
Mi sembra che tu ti sia risvegliato nel bel mezzo di un sogno o di un incubo e hai visto certe cose che non avresti voluto vedere
Mario Fresa, 10 luglio 1973. Ha compiuto gli studi classici e musicali e si è laureato in Letteratura italiana. Esordisce in poesia alla fine degli anni Novanta, con l’avallo di Cesare Garboli e di Maurizio Cucchi. Ha collaborato alle principali riviste culturali italiane, da «Paragone» a «Nuovi Argomenti», da «Caffè Michelangiolo» all’«Almanacco dello Specchio». Suoi testi sono presenti in varie antologie, pubblicate sia in Italia sia all’estero, da Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004) alla recente Veintidós poetas para un nuevo milenio, numero monografico della rivista spagnola «Zibaldone. Estudios italianos» (Università di Valencia, 2017). Nel 2002 pubblica il prosimetro Liaison, con la prefazione di Maurizio Cucchi (edizioni Plectica; Premio Giusti Opera Prima, Terna Premio Internazionale Gatto); seguono, tra le altre pubblicazioni di poesia, il trittico intitolato Costellazione urbana (Mondadori, «Almanacco dello Specchio», 2008); Uno stupore quieto (Stampa2009, a cura di M. Cucchi, 2012; menzione speciale al Premio Internazionale di Letteratura Città di Como); La tortura per mezzo delle rose (nel sedicesimo volume di «Smerilliana», 2014, con un saggio di Valeria Di Felice); Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con disegni di Mattia Caruso, 2015); Svenimenti a distanza (prefazione di Eugenio Lucrezi; il melangolo, 2018). Ha curato l’edizione critica del poema Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo di Gabriele Rossetti (nella collana «I Classici» di Rocco Carabba, 2010) e la traduzione e il commento dell’Epistola De cura rei familiaris dello Pseudo-Bernardo di Chiaravalle (Società Editrice Dante Alighieri, 2012). È redattore del semestrale «La clessidra» e della rivista internazionale «Gradiva» (Università di Stony Brook, New York). Ha tradotto Catullo, Marziale, Sarandaris, Baudelaire, Musset, Apollinaire, Desnos, Frénaud, Cendrars, Char, Duprey, Queneau.
Le principali pubblicazioni che parlano di Mario Fresa sono: M. Cucchi, Dizionario dei poeti (2005); M. Merlin, Mosse per la guerra dei talenti (2007); S. Guglielmin, Senza riparo. Poesia e finitezza (2009); P. Mattei, L’immaginazione critica (2009); V. D’Alessio, Profili critici (2010); G. Linguaglossa, Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945- 2010 (2011); S. Guglielmin, Blanc de ta nuque. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea (2011); N. Di Stefano Busà, A. Spagnuolo, L’evoluzione delle forme poetiche. La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio (2013); G. Calciolari, Caviale & Champagne. Scritti di letteratura (2013); M. Germani, Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei (2014); S. Spadaro, Lontananze e risacche. Saggi di critica letteraria (2014); M. Ercolani, Annotando. Poeti italiani contemporanei 2000-2016 (2016); C. Mauro, Liberi di dire. Saggi su poeti contemporanei – Seconda serie (2017).

leggi, questo libro, e torni a chiederti che cosa resta da fare, oggi, di quel grandioso edificio storico che è stato chiamato, per secoli, letteratura
Presentazione di Eugenio Lucrezi
Lo leggi, questo libro, e torni a chiederti che cosa resta da fare, oggi, di quel grandioso edificio storico che è stato chiamato, per secoli, letteratura. Oggi che sempre di più si apre, in un mondo del tutto estetizzato perché antropizzato e dunque messo in posa ad uso della specie che, suprematica, incessantemente tutto guarda e in tutto si rispecchia, la forbice tra la vita vera e il racconto per figure caparbiamente svolto dagli scriventi che in tutto questo tempo l’hanno tentata, la letteratura.
Che ha sempre indagato, nei suoi secoli, la relazione tra esistenza dell’individuo e spazi esteriori della società e della natura, entrambi intesi come paesaggi e scenari all’interno dei quali l’individuo potesse tessere, o – Penelope sempre più dimentica, con l’avanzare della Modernità, del suo Ulisse – decostruire, la tela della propria vicenda esistenziale. La vita vera dell’interiorità e della carne ammutolisce, oggi, nell’attesa di una mutazione che già si annuncia nella luminescenza dei pixel, promessa non più soltanto della potenza illimite delle conoscenze ma addirittura dell’imminente balzo in una eternità scorporata, finalmente dimentica dell’attesa della fine; mentre la forbice di cui si diceva, aprendosi, allontana i paesaggi fino all’orizzonte dello sperdimento.
