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Luigi Celi: Appunti sul racconto/poesia LORO di Edith Dzieduszycka, sulla interpretazione psicofilosofica del poemetto di Giorgio Linguaglossa e sulla Nuova Ontologia Estetica

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devo potermi vedere allo specchio senza batter ciglio guardarmi dritto negli occhi – Lo stile asciutto, puntuto, tagliente, le frasi o i versi corti calzano a pennello con i criteri della NOE

 Ringrazio Giorgio Linguaglossa per avermi invitato più volte ad intervenire sulla rivista, ma motivi personali mi hanno impedito finora di pronunziarmi sul racconto poetico Loro di Edith Dzieduszycka. Scrivo adesso, senza piaggeria, riconoscendo molti meriti all’autrice. Il testo scritto da Edith mi piace; soprattutto mi piace come racconto. È un sogno ad occhi aperti, un po’ kafkiano, incalzante quanto basta, coinvolgente e distaccato quanto basta! Lo stile asciutto, puntuto, tagliente, le frasi o i versi corti calzano a pennello con i criteri della NOE. Il linguaggio sa di metallo che è stato fuso e che ora, riposto nel ghiaccio, può essere presentato nel suo esito duro e traslucido. l’“IO” si guarda allo specchio, quasi per accertare la propria identità o essere sicuro ancora di esistere; è spocchioso, ma assediato e insidiato vacilla. Una caratteristica della prosa e della poesia di Edith è l’ironia.

L’io dice a se stesso:

“Ma devo potermi vedere allo specchio senza batter ciglio guardarmi dritto negli occhi e dirmi; ‘Sei stato il più bravo. Il più coraggioso. Il Più’ ”. Si tratta in fin dei conti, e Linguaglossa in ciò ha ragione, di un attacco dissolutivo alla pletoricità dell’ “Io”; una messa in mora del suo presunto cartesiano primato, in nome, in questo caso, forse, delle conquiste psicoanalitiche. Linguaglossa non fa riferimento al Super io, che è una sorta di alter ego, spesso in dissidio con le altre strutture della psiche; egli tuttavia dà un’interpretazione psicoanalitica molto suggestiva, oscillando tra Freud e Lacan. Sulla scia delle sua scelta ermeneutica vorrei dire la mia.

L’“Io”, il suo presunto primato,

nel racconto della Dzieduszycka, esplode nello scheggiarsi della sua immagine in uno sciame di maschere e demoni persecutori. È ironica, la Dzieduszycka, di una ironia raggelata. L’ironia è un modo per relativizzare, velare e depistare. Poteva essere, Edith, più coinvolta e coinvolgente? Non lo so. Ma a volte occorre anestetizzare i propri ricordi, soprattutto se dolorosi; è necessario dare veste letteraria o teatrale, trasformare in personae, in maschere, le proprie memorie infantili, i timori, le angosce sopite. Mentre scrivo, penso all’amico Salvatore Martino, che non si è sentito coinvolto leggendo LORO, e mi viene da ribadire che si tratta di un testo in prosa, non di una poesia tout court, di una messa in scena attuata con brechtiano distacco. Salvatore Martino lo sa: fa bene alla scrittura e anche al teatro espressionista, che pure mirano al coinvolgimento, tenere un certo distacco, perché sia possibile capire non soltanto patire.

Le considerazioni di Giorgio, nel suo commento “psicofilosofico”, mi sono sembrate quanto mai stimolanti. Aggiungerei che l’“IO può essere assunto in tanti modi, come “IO” generico, io sociale, io borghese, aristocratico, proletario  oppure come l’“IO” struttura della Psiche, e certo forse, dietro quest’“IO”, si nasconde l’io individuale, il piccolo io che ha a che fare con il corpo, con la sofferenza e il piacere, con il desiderio e con il senso di colpa…. Ma quanti “io” esistono nella fenomenologia del soggetto? L’io è un camaleonte, è mercuriale, sguscia quando lo si vuole afferrare, definire. A me pare, però che noi complichiamo le cose, al fondo di tutto il racconto, ad essere assediato dai lemuri o dai demoni del “Super io persecutorio” (Freud) e l’io reale o anch’esso fantasmatico di chi scrive, di Edith. Non vedrei tanto nei fantasmi che ossessionano l’io, il segno della ritorsione del desiderio generico dell’io-corpo che, non conseguendo l’“oggetto”, scaricherebbe la propria energia su se stesso, come un boomerang. Certo ciò che è rappresentato in scena è il conflitto tra Es, io e super io, ma la battaglia vera si compie non nella sfera strutturale, ma nel regno dell’individuale, del corpo e delle relazioni concrete.

