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MARIO LUNETTA (1934-2017), L’ARTE DELL’ALTERNATIVA, Poesia della contraddizione, a cura di Gino Rago, con Riflessioni di Francesco Muzzioli e Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Abstract, Struttura dissipativa, Ki parla? Ki askolta? Poema Pesce di Mario Lunetta, Ritratto di Mimmo Frassineti

Marie Laure Colasson Abstract_13

Marie Laure Colasson, Abstract, Struttura dissipativa, acrilico 40×30, 2019

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MARIO LUNETTA, L’ARTE DELL’ALTERNATIVA

 a cura di Gino Rago, con Riflessioni di Francesco Muzzioli e Giorgio Linguaglossa

Mario Lunetta è stato un personaggio fondamentale sulla scena letteraria romana e non solo. Infaticabile organizzatore, suscitatore generoso di energie attraverso antologie, presentazioni, prefazioni, recensioni, in attività su tutti i fronti, nulla dies sine linea, dalla poesia al romanzo, al racconto, al testo teatrale, al saggio, all’aforisma, ha coltivato una scrittura ininterrotta a forte caratura polemica, virata negli ultimi tempi al nero di una visione “inorridita” di un mondo che stava perdendo i suoi connotati e in essi le possibilità di cambiamento in meglio. Una scrittura all’opposizione (come mi è capitato di definirla), tesa all’“invasione di campo” in tutti i campi, per produrre dall’interno di ciascuno di essi una inversione di rotta.
Si potrebbe anche parlare, a proposito di Lunetta, di una poetica della crudeltà. Basta vedere le sue soluzioni narrative, nelle quali i rapporti sentimentali si distorcono, gli agenti sociali sono persecutori appena travestiti, i doppi impazzano; e si arriva quasi sempre alla scena madre, che è anche a buon bisogno una scena oscena, all’appuntamento decisivo che è un appuntamento con la morte. Un colpo di pistola, magari, nel cuore del romanzo o nel culmine del racconto. In ogni caso, viene a trovarsi in una scomoda posizione il lettore che si immedesima nel personaggio, preferibilmente spaesato e decisamente antieroico.
Difficile stabilire se la scrittura lunettiana nasca prima in versi o in prosa. Certo che nella produzione poetica si nota di più, per forza di cose, una continuità senza pause. Iniziata sul declinare dell’attività di gruppo della neoavanguardia e tenuta a battesimo nella “zona aperta” della rivista di Adriano Spatola “Tam Tam”, la poesia di Lunetta compie, fin dalle prime prove, un recupero fondamentale che è quello dell’io, che si era trovato “ridotto” nella poetica dei Novissimi. Ma non si tratta, però, di un ritorno a stagioni precedenti come in quel mezzo-ermetismo che stava rialzando la testa da tutte le parti, in una stantia koiné di “poetese”: In Lunetta, l’io viene rimesso in primo piano ‒ anche, volendo, con nome e cognome e tratti autobiografici riconoscibili ‒ ma non per dare la stura al vissuto né per incentivare investimenti emotivi; l’io è piuttosto un campo di lotta, è un fornitore di materiali di pronta disponibilità, ma anche il parafulmine che consente di rilevare tutte le cariche disgreganti che lo circondano. Fin da un testo come <em>Sherpa</em>, l’io è coinvolto in una dialettica di apoteosi e rovina, dove all’innalzamento a eroico paladino della morale (o, negli ultimi tempi, a iperbolico “immortale sottoscritto”) corrisponde il disastroso abbassamento a residuato bellico e inutile rimestatore del niente. Vediamo per l’appunto <em>Sherpa</em> (1985):

io sherpa di città che frequenta quote modeste
io malandato astronauta io facchino io scimmia decrepita
mordo l’aria coi miei denti gialli di liquerizia
azzanno il nulla coi miei molari cariati
io sherpa derelitto dipinto da questa mano che scrive
in figura di demonio nominato fratello fuoco
con gambe di satiro villose e corna e ali di pipistrello
parlo con la puttana anzianotta accosciata sul marciapiede
con qualsiasi tempo pioggia o vento o sole sfolgorante
davanti alla rovina superba di cotto defunto – parlo
e lei continua a riempire a matita quaderni di memorie
per i posteri aspettando con nonchalance clienti improbabili
davanti alle terme di Caracalla, o di Caracas:
e alle spalle, una muraglia di bandoni sega il campo
ondulato, ferocemente, un grillo mi canta nel sangue,
questa Roma molle come chewing gum si allunga si allunga
scoppia come una vescica obesa nulla mi sfiora
tutto mi attraversa io sherpa io vecchia stupida scimmia
in abiti borghesi in pantaloni di velluto e faccia
da minchione e barba (…)

Sosia scoronanti accompagnano l’io nella sua discesa negli inferi della società contemporanea.
Quanto alle forme, va detto che la poesia di Lunetta è rimasta fuori dalla discussione tra forme e chiuse e forme aperte. Capacissimo di rinnovare le modalità più classiche, il sonetto, l’uso della rima, l’acrostico e via dicendo, il nostro autore ha sperimentato spesso con ottimi risultati il verso lungo, in particolare con andamento cadenzato. Si veda come esempio questa strofa di Roulette occidentale (2000):

le mura coperte di arazzi di verde luminoso nel mattino
le edicole grondano stampe locandine avvisi minacciosi
e ricatti gentili in un sudore di menzogna e idiozia
nella città dei balocchi capitale del paese di cuccagna
avvenire avventura bruscolini maquereaux floreali

Mario Lunetta, 40x50, 2008Mimmo Frassineti, Acrilico su tela, ritratto di Mario Lunetta, 50×40, 2008

L’importante è che il verso sia condotto da un impulso ritmico che coincide con un impulso polemico. La poesia di Lunetta si intride di sarcasmo e di grottesco in presenza della realtà contemporanea. La sua idea politica è rimasta fedele nel tempo all’utopia politica. Nel 1991, all’atto della metamorfosi opportunistica del Partito sarà uno dei partecipanti alla Mozione dei poeti comunisti; e quella parola “comunista”, per molti ancora oggi impronunciabile, si ritrova anche negli ultimi suoi componimenti, come affermazione provocatoria:

io qui oggi mi azzardo / col mio minuscolo ego / a dire
che non c’è bisogno di carità / che è sempre stata solo un alibi
di classe / ma di retta uguaglianza dei punti di partenza /
giusta distribuzione delle risorse / punti di vista conflittuali /
o il più possibile condivisi / fine dello spreco dei talenti /
e delle sane volontà / fiordalisi con qualche spina di interpretazione /
lucida e ferma / insomma si non di vagues emotive ma di spinta /
agonista / verso quell’altro quid / che quasi nessuno ormai si prova
più a nominare / e che ha ancora il giovanissimo nome di
comunismo

È insomma sì, datata 1° maggio 2014.
Una poesia politica che insieme alla positiva rivendicazione del piacere materiale univa la critica senza resti e quasi l’orrore verso la realtà mercificata. Senza regressioni, negli anni della ripresa del privato neo-lirico, la “poesia della contraddizione” di Lunetta (uso il titolo dell’antologia da lui curata con Franco Cavallo nel 1989) è stata un ottimo esempio di alternativa dell’arte; anzi, direi proprio di arte dell’alternativa, perché alla tinta cupa del significato si accoppiava sempre una straordinaria creatività del linguaggio e delle forme poetiche.
Alla capacità di mutazione formale, per cui di volta in volta si inventava o reinventava la scrittura con un lancio di dadi stilistico, Lunetta accoppiava un inesausto “piacere della materialità della vita” e insieme della dignità del pensiero che aprivano il suo “senso della letteratura” alla intransigenza dell’impegno civile. Come pochi, come ormai quasi nessuno.
(Francesco Muzzioli)

