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Introduzione di Magda Vigilante al volume: Arturo Onofri, Nell’Inferno, PandiLettere Edizioni, 2021 pp. 72 € 10 – Una ermeneutica attraverso la sua narrativa

Arturo Onofri
Arturo Onofri è conosciuto soprattutto come poeta1, ma nella sua breve vita (Roma 1885-1928) scrisse volumi di carattere teorico2, critico letterario3, musicologico4 e numerosi racconti e prose composti in giovane età. Alcuni racconti furono editi su giornali dell’epoca, ma molti, rimasti inediti, sono conservati nell’archivio Arturo Onofri depositato presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma. Purtroppo la maggior parte di questi testi non è datata e quindi è difficile collocarli con esattezza nel percorso creativo dell’autore. Tuttavia dei tre racconti scelti5 i primi due sono datati 1907, e l’ultimo 1910. Risalgono quindi a una fase molto giovanile dell’autore e presentano un impianto di tipo tradizionale, ma i toni carichi di pathos e le immagini simboliche, l’ardito analogismo, presenti soprattutto nel terzo racconto, dal significativo titolo Nell’Inferno 6, appartengono a pieno titolo ai movimenti del Decadentismo e del Simbolismo che, alla fine dell’Ottocento, si opposero al Naturalismo e al Verismo dominanti. In seguito Onofri aderirà al Frammentismo Vociano componendo brevi prose liriche7 le quali evidenziano quanto egli sostiene in un articolo edito su “Lirica”, la rivista fondata da lui stesso nel 1912, dove scrive che «tra poesia e prosa non esistono separazioni decise» 5 dal momento che «debbono la loro effettuazione alle medesime facoltà espressive e anzi, alla stessa disposizione linguistica, musicale, stilistica ecc. la quale può variare indefinitamente per sfumature innumerevoli8 ». Inoltre, la concisa essenzialità del “frammento” riproduce in modo immediato nella scrittura le sensazioni che l’autore prova di fronte alla realtà circostante.

Il 1907, anno di composizione dei primi due racconti, occupa una posizione particolare nella vita di Onofri. Nel suo Abbozzo di una autobiografia dove egli applica una scansione settenaria degli anni sulla base degli insegnamenti dell’antroposofia steineriana alla quale aveva aderito, il 1907 è inserito nel IV settennio che va dal 1906 al 1912, ed è sottolineato due volte10. Nelle didascalie sotto la tabella degli anni, accanto al simbolo della doppia sottolineatura, si legge che l’anno 1907 appartiene agli anni definiti «creativo-laboriosi». In effetti in quest’anno Onofri pubblicò la sua opera prima, la raccolta di poesie Liriche dove trovarono compiuta sistemazione le poesie composte negli anni precedenti, ma nello stesso anno, egli si dedica anche alla composizione di prose, come si rileva dal primo racconto intitolato Il pollice esercitato, un vero e proprio divertissement che manifesta una componente ironica, destinata a scomparire quasi del tutto nella successiva produzione letteraria onofriana. Le idee a cui si riferisce il racconto non appartengono affatto al mondo iperuranio di Platone, ma sono delle dispettose piccole streghe che sembrano uscite da una favola. Il tono fiabesco perdurerà in alcuni testi successivi come, a dieci anni di distanza, nella prosa lirica Silfo12 dove compaiono lo spiritello dell’aria e la sua compagna, la silfide, che compiono giocosi vagabondaggi sulla terra. Tuttavia i due genietti, al pari delle minuscole streghe, sono considerati malefici nella mitologia germanica a cui appartengono. Persino nella tarda fase della produzione onofriana, nel 1925, una delle prose13, senza titolo, ma facente parte di una eterogenea raccolta denominata dall’autore Temi e non poemi14, sembra il proseguimento di Silfo. Stavolta però le creature fantastiche non suscitano più l’antica magia. «L’arcobaleno di ieri» si è lacerato in «mille fettucce» e la leggiadra silfide non seduce più lo gnomo. Il poeta non può ricreare quel mondo perduto, anche se riporta alla luce «la piccola figlia dell’aria». Deve ormai constatare che la mitica giovinezza è per sempre perduta. Con l’arrivo della maturità, egli si dedicherà alla ricerca di un’altra realtà, non effimera, ma spirituale, che si manifesterà nel ciclo lirico della Terrestrità del sole.

Tornando all’analisi del racconto, l’autore specifica che il vocabolo «idea» è usato dagli altri, mentre egli le considera piccoli esseri capricciosi che dovrebbero presiedere alla creazione artistica. L’artista tuttavia non può modellare la materia della sua opera se non esercitandosi assiduamente. È singolare che Onofri, il quale utilizzava le parole per comporre versi e prose, prenda in prestito per indicare in generale il lavoro artistico immagini tratte dalla scultura. L’esercizio necessario per la creazione è quindi metaforicamente compiuto dalle mani, in particolare dal «pollice esercitato», e non dal pensiero astratto. La materia su cui deve agire l’artista è la «creta», non ancora sufficientemente molle per essere lavorata. Anche Il sottotitolo del racconto (Sinfonia in minore) rinvia all’uso sapiente delle mani compiuto stavolta dal musicista. L’operazione rivela anche un riferimento biblico, a quando nel libro della Genesi «Il Signore Dio modellò l’uomo con la polvere del terreno e soffiò nelle sue narici un alito di vento; così l’uomo divenne un essere vivente15»

Del resto anche Gesù compie alcuni miracoli utilizzando la terra come nell’episodio del cieco nato16 al quale egli applica sugli occhi del fango mescolato alla saliva e gli comanda di andarsi a lavare nella piscina di Siloe dove l’uomo riacquista la vista. Sia la creazione dell’uomo, sia il dono della vista al cieco nato presuppongono un materiale terreno: la polvere nel primo caso, il fango nel secondo. La terra quindi è l’elemento base da cui prende origine la vita umana che non sarà però solo materiale, ma anche spirituale dal momento che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza. Ugualmente la terra manipolata da Gesù diviene la luce del dono della vista per il cieco. In entrambi i casi il soffio vitale della creazione o il risanamento procedono dalla terra alla quale viene impressa l’orma divina.