Tramontata la letteratura, restano però intatte le possibilità dell’arte. Che non più racconta per figure l’esistenza del soggetto e l’avvicendarsi dei paesaggi, ma il loro tramonto, i cortei funebri che ne accompagnano l’estinzione. Tale racconto è perturbante al limite dell’insopportabile. Il mercato non sa che farsene di opere di questo genere, del tutto estranee alla fiera dell’intrattenimento. La quale, non escludendo del tutto la schiera non estesa dei fruitori non soltanto scolarizzati, ma addirittura acculturati, che chiedono al prodotto artistico di distinguersi per i caratteri di una qualche precipuità di linguaggio, lascia spiragli di visibilità e di circolazione ad alcune opere di scrittura in grado di esibire abiti di sartoria eccentrica, di suggestione sperimentaleggiante.
Ed eccoci a questo libro di Mario Fresa. Che, pur presentandosi nell’abito, dall’antico pedigree letterario, del prosimetro, non è un’opera letteraria di impianto tradizionale o di taglio sperimentale e non esibisce ascendenze avanguardistiche; non guarda indietro per nostalgia o in omaggio a una qualche tradizione del passato e non guarda in avanti per urgenza di palingenesi venture. Essendo un manufatto di parole, Svenimenti a distanza non può che svolgersi, nell’estensione del suo corpo fatto di pagine, in forma di racconto, ed è il racconto di un’esperienza di sofferenza e di perdita, anzi di sofferenza risultante da una successione di perdite che non trova composizione o sollievo nella circostanza che lo scrivente sia qui a darcene conto. La narrazione dell’esperienza del dolore è qui insieme centripeta, in se stessa raccolta solipsisticamente perché dal gelo incandescente che ne costituisce il nucleo non può alzare lo sguardo di un millimetro, neppure per un istante; e dispersa per fuga dal centro come in esplosione sporadica, perché la piega che curva lo scrivente sulla sua scrittura è a tal punto ampia da incontrare in ciascuno dei suoi punti una folla innumerevole di personaggi − deuteragonisti e comprimari −, di scenari, di ambientazioni, di detriti memoriali e di reperti provenienti da diverse storiografie: dalla storia della musica d’opera, per esempio, richiamata a testimone di quella che è stata la funzione teatrale della narrazione; e dalla storia della frenologia, che nei secoli della modernità si è stancata baloccandosi, non infrequentemente con malcelata voluttà, sulle bizzarre costellazioni sintomatiche dell’isteria. A tale ultima storiografia pare alludere il titolo del libro; e non pochi svenimenti affiorano qua e là nelle pagine, tra una convalescenza e un espediente di fuga relazionale. Nell’estesissimo campo tensivo che si estende tra il polo centripeto e il polo di dispersione si svolge tutto il racconto.
La vita vera è tutto ciò che c’è: ma la forbice di cui si diceva all’inizio ne fa figura sindonica: indecifrabile. A raccontarne la leggibilità con la sensibilità del secolo che precede questo che stiamo attraversando ci hanno provato maestri del comico come Kafka, Beckett, Bernhard; e maestri del tragico come Levi e Sebald. Fresa presenta qui il suo tragitto nei nove grani di rosario o nelle nove stazioni di via crucis di capitoli che s’intitolano Convalescenza, Alta stagione, Nodo parlato, Medusa della specie, Galateo per un abisso, Morphing, L’oggetto del desiderio, Falsa testimonianza, La mala fiaba: il primo e l’ottavo in prosa, gli altri prevalentemente in versi. La malattia e la morte sono le evenienza che chiedono, con urgenza, di essere raccontate, e l’unica maniera praticabile è il farsi strada, con la forza che loro viene dalla sostanza ineludibile di presenze dall’invasività “novissima”, nel vivo della carne del vissuto quotidiano di ciascuno e di tutti, che per durare nei giorni e negli anni non chiede altro che − non può fare a meno del − l’anestesia, l’elusione dello sguardo dalla medusa (della specie e di ogni suo individuo rappresentante), la spensieratezza, la speranza dell’eden. La ferita del quotidiano sanguina in un linguaggio inconcluso, depistante, incalzato e sommerso dalla folla delle afferenze interlocutorie: scene ospedaliere, siparietti scolastici, teatrini familiari. Al centro di ciascuno dei quadri, degli acquarelli, degli schizzi soltanto abbozzati, la statua muta del lutto, intorno alla quale gira e rigira, torcendosi senza requie, la scrittura: che più e più volte, con insistita ricorrenza, si ferma come frastornata dal rumore delle afferenze. Lo scampo, allontanandosi, scampana fino ad assordare.
