslav Nezval (1900-1958) a cura di Antonio Sagredo – (Parte prima)

praga ponte carlo

praga ponte carlo

Il poema in cinque canti Edison del poeta ceco Vitĕzslav Nezval (1900-1958) fu concepito nell’autunno del 1927. Fu pubblicato per la prima volta a Praga nell’estate del 1928. Nel 1930 fu inserito assieme ad altri poemi nel volume Básnĕ noci (Poesie della notte) dedicato, non a caso, alla memoria del poeta moravo Otokar Březina. Nezval ha un avvio poetico danzante, giocoso, spumeggiante, rutilante, spensierato, così come i suoi compagni di strada che si riuniscono in un gruppo denominato Devĕtsil (farfaraccio, chè una pianta con foglie grigiastre e pelose e fiori piccoli di color rosa o bianco).

Il Devĕtsil esalta la poesia proletaria, poiché l’eco della rivoluzione russa ridesta nuove forze creatrici che percorrono tutte le generazioni europee. Perciò il Devĕtsil attinge a mani spiegate dalle avanguardie artistiche straniere il culto della tecnica e della elettricità, della macchina e del movimento, e pure dagli sperimentalismi pittorici (cubismo) e da quelli poetico-linguistici (parzialmente dal futurismo italiano con Martinetti nel 1921 e molto dal futurismo russo tramite Roman Jakobson a   Praga nel 1920). Si esalta questo gruppo di poeti per il cinematografo muto, per  il western americano e il circo (come i russi), e per i nuovi toni musicali e architettonici e infine per la scultura tutta fondata sul moto continuo della forma. Ma è che tutte le arti sono esaltate.

Praga

Praga

Il Devĕtsil è formato dunque da poeti, pittori, scrittori, registi, saggisti, caricaturisti, critici d’arte e letterari, architetti, ecc.  La poesia ceca contemporanea nasce dalla poesia Zone di Apollinaire (che fu a Praga nel 1902) tradotta da Karel Čapek:. La pittura, invece, tramite il gruppo Osma – che si rifaceva a Munch – si accosta a Picasso e Braque con i pittori  Filla, Kubišta e Zrzavý. Nezval, dunque, visse questa iniziale fase ottimistica e ardimentosa – e pure vitalistica perché protesa verso il sociale – che indifferentemente riuniva maestri come Rimbaud (colore-parola) e Jarry (le stramberie circensi) e gli esperimenti del dada. Questi entusiasmi trovarono le atmosfere adatte nei caffè praghesi, specie allo Slavie, dove infatti nacque il Poetismo, nel 1924, che mise fine all’epoca del Devĕtsil, il quale s’era dimostrato fin troppo “programmatico, pesante gioco, qualcosa come una pratica ascetica e una grave regola che escludeva dalla  gioia della vita i suoi mali assortiti adepti” (F. X. Šalda). E allora i poeti e gli artisti cominciarono a “trascurare la tematica sociale e l’elemento didascalico e concentrarono la loro attenzione sulla forma e sul puro gioco delle metafore” (A. M. Ripellino).

Questo nuovo orientamento era straordinariamente confacente allo spirito di Nezval, e perciò ecco scaturire dal suo canto le irrefrenabili e rutilanti metafore, i giochi acrobatici tra parole, associazioni da vertigine e analogie impensabili; in tutto questo circo delle parole la pantomima nezvaliana è felicemente pazza, non si decanta, è perennemente in moto; e poi, ancora, come cascate di fuochi d’artificio l’uso ossessionante delle anafore (che già Březina  usava) che stordiscono il lettore e lo conducono in paesi lontani, esotici, in una sorta di piani sovrapposti, musicali e colorati; e come in una scatola magica: visioni inesprimibili e indicibili.

Furono questi poetisti “cavalieri dell’immagine” che vollero vivere la vita come era effettivamente nei loro sogni immagnifici, e non vollero subirla affatto; e tutto ciò che era stato vitale nel Devĕtsil fu ripreso, non per dire e affermare con parole teoriche e vuote, ma per vivere concretamente con atti, con gesti, con reali viaggi (il poeta Biebl, p.e., si recò a Giava). Nei versi di Nezval  c’è tutto questo amore, passione per il corpo in giro per il mondo, come l’elettricità che collega, comunica con l’America, con Parigi, con l’Africa… così nel suo teatrale  Depeše na kolečdkách (Dispacci a rotelle), che una compagnia teatrale universitaria (gli Skomorochi) mise in scena nel 1971, a Roma,  al teatro Abaco – diretta dal Ripellino.