Anche l’artista dovrà allora lavorare la “materia” della sua arte per farla divenire un’opera artistica riconosciuta come tale. Questa impresa mette a dura prova le sue capacità che non possono ottenere nulla se la materia non si lascia plasmare. Le piccole streghe, che rappresentano l’ispirazione, si divertono a fornire una modesta quantità di materia all’artista, illudendolo di poterla liberamente modellare. Le forze però non gli bastano, il futuro oggetto del suo lavoro è ancora troppo vasto per essere rinchiuso nel poco materiale a disposizione. Tuttavia l’artista, preso da rabbia, imprigiona i piccoli esseri dispettosi proprio nel materiale che deve lavorare. Allora essi cominciano a lamentarsi e a piangere ammorbidendolo. Così l’artista può compiere il suo lavoro a cui dedica le sue energie e liberare le “idee”. La materia cede, ma l’ispirazione che l’aveva permeata, fugge. A questo punto, però, con lei scompare anche il senso e lo scopo di quanto viene modellato. L’artista quindi non può fare a meno dell’ispirazione che, sola, può giustificare la creazione. Senza le piccole streghe, la creta divenuta molle non si trasforma più in un’opera significativa e rivelatrice dello spirito che abita l’uomo. Egli allora per creare l’opera deve trovare un difficile equilibrio tra un costante esercizio e la capricciosa ispirazione, che tende a sparire, ma senza la quale non si raggiunge lo scopo del lavoro che si compie. 12 13 Il successivo racconto I due, è centrato sul tema del “doppio” che ricorre, sotto le sembianze del gemello, del sosia, dell’alter ego nella letteratura fin dall’antichità classica, ma nell’immaginario collettivo è associato soprattutto al romanzo Lo strano caso del dottor Jekill e del signore Hyde di R. L. Stevenson17. Il “doppio” di Onofri non ha il carattere tragico dell’opera di Stevenson dove il dissidio interiore tra due aspetti diversi della personalità, rappresentati da due personaggi distinti, conduce alla catastrofe finale. Il racconto onofriano sembra, invece, avere in comune con il romanzo Kreisleriana: dolori musicali del direttore d’orchestra Giovanni Kreisler di Hoffmann18 l’insofferenza verso la banale quotidianità borghese a cui l’autore tedesco oppone la vita eccezionale dell’artista, nella fattispecie quella del bizzarro musicista Giovanni Kreisler, alter ego dello stesso Hoffmann, mentre Onofri si sofferma in particolare nella critica alle convenzioni sociali imposte all’individuo, il quale subisce la costrizione di dover rivestire un ruolo, soffocando così il proprio vero io19. Egli assai presto provò fastidio verso istituzioni e riti sociali come rivelano alcuni appunti che risalgono, come è scritto dall’autore stesso, al periodo «(1899-1906) Dai 14 ai 21 anni»:

Senso di sollievo a uscir fuori finalmente dalla caserma. Spettacolo sempre doloroso della vita irreggimentata (come collegio, prima comunione, scuola ecc.). In precedenza Onofri aveva spiegato come sorpresi dalla pioggia, durante una battuta di caccia, lui e il padre si erano riparati in una caserma di carabinieri dove erano stati accolti con molta gentilezza. Quando era uscito dalla caserma, Onofri però aveva provato la sensazione descritta20

ARTURO+ONOFRI+-+NELL'INFERNO I Due reca la data «27/8/1907», anno nel quale Onofri ancora non conosceva il futuro poeta Giorgio Vigolo21, ma per una curiosa coincidenza pure il personaggio del suo racconto si chiama Giorgio e condivide con Vigolo l’insopprimibile desiderio di non volere aderire al modello di vita borghese, che pervaderà molti anni dopo il lungo racconto vigoliano Autobiografia immaginaria22 dove il protagonista, che è anche l’io narrante, vive con intensa drammaticità il contrasto tra una vita borghese e l’esistenza libera dell’artista. Invece il racconto onofriano è breve e inizia con un incontro definito dal narratore come «uno di quei fenomeni telepatici rimasti inesplicabili». Costui ha un caro amico di nome Giorgio che trascorre la maggior parte dell’anno in campagna e quindi è molto difficile incontrarlo in città. Ma ecco che, passando il narratore «per una via angusta e buia» della città, gli compare davanti l’amico a cui stava pensando proprio in quel momento. Fin dall’inizio quindi l’incontro non è casuale e ha un significato che si scoprirà durante la narrazione.

