Charles Baudelaire POESIE SCELTE traduzione e presentazione a cura di Mario Fresa

Baudelaire_Spleen

Charles-Pierre Baudelaire (Parigi, lunedì 9 aprile 1821 – Parigi, sabato 31 agosto 1867). Poeta, saggista, critico d’arte, critico musicale, traduttore. Tra le sue opere: Salon de 1845 (1845); Salon de 1846 (1846); La Fanfarlo (1847); Du vin et du haschisch (1851); Fusées (1851); L’Art romantique (1852); Morale du joujou (1853, 1869); Les Fleurs du mal (1857, 1861); Le Poème du haschisch (1858); Les Paradis artificiels (1860); Richard Wagner et Tannhäuser à Paris (1861); Le Peintre de la vie moderne (1863); L’œuvre et la vie d’Eugène Delacroix (1863); Mon cœur mis à nu (1864); Le Spleen de Paris (1869); L’Art romantique (1869). La Direzione della Pubblica Sicurezza di Parigi, all’uscita delle Fleurs du mal, denunciò il libro «pour offense à la morale religieuse» e per «outrage à la morale publique et aux bonnes mœurs».

Alfabeto Baudelaire contemplava, in origine, il desiderio di presentare ad una ad una le poesie tradotte nel libro. Ma più commentavo e chiosavo, più avvertivo il pericolo di un possibile costringimento della potente e anarchica luce baudelairiana negli stretti corridoi della rettorica parafrastica. Perciò ho deciso, a un certo punto, di riunire (direi anzi: di contrarre) in un’unica postilla finale le mie riflessioni critiche, offrendo ai lettori, in modo “diretto” (senza alcuna introduzione esegetica) un ideale itinerario delle principali trame che sostengono la struttura concettuale delle Fleurs. D’accordo con l’artista Dagnino, ho inteso incuneare questi tematici Leitfaden (nel senso wagneriano del termine) in un gioco visivo di natura metamorfica e labirintica, ben lontano da tentazioni didascaliche o illustrative e sottilmente percorso da nascoste citazioni, da interni rispecchiamenti, da allusioni intuitive. Si è costruita, così, una rete visiva riccamente dilatata, fitta di numerose intersecazioni dialoganti tra di loro per segrete analogie. Quanto alle traduzioni, ho abbandonato l’idea iniziale di adottare una soluzione isometrica (ché una simile operazione avrebbe significato imprigionare e addomesticare la libera e luminosa geometria del verso baudelairiano) e ho scelto, invece, la strada di uno specchiamento neutro, nel quale non si ha l’ambizione di restaurare, o in qualche di modo di ricuperare l’estrema energia iperbolica e la lucida simmetria dei testi originali, ma solo si esprime il desiderio di rifrangerne la brillantezza proiettandola su di una tela parallela, quasi volendo consegnare, al lettore, il malinconico riverbero, il bagliore nostalgico di un bene lontano, inaccessibile, mai del tutto rifondibile… È il tipico desiderio, tenero e mesto, di un amante e non di uno studioso… Gli unici vezzi che mi sono concesso contemplano l’aggiunta di certe minime variazioni nell’uso dei segni di interpunzione e l’inserimento di qualche rara rima interna. Sono lievi e affettuose deviazioni che posso paragonare all’istante nel quale l’esecutore di uno spartito decide di lanciarsi, per amore della melodia, in una estemporanea puntatura, in una piccola cadenza, in una breve fioritura.

baudelaire volto

Mario Fresa Alfabeto Baudelaire

BÉNÉDICTION

Lorsque, par un décret des puissances supremes,
Le Poëte apparaît en ce monde ennuyé,
Sa mère épouvantée et pleine de blasphèmes
Crispe ses poings vers Dieu, qui la prend en pitié :

— « Ah ! que n’ai-je mis bas tout un nœud de vipères,
Plutôt que de nourrir cette dérision !
Maudite soit la nuit aux plaisirs éphémères
Où mon ventre a conçu mon expiation !

Puisque tu m’as choisie entre toutes les femmes
Pour être le dégoût de mon triste mari,
Et que je ne puis pas rejeter dans les flammes,
Comme un billet d’amour, ce monstre rabougri,

Je ferai rejaillir ta haine qui m’accable
Sur l’instrument maudit de tes méchancetés,
Et je tordrai si bien cet arbre misérable,
Qu’il ne pourra pousser ses boutons empestés ! »

Elle ravale ainsi l’écume de sa haine,
Et, ne comprenant pas les desseins éternels,
Elle-même prépare au fond de la Géhenne
Les bûchers consacrés aux crimes maternels.

Pourtant, sous la tutelle invisible d’un Ange,
L’Enfant déshérité s’enivre de soleil,
Et dans tout ce qu’il boit et dans tout ce qu’il mange
Retrouve l’ambroisie et le nectar vermeil.

Il joue avec le vent, cause avec le nuage,
Et s’enivre en chantant du chemin de la croix ;
Et l’Esprit qui le suit dans son pèlerinage
Pleure de le voir gai comme un oiseau des bois.

Tous ceux qu’il veut aimer l’observent avec crainte,
Ou bien, s’enhardissant de sa tranquillité,
Cherchent à qui saura lui tirer une plainte,
Et font sur lui l’essai de leur férocité.

Dans le pain et le vin destinés à sa bouche
Ils mêlent de la cendre avec d’impurs crachats ;
Avec hypocrisie ils jettent ce qu’il touche,
Et s’accusent d’avoir mis leurs pieds dans ses pas.

Sa femme va criant sur les places publiques :
« Puisqu’il me trouve assez belle pour m’adorer,
Je ferai le métier des idoles antiques,
Et comme elles je veux me faire redorer ;

Et je me soûlerai de nard, d’encens, de myrrhe,
De génuflexions, de viandes et de vins,
Pour savoir si je puis dans un cœur qui m’admire
Usurper en riant les hommages divins !