 

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

Ma, al contrario di quanto pensava il teorico del gruppo Karel Teige, questi avventurosi spostamenti, mascheramenti, questi indiavolati viaggi – vere e proprie metafore geografiche (stupende quelle di Majakovskij), assillanti peregrinazioni reali o immaginarie – nascondono una certa angoscia, angustia, timore, perdita della quiete… e il poeta Halas detta: muffa, putrefazione, ossa, atmosfere meste, dolorose, insanguinate.

A tre anni, dunque, dalla nascita del Poetismo, il poema Edison “poesia d’incubi”(?) , costringe  Nezval ad accostarsi alla prigione lunare – romantica/byroniana – di Karel Hynek Mácha, al canto cosmico di Otokar Březina, alle ballate indicibili e paurose di Karel Jaromír Erben.

È che Nezval ha bevuto troppo alla coppa dell’ebrezza, ma la sua metafora non perde vigore, efficacia, invece assume una più pesante corposità: è martellante come prima, ma non è più spumante, e diviene un  gravido e denso vino rossastro, che in controluce genera fluttuanti colori non più vivaci, e quindi: il viola, il marrone, il verdastro, il bianco spettrale e lattescente, un grigiastro mercurio: è il nuovo immaginoso congegno del poeta che stavolta smaschera, incide, deforma la realtà. La  sua visione è adesso la fuga, un non ritorno.

L’Edison  è tutto questo: una  macchina senza moto, elettricità che è trucco e non più gioia: fa male comunicare: troppe tragedie in atto; e allora non più la felicità universale, ma il vacuum cosmico. La pantomima di Nezval s’incrina e s’avvia ad incontrare la poesia funebre e metafisica boema di secoli prima, ma che proprio dal 1927 (anno dell’Edison) al 1945 celebrerà di nuovo, come una volta, ancora i suoi fasti.  L’Edison è una stralunata, beffarda ombra, suicida e assassina allo stesso tempo… è simile al reale fittizio, che senza requie vela e disvela, del poeta russo Alexander Blok!

La città di Praga è una “baccante di neve” che si specchia vanamente nel suo fiume, nero, la Vltava, poiché non si riconosce se non come ubriaca prostituta, vomito variopinto di luci riflesse, viandante insensato che fissa una stella… inebetito… impiccato che oscillando vuole cantare versi, ma strozzati! Praga-America-Praga… e il viaggio è compiuto – se viaggio c’è stato – finito in un bicchiere d’alcool sui banchi umidi dei bar, sulle stelle avvelenate, sulla neve non più candida… e sotto i ponti di un fiume oramai torbido e desideroso di nuovi suicidi. Il caleidoscopio coloratissimo delle forme barocche – ma come viste da una vetrata gotica – dell’Edison  è macchiato dai sogni impossibili di chi è destinato a divenire l’ombra di una pantomima che si strazia e si tortura.

Vitĕzslav Nezval 2

Vitĕzslav Nezval

 

Vítězslav Nezval piedi Le motivazioni ideologiche-politiche, invadenti tutta l’Europa di quei tempi, ebbero il sopravvento anche su quelle specificatamente culturali che agitavano poeti e artisti appartenenti a svariatissimi movimenti e correnti. Motivazioni che stabilirono tempi e metodi del distacco al momento opportuno tra gli stessi surrealisti nei rispettivi campi di indagine artistica; ma le polemiche e le incomprensioni che ne conseguirono coinvolsero anche tutti gli esponenti del surrealismo ceco, che si schierarono  contro o a favore di quello internazionale.

Nezval, pregato da Breton, di rientrare nel gruppo in nome di una unità da rifondare e riformare, rifiutò; il suo punto di vista era oramai completamente diverso e opposto anche da quello del teorico Karel Teige, che fu il corifeo che esportò per primo a Praga i dettami del  surrealismo internazionale, i quali assunsero poi aspetti tipici dell’arte, della cultura e tradizione boema. Nezval ebbe pure un grave dissidio col poeta František  Halas. Vi fu  inoltre un secondo surrealismo ceco che, dapprima clandestino (1942) divenne ufficiale nel 1946, a Brno; la sua fine avvenne nel 1949 a causa di una nuova ideologia e corso politico dominanti.

A differenza dei francesi, i surrealisti cechi non nutrirono mai un’assoluta e totale fiducia nel procedimento automatico-creativo, né furono rappresentanti estremisti di un surrealismo vago e fanatico fine a se stesso (d’altronde lo stesso Breton criticò chi si sentiva “troppo” surreale sino a smarrirsi completamente); né i cechi s’adoperarono per allontanarsi dalla vita reale quotidiana e dal sociale per poi  legarsi ad un’altra realtà che fosse puramente mentale.