C’è infatti qualcosa di misterioso nell’amico che, apparentemente, ha il suo solito aspetto di uomo elegante e benvestito, che ha cura di sé, eppure egli appare come diminuito e diverso: «gli occhi sono spenti», la voce è particolarmente bassa e, nell’insieme, egli sembra trasognato e non presente a se stesso. Ma una voce vibrante di misteriosa provenienza afferma in modo sibillino: «Egli è me». Allarmato, il narratore si accorge allora che, accanto al suo amico, c’è «un’ombra di uomo». Quest’ombra in modo paradossale, pur ricordandolo, ha un aspetto molto più vitale del suo proprietario, il quale rivelerà all’amico esterrefatto, che è lei il vero Giorgio.

L’altro Giorgio, quello che crede di conoscere e con il quale sta parlando, non è che il suo essere “sociale” sottomesso a tutte le regole costrittive della società che annullano la personalità, rendendola conforme alla massa obbediente. Si evidenzia inoltre il contrasto tra natura (l’amico ha scelto di vivere in campagna) e città per il quale la seconda è la sede degli uomini automi, mentre a contatto con la natura l’uomo recupera il proprio essere naturale. In un appunto risalente al 191123, a proposito della vita cittadina, Onofri confessa:

«A Fiumicino con Fracchia febbraio 1911 ricerca della solitudine e della vastità. […] Sento tutto il malessere segreto al pensiero della città moderna in travaglio: solo la musica era un aiuto a liberarsi. Barlume della libertà suprema dell’anima seguire Iddio, essere Io (individuale)».

Sono già presenti in lui l’anelito dell’anima verso l’infinito e la volontà di esperire la sua vera essenza che lo condurranno in seguito a riconoscere nella antroposofia steineriana la direzione da seguire nella sua ricerca spirituale. Ora egli si limita a fuggire con un amico dalla città rumorosa e dalla sua folla febbrile in un volontario esilio.

Ancora 10 anni più tardi, la prosa lirica Senz’alba24 descrive una scena apocalittica dove il sole non sorge più a illuminare e riscaldare un paesaggio naturale degradato e l’umanità «ridotta a formicai di nani», «nelle metropoli di cemento illuminate a giorno», è costretta «al lavoro forzato di produrre un po’ di sole ora per ora». È significativo che Onofri per rappresentare tale catastrofe ambientale e umana non ricorra a stilemi naturalistici o veristi, ma proponga una visione fantastica e simbolica dove il sole scomparso può rappresentare l’eclissi dello Spirito, in un mondo desacralizzato25.

Nel racconto il falso Giorgio appare una specie di manichino elegantissimo, ma spento e senza vita, mentre il vero Giorgio presenta nell’abbigliamento non particolarmente curato, nei capelli scomposti e nel grande fascio di fiori silvestri che stringe al petto, la libera gioia di chi vive la sua autentica essenza. Al di là della facile e quasi ingenua rappresentazione dell’uno e dell’altro Giorgio, si manifesta quindi la misera condizione degli abitanti della città che nascondono sotto un aspetto esteriore accurato, la rigida fissità di automi. Alla richiesta dell’amico se tutti gli uomini abbiano, sebbene in modo inconsapevole, un essere autentico in sé, che li segue come ombra, il vero Giorgio afferma risolutamente che solo alcuni però si accorgono di questa presenza. Alla fine del racconto, il narratore scopre anche lui di avere l’ombra in cui si identifica la sua vera essenza, e si dispone a seguirla.

È interessante notare come Onofri ribalti il significato negativo che più tardi assumerà l’ombra nella psicoanalisi junghiana dove simboleggia le parti rimosse della personalità perché non confacenti all’educazione ricevuta in famiglia e nella società. Anche nella fiaba L’ombra26 di H.C. Andersen, che di solito non figura nelle edizioni per bambini, questa è una minacciosa presenza che a poco, a poco, si sostituisce al proprietario, rendendolo suo schiavo. È l’ombra infatti che, spacciandosi per l’essere umano, conquista la fama e il successo nella società, e giunge fino a diventare lo sposo della figlia del re. Invano l’uomo vuole smascherarla e farla imprigionare dai soldati i quali, osserva beffarda l’ombra, non gli crederanno mai. Nel racconto onofriano, invece, il simbolo dell’ombra rappresenta la vera natura dell’uomo e non le parti della personalità rimosse che, qualora non siano riconosciute e integrate, possono scatenare la nevrosi.

Durante gli anni della maturità, proseguendo nella conoscenza di se stesso, Onofri scriverà nella prosa Tripartizione27, risalente al 1921, che nella sua vita si alternano senza confondersi «tre periodi ideali» che non si integrano tra loro:

In un periodo io sono tutto senso e sentimento verso il mondo esteriore (arte = italianità) poi viene un periodo in cui sono tutto pensiero e meditazione filosofica e spirituale (teosofia = germanesimo), e infine un periodo nel quale io sono tutto azione, aggressività, volontà e disciplina (automortificazione = mondo slavo28).

Per superare tale «Trialismo spirituale faticosissimo» di sentimento, pensiero e volontà, egli ritiene che sia necessario un atto sintetico compiuto dalla sua volontà spirituale cosciente. Rispetto al semplice dualismo tra io vero e falso del racconto giovanile I due, Onofri è ora consapevole della maggiore complessità degli stati d’animo che attraversa, i quali possono essere equilibrati solo rivolgendosi alla propria fonte spirituale interiore. La vita, illuminata dallo spirito, troverà una corrispondenza nella sua nuova poesia dove «figure composte di suono d’anima» abitano i suoi versi come fossero «creature terrestri di carne e ossa». Egli infatti è convinto che l’umanità ospiti dentro di sé «un giuoco di tale figure di musica» che egli s’accinge a far risuonare nella propria lirica.