Et, quand je m’ennuierai de ces farces impies,
Je poserai sur lui ma frêle et forte main ;
Et mes ongles, pareils aux ongles des harpies,
Sauront jusqu’à son cœur se frayer un chemin.

Comme un tout jeune oiseau qui tremble et qui palpite,
J’arracherai ce cœur tout rouge de son sein,
Et, pour rassasier ma bête favorite,
Je le lui jetterai par terre avec dédain ! »

Vers le Ciel, où son œil voit un trône splendide,
Le Poëte serein lève ses bras pieux,
Et les vastes éclairs de son esprit lucide
Lui dérobent l’aspect des peuples furieux :

— « Soyez béni, mon Dieu, qui donnez la souffrance
Comme un divin remède à nos impuretés
Et comme la meilleure et la plus pure essence
Qui prépare les forts aux saintes voluptés !

Je sais que vous gardez une place au Poëte
Dans les rangs bienheureux des saintes Légions,
Et que vous l’invitez à l’éternelle fête
Des Trônes, des Vertus, des Dominations.

Je sais que la douleur est la noblesse unique
Où ne mordront jamais la terre et les enfers,
Et qu’il faut pour tresser ma couronne mystique
Imposer tous les temps et tous les univers.

Mais les bijoux perdus de l’antique Palmyre,
Les métaux inconnus, les perles de la mer,
Par votre main montés, ne pourraient pas suffire
À ce beau diadème éblouissant et clair ;

Car il ne sera fait que de pure lumière,
Puisée au foyer saint des rayons primitifs,
Et dont les yeux mortels, dans leur splendeur entière,
Ne sont que des miroirs obscurcis et plaintifs ! »

I

BENEDIZIONE

Quando, per volontà di superiori forze,
Appare il Poeta in questo mondo immerso nella noia,
Sua madre, impaurita e già colma di bestemmie,
Stringe i pugni verso Dio, che di lei sente pietà:

˗ «Ah! Perché non partorire un groviglio di vipere,
Piuttosto che dare vita a questa derisione!
Maledetta la notte degli effimeri piaceri
Nella quale questo ventre ha concepito l’espiazione mia!

Poiché fra tutte le femmine mi hai scelto
Per essere il disgusto del mio infelice sposo,
E tra le fiamme non posso gettare via con ira,
Come una lettera d’amore, questo schifoso mostro,

Farò cadere il tuo opprimente odio
Sullo strumento maledetto della tua malvagità;
E così bene vorrò storcere quest’albero spregevole
Che mai potrà far nascere la peste dei suoi germogli!»

Trattenendo, allora, la schiuma del suo odio,
Senza saper comprendere i disegni dell’Eterno,
Già si prepara, sola, nel fondo dell’Inferno,
Il rogo consacrato ai delitti delle madri.

Ma, protetto da un Angelo invisibile,
A ubriacarsi del sole presto impara, quel ricusato Figlio,
E in ogni bevanda e in ogni cibo trova
Il sapore dell’ambrosia e del nettare vermiglio.

Gioca col venticello e scherza con le nubi:
E poi s’inebria cantando del Cammino della Croce;
E lo Spirito l’insegue nel suo pellegrinaggio,
E piange nel vederlo come un allegro uccello del bosco…

Con terrore l’osservano coloro che lui vorrebbe amare;
E incoraggiati, forse, dalla calma del suo aspetto,
Fanno a gara per strappargli, ora, un lamento: e su
Di lui vogliono dare un saggio della loro crudeltà.

Nel pane e nel vino che sono destinati alla sua bocca
Aggiungono, mischiando, della cenere; e cogli sputi
Ipocriti e nefandi gettano via tutto ciò ch’egli poi tocca;
E ammettono, però, di avergli camminato accanto.

La sua donna va gridando per le piazze:
«Poiché mi ritiene così degna della sua venerazione,
Voglio davvero comportarmi come le Dee:
E, come quelle, voglio essere coperta tutta d’oro;

Di nardo io vo’ ubriacarmi, d’incenso e di mirra,
E di carni, di vino e di genuflessioni,
Per sapere s’io posso in un cuore che m’adora
Usurpare, ora, ridendo, gli omaggi destinati a una divinità!

E, quando m’annoierò di questa scellerata commedia,
Su di lui vorrò posare, fragile e forte, la mia mano,
E le mie unghie, degne di quelle di un’arpia,
Sapranno ben trovare la strada diretta fino al cuore.

Come un implume, piccolo uccello che palpita e che trema,
Il cuore sanguinante gli strapperò dal petto,
E poi lo getterò per terra, con un disprezzo immenso,
Perché possa così saziarsi la mia belva preferita!»

Al Cielo, dove il suo sguardo vede un trono risplendente,
Il Poeta alza, sereno, le sue braccia in preghiera
E il vasto balenio del suo brillante spirito
La vista gli cancella dei popoli furiosi:

˗ «Dio che doni la sofferenza, siimi benigno
Come un divino farmaco alle vergogne nostre
E come la migliore e la più pura delle essenze
Che i più forti prepara alle sante voluttà!

Ben lo so che al Poeta hai riservato un posto
Nei ranghi gioiosi delle sante tue Legioni,
E che lo inviti alla festa infinita, eterna,
Dei Troni, delle Virtù, delle Dominazioni;

So pure che il dolore è la sola nobiltà
Che la terra e l’Inferno mai potranno intaccare,
E che pur è necessario, per intrecciare la mia mistica corona,
Tutti i tempi e tutti gli universi dominare:

Ma i tesori perduti dell’antica Palmira,
I metalli sconosciuti e le perle del mare,
Montati dalla tua mano, mai potranno bastare
Per quel bellissimo diadema, tutto smagliante e chiaro!