(Antonio Sagredo)

Vítězslav Nezval piedi con corda 

 

Vitĕzslav Nezval

Vitĕzslav Nezval

Vítězslav Nezval e Karel Teige in teatro

Vítězslav Nezval e Karel Teige in teatro

EDISON

1° Canto

Le nostre vite sono tristi come il pianto
Una volta, verso sera, usciva da una bisca un giocatore
nevicava, fuori, sopra gli ostensori dei bar
l’aria era umida poiché si avvicinava la primavera
ma la notte sussultava come una prateria
sotto le granate dell’artiglieria delle stelle
le ascoltavano sugli umidi tavoli
ubriachi curvi su bicchieri d’alcool
donne seminude con penne di pavone
malinconici come i tramonti

Ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte.

Ritornavo a casa passando per il ponte delle Legioni
cantando in segreto un motivetto
ubriaco di luci notturne delle barche sulla Vltava
il duomo di Hradčany sonava le dodici esatte
mezzanotte di morte la stella del mio orizzonte
in questa umida notte di fine febbraio

Ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte.

Chinandomi dal ponte io vidi un’ombra
l’ombra del suicida che cadeva negli abissi
ma c’era qualcosa di opprimente che piangeva
era l’ombra e la tristezza di un giocatore d’azzardo
gli dissi signore per carità chi è lei
con una voce triste mi rispose nessun giocatore
ma c’era qualcosa di triste che taceva
ed era un’ombra che sporgeva come una forca
un’ombra che cadeva dal ponte gridai ah, no!
voi non siete un giocatore! no, voi siete un suicida

Andavamo tenendoci per mano, salvi
andavamo mano nella mano trasognati
fuori città, verso la periferia di Košiře
ci salutavano da lontano ventagli notturni
danzavano gli alcools sui chioschi della tristezza
andavamo mano nella mano insieme taciturni

ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte.

Aprii la porta e accesi il gas
portai a dormire la mia ombra della strada
dissi signore per noi due questo è sufficiente
ma non era più l’ombra del mio giocatore
era soltanto un fantasma o una illusione?
me ne stavo solo nel mio solito cantuccio

ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte.

Mi sedetti dietro un tavolo sopra un cumulo di libri
dalla finestra osserva come cade la neve
osserva i fiocchi come s’intrecciano in ghirlande
con la loro chimerica nostalgia
ubriaco di ombre inafferrabili
ubriaco di luci affondate nelle ombre
ubriaco di donne che inseguono sogni e serpenti
ubriaco di donne che seppelliscono la loro giovinezza
ubriaco di avventurose crudeli belle donne
ubriaco di voluttà e di schiume insanguinate
ubriaco di tutta la crudeltà che istiga e tortura
ubriaco di raccapricci e di lutti della vita e della morte

Mi dissi dimentica già le ombre
sfogliando giornali vecchi di una settimana
scorsi il grande ritratto di Edison
che affogava nel fetore della nera stampa
c’era accanto la sua più nuova invenzione
sedeva nel talare come un sacerdote medievale
ma c’era qualcosa di bello che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte

Vítězslav Nezval cop

2° Canto

Le nostre vite spiccano come carcasse.
Una volta, verso sera, tornava un rapido
fra il Canada e il Michigan
attraverso gole di montagna di cui non so il nome
camminava lungo i corridoi un piccolo fattorino
col berretto calcato sugli occhi
ma c’era qualcosa di bello che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte

Suo padre era sarto calzolaio e spaccalegna
mercante di grano aveva una capanna una soffitta una cantina
ed un eterno girovagare che tanto ci seduce
morì di malinconia per la sua terra e di giovanile tristezza

Papà tu sapevi cos’è l’eterno struggimento
oggi di te non c’è che cenere stella o lampo
papà, tu sapevi che dovunque ci sono dei villani
fra i santi e i tagliaboschi
tu hai conosciuto i vagabondaggi e la fame
vorrei morire come te anche giovane e insolente
ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte

Io non so dove e se hai una tomba
è rimasto del tuo sangue soltanto un orfanello
guarda già in Canada sillaba i tuoi libri
guarda già si rallegra di andare a vedere le corse
guarda già legge le biografie famose
l’enciclopedia e le antiche epopee
guarda è già adolescente guarda come il tempo passa presto
guarda non gioca più: legge libri di chimica