 Nel 1910 Onofri scrisse il lungo racconto Nell’Inferno29 e nello stesso tempo compose il romanzo Disamore30. I due testi, pur appartenendo a strutture formali diverse, narrano entrambi una passione amorosa nefasta e ossessiva con esiti espressivi diversi. Il racconto è infatti la trascrizione di un sogno, il più angoscioso, che assilla l’autore come egli stesso scrive in una nota sotto il titolo. Alla fine del racconto un’altra nota autografa afferma31: «Al ridestarmi da questo sogno io ero malato». In effetti il sogno nella sua cupezza trova un riscontro nell’infermità del corpo che, tuttavia, è anche una malattia dell’anima. L’atmosfera del testo è quindi dichiaratamente onirica e come tale presenta toni surreali, di indubbia modernità. Il romanzo, invece, vuole essere «un saggio di prosa poetica», dove si attui «un’arte sempre meno comune e volgare, […] più lirica, moderna, intima e individuale». In realtà la modernità è molto più presente nel racconto che non in Disamore che presenta toni d’indubbia influenza dannunziana, sebbene in immagini isolate l’autore riesca a raggiungere un tipo diverso di espressione artistica che già preannuncia i brevi frammenti poetici di Orchestrine. Comunque è un romanzo «atipico32» che dilata in un centinaio di pagine la lunga notte che vive il protagonista nella casa della sua amante, la quale è descritta secondo il topos decadente della donna bellissima, ma malefica

L’incontro tra i due amanti è preceduto da una serie di concitate riflessioni del protagonista che oscillano tra i due opposti poli di un agognato riscatto spirituale e dell’inevitabile prigionia a cui lo condanna il desiderio sessuale verso la donna. Quando egli raggiunge la donna nella sua casa, l’incessante conflitto continua a tormentarlo alternandosi in stati d’animo contraddittori. L’intero romanzo è caratterizzato dalla spietata e continua analisi psicologica del protagonista, il quale ama e odia la donna e tenta disperatamente di sottrarsi al suo fascino perverso che ella continua a esercitare su di lui. È interessante confrontare i due testi nelle analogie e nelle diversità che li contraddistinguono, nonostante il medesimo argomento trattato e la stessa unità di luogo e di tempo. Anche nel racconto infatti tutto si svolge in una notte e in uno stesso luogo, una squallida stanza che l’io narrante aveva affittato da una laida coppia di anziani. Infatti Onofri nella stesura del racconto, probabilmente precedente quella del romanzo, traduce in linguaggio narrativo immagini e situazioni scaturite dal suo inconscio, ma rielaborate secondo moduli decadenti, mentre nel romanzo egli rappresenta il suo intimo dissidio tra coscienza e istinto secondo canoni prestabiliti. Le differenti modalità che presiedono alla composizione dei due testi saranno quindi esaminate attraverso alcuni passaggi significativi33.

In D il protagonista mentre si reca dall’amante si ferma a contemplare Roma dall’alto:

«Mi ritrovai in alto, su uno dei sette colli. Di sotto si stendeva la città neghittosa tra le nebbie, ove lucevano a mala pena le pallide lampade. Ma i vapori non giunge vano neppure ai miei piedi34».

 Dopo la visione della città inerte, avvolta nelle nebbie, egli sente:

«Un acuto grido di stelle in un brano d’azzurro, e tutto un gridio di crescenti musiche sul mio capo dilatarsi in un respiro sempre più vasto, finché dell’intero firmamento pullulò un coro di gioconda rinnovazione35».

Alla città ridotta a una massa indistinta e scarsamente illuminata che giace in un sonno greve, si oppone l’armonia cosmica che per un breve istante lo avvolge e gli fa intravedere un mondo diverso, puro, dove non avranno più presa su di lui il «cerchio fascinatore» e «l’efficacia mortifera delle passioni». Nulla del genere in I dove l’io narrante vegetava in una «esasperata atonia» priva di ogni slancio spirituale, anzi rincasando, egli voleva sommergere nel sonno «un malessere indefinito» che lo perseguitava. Nel suburbio dove abitava le viuzze erano colme di melma e la bocca d’una taverna spalancava in uno sbadiglio le sue mascelle di pietra illuminate, attraenti come le fauci d’un mostro. Dall’Inferno emanavano odori graveolenti e clamori, e l’aroma inasprito del vino.

L’immagine vivida e umanizzata della taverna si staglia improvvisa, immergendo subito il racconto in un’atmosfera infernale nella quale la scrittura si avvale di arditi accostamenti e crea addirittura dei neologismi. Successivamente, infatti, il protagonista intravedeva dalle porte semichiuse di miserabili case «lembi d’Inferno pieni d’incanto per me che ne nutrivo la mia volontà imparadisatrice». Il nuovo verbo svela quindi come egli renda paradiso quel mondo infernale dal quale era molto attratto e in cui viveva senza alcuna volontà di uscirne fuori, ma con un piacere perverso. Anche i due vecchi locandieri che lo ospitavano sono descritti come i custodi di un antro infernale: lui un vecchio ubriacone che accoglieva l’ospite con il suo tanfo nauseabondo e l’assordante russare, lei una povera donnetta la cui «animula» non sembrava già più appartenere al mondo terreno.