Ché la sua essenza sarà costituita di quella pura luce
Attinta al sacro fonte dei raggi primordiali:
Dei quali gli occhi dei mortali, nel loro massimo splendore,
Altro non sono che specchi opachi e lacrimosi.»

MARIO FRESA cover Baudelaire 1Città

XCIII

À UNE PASSANTE

La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet ;

Agile et noble, avec sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.

Un éclair… puis la nuit ! — Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?

Ailleurs, bien loin d’ici ! trop tard ! jamais peut-être !
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais !

XCIII

A UNA PASSANTE

Attorno a me gridava la tumultuosa via.
Alta, ferale, sottile, tutta regale nel suo dolore,
Passò una donna, risollevando e sistemando,
con un sovrano gesto, il pizzo e l’orlo della gonna;

Era nobile e lieve: la gamba, degna d’una statua.
E io – proteso come un folle – già bevevo, nel suo occhio,
Livido cielo presago di tempesta, la dolcezza
Che incanta e il piacere che dà morte…

Fu un lampo! Quindi, improvviso, il buio… – Ah, beltà fuggitiva
Dallo sguardo che m’ha fatto d’un subito risorgere,
Io dunque non ti rivedrò che nelle sfere dell’eternità?

Altrove ti rivedrò… Ben lontano da qui! Ed è tardi! Forse mai più!
Perché ignoro dove fuggi, e tu dove io vada:
O tu, che avrei di certo amato… O tu che lo sapevi bene!

Donna-vampiro

XXXI

LE VAMPIRE

Toi qui, comme un coup de couteau,
Dans mon cœur plaintif es entrée ;
Toi qui, forte comme un troupeau
De démons, vins, folle et parée,

De mon esprit humilié
Faire ton lit et ton domaine ;
— Infâme à qui je suis lié
Comme le forçat à la chaîne,

Comme au jeu le joueur têtu,
Comme à la bouteille l’ivrogne,
Comme aux vermines la charogne,
— Maudite, maudite sois-tu !

J’ai prié le glaive rapide
De conquérir ma liberté,
Et j’ai dit au poison perfide
De secourir ma lâcheté.

Hélas ! le poison et le glaive
M’ont pris en dédain et m’ont dit :
« Tu n’es pas digne qu’on t’enlève
À ton esclavage maudit,

Imbécile ! — de son empire
Si nos efforts te délivraient,
Tes baisers ressusciteraient
Le cadavre de ton vampire ! »

XXXI

IL VAMPIRO

Tu che, simile al fendente di una lama,
Entro il mio cuore doloroso penetrasti:
Tu, che simile a un’orda di demòni
Venisti qui, folle e agghindata,

Per trasformare il mio spirito umiliato
Nel tuo giaciglio e nel tuo impero…
– Infame a cui sono incatenato
Come ai ceppi è legato un prigioniero;

Come dipende dalla sorte il caparbio giocatore;
Come il beone è avvinto al suo bicchiere;
Com’è attaccata la carogna ai parassiti suoi…
– Sii sempre maledetta, sii maledetta sempre!

Ho implorato il veloce pugnale
Di rendermi, infine, la libertà;
E a un atroce veleno ho poi richiesto
Di soccorrere la mia vigliaccheria:

Ahimè! Veleno e coltello m’hanno risposto
Con dispregio: «Idiota! Tu non sei degno d’essere
Affrancato da questa malvagia schiavitù.

Se i nostri sforzi, adesso, dovessero
Dal suo dominio liberarti,
Certo farebbero risorgere, i tuoi baci,
La salma esanime del tuo vampiro!»

baudelaire le spectre

Musica

LXIX

LA MUSIQUE

La musique souvent me prend comme une mer !
Vers ma pâle étoile,
Sous un plafond de brume ou dans un vaste éther,
Je mets à la voile ;

La poitrine en avant et les poumons gonflés
Comme de la toile,
J’escalade le dos des flots amoncelés
Que la nuit me voile ;

Je sens vibrer en moi toutes les passions
D’un vaisseau qui souffre ;
Le bon vent, la tempête et ses convulsions

Sur l’immense gouffre
Me bercent. D’autre fois, calme plat, grand miroir
De mon désespoir !

LXIX

MUSICA

Spesso è la musica un mare che mi trascina via!
E allora spingo la mia vela
Verso una stella tenue, sotto la volta di una bruma
O nell’immensità dell’aria!

Petto in avanti, ecco i polmoni gonfi
Come una tela;
E già scalo la cresta dell’onda
Che la notte mi nasconde:

In me vibrano tutte le passioni
Dolorose di un vascello;
E il vento favorevole, e il turbinìo della tempesta,

Mi cullano sul fondo di quel gorgo
Che non finisce mai; altre volte, bonaccia, e immenso
Specchio delle mie disperazioni!

Ribellione

CXX

LES LITANIES DE SATAN

Ô toi, le plus savant et le plus beau des Anges,
Dieu trahi par le sort et privé de louanges,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Ô Prince de l’exil, à qui l’on a fait tort,
Et qui, vaincu, toujours te redresses plus fort,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Toi qui sais tout, grand roi des choses souterraines,
Guérisseur familier des angoisses humaines,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Toi qui, même aux lépreux, aux parias maudits,
Enseignes par l’amour le goût du Paradis,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Ô toi qui de la Mort, ta vieille et forte amante,
Engendras l’Espérance, — une folle charmante !