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«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».1
Le strutture ideologiche post-moderne, dagli anni settanta ai giorni nostri, si nutrono vampirescamente di una narrazione che racconta il mondo come questione «privata» e non più «pubblica». Di conseguenza la questione «verità» viene introiettata dall’io e diventa soggettiva, si riduce ad un principio soggettivo, ad una petizione del soggetto. La questione verità così soggettivizzata si trasforma in qualcosa che si può esternare perché abita nelle profondità presunte del soggetto. È da questo momento che la poesia cessa di essere un genere pubblicistico per diventare un genere privato, anzi privatistico. Questa problematica deve essere chiara, è un punto inequivocabile, che segna una linea da tracciare con la massima precisione.
Questo assunto Mario Lunetta lo aveva ben compreso fin dagli anni settanta. Tutto il suo interventismo letterario nei decenni successivi agli anni settanta può essere letto come il tentativo di fare della forma-poesia «privata» una questione pubblicistica, quindi politica, di contro al mainstream che ne faceva una questione «privata», anzi, privatistica; per contro, quelle strutture privatistiche, de-politicizzate, assumevano il soliloquio dell’io come genere artistico egemone.
La pseudo-poesia privatistica che si è fatta in questi ultimi decenni intercetta la tendenza privatistica delle società a comunicazione globale e ne fa una sorta di pseudo poetica, con tanto di benedizione degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale.
(Giorgio Linguaglossa)

1 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017

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Mario Lunetta 2

Di famiglia piccolo borghese, Mario Lunetta nasce e cresce a Roma. Sperimentatore nei più diversi generi letterari e artistici, ha collaborato ai programmi culturali della RAI, a giornali, a riviste italiane e straniere (L’Unità, Corriere della Sera, Il Messaggero, Rinascita, Il manifesto, Liberazione); ha curato importanti antologie (Il surrealismo, Roma, Editori Riuniti, 1976; Poesia italiana oggi, 1981, e, in collaborazione con Franco Cavallo, Poesia italiana della contraddizione, 1989, entrambe edite a Roma, Newton Compton). Ha introdotto e curato opere, tra gli altri, di Italo Svevo, Emily Brönte, Émile Zola, Federico De Roberto, Gustave Flaubert, Dino Campana, Velso Mucci. Sullo stato di salute di certa poesia contemporanea Mario Lunetta scrive:
«La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore. La ideologia attualmente diffusa in gloria di quella recentissima specie zoo(il)logica che sarebbe il poeta da spiaggia o da stadio […] che ‘canta’ al grado zero le sue passioni le sue frustrazioni le sue esaltazioni in versi intrisi di ‘incantevole’ primitivismo semianalfabetico, è l’ultima invenzione del mercato delle lettere (insomma, del mercato) perfettamente omologa al presente del gusto medio radiotelevisivo/rotocalchesco. È l’ultima mistificazione in letteratura, in poesia». E così parla della nuora perché suocera intenda».
Nel marzo del 2013 Mario Lunetta perde Maria Pia, sua compagna per oltre mezzo secolo, e vede la sua luce il Canzoniere della scomparsa, per Robin Editore. Nei 31 componimenti del libro, nello sgomento quotidiano della perdita della compagna, fa i conti, per dirla con il Roland Barthes del Diario di lutto tradotto in Italia come Dove lei non è, con una nuova poetica, la poetica della «presenza dell’assenza»:

Sotto i portici dell’esedra, il refrigerio dell’ombra:
e subito, dipoi, quell’incredibile avvertire accanto a sé,
al suo fianco, un alito di freschezza, un respiro leggero
che era niente e era tutto, nella pace silenziosa
cui finalmente sembrava approdata la Scomparsa
che nel momento in cui il sospetto immortale, ormai morto anche lui,
le rivolse la parola, svanì dissolta nell’aria umida,
come un volo di farfalla – e il defunto supposto immortale si sta
chiedendo da tre giorni dove sia cominciato il sogno, quando
sia finita la realtà, in questa scacchiera di caselle vuote
dove tutto è trasformato nel suo contrario e la via
è soltanto un accumulo di surrogati e succedanei finti.
( da Canzoniere della Scomparsa, Robin Edizioni, Roma, )

Come in questo, anche negli altri 30 componimenti Mario Lunetta non cede mai alla autocommiserazione, al verso intriso di lirismo piagnucoloso e disarmato e un critico letterario per questo atteggiamento di Lunetta di fronte alla morte segnala l’epitaffio di Samuel Beckett: «è finita, continua a finire e io in questa fine continuo» come modello della postura lunettiana di resilienza dopo l’evento morte che da noi stratta la persona amata, e si conferma come scrittore loico, laico, materialista, razionalista, incapace di cedere alla retorica del sentimentalismo e del lirismo strappa-anima o strappa-cuore, scansando tutte le forme di petrarchismo, alzando barriere verso ogni tentazione di “umbertosabismo”, evitando «gli abissi melodrammatici dell’Ego interiore».
Anzi, nei 31 componimenti del suo Canzoniere della scomparsa Lunetta fa di più, fa sparire totalmente l’Io poetante inventando l’espediente estetico dell’« i.s.» che il poeta romano intende e usa in tutto il libro come «immortale sottoscritto». Fa retrocedere l’io alla terza persona e come “ i. s.” il poeta si rivolge a Maria Pia, alla Scomparsa.

Come ad esempio Mario Lunetta fa in questi altri versi del suo Canzoniere della scomparsa:

Pare accertato che di frequente, nella sua corsa immobile
sul binario dell’angoscia come un carrello senza guida
che giri intorno a se stesso in una miniera abbandonata, l’i.s.
si rivolga alla sua ragazza a voce alta, chiedendole assenso
&amp; complicità, annaspando nel vuoto del suo delirio in una
pratica ventriloqua di cui pure comprende l’insensatezza ma
di cui può tuttavia apprezzare il povero succedaneo della realtà,
ormai per sempre perduta nel suo nulla senza conforto.

(da Canzoniere della scomparsa, Robin Edizioni, Roma)

Anche per questi aspetti, della vasta esperienza poetica lunettiana, Giorgio Linguaglossa parla di «forma informe» e a tal proposito scrive: «La realtà è diventata muta, impresentabile, e la forma-poesia che le corrisponde risulta dissonante; la forma informe è diventata qualcosa di ultroneo sia al concetto di rappresentazione sia a quello di testimonianza. Lunetta capisce subito, fin dai primissimi anni settanta, che la poesia non deve testimoniare nulla a nessuno, non obbedisce alle regole dell’economia monetaria dello stile e dell’ economia culinaria della bellezza sostenute dai poeti interessati al mantenimento dell’ordo rerum».
(Gino Rago)

Mario Lunetta Dino Ignani

Mario Lunetta

Ki parla? Ki askolta?
Poema pesce

E tuttavia sedevamo ancora dietro la porta in rovina
deliberando i destini del mondo.
Bertolt Brecht
L’artista non è qualcuno che trascrive il mondo,
quanto piuttosto il suo rivale.
André Malraux
La liberazione dei morti avviene al rallentatore.
Heiner Müller

1.
Ki mi parla? Ki mi paràbola, parabellum paradossale, ki mi parla all’orecchio,
all’erta, orakolare, alors, allegro, allegorico alibi maldestro, ki, ki,
ki mi sussurra, susssss, ki mi grida, ki urla, ur, ur, Ur dei Kaldei, hurrà! Là in quelle
lingue antikissime perdute, ikiissime, eeerdute, kon èki kissà kome
pieni di frenesia, di freee, free klimber, di freeesko vento kolossale
fra le kolonne, i rokki, i rock ‘n roll, rollando, rockkettando,
nel pap, nel papillon, nel padiglione, nel kondotto, mentre porgea gli orecchi
al suon della tua voce?