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l’“IO” si guarda allo specchio, quasi per accertare la propria identità o essere sicuro ancora di esistere; è spocchioso, ma assediato e insidiato vacilla…

Si può dunque proseguire sul doppio binario dell’analisi strutturale e dell’analitica esistenziale. Mi permetto adesso di fare una digressione un po’ scolastica. Il Super io è, secondo Freud, una struttura psichica, che si costituisce nell’infanzia, come introiettato divieto dell’incesto. Esso può divenire persecutorio perché si è formato nei conflitti familiari, quando il bambino che desidera la madre, arriva ad allucinare la soppressione fisica del padre; per questa fantasia di amore e morte si genera il senso di colpa o si costituisce la coscienza etica, come introiezione super egoica del divieto dell’incesto. La bambina, ovviamente – secondo questa lettura mitico-simbolica (l’Edipo è un mito) – desidera il padre e vorrebbe sopprimere la madre. È invalso, a questo proposito, parlare di Complesso di Elettra, come variante al femminile del Complesso di Edipo. Se ritorniamo allo schema psicoanalitico freudiano, accade che il Super io, introiettando il divieto, può divenire via via più rigido, e quanto più si irrigidisce tanto più continua l’azione repressiva dei desideri e delle pulsioni, amplificando le suggestioni e le distruttività mnesiche della colpevolezza (delle colpe reali o immaginarie) producendo fobie, sintomi d’ansia, disturbi della personalità e frantumate maschere persecutorie. L’io è per altro, in questo schema, una “struttura di mediazione” tra le pulsioni dell’inconscio e le istanze etico- sociali del Super io subcosciente. La funzione sociale del Super io non è del tutto negativa: essa è funzionale a “sublimare” l’istinto, a rendere disponibile l’ “energia psichica”, la libido, per fini culturali, civili, sociali. Piuttosto quando l’io non è più in grado di mediare tra gli istinti e le superiori istanze superegoiche dell’etica e del sociale allora si può entrare nella patologia. Non bisognerebbe demonizzare né l’inconscio, né il super io, né l’io psicologici, occorre solo considerarli nelle loro interattive funzioni, nella fisiologia e nella patologia del loro agire.

Questa chiave interpretativa del testo di Edith Dzieduszycka, può essere utile ad entrare in dialogo con quella sempre molto interessante di Giorgio.

Ci sono diverse possibilità ermeneutiche. Nietzsche sosteneva che “Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”.

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Il linguaggio sa di metallo che è stato fuso e che ora, riposto nel ghiaccio, può essere presentato nel suo esito duro e traslucido

Forse la prendo alla lontana, ma si può interpretare anche il racconto di Edith

non guardando più solo al super io quanto piuttosto alla svolta subita dalla psicoanalisi freudiana dopo il 1920, con Al di là del principio del piacere. Freud studiando le “nevrosi traumatiche”, scopre che gli ammalati di questa sindrome – generalmente persone rimaste sotto le macerie di un bombardamento durante la prima guerra mondiale – tornavano continuamente e coscientemente sui propri traumi, non riuscivano a staccarsene. La sua scoperta rischiava di mandare in aria la sua teoria del rimosso e della necessità dell’anamnesi. Non erano esperienze inconsce, dimenticate, da riportare alla coscienza, a tormentare le persone affette da questo tipo di nevrosi. Il trauma può essere più o meno grave, ma se ha provocato la nevrosi traumatica – quale autocostrizione psichica tesa a rivisitare ossessivamente gli eventi dolorosi, traumatici, in una condotta che egli definisce “coazione a ripetere” – allora il soggetto, pur ricordando i motivi del suo trauma, non riesce a liberarsi; egli è come dominato da thanatos, una forza, una spinta interiore distruttiva, che Freud chiama anche “principio di morte” per opporlo al “principio del piacere”.

Thanatos è la seconda istanza pulsionale/funzionale, dopo Eros,

ad informare la psiche nelle interpretazioni freudiane dopo il 1920. Il caso rilevatore è stato quello di Hans, il nipotino di Freud, il cui papà è andato in guerra. Nel gioco del rocchetto, Freud individua la “coazione a ripetere”: il bambino lancia un gomitolo urlando “Fort”, cioè “via”, così agendo sembra rispondere a una necessità interna coattiva, mentre è più sereno nel riattirarlo a sé, quando dice “Da”, che vuol dire “qui”. Hans, rende attivo ciò che ha passivamente subito e che lo ha fatto soffrire. Freud dirà che il rocchetto sta per il padre di Hans, e che l’atto di scagliarlo lontano riproduce attivamente il trauma subito. Hans mette in scena nel suo gioco il momento doloroso, riattiva il distacco, mentre il momento libidico, gratificante, atto a compensare la sofferenza, passa in secondo piano. Ora Edith Dzieduszycka ha anche lei subito un doppio trauma: ci ha più volte raccontato di  aver perduto il padre, per colpa dei collaborazionisti di Vichy e dei nazisti e, per un certo tempo, di aver perso anche la madre, che fu incarcerata. La messa in scena teatralizzata del racconto LORO, è solo un modo di configurare, velare e sublimare una storia di persecuzione realmente subita. L’abilità di chi scrive è nel rendere meno drammatica la elaborazione dei ricordi per nulla rimossi, i pensieri dolorosi di cui è rimasta prigioniera, non del tutto  metabolizzati. Nella mia disamina critica di Cellule – un altro libro di Edith, pubblicata sull’Ombra  – ho utilizzato la categoria ermeneutica del tragico, che trova anche adesso, in questo racconto poetico, una ulteriore legittimazione.