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Toi qui fais au proscrit ce regard calme et haut
Qui damne tout un peuple autour d’un échafaud,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Toi qui sais en quels coins des terres envieuses
Le Dieu jaloux cacha les pierres précieuses,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Toi dont l’œil clair connaît les profonds arsenaux
Où dort enseveli le peuple des métaux,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Toi dont la large main cache les précipices
Au somnambule errant au bord des édifices,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Toi qui, magiquement, assouplis les vieux os
De l’ivrogne attardé foulé par les chevaux,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Toi qui, pour consoler l’homme frêle qui souffre,
Nous appris à mêler le salpêtre et le soufre,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Toi qui poses ta marque, ô complice subtil,
Sur le front du Crésus impitoyable et vil,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Toi qui mets dans les yeux et dans le cœur des filles
Le culte de la plaie et l’amour des guenilles,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Bâton des exilés, lampe des inventeurs,
Confesseur des pendus et des conspirateurs,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

Père adoptif de ceux qu’en sa noire colère
Du paradis terrestre a chassés Dieu le Père,

Ô Satan, prends pitié de ma longue misère !

PRIÈRE

Gloire et louage à toi, Satan, dans les hauteurs
Du Ciel, où tu régnas, et dans les profondeurs
De l’Enfer, où, vaincu, tu rêves en silence !
Fais que mon âme un jour, sous l’Arbre de Science,
Près de toi se repose, à l’heure où sur ton front
Comme un Temple nouveau ses rameaux s’épandront !

CXX

LE LITANIE DI SATANA

O Tu, più bello e più sapiente di ogni altro Angelo,
Dio privato degli onori, tradito dal destino…

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

O Principe in esilio, gran vittima di un torto
Che, pur vinto, ogni volta rafforzato sei risorto:

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

Tu che tutto conosci, Sire del mondo di sotterra,
Amico e guaritore d’ogni patire umano,

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

Tu che ai lebbrosi e ai paria maledetti sai svelare,
Con l’amore, le dolcezze del Paradiso,

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

O Tu che dalla Morte, la tua amante forte e antica,
Generasti la Speranza – quella folle così tanto fascinosa!

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

Tu che al proscritto insegni lo sguardo calmo e altero,
Che danna tutto un popolo intero vicino ad una forca,

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

Tu che conosci quegli angoli delle invidiose terre
Ove il geloso Iddio nascose le tue pietre preziose,

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

Tu che, con l’occhio limpido, riconosci gli arsenali profondi,
dov’è sepolto il popolo accecato dei metalli,

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

Tu che con l’ampia mano nascondi i precipizi
Al sonnambulo vagante sopra i bordi delle case,

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

Tu che, gran mago, sai addolcire così bene le ossa malandate
Dell’ubriaco insonne, travolto dalle vetture che girano la notte,

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

Tu che, per consolare l’uomo debole che soffre e geme,
C’insegnasti a mescolare lo zolfo e il salnitro insieme,

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

Tu che un suggello imprimi, o complice minuzioso,
Sulla fronte del Creso sempre vile e impietoso,

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

Tu che nel cuore e nell’occhio di ogni ragazza poni
L’amore dei miserabili e il culto della piaga,

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

Tu, sostegno degli esiliati, faro degli inventori,
Confessore degli impiccati e dei cospiratori,

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

Tu che adotti tutti quelli che, nella sua rabbia
Nera, Iddio Padre volle cacciare via dall’Eden,

Satana, pietà! Pietà di questa lunga miseria mia!

PREGHIERA

Gloria e lode a te, Satana! Gloria nell’alto dei cieli, dove tu pure regnasti,
E nelle profondità degl’Inferi dove, battuto, continui a sognare
Immerso nel silenzio! Fa’ che l’anima mia, un giorno, possa
Riposare alla tua destra, vicino all’Albero della Scienza,
Nell’ora in cui, sulla tua fronte, come un Tempio
Novello i suoi rami formeranno ghirlande!

Baudelaire spleen métodique

Sinestesie

IV

CORRESPONDANCES

La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles ;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers.

Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
— Et d’autres, corrompus, riches et triomphants,

Ayant l’expansion des choses infinies,
Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens,
Qui chantent les transports de l’esprit et des sens.

IV

CORRISPONDENZE

È un tempio, la Natura, ove colonne vive
Sussurrano parole misteriose; e l’uomo
Vi attraversa foreste di simboli che sempre
L’osservano con occhi familiari.

Come echi lunghissimi, che di lontano vengono
E si fondono in una scura e densissima unità,
Vasta come la tenebra e il chiarore del giorno,
Profumi e colori e suoni si rispondono:

E so di odori che ricordano la carne purissima di un bimbo:
Dolci come un oboe: quasi intinti nel verde d’un giardino;
˗ E altri ne conosco, più torbidi e corrotti, e ricchi e trionfali,

Che possiedono il respiro di ciò ch’è illimitato;
E sono il muschio il benzoino l’ambra l’incenso:
Essi cantano, insieme, l’estasi dell’anima e dei sensi.

Viaggio

LIII

L’INVITATION AU VOYAGE

Mon enfant, ma sœur,
Songe à la douceur
D’aller là-bas vivre ensemble !
Aimer à loisir,
Aimer et mourir
Au pays qui te ressemble !
Les soleils mouillés
De ces ciels brouillés
Pour mon esprit ont les charmes
Si mystérieux
De tes traîtres yeux,
Brillant à travers leurs larmes.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Des meubles luisants,
Polis par les ans,
Décoreraient notre chambre ;
Les plus rares fleurs
Mêlant leurs odeurs
Aux vagues senteurs de l’ambre,
Les riches plafonds,
Les miroirs profonds,
La splendeur orientale,
Tout y parlerait
À l’âme en secret
Sa douce langue natale.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Vois sur ces canaux
Dormir ces vaisseaux
Dont l’humeur est vagabonde ;
C’est pour assouvir
Ton moindre désir
Qu’ils viennent du bout du monde.
— Les soleils couchants
Revêtent les champs,
Les canaux, la ville entière,
D’hyacinthe et d’or ;
Le monde s’endort
Dans une chaude lumière.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

LIII

INVITO AL VIAGGIO

O piccola mia, sorella mia,
Pensa quale dolcezza
Andare a vivere, noi due, laggiù!
Amare a sazietà,
Amare e morire
Nel paese che in tutto è simile a te!
I soli bagnati
Di quei torbidi cieli
Hanno, per il mio spirito, l’incanto
Misterioso
Dei tuoi occhi traditori,
Quando rilucono di pianto!