Anch’io spesso da bambino sono stato un eroe
anch’io leggevo i libri di Darwin
anch’io giocavo più seriamente degli altri
con l’acido solforico nel piccolo laboratorio scolastico
col catalizzatore e l’ammoniaca con la bobina rumkorf
ma perché volevo essere anch’io un suonatore d’arpa
ma perché amavo anche l’organetto
ma perché giocavo anche alle favole
che mi è rimasto qualcosa di opprimente che straziava
tristezza e lamento della vita e della morte

Tommaso tu non eri un homme de métier
tu hai letto “l’analisi della malinconia”
anche tu hai conosciuto il dolore la tristezza il lamento e l’amore
nei libri, a Detroit, fra migliaia di volumi
anche tu hai sognato di viaggi per mare
nel tuo primitivo laboratorio
che hai agganciato alle carrozze di un treno merci
in cui hai arricciato le ali di uccelli di carta
GRAND TRUNK HERALD! VELKÝ VESTNÍK in carrozza!
Componi! Stampa! Guerra! Scontri! Erosione!
Gridi appena uscito! Comprate! Nuove notizie!
Incendio in Canada e Piccolo corriere di Giava

ma c’era qualcosa di bello che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte.

Una volta ti sei gettato d’un tratto sotto le ruote
neppure un’anima viva tutt’intorno
ma già trascini il fanciullo tra i repulsori
hai salvato la sua vita e ricevi i miei ringraziamenti

Eccoti al lavoro nel calzaturificio
le macchine schizzano fuoco come vesuvi
su ogni scarpa quanto hai sospirato
so che hai ereditato l’inquietudine di tuo padre vagabondo

Giri come un facchino da un cortile all’altro,
una volta te ne sei andato deluso da New York
errando in questa metropoli americana
eri deciso a gettarti su qualsiasi cosa
forse allora giocavi a carte forse bevevi anche
forse là hai lasciato il meglio delle tue forze

ma c’era in questo qualcosa di bello che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte Continua a leggere

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 SETTE POESIE di Pavel Řezníček da “Confessione di un funambolo” e “Sembra che qui la chiamassero neve – Poeti cechi contemporanei” a cura di Antonio Parente

Pavel reznicek Confessioni di un funambolo

 Pavel Řezníček in Sembra che qui la chiamassero neve – Poeti cechi contemporanei a cura di Antonio Parente, Mimesis Hebenon, 2005 pp. 228 € 16 – Confessione di un funambolo a cura di Antonio Parente Mimesis, Hebenon a cura di Antonio Parente 2007 pp. 120 € 12

Classificato a ragione come uno dei principali rappresentanti del surrealismo ceco, Pavel Řezníček  ha sempre messo in dubbio veementemente sia la così spesso proclamata ‘morte del  surrealismo’, sia la possibile evoluzione di questo movimento in una sorta di ‘neosurrealismo’ o ‘postsurrealismo’.

Lo stesso autore confida la ricetta dei suoi testi: «Vedere le cose senza illusione e criticamente, aggiungendo umorismo, possibilmente nero.» Nel suo caso, però, neanche l’umorismo è da considerarsi una forma di escapismo: pur distanziandosi dal surrealismo programmaticamente politico, non è possibile non considerare le sue opere come opere politiche, nel senso più ampio del temine, a dimostrazione della capacità del surrealismo di modificarsi e svilupparsi anche in nuovi contesti storici, così diversi da quelli che regnavano nel periodo originale di fioritura di questa corrente.

(Antonio Parente)

Pavel Řezníček foto

Pavel Řezníček

Pavel Řezníček (1942) è uno dei maggiori rappresentanti del surrealismo ceco. Esordì nel 1965 con un programma di poesie di Breton, Péret, Dalí e Tzara, presentato al teatro Convenzione (Konvence) di Brno, dal titolo La coda del diavolo è un biciclo (Ďáblův ocas je bicykl). Da allora è rimasto fedele alla sua idea surrealista e ai tre punti focali di questa corrente: umorismo nero, casualità oggettiva e dislocazione percettiva. Dal 1974 pubblica il più antico samizdat ceco, l’almanacco “Doutník” (“Sigaro”). Oltre che poesia, scrive anche prosa, sempre in vena surrealista, come testimonia la sua produzione novellistica, ad esempio Strop, pubblicato nel 1983 in Francia con prefazione di Milan Kundera e nel 1984 in Italia col titolo Il soffitto (Edizioni e/o).

Della sua produzione poetica possiamo citare Malto per unghie (Vlak na nehty, 1985) e, più recentemente, Spazzola cacodemonica (Kakodémonický kartáč, 2006) dove prevale sempre la sua poetica grottesca e bizzarra.