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ho utilizzato la categoria ermeneutica del tragico, che trova anche adesso, in questo racconto poetico, una ulteriore legittimazione

II

La svolta modernista della poesia del novecento

 Il racconto LORO di Edith Dzieduszycka è stato riscritto, su suggerimento di Giorgio Linguaglossa, in forma-poesia, con gli accapo opportuni. Egli ha avuto anche il merito di rendere con ciò visibilmente attuale l’ironica frase, che la poesia moderna non sia altro che “l’arte di andare accapo”. Ed è dunque abilissimo, il critico, con questo coup de théâtre, nel voler dimostrare a suo modo che non c’è alcuna differenza tra prosa e poesia. L’assunto, con molte limitazioni, ha un suo fondamento storico nella svolta modernista della poesia del novecento. Il modernismo ebbe tra i suoi esponenti personalità di grande livello Ezra Pound, T. S. Eliot, Virginia Woolf, J. Joyce, Ernest Hemingway, F. Fitzgerald, Henry Roth, e tra i suoi affini Kafka, Céline, Emilio Gadda, Luigi Pirandello. Nel modernismo il razionalismo coesiste con l’empirismo, la sensibilità reclama nei versi concretezza, prossimità alle cose.

 Antonio Sagredo vuole spostare il baricentro della «nuova ontologia estetica»

Nei commenti a LORO della Dzieduszycka c’è un intervento di Antonio Sagredo che, con mio grande stupore, critica uno dei maestri del modernismo, un poeta la cui importanza è universalmente riconosciuta, T. S. Eliot. Sembrerebbe aver poco a che fare, quest’intervento, con il testo di Edith, ma nella sua eccentricità, non so quanto intenzionalmente, Sagredo solleva alcune questioni che hanno attinenza con la NOE. A questo punto abbandono il discorso su LORO della Dzieduszycka per affrontare proprio alcune questioni estetiche e filosofiche che vengono sollevate, anche nei commenti sull’Ombra delle parole. L’attacco a Eliot di Sagredo forse tende, come fa spesso lui, a spostare il baricentro ermeneutico della NOE, da una linea più filo-occidentale, ad una che faccia propria i territori più misteriosi della poesia slava. Egli cita, però, anche, oltre a Chlebnikov e Majakovskj,  poeti occidentali  di grandissimo livello come Paul Valéry e Hart Crane, ma lo fa sempre per sminuire Eliot, per ridurlo a un poeta “che rappresenterebbe il marcio e il malato della poesia europea”. Nella storia della letteratura mondiale, ci sono autori di altissima rilevanza e in genere non si dovrebbero fare graduatorie; nella poesia russa, come non apprezzare poeti del livello di Puskin, Osip Mandel’stam, Bella Achmadulina, Anna Achmatova, V. Majakovskj…, esaltare gli uni non ci deve portare a disprezzare gli altri.

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Eliot, nonostante il suo conservatorismo politico, fu teorico del modernismo post illuminista e post romantico

Vorrei spendere alcune parole su Eliot,

su come la sua poesia possa interessarci ancora. Eliot, nonostante il suo conservatorismo politico, fu teorico del modernismo post illuminista e post romantico. Egli sapeva gestire in maniera intensa il linguaggio alto con cadenze e ritmi di grande musicalità. Nei Four Quartets assume la tecnica del contrappunto, mutuandola da Beethoven e da Berlioz. Eliot comprese che occorreva fondere il linguaggio alto con il linguaggio basso, più prosastico, ricorrendo, tra l’altro, ai celebri “correlativi oggettivi”, che fanno palpitare di vita poetica le cose. Non dimentichiamo che in giovinezza era stato attratto dal simbolismo e più tardi dall’imagismo poundiano. Nei versi delle sue opere maggiori, la ragione ottiene il pieno riconoscimento dei suoi diritti; l’“io” è decentrato ed è un “io”plurale… cioè vengono convocati altri “io” nei suoi versi come ad un magnifico simposio, i pensatori del passato e del presente – Eraclito, Platone, Agostino, Tommaso, Bergson, F. H. Bradly, B. Russel, E. Husserl, J. Maritain e molti altri – e poi i grandi poeti. Eliot assume, mutandoli di segno, i versi dei suoi maestri e compagni di viaggio: Omero, Virgilio, gli stilnovisti, Dante, Shakespeare, i metafisici inglesi del XVII secolo; ha familiarità con i moderni e i contemporanei, J. Laforgue, Milton, Yeats, Valery, Auden, Joyce, Poe, Pound; sa attingere, senza darlo a vedere, dai Vangeli, soprattutto da Giovanni, dalle Epistole paoline e dai Profeti dell’Antico Testamento; da Ezechiele ricava tra l’altro il titolo del suo poema, La terra desolata (che non c’entra nulla con “terra marcia”); prende spunti, da Geremia, da Isaia e dai testi biblici sapienziali; utilizza i mistici come San Giovanni della Croce… Aleggia nella sua poesia il linguaggio mitico, le leggende nordiche, il Graal, parla di Adone, di Attis, di Osiride, innesta la storia antica nell’attualità, per cui un prototipo dell’uomo d’affari e della finanza del suo tempo, Stetson, può combattere a Milazzo durante la prima guerra punica! Aperto alle culture orientali, al buddhismo e all’induismo, esprime drammatica consapevolezza della deriva dell’Occidente, della desolazione della guerra. I suoi versi sono come una fiamma che si alimenta di una materia poetica sempre viva, con citazioni e prestiti, anche nascosti… Se non basta la vastità degli interessi e l’ampiezza della sua prospettiva a darmi ragione, non serve ovviamente neppure il premio Nobel a confermarne l’eccezionale livello, né il numero enorme di critici che su scala mondiale si sono occupati di lui. Direi, in ultimo, che l’importanza e la grandezza di un poeta dipendono non solo dal gusto di questa o quella persona che  li legge, ma dall’influenza che la sua poesia ha esercitato e continua ad esercitare sul piano  planetario.