Se il protagonista di D osserva dall’alto la città di cui la nebbia nasconde i possibili orrori, quello di I era completamente calato nella realtà cittadina di tetri suburbi dove egli aveva scelto di vivere. Tuttavia il verbo al passato del racconto, mentre nel romanzo è al presente, sembra indicare un’evoluzione del personaggio che in D vuole ribellarsi, a differenza di quello di I, a una esistenza opaca e sordida come gli infimi quartieri che è costretto ad attraversare per raggiungere più rapidamente la casa dell’amante. Tuttavia anche in D compare un elemento diabolico rappresentato da «due punti gialli, fosforici» che gli appaiono dalla cima delle scale. L’efficace sineddoche si riferisce a un gatto nero che tornerà in scena nella parte finale del romanzo. Ora «gli sguardi gialli» stralunati sembrano avvertire l’incauto visitatore di non oltrepassare la soglia, pena la morte dell’anima che rievoca l’Inferno dei dannati. Ma ormai l’uomo è completamente stregato e, mettendo a tacitare la sua coscienza, sale risolutamente le scale. Lo attende la sua amante, Eliana, descritta secondo il cliché della donna fatale:

«Eliana giaceva bocconi sul vasto letto. Avviluppata in veli cangianti serrati ai fianchi da una cintura azzurra, simili alla veste illusoria in cui l’aveva avvolta il mio credulo amore, con i capelli sciolti, in disordine […]36».

L’aspetto fisico della donna è caratterizzato nel corso della narrazione, da una sostanziale ambiguità: sparsi sul suo corpo pallido i capelli rossi sembrano «rivi di sangue», le «labbra di vampiro» si protendono in «baci ingordi», «il suo profumo, aspro e soave allo stesso tempo», si sprigiona da tutta «la sua carne affettuosa e perversa». Successivamente, in un crescendo di negatività, la donna si trasformerà nell’«idoletto informe d’una smania maledetta». L’uomo infatti osserva in modo spietato tutti i difetti della sua amante per mettere fine alla relazione. Ma il difetto maggiore della donna, verso la fine del romanzo, si rivela essere la sua sterilità:

«Non posso amarla. Ella è sterile. Fredda e sterile come un diamante è il suo corpo. Non posso amarla».

 In precedenza le aveva rimproverato l’incapacità di sentire l’anelito spirituale che è presente in ogni uomo: Ma per quale maledizione tu non puoi sentire nella vita d’una creatura umana tutta la solennità augusta del dio che vige in ogni nostro pensiero.

È significativo che l’elemento decisivo per abbandonare l’amante sia la sua sterilità per la quale ella si conferma essere la parte negativa dell’archetipo femminile della donna sposa e madre vigente in quell’epoca. L’attrazione fisica e sessuale che l’autore prova verso Eliana è percepita quindi come distruttiva e del tutto opposta all’amore vero che s’incarna invece, in una donna dalle qualità angeliche, in grado di fargli superare l’intima e tormentosa dicotomia tra richiamo dei sensi e purezza di sentimenti in cui egli si dibatte.

Giorgio_Linguaglossa_cover_Dopo_Il_NovecentoDel tutto diverso è l’incontro con la donna in I che avviene in modo molto inquietante. Dopo aver sentito con tedio le frasi sconnesse del vecchio che ricordava la scomparsa della figlia bellissima e il tragico assassinio del figlio in una rissa postribolare, il protagonista saliva a tentoni «la scaletta scricchiolante che conduceva alla soffittaccia del [suo] cuore». Egli amava, infatti, lo squallido alloggio che ha trovato nel misero quartiere popolato da un’umanità derelitta e scellerata. A differenza del personaggio di D, egli non voleva uscire dall’Inferno di luoghi e persone che morbosamente lo attraeva. Dovendo trasferire il materiale onirico nelle strutture narrative, Onofri accentua i suoni e le sensazioni provate dall’uomo: un freddo intenso gli faceva battere i denti, insonne, si girava e rigirava nel letto, mentre ascoltava i lugubri rintocchi di un campanile vicino. In un attimo di tregua concesso da un breve sogno gli appariva un paesaggio idilliaco nel quale avrebbe voluto sostare per sempre. Era solo un’illusione, però, che svaniva nel risveglio angoscioso durante il quale s’udiva un rumore ossessivo, un misterioso respiro di cui non comprendeva la provenienza. Tutta la descrizione che ha preceduto i segni inequivocabili di una presenza ancora invisibile, si è svolta secondo il classico repertorio di un racconto gotico che accresce la tensione fino allo svelamento dell’immagine finale: «Oh! Una gamba ignuda, sudicia ma bella, usciva di sotto al mio lettuccio basso. Orribile bellezza».

Egli per tutta la notte, fino all’alba, non aveva il coraggio di scoprire a chi appartenesse quella gamba che tuttavia continuava a contemplare. La sineddoche qui si riferisce al corpo della donna che gli suscitava insieme terrore e un’oscura attrazione. Nel racconto questa ambiguità che lo attanaglia è vissuta interamente sul piano fisico come se volesse superarla dilungandosi a osservare gli aspetti più ripugnanti di questo corpo femminile e convincersi quindi a respingerlo.