Ki mi grida, ki urla, ki sussurra? Mi susssss? Mi sugge, mi suggella?
Ki tace invece? & kome? & in base a kuali disposizioni, a kuali
regolamenti, dérèglements, regaglie, regalìe? In base
a kuali ordinanze del maxiracket, akkà, stasera o stamattina, akkà nisciune,
stabat, stamme, sotto nu ciele ke vommita eskrementi, ke vooommita, reggae
giamaikano, già? & ness, nessuno se ne akkorge, se ne akkkkk
(o finge di)? – kontinuando a ko, kontinuando a kooovare nel kovile
le sue proprie amarezze & amaritudini, arezze, itùdini agrodolci, ascoltando
più niente ke non sia kuesto rhum (giamaicano ank’esso, forse), kuesto rumore
profondo di rovina, kaduta, precipizio delle kose, delle koske dello spirito
– spiritosamente?

La burocratizzazione dell’ass, dell’assassinio: kuesto
sì ke è, peut-etre, un problemino non da poko: pur se non
da moltissimo, per vero – magari da moooooltiplikare
in silenzio, mentre mi kie, mi kiedo ki mi grida, ki urla, ki
mi susss, susssss, mi sussurra nel timpano, sursum korda, nella tu, nella tuba
di Eustakio, mi kie, kiedo, ki insomma ki è mai, ki sia stato
in kuel momento svanito in un singhiozzo, ki sarà domani, ke è sempre
un altro giorno, komme on dit, nulla di nuovo, nulla, nihil
sub sole novi, nel mutamento delle forme, delle formule del ka,
del kaaapitalismo: della sostanza sua sempiterna, se non vo, se non vado
errato (ma lo potrei, lo ammetto, hamm, dash:
in kuesto Grande Sonno).

Assumere l’indispensabilità, ta ta ta ta ta, & in parallelo
la necessità inderogabile inkommerciabile inkontestabile indubitabile
indomabile (& pratikabile palpabile respirabile instankabile immutabile
socializzabile spiegabile inspiegabile insurrogabile) – & dimostrabile kontra,
della politika: opposizione kategorika al lib, al liber, al libeeerismo
(ke è lirismo specializzato in allestimenti sempre ult, ultrà, sempre ulteriori
di sistemi karcerari, guerre senza konfini di spaaaaazio & teeeeempo,
amori militari & raffike di piombo sotto il disgusto della lu, il disgusto
della luna)…

Extra, in esergo estrapoliamo gli effetti katastrofici, katarifrangenti,
magari kàtari o katarì (anke in kueste misere strofe, si vous voulez)
& rimettiamoci all’askolto, sia pure senza, senza aver decifrato
la vox, le voci (& il senso) di ki ci parla, ci paràbola, parabellum,
ci sussurra, susssss, sussi & biribissi, ci allaga di sangue i kondotti auri,
auricolari, & memoria & meningi: & non ci dice il suo nome.

2.
Ki askolta nelle tene, nelle tenebre del senso, della Sensucht, ki
si naskonde sotto kave di granito, dentro le nu, le nuages ke sono kavalli
& sono kavoli, kavilli & kave, appunto, kome già detto, o caveaux,
nel cielo o nell’inferno del business universale, dove il verso
non ha korso, & la per, la pertinace peeerversione della specie
s’impingua & si skatena? Ki, kuando, dove mai sempre semper
insiste nella sua opera pia innocentemente kriminale, pragmatismo
selvaggio, idealismo retoriko, oro nero oro bianko, petrolio, akkua,
aria, ke se la respiri muori, ki kome kuando & perché poi
– ki è pa, patron, patriota, padrone insomma nella partita di kuesta
passatella globale senza inizio
& senza konklusione?

Oh lo sviluppo integrato, lo sviluppo sostenibile, soste,
viluppo, atti, attività prometeica & multiforme
ora ke la nato, la natura ride di sé per non piangere, nell’oskuro
intestino del senso del nonsenso mentre
trema la terra, vogliamo forse fa, forse diesis, forse fare
un’inkiesta rigooooorosa su, per esempio, les Nouveaux
Maitres du monde, per dirla kon l’illustre prof.
il kui nome si può leggere, si può, su… su… (ma dove? Dove mai?)
prima ke tutto sia divorato dall’incendio ke si vede
avanzare dalla fo, dalla for, dalla foresta: ke si vide avanzare
– ke si vide, kuando già – vekkia fissazione dell’impero –
Woodrow Wilson buonanima aveva diffuso lo slogan
“Rendere il mondo più demokratiko”?

Ma ora finalmente, ora ke kue, ke kuesti tempi benedetti
da God & da Godot (dal dog di God & di Godot) hanno portato
benessere & libertà su kua, su kuasi tutta la terra, è giusto
konoscere grazie a kuale motore sia avvenuto
il mirakolo: & il motore, il General Motor, è kuesto, è quì,
& ci ama & ci arma ci sokkorre ci governa con ange, con angelika
sollecitudine
Banka Mondiale è il suo nomignolo
in kod, in kodice: ma in realtà il suo nome di battesimo
è World Bank Group, ke impiega poko più
di 10.000 funzionari, ed è pro, probabilmente, fra tutte
le organizations interstatali, kuella ke fornisce
all’opi, all’opinione pubblika le informazioni più komplete
sulle proprie stra, sulle proprie strategie, stragi, progetti
& aktivities – un flux and fluxus kuasi ininterrotto
di stati, di statistike, di opuskoli esplikativi & di analisi
teo, teorike: & tutto, per grazia di Dio, si di, graziosamente si diparte
dalla sua fortezza in vetrocemento, al 1818
di Northwest Street, Washington, sorry.

3.
Poi c’è la psike, c’è la psi, questa mia psike
ke non è più mia, non è più di nessuno, labile
più di un gas, più suppliziata di un supplì. Sarebbe bene, diko,
rivestirla di un giubbotto antiproiettile
antiruggine antiuomo anti-igieniko antiallergiko
antikongelante antikonformista (da animista blasé),
nella speranza disperata di un kam, di un kambiamento
non di status ma di specie: diventando
– metamorfosi zoologika & metallika –
prima un kammello attraverso la kru, la kruska di un ago,
di un’agorafobìa, poi un karrarmato, me voilà! – per vincere magari
kuesta guerra infinita, kuesta infinita
batrakomiomakìa gordonflash, kuesta gran fiera
di bistekke al sangue, sciakkuandomi le mani
kon un tokko di sapone Marsiglia, fiskiettando
anke sotto la pioggia la Mars, la Mars, La Marseillaise enfin:
mentre lo spe, lo spek, lo spekkio va in frantumi, & la mia faccia
ride, kome kuella immortale
di Buster Keaton, please, ke non ride mai.