Pavel Řezníček nella sua abitazione

Pavel Řezníček nella sua abitazione

Esser pancia

Esser pancia
O cappello
Essere l’ombra di un cerotto
Far ritorno nella piazzetta
Uccidere il legno
Uccidere il fuoco
Uccidere la nebbia
Col cappotto liso pulirsi gli occhiali
E stupirsi della gravidanza della civetta
sulla scatoletta della carta moschicida.

(2001)

Pavel Řezníček

Pavel Řezníček

Confessione di un funambolo

La morte e l’uccello sono entrambi stupidi
entrambi si scacciano col correggiato
sull’immagine della Madonna di segale
nel campo di segale il cerchio dell’atterraggio di un UFO (?)
giunge Rajmund
no non è Rajmund è un marabù
che infilzavamo sulla centrifuga
come pezzi di gyros
o di giroscopio?
qualche generale finlandese fa rapporto
a Boleslao il Crudele
ma ecco è un lucido sogno
non c’è affatto un generale finlandese
non c’è affatto Boleslao il Crudele
ci sono soltanto vie
dove si cuoce il sapone
e i funamboli
sono uccelli
che si alzano in volo dalle palme dei palombari
che sono appena emersi dal mare

Hebenon rivista internazionale di letteratura diretta da Roberto Bertoldo

Hebenon rivista internazionale di letteratura diretta da Roberto Bertoldo

 Pavel Řezníček neve

Il dolce legno delle navi

Un’ostrica bruna come New York
Montoni aggraziati come abiti da sera con spalline
Le spalle nude di scheletri di pesce
Il tuo bottone, Dulcinea
O gas della mia stufa
Espressi intorno al divano
Finestre chiuse soltanto durante il monsone
Giganteschi aquiloni che si sentono sulla lingua
Come granelli di frumento

Poi si aprì l’armadio del ciclone
I mandarini caricavano a polvere i cappotti
Dalle fornaci dell’Austria
Bigodini di carta nei capelli una corda
sulla quale si tiene il vuoto
L’espresso Vindobona
Pertiche
Lanterne
Un caldo respiro granuloso che riscalda la pergamena
Nel labirinto delle bottiglie
Che scommettono su o la va o la spacca del guardaroba del granchio

La lingua strappata al dott. Jesenius
Si aggira per le cinte e intorno all’Europa.

(2001)

Pavel Řezníček quadro

Sala macchine del carciofo

L’orichicco quel vecchio spilungone
e il fruscio di banconote tra le mani delle ortiche
qualcosa si allontana e qualcosa si adagia accanto a noi
ai nostri corpi alla nostra cenere
il silenzio della lampada e la meteora dell’asciugamano
scompartimento sotto frane di pepe e arpione
portavano la megera tutta di arance sbucciate
e di piume di sparvieri che imbrattavano tutte le finestre del mondo
è solo una vampata quella che balugina
nella sala macchine del carciofo
un fazzoletto gettato sul chimico
che ispeziona la pancia del defunto Lévy-Bruhl
Il Canale di Panama e l’incidente d’auto (o di flauto?)
verga di nocciolo martelli pneumatici e la pazzia del pompelmo
appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany

meteora dell’asciugamano gettato sul ring del destino
un passante in lontananza di notte si soffia il naso su un globo di diamanti

Pavel Řezníček

Pavel Řezníček

La seppia pascola il ragno

Portava sempre due sacchi
Il cammello alla stazione
Non dovresti credere a queste facce piatte come la pietra
Prendi metà saccarina e metà caramello
Il cucciolo di felino non lo si riconosce
Quando finalmente inizierà la guerra?
Tutto palpitante per il Modern Jazz Quartetto
Due lanterne verdi due sigari verdi
Fece amicizia con un uccello
Portava sempre tre sacchi
Ragni con cappelli in testa

I ragni pascolano le seppie
Le seppie pascolano le puttane
Un cane micaceo picchiettava il muso
Un fiammingo
Le calze azzurro chiaro
Portava sempre tre sacchi portava quattro sacchi
Ma non le servì a nulla:
Il martello di pietra centrava sempre in pieno
La carriola
Nella quale portavano
la testa di Charles Bukowski

Pavel Řezníček cop 2

Le febbrili visioni di un surrealista: Omicidi, supplizi, macinatura in polvere di vivi…

(Dedicato al compagno Štěpán Vlašín per la sua recensione del mio “Caldo”nel giornale comunista HALÓ)