 «Mi fissava con grandi occhi da pazza che sorridevano di tra gli abbondanti capelli d’un colore di sangue coagulato che le piovevano intorno a grovigli: due mammelle pendule e smunte traboccavano dalla camicia lurida che mal le copriva il corpo macilento.»

La donna non sembrava possedere nessuna attrattiva, era un povero essere disfatto nei cui occhi brilla la fiamma della follia. Da notare che i suoi capelli rossi non evocano un’immagine di bellezza ma di morte, come accade per Eliana, la donna fatale del romanzo, la quale tuttavia conserva ancora dei tratti affascinanti. Nella trasposizione del sogno invece la donna condivideva la miseria e l’abbrutimento dell’ambiente e dei personaggi descritti in precedenza e trascinava inevitabilmente anche l’uomo in tale abisso di abiezione. Ella gli mostrava la lunga ferita che attraversava il suo ventre per fare in modo che l’uomo la riconoscesse come la sua sorellina. Non condannava l’atto criminoso, ma al contrario, confessava che se l’avesse colpita a morte, l’avrebbe amato di più.

Questa unione di eros e thanatos affascinava il protagonista e lo sospingeva a prendere in braccio la donna e a permetterle perfino di raggomitolarsi contro il suo petto, mentre l’adagiava sul letto. Un moto di commozione sembrava pervaderlo nel comprendere il terribile destino della donna, vittima consenziente di una relazione incestuosa. Tuttavia i singhiozzi in cui prorompeva non manifestavano un sentimento di pietà per la donna, ma la pena verso se stesso dal momento che egli ormai, al pari degli altri personaggi, era completamente abbrutito al punto di sentire che nella sua testa vuota non esisteva più lo spirito che si rivela nella coscienza umana. Egli avrebbe voluto protrarre il buio della notte che rispecchiava ormai quello della sua anima e cercava di occultare i raggi del sole velando i sudici vetri con il saio grigio che aveva trovato nella soffitta, appartenente alla donna. Ma non riusciva a impedire che il chiarore diffuso dalla finestra rivelasse un altro segno di abiezione: «un grande numero nero campeggiò sul tessuto dorato dei raggi: un terribile numero. Ella emise un grido straziante». Anche se non detto in modo esplicito il numero potrebbe riferirsi alla prigione in cui la donna è stata detenuta. Anche lei non si sottraeva quindi all’ignominia e alla colpa.

Dopo aver lasciato la donna addormentata, egli persistendo nella sua insensibilità, voleva accertarsi dalla vecchia, che il figlio Romeo fosse veramente morto e che il nome della figlia scomparsa fosse Ada. La donna che dormiva nella soffitta era in realtà la figlia dei due vecchi, ma egli non svelava il segreto, e quando tornava da lei che, ormai sveglia, lo chiamava con il nome di Romeo, si spacciava per il fratello morto e le rispondeva chiamandola a sua volta con il nome di Ada, consapevole di assumersi così attraverso la sua falsa identificazione anche le colpe di cui si era macchiato lo sciagurato fratello. Fin dall’inizio, con semplici domande, avrebbe potuto scoprire la vera identità della donna misteriosa che si era introdotta nel suo alloggio e sciogliere l’enigma, ma invece egli si era adattato alla orribile realtà che sfocerà in tragedia alla fine del racconto. Solo per un attimo, egli sperava che non fosse vero quanto gli avevano rivelato gli indizi, ma ben presto, certo della verità, non desisteva dall’ingannare la donna che ora gli sembrava molto attraente e che gli suscitava una insana passione a cui si abbandonava completamente.

Nel romanzo, invece, la situazione è capovolta e la bellezza di Eliana si trasforma nello spaventoso aspetto di un cadavere. D’altronde in precedenza, l’alcova dove si consumerà l’amplesso, era stata paragonata a un catafalco senza fiori. Infatti nel vano della stanza era un odore di morte, cui invano tentava di dissipare l’aria fresca della notte scemante. L’uomo aveva provato anche la fantasia di uccidere l’amante, la quale in seguito gli chiederà di farla morire, ma il desiderio di morte sembra essere più che altro un artificio retorico che serve a creare un’atmosfera mortifera intorno ai due amanti. Quando all’alba penetra finalmente la luce nella stanza, il corpo tanto desiderato della donna, che si è addormentata, assume improvvisamente «un lividore […] come per una nuova agonia, dopo la morte violenta», solo vagheggiata dai due amanti. La visione orribile spinge l’uomo ad abbandonare definitivamente l’amante, mentre la voce dell’anima lo ammonisce: «Consumata la lenta agonia della notte, risorgi senza letargo e senza fanatismo alla vita nuova40!».

Il contrasto tra la notte e l’alba simboleggia, infatti, il buio della torbida passione che è dissipato dalla luce dell’anima ritrovata. Al contrario, il racconto si avvia ormai al suo drammatico epilogo. Mentre la donna, nel suo delirio, lo chiamava amore e lo abbracciava convulsamente, dell’uomo sono descritte solo le sue angosciose sensazioni corporee. Rinunciando a ogni freno morale, egli poteva solo registrare delle reazioni estreme che non riguardavano però la sua coscienza.

«Mentre ella parlava, la mia testa girava attorno per la stanza; un’ubriachezza infame mi pulsava nelle tempie: avevo l’impressione d’esser preso in un grande vortice d’aria rotta e d’esser tratto verso il centro, rotando sempre più rapido.»