Là, tutto è soltanto ordine e bellezza,
E lusso, e calma, e voluttà.

Di mobili brillanti,
Dagli anni levigati,
Sarebbe adorna la nostra stanza;
E i fiori più rari,
Dai profumi mescolati
Al vago aroma dell’ambra,
E i ricchi soffitti,
Gli specchi profondi,
Gli orientali splendori:
Tutto, lì, parlerebbe
In segreto, all’anima,
La sua dolcissima lingua primitiva.

Là, tutto è soltanto ordine e bellezza,
E lusso, e calma, e voluttà.

Guarda su quei canali
Come dormono tutti quei navigli
Da un ondivago umore attraversati!
Per appagare ogni
Tuo desiderio
Sono arrivati, adesso, da ogni lato della terra.
— I soli declinanti
Rivestono i campi,
I canali, l’intera città,
Di giacinto e di oro:
E in una calda luce, vedi,
Già s’addormenta il mondo.

Là, tutto è soltanto ordine e bellezza,
E lusso, e calma, e voluttà…

baudelaire-spleen-1857-npage-from-the-poem-spleen-with-authors-notes-FFDHAY

Ars contra vitam

Mario Fresa

Questo mondo opaco e caduco, questa
città e questo inverno, sono solo
ombre sui vetri dell’universo…

Igor’ Vladimirovic Cinnov, Monólog (1950)

Si nasce mostrando, ex abrupto, uno sguardo trasversale e sibillino, ancipite e oppositivo. Il poeta ha da poco premuto il piede sulla scena della vita e desidera accecarsi e scomparire, trasmutandosi in ospite addolorato e transfuga. Egli subisce il dono e la punizione della vita ricevendo, allo stesso tempo, la benedizione di essere nel mondo e la maledizione di coloro che condividono con lui l’aspro e meraviglioso suo cammino.

  La sofferenza principia dalla prima, chiara rilevazione della costituzione malvagia e affatto respingente del mondo; ma essa sofferenza è anche, provvidenzialmente, commista alla gioia di essere tutta distante da quella stessa cattiva essenza entro la quale sono, invece, immersi gli altri uomini, i non artisti, i farisei: coloro che si affidano alle false virtù della volontà, del desiderio, dell’accumulo; gli uomini-commercianti che intendono l’esistenza come guadagno, sopraffazione, mutuo e perenne imbroglio, scambio utilitaristico di merce e di ipocrisia.

  Certo: le fantasmagorie del poeta non rendono onore agl’ideali borghesi dell’arricchimento, della produttività e del progresso tipici della volgare visione capitalistica del mondo (nella quale avere è meglio di essere, ed essere è preferibile a non essere).   Donde, amaramente unite, la felicità e la tristezza di essere contro tutto ciò; e la disperazione e la gioia di essere poeta e non uomo-mercante. Ecco perché nascere è, insieme, benedizione e maledizione.

  Quale soluzione, dunque? Essa sarebbe quella di scomparire e di ubriacarsi; e di precipitare nel caos, nella intermissione della vita, nel nulla che non sa nulla.

  La Città appare al poeta, per qualche istante, come il luogo perfetto per accogliere, in sé stesso, il delirio e il rapimento dell’ubriacatura e dello sperdimento. La  violenta confusione della Metropoli, il suo cieco aggrovigliarsi entro le prosaiche ragne dell’affaccendarsi e del lavorare, i suoi stessi valori bassamente fisiologici ed empirici, sempre fondati sulla velocità, sulla meccanizzazione e sull’efficienza, costituiscono il presupposto di una progressiva e consumante disumanizzazione, di una continua alienazione prossima a generare il totale disfacimento del principium individuationis.

  Paradosso e sconcerto: immergersi nella folla degli orrendi lavoratori, nella loro ottusa orgia di cotidiani doveri borghesi, affaristici e ottimistici, potrebbe donare al poeta qualche minuto di estasi e di stordimento, di vortice e di auto-annichilamento?

  Ma la Città, meravigliosa e mostruosa allo stesso tempo, mostra pure, al poeta, qualche altra sottile e misteriosa forma di alterazione, di euforia, di ubriachezza e di voluttà: e cioè la conoscenza, inattesa e ferina, dell’autentica natura, anfibola ed enimmatica, della bellezza e dell’amore: una natura ch’è misteriosamente legata all’essere-per-svanire, all’immediatezza dell’istante, alla fuggevolezza di un’apparizione che improvvisa risplende e si nasconde, come la splendida e inconosciuta (e inconoscibile) Passante che noi potremmo amare per il resto della nostra vita (a patto che essa non sia mai vicina a noi, e che non si possa conoscere mai!). 

  L’istante, allora, coincide con la medesima bellezza, la quale eternamente si mostra nel suo disfarsi: cioè si offre e si ritira contemporaneamente, poiché sempre dona e sempre toglie. 

  La bellezza è misteriosa e contraddittoria, perché mobile e irripetibile, ed eterna e inviolabile nella sua immediatezza e nella sua caducità, proprio come una nuvola o una rosa.