Onto T. S. Eliot

La NOE deve molto ad Eliot e alla svolta rivoluzionaria del Modernismo nella poesia contemporanea

    La NOE deve molto ad Eliot

e alla svolta rivoluzionaria del Modernismo nella poesia contemporanea.  Linguaglossa lo ha compreso, si vede dalla sua citazione di Eliot, negli interventi critici a LORO di Edith, però, egli è subito contraddetto e con virulenza dall’amico Antonio Sagredo, troppo aggressivo, ingeneroso verso il poeta anglo americano.

La rivoluzione modernista non è ancora compiuta che già incalza la tendenza dissolutiva, di cui pur sempre essa era latrice per il doppio movimento verso la profondità e verso la superficie, verso la poesia e verso la prosa. L’unica possibilità di salvezza è l’equilibrio del doppio registro poetico prosastico. Non si può negare la deriva prosastica attuale, basata sull’imitazione delle traduzioni in prosa di poeti stranieri che spesso hanno scritto in rima; l’assunzione dei linguaggi dei traduttori, che non possono rendere la qualità originaria dei poeti stranieri, non è un’acquisizione positiva. Suono e senso dovrebbero concorrere; anche il nonsense vale per il suono, non in sé. Il linguaggio di certa poesia minimalista, sciatto, meramente enumerativo, vicino agli elenchi telefonici, l’eccessiva ricerca della spigolosità del verso, le cacofonie più o meno intenzionali, la rinuncia programmatica alla metrica, o anche solo al ritmo o all’unità formale del testo, pur nell’uso congruo del frammento, sono elementi di un nuova estetica che è come un tavolo che si regge solo su una gamba. Una differenza tra prosa e poesia bisogna conservarla, lo dice chi ha pubblicato come sua prima opera un prosimetro – L’Uno e il suo doppio (Bulzoni, Roma, 1997) – che quindi non ha rifiutato mai per partito preso la commistione dei “generi letterari”, evidentemente tramontati nella loro rigida separatezza…

  Una tesi da cui dissento, è che la poesia si generi ex nihilo.

Secondo il mio modesto parere, ciò non avviene, se non per metafora. Ogni opera poetica nasce indubbiamente dalla creatività del poeta ma è risultato di un lungo percorso personale e storico collettivo. Spesso i rimandi, i prestiti, le influenze sono determinanti per comprendere e valutare un testo di poesia.

In ultimo – ma forse ho capito male e vorrei che il mio dubbio mi fosse chiarito – non sono convinto che la battaglia per una Nuova Ontologia Estetica debba passare per l’accettazione, piuttosto che per la critica del nihilismo. Amerei trovare il senso “ontologico” della poesia piuttosto che il suo “niente” nei dibattiti dell’Ombra. “Ontos” sta per essere, logos sta per discorso, mentre mi pare che si intenda bypassare la differenza tra Essere e Nulla, tra Nulla e niente, tra pieno e vuoto, tra ontologia e nihilismo… La cosa è pericolosa, già lo ha visto Nietzsche – “Il nihilismo è il più inquietante dei visitatori, sta fermo davanti alle porte”… Figuriamoci se gliele apriamo! Può accaderci di essere invasi irrimediabilmente dai lemuri del racconto poetico di Edith Dzieduszycka. Faccio notare umilmente che certi démoni non si possono evocare, senza pagarne nel tempo le conseguenze e su più piani. Quali? Per esempio, se non si accetta la differenza tra essere e nulla è impossibile fondare un’etica. Vi pare poco? Due guerre mondiali, i Campi di Sterminio, i Gulag, i morti per fame a causa del neoimperialismo economico, il terrorismo internazionale e le emigrazioni planetarie sono esempi che non c’è stata né ci sarà mai alcuna nietzschiana “Trasmutazione dei valori”; che la vera “Etica del risentimento” è quello degli ignavi che non fanno niente per gli altri, e svalutano chi si impegna, quella di chi, dopo aver affamato e sfruttato interi continenti, si permette di condannarne la rabbia, di non aprirsi agli ultimi della terra, agli espropriati di ogni umana dignità. Questo è nihilismo. Il nihilismo è insito nelle ideologie laiche assolutizzate del nazismo, del fascismo. Il nihilismo è la porta della guerra e di ogni abuso, di ogni discriminazione e violenza perché elimina ogni differenza assiologica, oltre che ontologica.