Diventava però consapevole di essersi ormai inabissato nell’Inferno, quel centro verso il quale egli precipitava, trascinato da una forza a cui non opponeva resistenza se non tentando una fuga disperata dall’abitazione. Ma la donna, in preda alla sua follia amorosa, lo inseguiva nella strada in mezzo all’infuriare della tempesta. S’inginocchiava addirittura ai suoi piedi nel fango, invocando la morte se lui l’avesse abbandonata. 36 37 Allora egli decideva di condividere la sua pazzia e, sollevandola da terra, la stringeva a sé in un fatale abbraccio. Come due fantasmi vagavano sotto la pioggia violenta e si fermavano sopra al fiume che scorreva sotto di loro, promettendo un «soffice letto d’oblio». Ma neppure la morte poteva concedere loro una tregua, perché essi sarebbero stati uniti per sempre nell’eternità. Un ultimo bacio suggellava il loro disperato e dannato legame mentre precipitavano nel vuoto. In termini junghiani la donna può rappresentare l’“ombra”, presente spesso nei sogni che, a differenza di quella del racconto I due, non è più l’“io” autentico ma, al contrario, simboleggia la parte oscura della psiche la quale, se assecondata, può condurre all’annientamento dell’“io”. Tuttavia il giovane Onofri esorcizza, attraverso la scrittura, non solo l’incubo notturno, ma anche l’ancora irrisolto conflitto tra desiderio della carne e monito della coscienza che potrebbe risultare letale41, sulla base di alcune carte d’archivio si sostiene che, nel 1904, il giovanissimo Onofri aveva provato l’idea del suicidio e poco era mancato che egli ponesse fine alla sua vita con una pistolettata. In D l’alter ego dell’autore sta compiendo un’evoluzione spirituale verso una nuova concezione dell’esistenza che non si limiti solo alla ricerca di un piacere definito da lui stesso «mortificante». Ma non sono ancora superati del tutto dubbi e ripensamenti che turbano il suo spirito. Mentre apre la porta della stanza e grida addio alla donna, tra le sue gambe s’insinua «vellutatamente» il gatto nero che, all’inizio, dalla cima delle scale, aveva cercato d’impedire in qualche modo il suo ingresso. L’uomo sosta comunque sul pianerottolo, sperando che l’amante lo richiami, ma quando rientra nella stanza appena lasciata, la trova tutta intenta a contemplare i suoi gioielli, frivola occupazione in cui l’aveva sorpresa all’inizio del loro incontro. Sul cuscino ancora caldo della sua presenza egli scorge il gatto nero, che vi si è insediato. L’animale ha ripreso la sua posizione privilegiata, soddisfatto che l’usurpatore si sia allontanato. Al ritorno dell’elemento diabolico rappresentato dal gatto, si contrappone una presenza angelica, simbolo della sua coscienza, che, corrucciata, rimprovera l’uomo per il suo persistere nell’inganno dei sensi: «Imbecille! Tu ci tornerai. Io lo so, che tu ci tornerai. Se non più da lei, certo da un’altra!42». Ma non avverrà così. Alla p. 1 della copia personale del romanzo Disamore, edito nel 1912, due anni più tardi dalla sua composizione, si legge infatti la nota autografa, successivamente cancellata, «Estinzione della mania. Notte circa.»

A conferma di quanto aveva scritto sulla fine della sua distruttiva relazione, nel 1913 egli conoscerà Beatrice Sinibaldi, la salvifica beatrix, il cui nome è doppiamente allusivo per Onofri, non solo perché è lo stesso nome della propria madre, ma anche perché, al pari della Beatrice dantesca, lo libererà dalle colpevoli passioni che tanto lo avevano tormentato. Nel 1916 sarà celebrato il loro matrimonio, che in seguito sarà allietato dalla nascita dei figli Fabrizio e Giorgio. Raggiunta la stabilità affettiva, Onofri si dedicherà alla ricerca spirituale che troverà compimento nella sua adesione all’an troposofia steineriana, particolarmente consona al suo temperamento mistico. Infatti Steiner aveva elaborato una “scienza dello spirito” secondo la sua definizione, per cui attraverso una rigorosa disciplina, ogni uomo è in grado di scoprire in sé la presenza divina, senza ricorrere alla mediazione delle strutture ecclesiastiche verso le quali, già in giovanissima età, Onofri aveva provato un’istintiva diffidenza.