Nei boschi e durante la guazza
flicorno cistifellea madreperla coltelli
nel ricordo di colui che sforbiciava i giornali e faceva bambini dal formaggio
inzaccherare l’occhio
la calce porta la bicicletta
nella calce farina nelle uova sangue
la puzzola interprete della Luna
non dovremmo leccare la stufa ogni musicante poi mescolerebbe con la carriola
quello che non si deve svelare
il lebbrosario di San Giacomo
le grancasse sono in valigia qualcosa come frittate
e gli schizzi di sangue dei tuoi seni rappresentano una marcita
zeppa
di segreti granchi e aragoste massacrati
che confessano di essere aragoste
e quello che è un fungo è cristallo e i funghi sono persone
con la lingua perforata dal ferro da maglia

Poi ridusse le persone vive in polvere
e quei pochi assassinii che gli caddero dalle tasche erano un affare da nulla
come i peli che crescono dal naso di Messerschmidt
che era non solo professore
ma anche un aereo fatto con la busta
di plastica del latte
Allora: quei pochi assassinii che erano un affare da nulla
si trasformarono in pariglia di cani eschimesi husky
e la città O. si trasformò nel condrosarcoma del dio Aion
sì quello della grotta di Mitra
dove si asciuga il bucato della trascendenza

Pavel Řezníček

Pavel Řezníček

Ho due piedi, il cuore e la ragione

Il negro dei miei piedi mi porge una rosa
(fiorita tra le dita delle quali cinque
digrignate come denti
o come una previsione meteorologica
si dà l’aria di un castaldo)

Due cavalli un aratro e un aratore
mi lavorano sulle dita

Il più anziano monta lì una capanna dopo il lavoro
Presto da lì uscirà del fumo
Quando il fumo si poserà sulle mie ginocchia
le gambe andranno in pezzi come un vecchio camino

Dovrei lavarmeli più spesso
ma preferisco bermi con gli ugonotti
quella loro notte

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SETTE POESIE di Petr Král da “Tutto sul crepuscolo” Mimesis, 2014 – traduzione di Antonio Parente con un commento di Giorgio Linguaglossa

petr kral prague foto di joseph-koudelka

petr kral prague foto di joseph-koudelka

 

petr kral

petr kral

Petr Král “Tutto sul crepuscolo” Mimesis Hebenon, 2014  pp. 76, € 9 – traduzione di Antonio Parente

Francesca Tuscano che firma la prefazione del libro, cita Roberto Bertoldo a proposito del suo concetto di «surrazionalismo»: «La poesia resta una creazione oltre la ragione e la realtà, però passa nel corpo dell’autore, attraverso di esse. La ragione che va oltre la ragione assume in sé quegli “integratori emotivi” che la qualificano. Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione» (R.B. Nullismo e letteratura p. 251 Mimesis).

«Nella nota introduttiva, Král afferma che “di sicuro la mia poesia è necessariamente un po’ lontana dalla tradizione poetica italiana […] laddove nella poesia italiana direi che prevale la fluidità del canto, i miei sguardi alla realtà, spesso piuttosto perfidamente obliqui possono anche suscitare un minimo di disturbo”».

petr kral Tutto_sul_crepuscolo È indubbio che la poesia di Král, da quanto risulta dalla traduzione del bravo Antonio Parente, suoni un po’ ostica all’orecchio della tradizione poetica italiana così incardinata nel discorso diretto e nella sua fedeltà al referente, inteso come qualcosa di oggettivo e di insindacabile e non come una icona che deve essere aggirata, incontrata in tralice, evitata semmai o circumnavigata. Insomma, ciò che dal punto di vista della tradizione italiana è lo sguardo frontale, troppo detto, nella poesia di Král, invece, risulta obliquo, in tralice, frutto di uno sguardo distratto. Si tratta di due modi di concepire la visione ottica di un oggetto. Nella poesia dell’autore ceco invece è proprio l’angolo visuale dal quale si osservano le cose che è “spostato” rispetto all’angolo visuale a cui siamo abituati nella tradizione poetica italiana, spostato in quanto ogni tradizione elegge un proprio punto di vista piuttosto che un altro. Si tratta di un fatto quasi inconsapevole per chi fa e legge poesia in italiano che lo lega e lo determina ad un modo di fare poesia all’interno della tradizione italiana che potremmo definire «frontale». La poesia di un Montale e di un Sanguineti da questo punto di vista non differiscono affatto, entrambe stanno davanti all’autore e al lettore in modo frontale, diretto; ne consegue che lo sviluppo metrico e sintattico non può non seguire questa impostazione di fondo. Nella tradizione poetica italiana del novecento, non c’è una indirezione sintattica, non c’è uno sviluppo prospettico o scopico del punto di vista dell’agente poetico. Direi invece che nel poeta ceco questo “spostamento” del punto di osservazione  determina anche uno spostamento-slogamento sia dell’ordine logico-sintattico che dell’ordine musicale, ovvero, del pentagramma tonale e fonosimbolico. Da questo nucleo problematico ne deriva un nodo che non può essere sciolto dal traduttore (comunque sempre attento a trasportare nell’ordine logico-sintattico dell’italiano quanto vi può essere traslocato). Direi che l’utilità della lettura di questo poeta ceco sta proprio qui, nella sua capacità di mostrare al lettore italiano un diverso modo di considerare gli oggetti e le relazioni che ci legano al mondo degli oggetti, giacché sono gli oggetti ad essere determinati dal mondo e non viceversa, come crede il senso comune.