  L’identificazione tra essere e nulla

è stata fatta, su  altri piani dai mistici, anche sotto l’influsso della teologia apofantica neoplatonica, perché si voleva dire che di Dio (dell’Essere assoluto) non è possibile alcuna conoscenza essenziale. Egli è al di sopra di ogni nostra possibilità di definirlo e conoscerlo, tranne che per analogie, per cui il suo Essere è oltre l’essere, ed è per noi come Nulla. Di fronte a Dio i mistici si ponevano con interrogante umiltà, in meditante silenzio, in attesa fiduciosa per un ascolto interiore e profondo, accompagnato dall’impegno alla conversione e all’amore. Il nihilismo è tutt’altra cosa. Aggiungo che si potrebbe scrivere una storia del concetto di Nulla e si vedrebbe come la questione del nihilismo è solo marginale, rispetto ad essa. Parlando delle stesse cose e con le stesse parole, può succedere di trovarsi in ambiti epistemici o ermeneutici totalmente lontani; tuttavia, dell’Essere e dell’ente, di ciò che permane o che diviene è sempre il caso di dibattere, non solo in relazione alla poesia. Per i poeti, certo, è più importante scrivere versi, ma chissà se saranno in grado, meglio dei filosofi, che hanno interrotto i loro sentieri per carenza di linguaggio, di interrogare la parola sulla grandezza e la miseria dell’ente.   

  Perché l’ente e non il nulla?

Ciò che si spalanca, nella contingenza e finitezza, è la costitutiva mancanza di “ragion d’essere” degli esistenti (Leibniz). Perché l’ente e non il nulla? Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo?  L’ontica costitutiva indigenza degli enti – si nasce e si muore, e qui sorge la questione del fondo vuoto dell’esserci, richiede logicamente ed esistenzialmente una risposta. L’indigenza ontica è come una domanda inscritta nella carne della natura e nella storia. Il vuoto dell’ente si fa cosciente a volte nell’uomo, ma anche se non è consapevole di sé, si esprime tuttavia come angoscia, disperazione o speranza e ci sospinge verso il Nulla o verso il Pleroma. Noi viviamo proprio in questo “vuoto” – sunyata , in questa infinita apertura del finito (dicono i buddhisti), e potremmo non occasionalmente come Leopardi, ma sempre ritrovarci dietro la siepe dell’infinito. Il desiderio, il tendere, la dynamis segnano costitutivamente ogni ontica ed essenziale indigenza dell’ente, perché l’ente è e non-è, l’Essere invece è, non ha origine e fine, in tal senso è metafisicamente Infinito. Non è l’Essere che sta oltre l’ente, è l’ente che abita nell’Essere ed è l’Essere che abita nell’ente, che lo origina, lo sostiene e lo trascende. Quale sia il Fondo misterioso di questa compenetrazione, che uccide e risuscita, non credo che possa essere raggiunto con la sola ragione; solo un Dio può rivelarcelo. L’ente viaggia nell’Essere come nel tempo interno; nel tempo esterno l’ente è divenire: miscuglio di vita e morte. 

Chi non si appaga del finito, parla del nulla, perché ha  bisogno di Infinito.

Di queste suggestioni e possibilità voglio ringraziare tutti gli amici dell’Ombra, che non nomino solo per non dilungarmi.

Dopo aver seminato di perplessità e interrogativi il mio intervento, vorrei  esprimere una certezza. Merito di Giorgio Linguaglossa è aver inteso che la grande poesia non è mero sfogo di stati d’animo o superficiale levigatura impressionista di schermi, di fogli di carta e di specchi, ma ha profondamente a che fare proprio con l’Essere e con il Nulla, cioè con le dimensioni più profonde, evocate con il Linguaggio. Non qualsiasi linguaggio, ma quello che sveglia se stesso risvegliando le cose. Compito della poesia è il Risveglio, diceva il poeta filosofo Kikuo Takano. La poesia guardando al futuro e alle cose, con lo sguardo dell’ente sull’assolutamente Aperto, forse può ritornare nella sua antica Casa ancora oggi disabitata.

Giulia Perroni con Luigi Celi

Giulia Perroni con Luigi Celi

  Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, Scettro del Re, Roma, 2000; I versi dell’Azzurro Scavato Campanotto, Udine, 2003; Il Doppio Sguardo Lepisma, Roma, 2007; Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007, Roma); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Per la sua opera poetica ha avuto riconoscimenti, premi e menzioni.

Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line). Nel 2014 pubblica un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia. 

Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su “Hebenon”, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte Scettro del Re, 2002; La nuova poesia modernista italiana Edilet, 2010; Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, Scettro del Re, 2002; Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo, nel 2007; Plinio Perilli, per Poetic Dialogue. È presente con dieci poesie nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) e Il rumore delle parole (EdiLet, 2015)

Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.

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Stefanie Golisch Intervista senza domande a cura di Flavio Almerighi, citazioni tratte dal libro Ferite – Storie di Berlino Ensemble, 2015 con Quattro poesie inedite

Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia. Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014. Nel 2016 sono state pubblicate nove poesie di Stefanie Golisch nella Antologia Poesia italiana contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa per le edizioni Progetto Cultura di Roma.

Una intervista senza domande 

è certamente un fatto insolito, in quanto si decentralizza dal clichè  normalmente  usato, per far emergere alcuni aspetti particolari di un Autore, al fine di evidenziare i caratteri specifici di un’Opera  o di un determinato pensiero, quale approccio a un discorso culturale, sociologico e filosofico. Considerata  la nostra “condizione umana”, credo che l’unica traccia permanente  dell’esistenza rimanga  la  scrittura, come sosteneva Derrida,  e ciò vale anche per il patrimonio culturale trasmesso dalla scienza, dalla medicina, e dalle biotecnologie. Stefanie Golisch risponde sui  punti fissati da Flavio Almerighi  nell’Intervista qui di seguito riportati relativi ad alcuni racconti prelevati dai vari testi della mia ultima opera dal titolo: Ferite. Storie di Berlino. Ogni poeta  è uno “ speleològo” che scende nella  caverna del subconscio, per prelevare i  suoi componenti, riportandoli in superficie come frammenti della realtà.  Sorprendente è l’azione del pensare da cui  nascono i rapporti con le varie fenomenologie.

Scriveva Heidegger: ”Può darsi che l’essenza propria del pensare si mostri a noi solo se restiamo in viaggio. Noi siamo in viaggio. Che cosa significa? Che siamo  ancora  tra (unter) le rotte (Wegen) inter vias, tra percorsi differenti. Ma quanto più un pensatore ci è vicino nel tempo e quasi contemporaneo, tanto più lungo è il viaggio verso il suo pensare, non per questo dobbiamo evitare il lungo viaggio”. (Heidegger M.” Che cosa significa pensare”). In  codesto  “lungo viaggio” ci si smarrisce  nella realtà, interrogandosi su ciò che è il Bene e ciò che è il  Male; quel male che non è mai surrealismo o negazionismo, ma presenza  di eventi passati e presenti, attraverso il linguaggio perlustrativo, e psicoattivo.

Nel suo incontro con gli studenti all’Università di  Madrid, il 24  febbraio 2006, Claudio Magris sul tema: Diritto e Letteratura, così si esprimeva: ”L’avversione della poesia al Diritto, ha verosimilmente un’altra ragione profonda. La Legge instaura il suo Impero e rivela la sua necessità là dove c’è o è possibile un conflitto: il regno del diritto e la realtà dei conflitti e della necessità di mediarli. I rapporti puramente umani non hanno bisogno del Diritto, lo ignorano: l’amicizia, l’amore, la contemplazione del cielo stellato non richiedono codici, giudici, avvocati o prigioni, che diventano d’improvviso invece necessari quando amore o amicizia si tramutano in sopraffazione e violenza, quando qualcuno impedisce con la forza a un altro di contemplare il cielo stellato” o brucia  i libri  come  nell’era  nazista e in qualsiasi altra violazione della cultura e  dell’intelligenza.

(Mario Gabriele)

La verità è che non posso fare nulla per voi. Voi non mi sentite e io non sento voi. (pg. 14)

Esiste un limite della comunicazione, tra vivi e morti (come in questo passaggio del libro dove parlo di una visita a Plötzensee, la prigione nazista dove furono uccisi gli uomini e le donne della resistenza tedesca). Ma questo limite vale altrettanto per il dialogo tra i vivi, poiché la mia verità è la mia verità e la tua la tua e nella più profonda profondità sono destinate a rimanere incomunicabili. La letteratura costruisce e spacca ponti. Si gioca tutta nell’esplorazione di questo limite. Ma forse, in fondo, è sola anche essa. 

La sua spina dorsale doveva essere spezzata. La sua mente offuscata, il suo coraggio convertito in terrore. (pg. 21)

Eppure c’è qualcosa di indistruttibile nell’uomo. Gli ebrei chiamano luz un ossicino dietro la nuca che non può essere distrutto e dal quale l’uomo dopo la morte sarà ricostruito. Mi piace pensare questa rinascita  post mortem come rinascita terrena continua…

E’ tutto finito, finito in una cattiva tazza di caffè sapor terra … (pg. 32)

Sempre il rapporto tra vivi e morti.