Questo torcersi delle frasi − l’abbiamo detto − non è una pratica avanguardistica ed è tutt’altro che la professione di un qualche nichilismo fine a se stesso e snobisticamente esibito. Si tratta piuttosto di un ritrarsi del linguaggio dagli atteggiamenti della compiutezza (dall’illusione della forma, armonica o difforme che si voglia e che sia) che è segnale di resa e atto di coraggio nello stesso tempo.
Atto di resa perché questa incompiutezza (scompiutezza; inconclusione; sconclusione) della scrittura ci dice che le afferenze percettive e la percezione degli affetti non arricchiscono i cassetti della cognizione; che, pur essendo il logos non Ragione o Linguaggio astratto, ma, così come vuole la Retorica aristotelica, discorso relazionale nell’ambito delle comunità, l’esercizio della funzione dialogica del discorso non riesce, in realtà (o meglio: ci riesce solo in quel particolare stato di sospensione del lutto che è la vita di comunità nel suo ordinato svolgimento rituale nei perimetri dell’agorà), a mitigare l’angoscia che ci procura la presenza dell’altro-da-noi che a noi si rivolge: prossimo o alieno, in carne e ossa o fantasmatico, l’altro che a noi si avvicina non si rivolge, piuttosto contro di noi minacciosamente agisce, in gesto di rivolta e di minaccia.

Da morti a fantasmi. Da 22 a 28.
Il segreto è nello scheletro, mi pare
Ma questa scrittura che pare ritrarsi dalle convenzioni eleganti o ineleganti, dalle buone e dalle cattive maniere del linguaggio, è anche un atto di coraggio del tutto autonomo rispetto alle sanzioni del “fine vita”, dovuto a ineludibile consunzione del Letterario, che da più parti insorgono. Iscritto nei registri di una tradizione artistica più di pennello che di penna (Bacon, Freud), che potremmo dire di esecuzione viva del perturbante, il prosimetro di Mario Fresa, vestito com’è soltanto di nudità, sordo ai richiami delle sirene dello stile, cieco ad ogni bellezza di musica e di canto, si vota per intero, nel suo incedere cocciutamente determinato all’inciampo e all’incertezza del passo, ad un discorso di rara forza espressiva, di verità inaudita per verità violenta del dettato, per forza di disgusto per il gran Male metafisico che tutti ci tiene e per il male più piccolo, ma non meno nefasto, che di fronte agli assalti insostenibili che tutti ci troviamo, senza speranza di riuscita, a dover fronteggiare, ci fa vili per aver chiuso gli occhi una prima volta, e rassegnati poi, per sempre, alla viltà. Continua a leggere
Eugenio Lucrezi, Tre poesie da Bamboo Blues, nottetempo Milano, 2018 pp. 92 € 10 con Poesie di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Dialoghi e commenti degli interlocutori, Mario M. Gabriele, Alfonso Cataldi, Giorgio Linguaglossa
Leggendo questo libro di Eugenio Lucrezi, mi è venuto in mente che avevo dimenticato di dire qualcosa, che avrei voluto dire qualcosa di importante… ma forse non era così importante come credevo; in fin dei conti a chi si rivolge questo libro di Eugenio Lucrezi che ha per titolo Bamboo Blues? Credo a nessuno. E questa è forse la posizione privilegiata per un libro di poesia: non dover accordare nulla a nessuno, non dover venire a patti con nessuno, non dare credito a nessuno, essere liberi come un uccello. Le parole che utilizza il poeta napoletano sono per lo più parole desuete e povere con l’accompagno del timbro sonoro di una antica tradizione che si è dissolta.
Ho dimenticato di dire che una «patria metafisica delle parole» la può costruire soltanto una tribù. Non sta al poeta, seppur di rango, costruire una patria metafisica, questi non può che accostumarsi ad impiegare le parole che trova già pronte, quelle della barbarie, le parole che un poeta non dovrebbe mai accettare di dover pronunciare.
Ma mi chiedo se, nell’epoca della seconda barbarie, la nostra, sia ancora possibile costruire una patria metafisica delle parole. Con le parole di Marcuse:
«È possibile che la seconda epoca di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».
Non so se Eugenio Lucrezi abbia tenuto in mente questa massima di Marcuse dei primi anni Sessanta ma credo che in qualche modo si riconoscerà in quelle parole del filosofo tedesco.