1 aprile 2004*

mario_lunetta neroEUROBOND EUROPA

In pochi, mi pare, si sono accorti che l’Europa è a Gaza,
a Gerusalemme, a Giaffa (dove anche i pompelmi
sono bombe a orologeria).
Che l’Europa è a Baghdad, nella nuova Mesopotamia
delle Mille & una Morte
& di “Antica Babilonia”, sorry.
Che è in America Latina, la maledetta Europa.
Che è in India, in Cina, in Australia, in Canada,
nelle Antille, laggiù, verso la Florida
piena di patrioti strafatti di coca, & di contras
che aspettano solo l’ordine di attacco.
Che l’Europa si chiama anche Africa, okay, dove la Comare
allestisce ogni giorno dell’anno
il Festival del Sangue
& milioni di marmocchi fanno da concime gratis
prima di essere inscatolati
come Dio comanda.

Oh sì, la gente è distratta, & non ha
troppo tempo da perdere. Appunto in pochi si sono accorti
che l’Europa è negli Stati Uniti, okay,
& gli Stati Uniti sono qui, anche quando dormiamo, cullati
dai nostri sogni sognati da altri.
Facciamo sì che questi pochi
siano sempre meno pochi, fino a diventare
maggioranza, popolo sterminato,
pianeta.

In pochi sanno, ancora,
che troppi sono stati i rapimenti d’Europa, & che i suoi ratti
non sono favole mitologiche, ma rapine
& spoliazioni, ladrocinio & borseggio
a cielo aperto.
Facciamo sì che finalmente
non solo gli europei marcati come bufali
con le impronte digitali
comincino a saperlo.

Facciamo sì che lo sappiano
anche gli animali e lo diffondano nel vento
nelle loro lingue che sempre più somigliano alle nostre
perché sono anch’esse le lingue dei vinti,
dei depredati, dei destinati all’ingrasso del capitale
senza confini, senza principi & senza fine.

Facciamo sì che lo sappiano
anche i morti, che continuano a abitare
questo mondo di orrori & di dolcezze possibili
– & lo diffondono ben oltre i loro cimiteri,
le loro fosse comuni, i loro mattatoi, in quelle lingue
silenziose & cifrate che sempre più
somigliano alle nostre.

Non vorremmo, no, che in Europa
ci fosse meno Europa che in tutti gli altri luoghi
della terra. (Fate attenzione).
È un progetto a cui lavorano alacremente
i suoi assassini, che non di rado
vi sono nati & ne parlano gli idiomi truccati
perché il loro vero idioma
è l’esperanto della sopraffazione
& del dominio, che conosce soltanto
il colore dell’oro, il peso leggerissimo
della carta moneta
& il sorriso del teschio.

20 maggio 2004*

da Mappamondo & Altri luoghi infrequentabili, Campanotto, 2006 p. 45 e segg.

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Archiviato in poesia italiana del novecento

Franco Falasca, Poesie da La felicità e le aberrazioni (2011) e da nature improprie (2004) Il movimento sussultorio e ondulatorio di fine novecento che ha nome di post-sperimentalismo, Commento di Giorgio Linguaglossa, fotografia di Marie Laure Colasson, quadro di Giorgio Ortona

Giorgio Ortona Arancione, indaco e celeste, 2020, olio su tela, 63,4 x 59,4 cm

Giorgio Ortona, Arancione, indaco e celeste, olio su tela, 2020, 63,4 x 59,4 cm

Nel quadro è raffigurata Letizia Leone che cammina in una strada di Roma all’epoca del Covid19. Sì, «andiamo verso la catastrofe senza parole» scriveva Vincenzo Cardarelli nel 1919. Sono passati 101 anni e siamo allo stesso punto, andiamo verso la catastrofe senza parole. I colori si sono sbiaditi, sbiancati, indeboliti, Letizia ha una andatura casuale, impacciata, sembra avere un’aria stralunata… potrebbe andare al mercato a fare la spesa o ciondolare senza meta per il quartiere di Piazza Vittorio dove abita, a Roma. Non credo stia pensando alla rivoluzione che non verrà, forse, semplicemente ha fatto colazione in fretta, si è vestita come al solito, i capelli sembrano arruffati e guarda leggermente a lato, un po’ in alto, a dx… forse un gabbiano con le sue strida o un corvo sui cassonetti della immondizia sta attirando l’attenzione della passante, o forse nulla di tutto ciò, Letizia ha semplicemente mal di testa e non vede l’ora di prendere una aspirina… (g.l.)

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«“Andiamo verso la catastrofe senza parole. Già le rivoluzioni di domani si faranno in marsina e con tutte le comodità. I Re avranno da temere soprattutto dai loro segretari”. Era l’aprile del 1919 quando Vincenzo Cardarelli scriveva queste parole. Era iniziata la rivoluzione della società di massa, la rivoluzione industriale era ancora di là da venire, e l’epoca delle avanguardie era già alle spalle, il ritorno all’ordine era una strada in discesa, segnato da un annunzio che sembrava indiscutibile.
Oggi, a distanza di quasi un secolo dalle parole di Cardarelli, è avvenuto esattamente il contrario di quanto preconizzato dal poeta de “La Ronda”: oggi andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole. Le rivoluzioni di domani non si faranno né in marsina né in canottiera, né con tutte le comodità né con tutti gli incomodi: non si faranno affatto. Una poesia come questa del Dopo il Novecento non può che nascere in un’epoca in cui parlare di “rivoluzione” è come parlare di ircocervi in scatola. Non c’è opera della rappresentazione letteraria del secondo Novecento che non tenda, in qualche modo, al verosimile e, al contempo, non additi la propria maschera. La poesia e il romanzo dello sperimentalismo, rispetto alla poesia del post-ermetismo e dell’ermetismo, ha una sofisticata coscienza del carattere di “finzione” dell’opera letteraria, ha coscienza della propria maschera, anzi, c’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”».1

La poesia di Franco Falasca fa parte di quel movimento sussultorio e ondulatorio di fine novecento che ha nome di post-sperimentalismo.  Francesco Muzzioli nella postfazione di nature improprie (poesie 1976-2000), pubblicata nel 2004, parla di poesia «fondata sull’incongruo». Siamo dinanzi ad un discorso poetico dove è predominante un vistoso intento metaletterario: locuzioni accidentali si intrecciano a frastagliature frattali; locuzioni parenetiche, ipotetiche, ottative, dubitative, esortative si diramano nel tessuto ritmico-sintattico con tutta una congerie di espedienti retorici: dalla deviazione semantica, alla paronomasia, alla iper  metafora per contatto, alla anadiplosi,  alla analogia per dissimmetria, a frasari storpiati e incongrui… tutto ciò finisce per conferire ai  testi un andamento di irrisione convulsa a metà tra la mestizia del grido impotente e la tristizia goliardica della derisione. È un proposito metaletterario quello che governa il dettato poetico di Franco Falasca, è la sua personale interpretazione dell’eredità dello sperimentalismo del tardo novecento. Falasca importa nel suo registro stilistico la più grande estensione di strumenti  retorici dello sperimentalismo per piegarlo all’impeto dello sdegno civile e politico ma anche alla irrisione e alla derisione, al disincanto e all’incanto. Quello che ne deriva è, nei momenti migliori, un tessuto linguistico composto, mobile, variabile, esuberante, con vari  moduli sintattici che si sovrappongono e interagiscono in un soliloquio con effetto di lacerante e grottesca ilarotragoedia.

Il discorso poetico da elemento di resistenza  è diventato una condizione di esistenza. In questa lucida strategia di assimilazione della contaminazione  rientra sia l’istituto dello spostamento semantico, sia il lavoro sul sotto testo, sia gli scambi semantici tra parole diverse. È l’iconologia  del linguaggio poetico piccolo borghese che viene marionettizzata e ludicizzata. In questa operazione di marionettizazione del linguaggio poetico mediatico maggioritario la poesia di Franco Falasca trova la sua ragione di esistenza, la sua petitio principiis.