(Magda Vigilante)
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1 Tra le opere poetiche di Onofri si ricorda il complesso ciclo lirico Terrestrità del sole in 7 volumi: Terrestrità del sole, Firenze, Vallecchi, 1927; Vincere il drago, Torino, Ribet. 1928. Postumi uscirono Simili a melodie rapprese in mondo Roma, Al tempio della fortuna, 1929; Zolla ritorna cosmo, Torino, Buratti, 1929; Suoni del Graal, Roma, Al tempio della fortuna, 1932; Aprirsi fiore, Torino, Gambino, 1935.
2 A. Onofri, Nuovo Rinascimento come arte dell’io, Bari, Laterza, 1925. In quest’opera Onofri divulga una nuova teoria dell’arte, ispirata alla dottrina antroposofica di Rudolf Steiner, alla quale egli aderì verso il 1917 e che è alla base del ciclo lirico Terrestrità del sole (1927- 1935).
3 In particolare si cita il volume A. Onofri, Le letture poetiche del Pascoli, con la prefazione di Emilio Cecchi, Bari, L’albero, 1953.
4 A. Onofri, Il Tristano di Richard Wagner, guida attraverso il poema e la musica, Milano, Bottega di Poesia, 1924.
5 I racconti sono conservati alla Biblioteca nazionale centrale di Roma, Archivio Onofri, A.R.C. 2 Sez. GI /1a, 1b, 1e.
6 Il racconto è stato segnalato da A. Dolfi nel volume A. Onofri, Scritti musicali, Roma, Bulzoni, p.24, nota 41.
7 Saranno raccolte nel volume A. Onofri, Orchestrine, Napoli, Libreria della Diana, 1917.  
8 Cfr. A. Onofri, La libertà del verso, I «Lirica», (4 aprile 1912), p. 151.
9 Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Onofri, A.R.C. 2 Sez. G I/4.
10 Cfr. Michele Beraldo, Ritmo settennale e metamorfosi. Una lettura inedita della biografia del poeta Arturo Onofri in «Il Divano Morfologico», n. 3, (2000), pp. 39-47. L’articolo contiene anche le riproduzioni fotografiche di tabelle e diagrammi.  cit..
11 A. Onofri, Liriche, Roma, Vita letteraria, 1907.
12 Id., Orchestrine, cit., p.41.
13 Cfr. Magda Vigilante, Inediti di Arturo Onofri: Temi e non poemi, Alchimie, Caino re in «Galleria» XXXIX (maggio-agosto 1989), fasc. 2, p.121.
14 Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Onofri, A.R.C. 2 Sez. GII/6. La sezione riunisce prose, frammenti poetici e alcune poesie che successivamente saranno pubblicate nel volume Terrestrità del sole. La loro data di composizione è compresa tra il dicembre 1924 e il gennaio 1925, in un brevissimo intervallo di tempo, durante il quale il poeta individuò i primi nuclei tematici da cui si sarebbe sviluppata la sua futura produzione teorica e poetica.
15 Genesi, 2,7 in La Bibbia, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 2001, p. 16.
16 Il Nuovo Testamento, Giovanni 9, 6-7, cit., p. 1105.
17 R.L. Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, in Romanzi e racconti, con una introduzione di E. Cecchi, Milano, Gherardo Casini Editore, 1987, pp. 209-278. 18 Traduzione di R. Pisaneschi, introduzione di C. Magris, Milano, Rizzoli, 1984.
18 Traduzione di >R. Pisaneschi, Intr. di Claudio Magris, Milano, Rizzoli, 1984.
19 Schumann intitolerà Kreisleriana l’opera 16, con riferimento al personaggio del romanzo di Hoffmann, un ciclo di pezzi per pianoforte composto nel 1838. Del resto il musicista era così attratto dal tema del “doppio” da designare aspetti diversi della sua personalità in ben tre figure ideali con i nomi dei quali firmava i suoi scritti: il Florestano, Eusebio e il Maestro Raro. Il primo rappresenta la sua natura fantastica e ardente, il secondo quella contemplativa e sognante, mentre il Maestro Raro si riferisce a Wieck, il suo maestro di musica rigido e pignolo, il quale contrastò a lungo il matrimonio della figlia Clara con il musicista.
20 Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Onofri, A.R.C. 2. Sez. G I/4c, c.4.
21 Secondo la testimonianza di Giorgio Vigolo la sua amicizia con Onofri si stabilì intorno al 1912.
22 Il racconto fu edito per la prima volta sulla rivista «Letteratura» III (gennaio 1939), 1, pp. 68-81.
23 Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Onofri, A.R.C.
  1. Sez. G I/4d, c.8. 17
24 Arturo Onofri, Senz’alba, in Orchestrine, cit, pp. 148-149.
25 Per tale interpretazione cfr. Giorgio Vigolo, Notizia criticobiografica premessa alla ristampa in un unico volume delle opere Orchestrine-Arioso, Venezia, Neri Pozza, 1959.
26 H.C. Andersen, L’ombra e altri racconti, Roma, Orecchio acerbo, 2005.
27 A. Onofri, Tripartizione, in Poesie e prose inedite (1920-1923), a cura di M. Vigilante, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, [1989], pp. 88-89.
28 La madre del poeta, Beatrice Shereider era di origine polacca.
29 In calce al racconto è trascritta la data «1910».
30 A. Onofri, Disamore, Roma, Edizione dell’autore, 1912. Nell’ultima pagina del romanzo è stampata l’indicazione Roma, 1910. Il romanzo era già apparso a puntate sulla rivista «Lirica».
31 A. Onofri, Nell’Inferno. Non sono citati i numeri delle carte del racconto perché non coincidono con le pagine edite.
32 Così lo definisce A. Dolfi nel volume da lei curato Arturo Onofri, Poesie edite e inedite (1900-1914), Ravenna, Longo editore, 1982, p. 24
33 D’ora in poi si indicherà con I il racconto e con D il romanzo.
34 D, p. 13. 35 Ibidem, p. 14.
35 – 36 – D, p. 26. 37 Ibidem, p. 112.
39 A.Onofri, Disamore, cit., pp. 78-79. 40 Ibidem, p. 108.
40 Ibidem, p. 108.
41 In M. Beraldo, op. cit., p.44
42 A. Onofri, Disamore, cit., p. 113. 43 Roma, Biblioteca nazionale centrale Archivio Onofri, A.R.C. 2. Sez. B V/1.

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