(Giorgio Linguaglossa)

Petr Král, con Jana Bokova

Petr Král, con Jana Bokova

 Petr Král (1942) è uno scrittore e poeta ceco, è un classico vivente della letteratura ceca. Poeta, saggista e traduttore studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU di Praga e nel 1968, dopo l’invasione russa, emigra a Parigi. Nel 1986 riceve il premio Claude Sernet per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985). Tra le numerose sue raccolte possiamo ricordare Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). È anche autore di prosa e curatore di varie antologie di poesia ceca e francese e nel 2002 ha curato e tradotto per Gallimard Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002 (2002). Importante è anche la sua attività di critico letterario, cinematografico e d’arte; è autore di saggi e articoli sul cinema, contributore alla famosa rivista Positif ed ha pubblicato due volumi sulle comiche mute.

Petr Kral

Petr Kral

Caduta

E in ogni bottiglia vuota
c’è ancora una goccia. Col tuo pettine e il sapone

dalla valigia rovesciata cadono anche le spille nere
della forcina, che vedi per la prima volta. Da quale tasca persino segreta

dl cosmo deserto – L’esile forcina non toglie
o aggiunge nulla, appena un trattino di ferro tra il giorno e la notte,

tra la pelle morbida e la pelliccia minacciosa
del mondo. Senza di essa però qui manca

una virgola per la redenzione. Pace con lei e con te.
Tu e la forcina nella stessa giornata vuota

(Per l’angelo, 2000)

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

Evo moderno

ad Yves

Gli eroi sono andati via;
al loro posto infila il corridoio
soltanto il sospiro di spettri di flanella,
nel cassetto a ricordo dell’antica gloria del corpo
soltanto un ciuffo di peli dimenticato.

Niente allori, maschere dorate di collera o benevolenze divine:
solo un busto stinto senza faccia all’angolo della mensola,
scarabocchiato rapidamente dal gesso della paura.

La breccia del fulmine passa senza fretta
per la grigia pietra del cielo.

I lampioni sono comunque tornati all’imbrunire,
per continuare a vegliare le stoffe nel silenzio dei negozi.

(La vacuità del mondo, 1981)

Ian Palach si dà fuoco Primavera di Praga

Ian Palach si dà fuoco Primavera di Praga

praga ponte carlo

praga ponte carlo

Paese di naufragi

Siamo qui entrambi, ma allo scorcio; per metà in ciò che c’è qui,
per metà in ciò che manca,
senza pressione: condividiamo un dormiveglia, la completezza
del vuoto incagliato tra i rami sulle nostre teste,
la gloria, che ci evita con discrezione,
finché non si riversa, intera e senza macchia,
anche attraverso l’orizzonte dei corpi.

Ancora all’ombra della costruzione orfana cadiamo soltanto a lungo
verso il bordo delle nostre convinzioni, ai piedi del silenzio
fiammeggiante dall’alto nello sguardo opposto, nel volto nudo
colto dal crepuscolo serale
nell’imbarazzo dell’incompletezza.
A tratti un libro riposto o un pettine si freddano nella polvere.
Sull’erba del terrapieno bruciato, sulla sella della collinetta vicina
il vuoto intanto si accresce – di cicatrice in cicatrice –
nella nuova casa chiara.

(Vita privata)

casinò a Praga foto pubblicitaria

casinò a Praga foto pubblicitaria

Caduta in giugno

Del giorno restano brandelli
Nulla se non cenere
L’odore di benzina sussurra basso di bruciature lontane
I segnali degli uccelli già pieni della notte
sfregano nel rivolo

I lampadari vanno accendendo nelle finestre le nostre visioni nascoste
I testimoni si disperdono per le stradine Qua e là la massa bianca
della luna o della schiena
si accinge ad illuminare nel grigiore orfano

I lampi scivolano nell’oblio vellutato Tiriamo fuori con un sorriso
subdolo i coltelli e le forchette
Il naufragio dell’uccello La bancarotta del lampadario
La crepa della schiena impigliata nella polvere dei ficus