Non si supera la vita nemmeno nella morte. In tutte le civiltà di tutti i tempi esiste l’idea che i morti si siano soltanto trasferiti in un altro mondo dove, in qualche modo simile, la vita continua. Ciò significa che la sfida rimane comunque il vivere quotidiano.  Il tutto si gioca oggi, in questo preciso istante. Quindi provo. Maldestramente, ma ci provo.  

 

Infatti, sono proprio i primi vent’anni di vita il vero capitale di ogni scrittore… (pg. 33)

Questa frase è una citazione di Ingeborg Bachmann. Vera. Nulla rimane inciso così fortemente come ciò che si vive, si sente, si vede in questi primi anni, impreparati, disarmati. Poi le cose cominciano a ripetersi. Non si presta più tanta attenzione o, in ogni caso, si pensa di sapere già come gireranno le cose.

Sono felice della mia infanzia anni ‘60 senza tante immagini, senza la possibilità di riprodurre ogni cosa in tempo reale. Così il poco è rimasto ed è cresciuto con e contro di me.

In nessun modo questa frase allude alla nostalgia.

Nulla è stato meglio all’epoca.

Chi dice una volta mente.

L’unica cosa che salvo del passato è la sana noia dei bambini.

E i spazi vuoti in generale.

 

Forse non è sufficiente leggere una poesia e forse nemmeno saperla par coeur. (pg. 36)

La poesia è lo sguardo poetico. Non bisogna né conoscerla, né scriverla per vivere poeticamente. E con poeticamente intendo libero e leggero.

Ho riletto in questi giorni alcune lettere di Rosa Luxemburg dalla prigione. C’è una, rivolta all’amica Sonia Liebknecht, la moglie di Karl Liebknecht, dove parla della bellezza di un filo d’erba che vede crescere su un muro, dei colori del sole che penetra tra le sbarre della finestra, degli uccelli che la vengono a trovare ogni mattina. Ha la capacità e la forza dell’anima di trasformare una condizione pesante e opprimente in un’altra realtà.

Non è poesia questo.

Non riesco a mangiare tanto quanto vorrei vomitare (pg. 41)

Lo ha detto il pittore Max Liebermann dopo la presa del potere di Hitler.

In pubblico.

Vorrei avere anche io il coraggio di dire le cose in pubblico.

Non ce l’ho.

Scrivo soltanto.

 

Il Paradiso esiste, bisogna soltanto trovare l’ingresso segreto per entrarci di nuovo (pg. 44)

 Lo si sa.

Tutti lo sanno.

Poi non dura.

Fa niente o poco.

Le spiegazioni, sempre le spiegazioni. (pg. 51)

Meglio l’inspiegabile.

Cosa rimane quando è tutto è detto, dipinto, illuminato?

Diffido dell’idea di trovare la formula del mondo.

Soltanto ciò che non insegna, ciò che non chiede a gran voce, ciò che non convince, ciò che non accondiscende, che non spiega, è irresistibile.

  1. B. Yeats

 

… come il giorno impazzisce di luce e di ombra (pg. 65)

Sono quei momenti in cui la vita ti butta la sua bellezza addosso, dicendo 

E se non sei  morto dentro / ti apri tutto / e prendi, prendi…

Di poesia nera e di colpa (pg. 68)

Sono i momenti opposti in cui nella più profonda profondità senti l’antico orrore e anche quello è reale e vero e in un momento prevale uno (vedi sopra) e nell’altro l’altro e tutto è vero e fa mondo.

Rumore e silenzio.

 

Vita viscerale, appiccicosa, ambigua (pg. 81)

Tutte le bugie che si raccontano al bambino affinché possa recitare bene il ruolo

dell’adulto. Tutte le cose che si studiano a scuola affinché ogni forma di creatività venga uccisa definitivamente.

La sistematica costruzione di un mondo aldilà della contraddittorietà.

Invece dobbiamo rimanere nel mito.

Il mito è terribile e protegge.

 

… l’abbondanza delle merci e, soprattutto un senso di ostinata libertà. (pg. 90)

Non sono più giovani.

Bene.

Ma ho guadagnato qualcosa e sto guadagnando ogni giorno: libertà, grandi, piccole libertà.

Non devo più piacere a tutti e a tutti i costi.

Non voglio più piacere.

Lentamente imparo dire di no.

Non è sempre colpa mia.

Faccio progressi.

 

Tutto è in continuo movimento, nessun equilibrio sociale o politico è stabile, nessuna civiltà che non correrebbe il rischio di ricadere in uno stato di barbarie (pg. 95)

Ai tempi dell’università, La dialettica dell’illuminismo di Horkheimer/Adorno era considerato una specie di bibbia.

Alcune figure del pensiero (come questa) mi sono rimaste e costituiscono una specie di chiave di lettura del mondo.

La pellicola della presunta civiltà nostra è sottile, non camminiamo su un terreno molto sicuro.