  È quello che suggerisce la risposta finale dell’extraordinaire étranger contenuta nella prosa con la quale s’iniziano i baudelairiani Poèmes en prose: « – “Eh via, che ami dunque, straordinario straniero?” – “Amo le nuvole… le nuvole che passano… laggiù… laggiù… le nuvole meravigliose!”».

  Le nuvole che passano. Le nuvole meravigliose. La gioia suprema ch’è provata dal poeta nel contemplarle amorosamente coglie il senso di quella oscura e comune radice che stringe e lega, in una segreta unione, la bellezza e la sua sparizione: l’acuta felicità, apparentemente infinita, s’incontra sempre con la liquida e mortale fuggevolezza cui tutto è destinato – sia l’oggetto contemplato, sia l’occhio medesimo che lo contempla. Lo stesso Baudelaire («Ho trovato la definizione del Bello, – del mio Bello. È qualcosa di ardente e di triste») avverte fortissimo il senso di tali nozze, in cui l’unica illusione accettabile è offerta dalla consapevolezza di quella duplice energia che sempre accompagna la visione della bellezza: l’una di pienezza quasi atemporale e di lietezza superiore, l’altra di sbriciolamento e di perdita inarrestabile; di qui, l’ineffabile congiunzione di bellezza e di malinconia, in cui è possibile accettare la rettorica delle illusioni non mai dimenticando che ogni evento è costretto sempre all’esito di una conclusione, alla mèta di una finitudine; e in ciò è presente, in vero,  una dolce consolazione, che rende meravigliosamente prezioso quell’istante in cui la stessa visione della bellezza si mostra  e, subito dopo, si ritira: la nuvola e la rosa ci donano, così, nel loro tenero e splendido apparire e scomparire, il senso e il significato più profondo di quel pietoso, amorevole occultamento del destino mortale di ogni forma di esistenza, già illustrato da Torquato Accetto nel suo trattato Della dissimulazione onesta: «La rosa par bella perché […] quasi con una semplice superficie di vermiglio fa restar gli occhi in un certo modo persuasi ch’ella sia porpora immortale». Quando invece la Donna, supremo dimostramento della bellezza sensuosa, si svela ma non fugge, e invece resta qui, con noi, tra di noi, ad amarci (a illudere di amarci? A illudere di essere amata?), essa mostra il suo essere obliquo e perfido, vampiresco e meduseo (e, come la stessa vita, appare benedicente e maledicente).

  Insuperabile e insanabile sempre è la distanza che allontana l’artista  dagli uomini-mercanti; e profonda e incomponibile è la stessa differenza che separa il creatore-dandy, fiero dispregiatore di ogni idea di condivisione democratica, dal piccolo servo della società, innorbito dai meschini interessi economici, dalle fole e dai finti idealismi politicheggianti, dall’umanismo interessato delle fedi religiose.

  Il buon cittadino, il buon cristiano afferma, vuole, capisce, perdona. Tende alla riconciliazione, alla speranza, alla resa incondizionata. Lavora, produce, costruisce. Si illude e illude coloro che gli sono vicino. Il poeta no. Il poeta sa che l’unica verità è l’assenza di verità. Sa, anzi, che l’unica verità accettabile è la negazione, è l’opposizione all’ordine costituito dalle autorità morali, religiose, politiche della società in cui, a suo dispetto, è costretto a vivere. Egli è il portavoce della disillusione e del contro-canto. Il poeta nega e combatte, là dove tutti gli altri affermano e sono illusivamente propositivi, uniti, concordi e felici. Il “No!” continuo e disperato ch’egli usa, ostinatamente, per difendersi dal cattivo odore del prossimo, lo apparenta alla triste saggezza di Satana, che si ribella contro la prepotenza divina di voler concentrare su di sé l’unica possibile immagine della Verità.

  Il poeta ha scelto la strada della disubbidienza, del rovesciamento, del sovvertimento degli idoli, della confutazione delle ipocrisie umanistico-riconciliative; egli diventerà, così, il «maledetto», il «negativo», il «folle». La buona società non accetta le scomode anti-verità del poeta, contrapposte alle oneste menzogne dell’uomo comune. Il poeta ha scoperto e ha mostrato il male dell’esistenza, e va condannato agl’Inferi, a un esilio infinito.

  È l’esilio dell’albatro: animale superiormente nobile e altro; e, appunto, in quanto nobile, altro e distante, perché abituato più al cielo, alle nuvole, all’indistinto, esso non può essere apprezzato dai naviganti (cioè dai continui cercatori, da quelli che vogliono arraffare, catturare, accumulare). Un poeta vuole il rapimento e il vortice. Soprattutto non vuole essere. Non vuole appartenere a nulla; tantomeno a sé stesso.

  La chimericità di inseguire il Nirvana del non-essere si configura, tuttavia, dolorosamente, come un continuo atto di Ribellione e, dunque, come un atto di volontà. La figura baudelairiana di Satana è certo un nemico del filisteo «socratico», dell’amico della logica e della buona coscienza; ma è anche un sovrano messaggero del Nulla, un attore felice di aver dimenticato per sempre le battute che l’ipocrita commedia della vita comunitaria vuole imporgli di recitare. Satana appare come l’oppositore della coscienza del fare e dell’essere. Ripudia l’affanno zelante dei lavoratori: dice di No; toglie e non dà; distrugge e non crea; ha ribrezzo, come il poeta, delle ambizioni di dominio imperialistico dei politicanti tardo-borghesi: vuole andare a picco, dimenticare il proprio nome: diventare lui stesso una poesia, una melodia.