La mano terrorizzata nella cenere del corpo
Le gonne nel mormorio al limite del crepuscolo sfiorano
le ortiche
Le fresche bellezze sul balcone splendente erette sotto una sottile
pioggia di fuliggine
pazientemente aspettano che le vengano a prendere

(Lampi radenti, 1981)

Praga

Praga

Tutto sul crepuscolo

a Jiří Kolář
l

Il giorno va spegnendosi malinconico sul duomo lontano,
i motociclisti con un unico movimento s’incurvano sotto gli alberi
verso la notte, ricotti dall’antica fiaccola –
e la prima stella è una lacrima, diamante grippato
nel velluto azzurro dell’attimo e del suo rovescio, della tomba
interiore e del silenzio sui dispersi,
che ancora indugia sul bosco bruciato.

2

Il giorno va spegnendosi sul duomo lontano,
i motociclisti con un unico movimento s’incurvano verso la notte,
la prima stella è una lacrima.
Sul duomo in lontananza, dolce, malinconica,
con un unico movimento s’incurva sotto gli alberi come verso
il fondo della grotta,
lacrima amara ma ossessiva nel velluto azzurro dell’attimo
e del suo rovescio.
Il giorno si spegne, va spegnendosi sulla cupola lontana, come se
l’ora più luminosa
avesse lontana all’orizzonte, sul fondo rosato della gola un sapore
dolce, la visione della Roma mancante,
che la malinconica estende dietro se stessa.
Con un’unica incurvatura sotto gli alberi del boulevard, con un
unico nitrito animalesco,
che sale dalla sella oscurante; come rovinano qui su di noi,
ricotti dall’antica fiaccola,
ci uniscono nonostante l’estraneità delle sue macchine solo con
la grotta familiare della notte
sul fondo di noi stessi. La prima stella è una lacrima, diamante
grippato
nel velluto azzurro dell’attimo e del suo rovescio, tomba interiore a
silenzio dei dispersi
che indugia sul bosco bruciato. Sotto gli alberi nell’esilio del
boulevard la notte che va spandendosi non è
più di un sollievo temporaneo dall’abbraccio dell’ombra meridiana.

(Lampi radenti)

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

Avanguardia

ai Rubeš

Il leggero trotterellare di uno scroscio di pioggia solo a volte portò
sollievo al bosco,
finché quello riaprì le sale al sole e nel suo fulgore
dietro di noi s’impietrì glorioso, trattenne il suo respiro pastello
in ogni albero e siepe, grigiastro, rosato, vellutatamente ingiallito,
finché ci guidò con lo sguardo l’intera
massa iridescente, la folla leggermente serrata.
Di nuovo ci veniva chiesto
solo un lontano stupore, le gesta di testimoni, coi quali come su un
antico dipinto
per un attimo ci ritirammo sorpresi a margine del percorso
davanti al tronco di un albero rovesciato, sepolta metropoli spiantata
con la terra tra le radici;
null’altro che immemorabile pesantezza e sopra qua e là già
l’ignota leggerezza
della luce che sale attraverso la verde spuma, la lieve punteggiatura
delle foglie nuove –
Camminavo per ultimo, eravate davanti a me
solo le fresche silhouette, vicine, presentite, le vostre graffiature
oscure nella pioggerella d’oro ignoto
facevano strada, celavano il traguardo, io riconoscente
dietro di voi, avrei voluto procedere così in eterno, lame d’oro,
d’umido, la verdeggiante notte
oltre gli alberi, oltre la tempesta, sorseggiare la vostra risata col
mio silenzio,
leggere nella lucentezza d’un tratto il nero spoglio
dei vostri tratti, vicino, deserto come io stesso, già in eterno in
quell’attimo
lì sotto gli alberi e in nessuno dei luoghi

(Il continente rinnovato)

Primavera-di-Praga

Primavera-di-Praga

Quello che sta pagando
ed uscendo dal locale
dove non lascia nulla solo con niente in tasca
senza cicatrici con anticipo
o con ritardo
esce in orario non tiene nulla nella cornice
della porta mentre la pulisce lievemente
con la spalla languida
Senza grassi appena orlato
dal resto della luce
è soltanto una risata ciò che manca
nella sala alle spalle
Bisbiglii ai tavoli calcoli semplici
sono dietro di lui flaccido strascico Esce tutti i problemi
ancora in sua attesa
Irradiato dal buio desertico
che gli sbadiglia accomodante vi aggiunge già la firma
la scava arruffa
con la testa Dapprima vi sveglia le piazze nude
quello che sta uscendo
per bere dalle cantine dell’attimo

(Massiccio e crepacci)

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