(Giorgio Linguaglossa)

1 G. Linguaglossa, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, Società Editrice Fiorentina, 2013 p. 10

franco_falasca 1Franco Falasca

da La felicità e le aberrazioni (poesie 2001-2010),  Fabio D’Ambrosio Editore, Milano, 2011

L’impero dei sensi

Il mondo è una sacra sindone
dall’acciaio curvo
la corda del giocattolo trilla sul vuoto pavimento
sottostante al mondo è l’improprio
ed io l’assecondo come un vigliacco filosofo
ma a sera sveglio
l’inguine irride le paludi
dove le rane aspergono le rituali
cerimonie dal carattere dorato.
È l’impero dei sensi o l’ossessione del vuoto?
Ogni ridicolo sapere cozza sul crostone
plumbeo all’imbrunire delle civiltà
osseo sapere
dal pane abbrustolito e dal vin santo
e dall’orizzonte di cartapesta
dove i tuoi sorrisi bruciano la mia drammatica
armonia.

Il filosofo sulla veranda

Dice il filosofo che la vita è un segnale d’allarme
senza allarme e senza segnale
e se la speranza è l’ultima a morire
l’allarme è il primo a suonare,
e se l’edera sporge dalla chioma
è già avvenuto il miracolo
della speranza che sostituisce l’allarme
e delle idee semplici che si vendono al mercato
della perspicacia inutile,
incantevoli idee ridotte a significato
per un ex-filosofo venuto a visitare
la casa e seduto sulla veranda
ricorda che il suo passato è nel futuro
e la sua memoria è una discarica
di computer fuori uso e condensatori ossidati.
Brutta storia quella del segnale d’allarme
per una poesia arrugginita e malinconica
priva di ogni ornamento
abbandonata a se stessa sulle foglie galleggianti
di uno stagno colorato.
Ascolto la sua voce solitaria
a volte gentile a volte assente,
sapendo che non c’è nulla,
un vuoto capillare e permaloso,
oltre le montagne rocciose.
Siepi atterrite
da rivoluzioni permanenti
appassiscono turbate dal circuito incorretto,
obbrobrio dell’inefficace linfa,
avvisati da assistenti stanchi,
per violentare il pensiero dinanzi alle dimore
del dio ribelle, colmo di rabbia cristallina,
in un inefficace squarcio della mente lucida,
un caduco siparietto,
in una valle senza nome. Continua a leggere

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Mario Lunetta, (1934-2017), Due poesie inedite, La «forma informe» del poeta di via Accademia Platonica in Roma, Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Mario Lunetta Dino Ignani

Mario Lunetta, foto di Dino Ignani

«Il tentativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è possibile, è soltanto una volgarità scimmiesca, o qualcosa di orrendamente comico, come la follia che fa parlare coi mobili. […] Per l’artista che non si muove in superficie, il rifiuto dell’amicizia non è soltanto qualcosa di ragionevole, ma è un’autentica necessità. Poiché il solo possibile sviluppo spirituale è in profondità. La tendenza artistica non è nel senso dell’espansione, ma della contrazione. E l’arte è l’apoteosi della solitudine. Non vi è comunicazione poiché non vi sono mezzi di comunicazione».

Samuel Beckett Proust

«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».

 Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 113

Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

La «forma informe» del poeta di via Accademia Platonica in Roma

In questi due inediti di Mario Lunetta scritti poco prima della sua morte prematura, il poeta romano ritorna allo stile della poesia di Trasumanar e organizzar di Pier Paolo Pasolini, al pluristilismo polimorfico, al materialismo dialettico, alla dialettica materialistica dello stile, ad una poesia di opposizione; adotta per la sua poesia-parlato una «forma informe», un interventismo pluristilistico e plurilinguistico per via del fatto che quell’altra «forma», la forma della poesia maggioritaria con cui si è fabbricata in Italia la poesia istituzionale in questi ultimi decenni, è ormai un veicolo tautologico, usurato e compromesso, quella forma-poesia è diventata non più abitabile e neanche frequentabile. Il poeta di via Accademia Platonica, qui vicino a casa mia, a Roma, ha dismesso dagli anni settanta gli abiti di scena, gli abiti della poesia della «discesa culturale» della generazione degli anni ottanta, per restare poeta di opposizione, di una opposizione marxianamente e intransigentemente materialistica.

Scrive Mario Lunetta:

«La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore. La ideologia attualmente diffusa in gloria di quella recentissima specie zoo(il)logica che sarebbe il poeta da spiaggia o da stadio […] che ‘canta’ al grado zero le sue passioni le sue frustrazioni le sue esaltazioni in versi intrisi di ‘incantevole’ primitivismo semianalfabetico, è l’ultima invenzione del mercato delle lettere (insomma, del mercato) perfettamente omologa al presente del gusto medio radiotelevisivo/rotocalchesco. È l’ultima mistificazione in letteratura, in poesia».

Scrive Gualberto Alvino:

«Ecco le raccolte poetiche degli anni Novanta: Panopticon (1990), Antartide (1993), attraversate da due tensioni non meno antitetiche che mirabilmente fuse nella rapinosa potenza dello stile: da un lato l’esortazione alla discesa in piazza, l’attacco al potere con tanto di nomi e cognomi, alla cultura dominante, alla società dello spettacolo, sotto il segno di una passione civile gonfia di risentimento per un mondo degradato e bestializzato («mute / di cani muti, di pescicani accovacciati […] / falangi alticce di oche, galline starnazzanti»); dall’altro – parola di Francesco Muzzioli – lo «sfrenamento felice del significante» e delle libere associazioni surrealiste.
Ed ecco le raccolte degli anni Zero (Roulette occidentale, Lettera morta), nelle quali continua, e incrudelisce, la critica del consumismo impazzito e l’orrore per il mondo postmoderno. Ma di grande rilievo pare a noi La forma dell’Italia, Poema da compiere (2009) per l’inaudita testura e la superba orchestrazione formale, in cui tutto si genera a partire da un dato non già concettuale bensì ritmico; un ritmo che si fa poliritmicità, energia musicale struttiva, con gli abrupti mutamenti di rotta e di tenuta, la felinità delle mosse, le infinite soluzioni combinatorie che tramutano inesorabilmente – e drammaticamente – la poliritmicità in aritmicità strozzata, soffocante: diastole e sistole d’una disperazione insieme cupa e colma di fiducia, come in tutti i poeti figli della guerra, che non smotta mai nell’oratoria, pur facendosene a tratti tanto accosto da lambirne perigliosamente i cigli.»1]

Dopo Kafka e Beckett la frammentarietà della «forma» parla per se stessa, di se stessa, e indica, per via indiretta, la impossibilità di leggere il reale, di parlare al reale. La «forma informe» del verso libero in auge da diversi decenni in Italia non pensa criticamente la secondarietà del discorso poetico ma si limita a parcheggiare il discorso poetico nella nicchia della cosmogonia dell’io.