  Ecco, allora, che cosa intende davvero, Baudelaire, nel pronunciare la parola Musica: un mezzo di amplificazione (e, dunque, di dilatazione-distruzione) dell’io. La prospettiva è, chiaramente, schopenhaueriana e wagneriana; e tutta wagneriana, vista l’ambizione di voler declinare la parola poetica in Gesamtkunstwerk, è la stessa percezione sinestetica dell’universo; di qui, lo sviluppo di una profonda e nobile intuizione: tutte le immagini nascono, in origine, dalla stupefacente gemmazione di un suono primordiale, e tutti gli elementi condivisi in questa visione sinestetica – suono, testo, parola, musica, immagine – percorrono un’unica strada che ci ricorda la complementarità e la profonda unione che sempre lega e stringe l’ascolto e la visione, i corpi e le sembianze: «Giacché sarebbe davvero sorprendente che il suono non potesse suggerire il colore, che i colori non potessero dare l’idea di una melodia, e che il suono e il colore fossero impropri a tradurre le idee; le cose infatti si sono sempre espresse con analogia reciproca, dal giorno in cui Dio ha proclamato il mondo come una complessa e indivisibile totalità».

Mario Fresa n. 2Mario Fresa, nato nel 1973, ha esordito nel 1999 sulle pagine di «Specchio della Stampa», presentato da Maurizio Cucchi. Altri suoi testi in poesia e in prosa sono stati pubblicati sulle principali riviste culturali italiane, da «Caffè Michelangiolo» a «Paragone» a «Nuovi Argomenti», e in varie antologie, tra le quali Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004). Anticipazioni del suo nuovo libro di prose-poesie sono uscite su «Smerilliana» (2014), con un saggio di Valeria Di Felice, e su «Quadernario» (2015), a cura di M. Cucchi. Tra le sue ultime raccolte di poesia: Alluminio (introduzione critica di Mario Santagostini, 2008), Costellazione urbana (Mondadori, «Almanacco dello Specchio», 2008), Uno stupore quieto (prefazione di Maurizio Cucchi, La collana, Stampa, 2012; menzione speciale al premio Internazionale di Letteratura Città di Como), Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con disegni di Mattia Caruso, 2015). Ha curato l’edizione critica del poema Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo di Gabriele Rossetti (Carabba, collana “I Classici”, 2012), e la traduzione del De cura rei familiaris di Bernardo di Chiaravalle (Società Editrice Dante Alighieri, 2012). Firma la rubrica Sguardi sulla rivista «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», di cui è redattore.

6 commenti

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6 risposte a “Charles Baudelaire POESIE SCELTE traduzione e presentazione a cura di Mario Fresa

  1. “La modernità è al transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile […] perché ogni modernità acquisti il diritto di diventare antichità, occorre che ne sia stata tratta fuori la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevole, la vita umana” (Ch. Baudelaire).

    Nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936-37), Benjamin contrappone ad ogni interpretazione mistico-esoterica del fenomeno artistico una concezione in qualche modo secolarizzata di esso. Prodotto di uomini per un pubblico, l’arte va analizzata ” materialisticamente ” sia nei suoi modi di elaborazione e di rappresentazione anche tecnica nelle particolari modalità recettive del fruitore. Lo sviluppo delle forze produttive, rendendo tecnicamente possibile la riproducibilità delle opere d’arte (pensiamo alla televisione, ai cd, alla radio, al computer, ecc), ha messo fine all’alone di unicità, originalità e irripetibilità dell’opera d’arte, ossia all’ “aura” che la circonda di sacralità agli occhi della borghesia, la quale proietta in essa i suoi sogni e ideali aristocratici: l’aura è quindi l’alone ideale che rende sensibile al fruitore l’unicità irripetibile dell’atto creativo. Nella società di massa, in cui regna la riproducibilità dell’opera d’arte, l’opera d’arte «può introdurre la riproduzione dell’originale in situazioni che all’originale stesso non sono accessibili. In particolare, gli permette di andare incontro al fruitore, nella forma della fotografia o del disco. La cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d’arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all’aria aperta può venir ascoltato in una camera. Ciò che vien meno è quanto può essere riassunto con la nozione di ‘aura’ e si può dire: ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’aura dell’opera d’arte». La riproducibilità tecnica segna il trionfo della copia e del «sempre uguale».
    Con Baudelaire abbiamo il primo esempio di un poeta che pone se stesso e la propria opera come uno stratega e una strategia per imporre la propria opera al pubblico, ma non il pubblico presente della sua epoca quanto quello a venire; una abilissima strategia per sottrarre al pubblico contemporaneo l’opera d’arte ormai divenuta mera merce tra le merci…
    Charles Baudelaire, “Le Peintre de la vie moderne

    Invito al viaggio

    Mon enfant, ma soeur,
    Songe à la douceur
    D’aller là-bas vivre ensemble !
    Aimer à loisir,
    Aimer et mourir
    Au pays qui te ressemble !
    Les soleils mouillés
    De ces ciels brouillés
    Pour mon esprit ont les charmes
    Si mystérieux
    De tes traîtres yeux,
    Brillant à travers leurs larmes.

    Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
    Luxe, calme et volupté.

    Des meubles luisants,
    Polis par les ans,
    Décoreraient notre chambre ;
    Les plus rares fleurs
    Mêlant leurs odeurs
    Aux vagues senteurs de l’ambre,
    Les riches plafonds,
    Les miroirs profonds,
    La splendeur orientale,
    Tout y parlerait
    À l’âme en secret
    Sa douce langue natale.

    Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
    Luxe, calme et volupté.

    Vois sur ces canaux
    Dormir ces vaisseaux
    Dont l’humeur est vagabonde ;
    C’est pour assouvir
    Ton moindre désir
    Qu’ils viennent du bout du monde.
    – Les soleils couchants
    Revêtent les champs,
    Les canaux, la ville entière,
    D’hyacinthe et d’or ;
    Le monde s’endort
    Dans une chaude lumière.

    Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
    Luxe, calme et volupté.