La pagina finale di Dialettica negativa di Adorno (Verlag, 1966, trad it. Einaudi, 1970, p. 369) recita così:
«Ciò che recede diventa sempre più piccolo… diventa sempre più impercettibile; per questo motivo di critica della conoscenza e di filosofia della storia la metafisica trapassa in micrologia. Questo è il luogo della metafisica come riparo dal totale. Nessun assoluto è esprimibile se non in materiali e categorie dell’immanenza, mentre tuttavia né questa nella sua contingenza né la sua essenza totale devono essere idolatrati. Secondo il suo stesso concetto la metafisica non è possibile come connessione deduttiva dei giudizi sull’essente. Altrettanto poco può essere pensata in base al modello di un assolutamente diverso, che irriderebbe terribilmente al pensiero. Quindi essa sarebbe possibile solo come costellazione decifrabile dell’essente, da questo riceverebbe il suo materiale, senza il quale non sarebbe, non trasfigurando però l’esistenza dei suoi lamenti, ma conducendoli invece ad una configurazione, in cui essi si comporterebbero in scrittura. A questo fine la metafisica deve intendersi del desiderare. Che il desiderio sia un cattivo padre del pensiero è fin da Senofane una delle tesi centrali dell’illuminismo europeo, ed essa vale ancora senza restrizioni di fronte ai tentativi di restaurazione ontologica. Ma il pensare, esso stesso un comportamento, contiene in sé il bisogno – e in primo luogo l’affanno. Si pensa a partire dal bisogno, anche quando si rifiuta lo wishful thinking. Il motore del bisogno è quello dello sforzarsi, che implica il pensare come fare. Oggetto della critica è quindi non il bisogno nel pensare, ma il rapporto tra i due. Il bisogno nel pensare esige però che si pensi. Esige la sua negazione per mezzo del pensare, deve scomparirvi, se vuole realmente soddisfarsi, e in questa negazione gli sopravvive, rappresenta nella più intima cellula del pensiero ciò che non gli è simile. I minimi tratti intramondani sarebbero rilevanti per l’assoluto, perché lo sguardo micrologico frantuma il guscio dell’impotentemente isolato in base al concetto superiore, che lo sussume, e fa saltare la sua identità, l’inganno che esso sia meramente esemplare. Tale pensiero è solidale con la metafisica nell’attimo della sua caduta.»
Qui c’è in evidenza l’aporia del pensiero nell’atto che si pensa, che pensa il suo oggetto, che esige la sua negazione, ovvero, il suo annullamento, il suo obnubilarsi, il suo inabissarsi per rinascere in un nuovo pensiero… Ecco, credo che la poesia debba pensare il suo oggetto, debba cercarlo con tutte le forze, altrimenti rischia di essere mera esternazione soggettiva del non-pensiero, del wishful thinking. Perché, sia chiaro, la poesia è pensiero, pensiero pensante, pensiero, come si dice oggi, poetante.
una «patria metafisica delle parole» la può costruire soltanto un uomo della tribù
Tre poesie di Eugenio Lucrezi
Angelo del Pontormo
Nube. Nubesco. Potenza delle ali.
Testa rivolta ai venti della volta.
Un gran soffione d’aria nel vestito.
Sono nube di guerra. Non sorrido.
Vento che ti schiaffeggia. Non mi vedi.
Arrivo nel gran peso delle ossa.
Non c’è buco che tenga la caduta.
Angelo dell’intonaco, sono orma
della grazia sul ponte, sono inchino
di veleggi rigonfi al paradiso
chiuso nella navata.
Bamboo Blues
Non credo a quel che vedo, la fotografia
scattata quasi a caso, di pomeriggio,
a te che prendi il vento negli ariosi
capelli, e ad Agropoli muovi un impercettibile
passo di danza, torcendo
appena un poco il busto mentre alzi
le braccia all’altezza del viso che si profila
di spalle nel cielo caricato
di sole e di calante azzurrità commossa
e respirante fiati e fiati di vite
diffuse e riposanti nei filacci
d’estate, ad occhi chiusi a fresco,
in memoria del mare,
con le ascelle che bevono luce
moderata alla fine, che accoglie
la grazia del tuo passo, e di tuo figlio
che ti guarda da presso,
dice l’amore incredulo che piangi
a Pina in un istante, e sei tutta
abbraccio intorno al nulla, concentrata.
Angelo
Essere un angelo ha un costo, le ali,
con l’esistenza che pesa e non vuole
saperne di levarsi, fanno solo
rumore, un fastidioso
frullare con affanno inconcludente.