Lunetta comprende da subito, fin dagli anni settanta che ci troviamo in un mondo non più presentabile e nemmeno rappresentabile (che non sta più davanti ad un soggetto che osserva), squassato dalla lotta di classe e dalla conflittualità interclasse. Un mondo quindi non più orientabile in una «forma», tanto meno chiusa o algebrica o aperta che sia. Non c’è nessuna algebra, è convinto Lunetta, che sia applicabile a questa «forma» deformata, conflittuale, aporetica. La storia non è presentabile e quindi rappresentabile. Nella poesia lunettiana siamo lontani anni luce dalla edulcorata presentabilità del mondo piccolo-borghese occidentale con le sue «catastrofette» piccolo borghesi e con le sue ulcere dell’anima. La realtà non è rappresentabile, al massimo può essere citabile. C’è un modello maggioritario di pensiero che flirta con la storia e la lotta di classe derubricata a lotta per la sopravvivenza delle classi subalterne. La lotta di classe, ne è convinto Lunetta, è ormai diventata una macchina desueta e celibe alla Duchamp dove scorrono e si scontrano biglie rumorose e indisciplinate che producono cialtroneria, populismo, sovranismo e misticismo.

La realtà è diventata «muta», impresentabile, e la forma-poesia che le corrisponde risulta dissonante; la «forma informe» è diventata qualcosa di ultroneo sia al concetto di rappresentazione che a quello di testimonianza. Lunetta capisce subito, fin dai primissimi anni settanta, che la poesia non deve testimoniare nulla a nessuno, non obbedisce alla regola dell’economia monetaria dello stile e alla economia culinaria della «bellezza» sostenuta dai poeti interessati al mantenimento dell’ordo rerum; capisce che ormai non c’è nulla di cui render testimonianza, la poesia deve soltanto opporsi con tutte le proprie residue forze alla omologazione culturale di massa e al conformismo dei ceti impiegatizi della pseudo cultura. La storia degli uomini sembra esser stata neutralizzata da Agenti di un altro sistema solare che sono scesi sulla terra e l’hanno colonizzata ad insaputa dei terrestri: gli agenti delle Agenzie del multi capitalismo globale che hanno compiuto una vera e propria trasmutazione antropologica e di classe. In queste condizioni planetarie «l’espressione è il volto addolorato delle opere», scriveva Adorno in tempi non sospetti, negli anni sessanta. Appunto, nella poesia di Mario Lunetta si rinviene la calcificazione e la codificazione del dolore nelle parole, non vi sono più le parole corrispondenti al «reale»; l’espressione viene piegata in espressionismo, in disformismo, in pluristilismo, in cacofonismo, in irrispettoso e amusaico plurilinguismo. È questo il motivo della insonorità di fondo di questa poesia, della sua salubre insonorità spinta al massimo del diapason, della ipoacusia di questa poesia, scritta per i non-vedenti e i non-udenti, orgogliosamente e aristocraticamente oppositrice del conformismo di massa e per essere invisa alla paccottiglia letteraria del monolinguismo maggioritario.

1] http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_125.html

mario-lunetta-anni settanta

Mario Lunetta, anni settanta

Mario Lunetta
Due poesie inedite

La «forma informe» del poeta di via Accademia Platonica, Roma

Again or never more

Forse che sì forse che no, quando i tre angeli senz’ali
dai nomi illustri – Mario Monicelli, Carlo Lizzani, Memè Perlini –
sono volati dalla finestra per sfracellarsi sull’asfalto
forse nell’illusione di planare su un materasso di piume,
un attimo prima avevano incontrato allo specchio
per l’ultima volta i loro volti già estranei, incerti
tra un morso di disprezzo o una puntura di rimorso.

Dopo di che, la fine di tutto o quasi: tra fragore di nacchere,
acrocori di chiacchiere intasate, improvvisi crepacci
di silenzio, nel troppo pieno e nel troppo vuoto, contro
uno schermo nero.

Quando alla Villetta della Garbatella si tenne la commemorazione
dell’amico Carlo e del suo cinema e l’immortale sottoscritto
trattenne in fine d’intervento un brivido di commozione, il figlio
del defunto, che somiglia a suo padre in modo impressionante
nel volto, nei gesti e nella voce, lo abbracciò forte, prima che tutto
si sciogliesse in un mutismo irreale.

Cosa resta ormai di ciò che i tre angeli senz’ali
hanno fatto nel cinema e nel teatro, per il cinema e il teatro?
Questo si chiede senza saper rispondere fino in fondo
Il supposto immortale – e si dice nel suo mutismo
senza fiato, in una bava d’incoscienza: tutto e niente.
Ma il tutto è senza dubbio più del niente: solo questo oggi conta,
solo questo ha valore.

Tre angeli senz’ali se ne sono andati per restare tra noi
in nome degli azzardi dell’intelligenza, in questo mondo
capace solo di mettere in scena se stesso senza tregua
davanti a uno specchio ipocrita, tra orrore e idiozia, stupidità e ferocia.
Solo questo è innegabile, solo questo possiamo dire.

Per cui: nessun saluto particolarmente accentuato, in questo
messaggio versicolore scritto in un esperanto maldestro
per tre angeli àpteri inadeguati al volo, ma niente più che un omaggio truccato
a colei che con tutto il bagaglio delle sue arti magiche (sorrisi iridescenti,
malinconie inguaribili, ambiguità fascinose) aiuta a sopravvivere
il supposto immortale senza chiudere le ali, again or never more,
never more or again – per tutto il tempo che rimane,
o che è già scaduto.

8 aprile 2017

Cartapesta

Continuando ad abitare la sua casa di cartapesta
di via Accademia Platonica come una parodia
della pompeiana Villa dei Misteri, aggredito alle spalle
da un fastidioso nùgolo di alfabeti remoti
grezzamente affastellato sotto la pioggia o sotto l’urto
glorioso della luce contro l’azzurro del cielo o il deserto
ingiallito di un foglio di papiro, il respiro di un’aquila
o la fuga precipitosa di una formica, il supposto
immortale esce dal suo torpore per cercare
ingenuamente il vessillo lacerato di quella che si chiama
scrittura Lineare B

imbattendosi invece alquanto oziosamente
nella futile notizia secondo cui il cobra reale, lungo
intorno ai 5 mt, ha una lingua biforcuta sensibilissima
all’odore molecolare delle prede e una vista telescopica
capace di indiv iduare a 100 mt con estrema precisione
uno scoiattolo c he tenta di mimetizzarsi a ridosso
del tronco di un olmo americano, ecc. ecc.

Alquanto frastornato, il supposto immortale
non sa allora trovare altro conforto che pronunciare
a voce alta, specchiandosi in un olio di Cagli
tanto simile a un oscuro geroglifico gremito
di spazi inenarrabili, questo SOS che ha tutta l’aria
di un help pronunciato un attimo prima del naufragio:
Via, tenera amica, guarda ancora l’immortale
che conosci così bene: sì, proprio lui che a stento
ricorda il suo nome.

Se lo fissi un istante coi tuoi grandi occhi di ragazza
pieni di stupore cinematografico, quest’uomo strano
e incomprensibile forse potrà guarire ancora un poco
– o ritardare di un istante la sua fine.