    Traduzione di Giovanni Raboni (1987): Sorella mia, mio bene, / che dolce noi due insieme, / pensa, vivere là! / Amare a sazietà, / amare e morire / nel paese che tanto ti somiglia! / I soli infradiciati / di quei cieli imbronciati / hanno per il mio cuore / il misterioso incanto / dei tuoi occhi insidiosi / che brillano nel pianto. / / Là non c’è nulla che non sia beltà, / ordine e lusso, calma e voluttà. // Mobili luccicanti / che gli anni han levigato / orneranno la stanza; / i più rari tra i fiori / che ai sentori dell’ambra / mischiano i loro odori, / i soffitti sontuosi, / le profonde specchiere, l’orientale / splendore, tutto là / con segreta dolcezza / al cuore parlerà / la sua lingua natale. // Là non c’è nulla che non sia beltà, / ordine e lusso, calma e voluttà. // Vedi su quei canali / dormire bastimenti / d’animo vagabondo, / qui a soddisfare i minimi / tuoi desideri accorsi / dai confini del mondo. / – Nel giacinto e nell’oro / avvolgono i calanti / soli canali e campi / e l’intera città / il mondo trova pace / in una calda luce. // Là non c’è nulla che non sia beltà / ordine e lusso, calma e voluttà.

    Traduzione di Gesualdo Bufalino (1984): Bimba, sorella mia, / che cara fantasia, / pensa, potercene laggiù fuggire! / Là dove a meraviglia / tutto ti rassomiglia, / amare e vivere, amare e morire! / Da quegli ombrosi cieli / un sole, se trapeli / madido, sparge un misterioso incanto / che mi prende la mente, / come perfidamente / gli occhi tuoi quando brillano nel pianto. / / Tutto laggiù è ordine e beltà, / magnificenza, quiete e voluttà. / / Mobili, fatti lustri / da un lungo uso di lustri, / adornerebbero la nostra stanza; / s’unirebbe l’odore / d’ogni più raro fiore / dell’ambra alla volubile fragranza; / le ricche volte, gli ampi / specchi dai mille lampi / lo splendor della vita orientale, / parlerebbe ogni cosa / all’anima curiosa / la dolce arcana sua lingua natale. / / Tutto laggiù è ordine e beltà, / magnificenza, quiete e voluttà. / / Guarda su quei canali / piegare al sonno l’ali / i velieri dall’estro vagabondo: / non sai? per farti pago / il cuore in ogni svago / sono venuti qui di capo al mondo. / I dorati tramonti / accendon gli orizzonti, / le campagne, i canali, la città, / d’un lume di giacinto; / s’assonna il mondo vinto / in una calda luminosità. / / Tutto laggiù è ordine e beltà, / magnificenza, quiete e voluttà.

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  2. Jacopo Ricciardi

    Fresa e Raboni mostrano chiaramente a chi conosca come proprie le due lingue quanto la traduzione difetti, non salvando ma affossando l’originale. È pur vero che le traduzioni parlano a chi non conosce la lingua dell’originale per forza di una contrazione mentale che deve ragiungere il barlume originario, e sembra possibile, ma quanto lontana risulta una traduzione che rallenta ciò che nell’originale è fulmineo.

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  3. Improvviso qui una mia traduzione di una poesia nella quale ho cercato di salvare, dove possibile, le rime e la leggerezza del dettato baudeleriano…

    LA MUSIQUE

    La musique souvent me prend comme une mer !
    Vers ma pâle étoile,
    Sous un plafond de brume ou dans un vaste éther,
    Je mets à la voile ;

    La poitrine en avant et les poumons gonflés
    Comme de la toile,
    J’escalade le dos des flots amoncelés
    Que la nuit me voile ;

    Je sens vibrer en moi toutes les passions
    D’un vaisseau qui souffre ;
    Le bon vent, la tempête et ses convulsions

    Sur l’immense gouffre
    Me bercent. D’autre fois, calme plat, grand miroir
    De mon désespoir !

    LXIX

    MUSICA

    La musica sovente mi prende come un mare!
    Verso la mia pallida stella,
    Sotto la volta di una bruma o in un vasto etere,
    E allora metto la vela

    Petto in avanti, i polmoni gonfi
    Come una tela;
    Scalo la cresta dell’onda
    Che la notte mi vela;

    Sento in me vibrare tutte le passioni
    D’un vascello che soffre;
    Il buon vento, e le sue convulsioni,

    Sull’immenso abisso
    Mi cullano. Altre volte, bonaccia, grande specchio
    Della mia disperazione!

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  4. Jacopo Ricciardi

    Per esempio al primo verso il terminale “mer” col suo suono aspro che già scava per contrasto nell’armonia di “musique” è secondo me da intendersi in rapporto con “mère” madre che ha identico suono. Citazione confermata da “bercent” cullare del figlio e dondolare tentennare della barca. Da questo punto iniziale della poesia il seguito è un’apertura del gouffre che proprio la parola “mer” apre nella musica che è a sua volta madre (armonia), e il figlio il poeta è inteso nella sua lontananza. Proprio da ciò che è più vicino. La natura della musica è appunto avvolgente ma può essere anche penetrante. Mi piace la personale interpretazione che ne dà Fresa dove “sur l’immense gouffre” diventa per opposto “sul fondo di quel gorgo”, poesia modulata a me pare ad ogni giuntura con rinnovato garbo e suadenza. La versione improvvisa di Linguaglossa mi ha fatto pensare a quanto mediterranea sia la lingua italiana con i suoi suoni pari e sempre portati a termine e quanto lontana sia da questo la lingua francese con le sue tronche che parlano l’una nell’altra, come per esempio “mer” in “amer” (presente nel testo proprio perché assente), creando un allacciamento di continuità di suono che fa ondulare e fluire i versi francesi.

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