Fare l’angelo costa, a te hanno dato
l’intera paga, il soldo del soldato
celeste. Raramente
ti sei mossa da terra, la tua grazia
cozzava sul soffitto della stanza.
Il soldo lo hai tenuto in un cassetto,
la luce che emanavi rifletteva
raggi infiniti contro la parete
trasparente della finestra.
Frullare d’ali nella cameretta.
Sorella lieve raggiungi la tua schiera.
Eugenio Lucrezi, di famiglia leccese, è nato nel 1952, vive a Napoli. Ha pubblicato cinque libri di poesia:
– Arboraria, Altri termini, Napoli 1989;
– L’air, Anterem, Verona 2001;
– Freak & Boecklin (con Marzio Pieri), Morra-Socrate, Napoli 2006;
– Cantacaruso : Lenonosong (con Marzio Pieri), libro + CD musicale, La finestra, Lavis, Trento 2008;
– Mimetiche, Oedipus, Salerno-Milano 2013.
Ha pubblicato il romanzo Quel dì finiva in due, Manni, Lecce 2000.
Suoi testi sono presenti in libri collettivi e antologie:
– Poeti degli anno ’80, a cura di Renzo Chiapperini, Levante, Bari 1993;
– Poesia in Campania, a cura di Ciro Vitiello, in Novilunio, anno 3°-4°, Zurigo 1993-1994;
– Attraversamenti, a cura e con fotografie di Donatella Saccani, Di Salvo, Napoli 2002:
– Le strade della poesia, a cura di Ugo Piscopo, Guardia dei Lombardi, 2004; e poi a cura di Domenico Cipriano, edizioni delta3, Grottaminarda 2011, 2012 e 2013;
– Il racconto napoletano, a cura di Ciro Vitiello, Oèdipus, Salerno-Milano, 2005;
– Portfolio Lo stormo bianco, a cura di Nietta Caridei, Giancarlo Alfano, Gabriele Frasca, d’if, Napoli 2005;
– Una piazza per la poesia, Il portico, Napoli 2008;
– Mundus, a cura di Ariele D’Ambrosio e Mimmo Grasso, Valtrend, Napoli 2008;
– Registro di poesia n°2, a cura di Gabriele Frasca, d’if, Napoli, 2009;
– A ritmo di jazz, a cura di Fabio G. Manganaro, edizioni blu, Torino 2009;
– Accenti, a cura di Enrico Fagnano, edizioni del comitato Dante Alighieri, Napoli 2010;
– Frammenti imprevisti, a cura di Antonio Spagnuolo, Kairos edizioni, Napoli 2011;
– ALTEREGO poeti al MANN, a cura di Marco De Gemmis e Ferdinando Tricarico, Arte’m, Napoli 2012;
– L’evoluzione delle forme poetiche, a cura di N. Di Stefano Busà e di A. Spagnuolo, Kairos, Napoli 2013;
– In forma di scritture, a cura di Carlo Bugli, Pasquale Della Ragione, Giorgio Moio, Riccardi, Quarto, 2013;
– Una piuma per Alda, Il laboratorio di Nola, Nola 2013;
– Virtual Mercury House, di Caterina Davinio, Polimata, Roma 2013;
– La memoria, primo quaderno del Premio Alessandro Tassoni, a cura di Nadia Cavalera, e-book Calameo, Modena 2013.
Giorgio Linguaglossa
31 luglio 2018 alle 12:35
Ricevo da Gino Rago questa 16ma lettera a Ewa Lipska
Sedicesima Lettera a Ewa Lipska
[la vita nelle torte]
Cara M.me Hanska,
i poeti hanno dato scacco matto al tedio di Dio,
uno di loro ha scritto in un suo verso:
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra…»
Al Quirinale, l’orologio ad acqua,
sul Tevere la voce dei cesari.
Non dia retta a chi ha scritto:
«chi penetra il mistero della lingua trova la sua patria»,
a Cracovia i poeti non sono barometri.
[…]
Due donne. Rossetto e trucco. Aspettano l’alba
nello specchietto retrovisore.
Caffè di Graz, fette di Wiener apfelstrudel.
La megera vive accanto al Blumenstrasse,
in un appartamento al secondo piano.
Dice di essere Madame Hanska, quella de Il tedio di Dio.
Sono vittime del blues:«Lasceremo Vienna,
andremo a Linz, o forse a Salisburgo».
Dallo specchio, una voce: «Mangerete
una Linzetorte o una Mozartkugel?».
«Tutte e due, lo sa, il segreto della vita
è nelle torte». Continua a leggere →
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