15 aprile 017

mario_lunetta neroMario Lunetta (Roma, 23 novembre 1934 – Roma, 6 luglio 2017) nasce a Roma. Sperimentatore nei più diversi generi letterari e artistici, ha collaborato ai programmi culturali della RAI e a decine di giornali e riviste italiane e straniere, tra cui L’Unità, Corriere della Sera, Il Messaggero, Rinascita, Il manifesto e Liberazione. Curatore di importanti antologie (Il surrealismo, Roma, Editori Riuniti, 1976; Poesia italiana oggi, 1981, e, in collaborazione con Franco Cavallo,Poesia italiana della contraddizione, 1989, entrambe edite a Roma, Newton Compton), ha introdotto e curato opere, tra gli altri, di Italo Svevo, Emily Bronte, Émile Zola,Federico De Roberto,Gustave Flaubert, Dino Campana e Velso Mucci. Nel2004 ha vinto il Premio Nazionale Letterario Pisanella sezione Poesia e nel 2006 il Premio Alessandro Tassoni alla carriera.
In volume ha pubblicato:

Poesia

Tredici falchi (1970); Lo stuzzicadenti di Jarry (1972); Chez Giacometti (1979); La presa di Palermo (1979); Flea market (1983- Premio Pisa); Cadavre exquis (1985 – Premio Adelfia); Autoritratto con acrostici (1987); In abisso (1989); Panopticon (1990), con disegno e lito di C. Cattaneo; Pianosequenza (1990), con acqueforti e acquetinte di S. Paladino; Sorella acqua (1991), con serigrafie di C. Budetta; Antartide (1993); Catastrofette (1997), con un acquerello di E. Masci; Cunnichiglie (1997), con un acquerello di E. Masci; Roulette occidentale (2000), con un disegno di B. Caruso; Doppio fantasma – 91 poesie per 91 artisti (2003); Magazzino dei monatti (2005); Bacheca delle apparizioni, con quattro litografie di L. Boille (2005); Mappamondo & altri luoghi infrequentabili (2006); Nitroglicerina per ermellini, con cinque acqueforti-acquetinte e un rilievo di Bruno Aller (2007); Videoclip, con tre acquerelli e un rilievo di C. Budetta (2007), La forma dell’Italia (2008), Cartastraccia (2008).

Narrativa

Comikaze (1972); Dell’elmo di Scipio Marsilio 1974 – Premio Pisa); I ratti d’Europa (Editori Riuniti, 1977 – finalista al Premio Strega); Mano di fragola (Editori Riuniti, 1979); Guerriero Cheyenne (Manni, 1987); Puzzle d’autunno (Camunia, 1989 – finalista al Premio Strega); L’ubicazione di Lhasa (Camunia, 1993); Mercato delle anime Manni, 1998) – Premio Bergamo); Penalty (Le Impronte degli Uccelli, Roma 1998); Montefolle (Manni-Quasar, 1999); Soltanto insonnia (Odradek, 2000); Cani abbandonati (Odradek, 2003); Figure lunari (Robin, 2004); I nomi della polvere (Manni, 2005); La notte gioca a dadi (Newton Compton, 2008).

Saggistica

La scrittura precaria (1972); Invito alla lettura di Italo Svevo (1972); Il Surrealismo (1976); Sintassi dell’altrove (1978); L’aringa nel salotto (1984); Da Lemberg a Cracovia (1984); Et dona ferentes: sindromi del moderno nella poesia italiana da Leopardi a Pagliarani (1996); Le dimore di Narciso (1997); Invasione di campo: progetti, rifiuti, utopie (2002); Liber Veritatis (2007).
Teatro
La visitatrice della sera (Radiodramma – Radio Frankfurt); Galateo (Teatro delle Voci); Città proibita (Teatro del Palazzo delle Esposizioni di Roma); Antartide (Teatro Belli di Roma); Gigantografia (Festival Internazionale di Ferentino), Coca-Cola di Rienzo Story (Teatro dell’Orologio); Altorilievo, Poema drammatico (Museo Archeologico di Formia); Arkadia nonsense e Smash (Giugno al Casaletto – Villa Zingone); La forma dell’Italia (Atelier Metateatro); Lunapark (Chiostro di San Pietro in Vincoli).
In volume: Coca-Cola di Rienzo Story Book Editore); La mela avvelenata (Cinque dialoghetti blasfemi); Prigioniero politico! (“Le Impronte degli Uccelli” Editrice).

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Mario Lunetta, Poesie, da L’allenamento è finito (poesie 2006-2016), Robin, Roma, 2016 pp. 190 € 15.00, Nota critica di Antonino Contiliano, Il punto critico di Giorgio Linguaglossa

Mario Lunetta Dino Ignani

Mario Lunetta: «La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore»

Il punto critico di Giorgio Linguaglossa

A proposito della poesia italiana degli anni ottanta, scrive Mario Lunetta:

«La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore. La ideologia attualmente diffusa in gloria di quella recentissima specie zoo(il)logica che sarebbe il poeta da spiaggia o da stadio […] che ‘canta’ al grado zero le sue passioni le sue frustrazioni le sue esaltazioni in versi intrisi di ‘incantevole’ primitivismo semianalfabetico, è l’ultima invenzione del mercato delle lettere (insomma, del mercato) perfettamente omologa al presente del gusto medio radiotelevisivo/rotocalchesco. È l’ultima mistificazione in letteratura, in poesia».

Come non condividere questa affermazione? Mario Lunetta è stato un importante ed insopprimibile esponente della Opposizione poetica che si è avuta in Italia dagli anni settanta al 2017, l’anno della sua scomparsa. Vorrei dire che un regime poetico senza Opposizione o che liquida l’Opposizione come insignificante e non rilevante, con il silenzio e con uno specioso sofisma, si rivela essere un regime non parlamentare ma un Regime Autoriale. Mario Lunetta è stato un poeta importante che avrebbe dovuto essere pubblicato nella collana bianca dell’Einaudi, e invece è stato confinato in edizioni di confine, è stato emarginato per via della sua pervicace e costante opera di opposizione al Regime Autoriale.

Mario Lunetta 2006

Mario Lunetta, 2006

Nota critica di Antonino Contiliano

« Un poligrafo alchimista e proliferante. Una vita e una parola oppositiva, l’opera di Mario Lunetta. Una scrittura anti-sistema-mondo variamente proposta ma sempre nell’ottica di una espressione polisemica e plurilinguistica aggressiva. Una lotta materialista e una sottrazione engagé – giocate tra denuncia e demistificazioni, autoironia, ironia e sarcasmo (troskianamente permanente, direi) – che, nonostante il degrado invadente e pervasivo del sistema-mondo e della stessa “Forma Italia” (sventrata e sminuzzata dal capitalismo globalizzato dell’impresa finanziarizzata) mai sono dimentiche della possibilità antagonista-alternativa: hasta la vista, “il giovanissimo nome di comunismo”. Una scelta e un “fine vita” che Mario Lunetta (caro il caravaggesco moto “Senza Speranza. Senza Paura”) affida ai versi dell’opera L’allenamento è finito (Robin, Torino, 2016) e che Francesco Muzzioli richiama a chiusura della prima parte – “Il percorso poetico” – dello studio monografico (p. 65) che gli dedica.»

But For All That

C’è da ridere solo a pensare al trattamento
da animale da circo di cui ebbe a godere
il poeta dei Cantos che già sentiva premersi addosso
il gelo della vecchiaia mescolato ad altre varietà
di gelo – da parte di politici, giudici senza giudizio,
funzionari, sbirri, intellettuali strabici, patrioti
e giannizzeri magari anche capaci di peggio, solo
a forni gliene il destro.

C’è da ridere sol che si pensi a come
generosamente
lui, il miglior fabbro, si sia sprecato per tanti
dei suoi colleghi e confrères, a come con splendida
ingenuità abbia dilapidato la sua vita incappando
in un Equivoco grosso come cento Moby Dick
incollati testa-coda, anche se uno spirito sterile
come F.R. Leavis afferma senza batter ciglio che “egli è,
nel senso più serio della parola, un esteta”.

Tutti sanno che una bella porzione del gran poema
di Eliot fu cassato da lui con intransigenza fraterna,
ma forse sono assai meno al corrente del fatto che quando
negli anni di Zurigo Jimmy Joyce dovette subire
un intervento chirurgico agli occhi per trattenere l’ultima favilla
di vita che vi brillava dentro, quella canaglia di Pound,
non ancora reo di alto tradimento nei confronti
del suo paese, per pagare le spese ospedaliere
vendette i suoi cimeli più amati: gli autografi
di re Ferdinando e della regina Isabella datati 1492.

Non so, davvero non so se sia possibile
immaginare
per chi è stato il maggior navigatore dei linguaggi
della modernità un’allegoria più fulminante. Ma certo
l’involontario risarcimento, coincidenza, caso, sfasatura
di quando lui nel 1958 tornò in Europa a bordo
della Cristoforo Colombo, ha l’aria di una tragedia
che si volta in farsa e viceversa, con una continuità
da brividi.

(12 gennaio 2010)

L’inesistenza del meglio

Chissà se è meglio o solo peggio sentirsi
un marmocchio in carrozzina trascurato dalla madre
o un vecchio in agonia carico di rimorsi.
Chissà se ancora il vento è più libero del condor
che si lascia cullare dalle sue folate prima di cadere a picco
sulla preda sentendosi stingere il cuore, chissà mai.
Chissà se il mondo è disposto a farsi chiudere
in un dizionario o le parole di tutte le lingua
sono ormai affette da devastanti attacchi di schizofrenia,
irreparabilmente.

Da questo bar sotto i portici si vede la farmacia
in fondo alla piazzetta e i intuisce l’insegna
di un’erboristeria coperta da fogliame in disordine.
In entrambe si vendono illusioni al canto
delle cicale che simulano quello di mitologiche sirene.
Laggiù il treno che corre sul sottopasso
ha tutta l’aria di un giocattolo che abbia finalmente
conquistato la sua libertà.

La calvizie è una colpa: è sulla capacità
di convincimento dei poveri di spirito che oggi
la menzogna pubblicitaria esercita i suoi poteri satanici
e riduce i cosiddetti consumatori
a orde di replicanti di androidi in preda all’infelicità
e ai sensi di colpa assetati ingozzati di popcorn
nel tubo intestinale dell’animale mondo incapaci di capire
che tutto ciò che si vede è bene prima sentirlo
per poterne interrogare le intenzioni criminali
per poi darsi un meritato riposo.

So che non accadrà: perché il verbo accadere
non ha il tempo futuro. Ciò vuol dire, dunque, che
sono ogni giorno più rare (anche tra le persone
a me più care) quelle capaci di corrispondermi
dal momento che da parte mia non so neppure più
corrispondere a me stesso. Prosit.

(14 giugno 2015)

mario-lunetta 3

Tiresia

Perché nascondersi se siamo invisibili?
Domanda insieme ingenua, forse persecutoria
e in tutti i casi tautologica – rivolta a tutti
tranne che al sottoscritto che l’ha pensata ed emessa
come per distrazione o forse sotto un attacco
di farnético tranquillo nonché precedentemente
visualizzata
in un disegno a fasce ondulate energicamente policrome
dietro cui appare (per la precisione: appariva
prima della cancellazione, della scomparsa) un’ombra
in qualche modo antropomorfa in una luce di
crepuscolo…

Eppure a ben pensarci si potrebbe anche concludere
che tra nascondimento e invisibilità
c’è oltre a un quid consequenziale e (come prima
azzardato)
tautologico, un germe di contraddizione – dove si annida
una solida forma di positività dicasi pure dialettica – e
un suo analogo impegnato ad alimentare un desiderio
forse di salvezza rispetto a un pericolo incombente
forse di volontà di sparizione rispetto a tutto ciò
che esiste
o ha la pretesa di esistere, quindi di giudicare, di indicare
una strada, un arbitrio di destino
: (ma senza fare i conti col tebano Tiresia
accecato da Minerva nell’adolescenza
sempre deciso a nascondere la propria invisibilità
di uomo-donna e di donna-uomo dopo la doppia
uccisione
dei serpenti in amore e la sentenza sulla maggiore
sensibilità erotica della femmina
dietro un eccesso abbagliante di chiarezza
: innocenza suprema, suprema presunzione
che irride la morte)

(24 maggio 2016)
Anima persa

Qualche tempo fa, probabilmente il 23 novembre, il Sottoscritto Immemore ha compiuto ottantun’anni dimostrandone senza un filo d’imbarazzo dieci di più, a dir poco: e magari credendo in tutta buonafede che gli anni
abbiano facoltà di esercitare liberamente il diritto di accrescere i loro addendi sia in senso anagrafico che in senso crono visivo – con allegria o umor nero, leggerezza o spirito plumbeo, nei luoghi più gradevolmente
aperti e ospitali o nel chiuso di una cella, in compagnia di chi si ama come nella più assoluta solitudine.

In tutti i casi il Sottoscritto Immemore conserva nel Mar dei Sargassi della sua trascurabile esistenza uno straccio di pietà per se stesso pur non
usandone mai
a fini di pubblica sollecitazione di conforto et similia.
(Lèggasi): anche parlando di sé il Sottoscritto
Immemore
parla invariabilmente di qualche altro
attraversandone
l’immagine con lampi sulfurei di ironia o secche bòtte
di sarcasmo, quando il caso lo richieda.

Che dire di più? Cosa aggiungere a certe futilità
se le polveri sottili vanno ad annidarsi perfino
nel piatto di spaghetti che ha mangiato un’ora fa,
il mese scorso o la prima settimana di un’altra vita
(con lei, id est la sua anima persa che lui,
l’Immemore, non ha
– lo giuro e lo spergiuro – la minima intenzione
di ritrovare?)

(27 aprile 2016)

Ghigliottina del benessere

Pare piuttosto buffo (e perché no spregevole) –
suppongo
non soltanto all’ipersofisticato sottoscritto-
assistere senza fiatare
al pressoché irrefrenabile proliferare di Centri Benessere
in tanta disperazione che si taglia col coltello più
che vederla
con gli occhi appannati del corpo e della mente,
tanto scialo
di urla soffocate, fiumi di sangue nel giorno che annega
dentro le fauci della notte ammutolita e fa salire
mescolati
canti di ugole strozzate con versi di animali in
tregua d’armi
mentre il mondo che si mostra e non si mostra
continua a sorridere
della propria agonia senza fine, nella giusta
divisione dei compiti
fra vittime e assassini: si taccia una buona volta almeno
per decenza, mica per carità – vorrei dirlo e non lo dico.

Meglio: vorrebbe dirlo e non lo dicembre l’ipersofisticato sottoscritto
intento a tagliarsi meticolosamente le unghie per
evitare di finire
nel gorgo dei suoi pensieri a spirale che
sopravvivono ai bordi
del vulcano e gli ghignano addosso come iene,
mostrando i denti
in una scommessa da ghigliottina dolceamara, nel maquillage
di questa fin de partie di cui è stato cancellato
l’inizio non l’epilogo.

Forse non c’è risposta: e se una ce n’è non
credo possa
di troppo discostarsi dal teorema di Spinoza ove si afferma
che Il pentimento non è una virtù, in quanto –
aggiunge umilmente
l’ipersofisticato sottoscritto – battersi il petto dopo
il crimine
(o magari la colpa più leggera) finisce per essere
uno sport in cui è troppo facile vincere senza eccessivo
spreco di energie.
Heidegger non s’è mai pentito
del suo comportamento: non a caso era un profeta intriso
di retorica frattale, troppo intento – fino alla morte
– a fissare
la profondità del proprio grandioso ombelico,
das ist alles

(2 maggio 2016) Continua a leggere

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