Eppure…    

Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre. (Carlo Mazzacurati)

da: Blessings

Solo a pochi la vita rivela ciò che fa con loro.

Pasternak

Passato rimoto

Camminava tra di noi, forse era già morto,
forse immortale. Vestiva di bianco e se
dovessi dire di lui, userei il passato remoto,
tempo di fiabe e miti. Lo racconterei come
un uomo di mondi antichi che parlava con
gli uccelli, danzatore in mezzo ai nostri
passi pesanti. Diceva che nessuno gli
doveva nulla e che lui, nel sonno, aveva
già visto come tutto sarebbe finito. Non
aveva rimpianti, ma avrebbe voluto amare
ancora una volta come un tempo aveva
amato lei, morta suicida, incinta di un altro.
Portava i cappelli lunghi e sulle unghie
delle mani lo smalto d’oro. Partì in silenzio
lo stesso giorno in cui scoppiò la guerra,
portando con sé poche cose, la foto di un
paesaggio collinare un poco sfocato, un
libro scritto in caratteri cirillici, una lunga
camicia bianca, lo smalto d’oro. cosa
sarebbe stato ora di noi? Intanto il rumore
da fuori aumentava di minuto in minuto.
Lui non fu mai più visto e presto la guerra
fece di noi uomini nuovi, terribili, di tempi
terribili

.
Fata minore

Tra le cose andate storte che capitano nella
vita di tutti, lei ricordava un paio di calze di
nylon color carne che si era rotto prima della
festa, all’andata per essere precisi, mentre
attraversava il bosco saltellando su una
gamba sola. A questo punto si era tolta anche
le scarpe. Poi aveva cominciato a piovere e
l’ombrello era tutto bucato. La protagonista
di questa poesia dedicata a chi un tempo
abitava miti e fiabe, era nata bella e maldestra
e più cercava di evitare disastri, più le
cose del mondo si scagliavano contro di lei.
I bambini dei vicini di casa, affidati alle sue
cure amorevolmente distratte, cadevano
dalla finestra o in un lago profondo dal
quale non emergevano proprio più e a lei
dispiaceva e non sapendo come dirlo ai
loro genitori decise di cambiare mestiere.
Capitò in un autogrill dove le diedero il
turno di notte e una divisa con dei bottoni
d’oro nella quale si sentiva una persona
importante. Non l’avrebbe più tolta, né a
casa, né durante il sonno e presto si sarebbe
rovinata come tutte le cose amate troppo.
Ma lei era felice della targhetta con il nome,
delle frittelle che nascondeva nelle tasche
del grembiule a righe rosse e bianche e di
un tale che veniva a mezzanotte in punto
per mangiare le patatine fritte preparate da
lei al momento, guarnite con un tocco di
marmellata alla fragola. Prima o poi gli
avrebbe chiesto di baciarla in cambio di
un gelato alla vaniglia e al solo pensiero,
la sua bianca pelle si sfogava in mille
puntini rossi. Non si sarebbe offesa affatto
se a questo punto lui si fosse tirato indietro,
tanto qualcuno da baciare dopo il lavoro
l’avrebbe trovato prima o poi. La vita era
gentile e nella giusta misura imprevedibile
come quei giocattoli regali che distribuiva
insieme al menu dei bambini, a volte rotti,
a volte d’oro


Madre con figlio non come gli altri

Dell’unico amore finito senza finale le era
rimasto un figlio tozzo maldestro, gonfiato
d’amore materno erotico despotico. Nessuna
fata cantò alla sua culla guarnita di fiocchi
azzurri e nastri gentili inutili. Doveva crescere
bambino come gli altri. Come gli altri, ma lei
non è come gli altre, ma lui non è come gli altri
che in segreto ognuno dei due immagina sempre
felici come una famiglia pubblicità. Lei si tinge
di biondo cenere e lui porta soltanto capi firmati.
Per essere ammessi alla tavola di tutti, fanno
di tutto, ma il loro tutto è solo una barzelletta.
Quella coppia inseparabile di madre e figlio
è lo zimbello della parrocchia, il giusto
divertimento di chi è nato per essere vivo.
Non hanno scelta, sorridono ai loro nemici
innati con la forza disperata di chi deve
piacere a tutti costi. Lui si vergogna mentre
lei lo riempie di dolci e progetti futuri, pensati
per tutti tranne che per lui, ascolta la mamma
che spera senza speranza, e lui risponde,
mamma voglio dormire

.
Coda

Tutti i cavalli sono morti. La terra dice pietà,
un essere, uomo-simile, si trascina zoppicando
intorno al focolare spento, giurando di non
dire una parola. Presto cadrà anche lui. Questa
è l’ora degli animali impudichi e delle ombre
e subito dopo del sole nel segno del leone, poi
appariranno le tre vecchie, travestite da streghe.
Ecco, dice, mentre cerca di nascondere le mani
dagli sguardi di lei, dipinte sulle palpebre chiuse,
siamo i protagonisti di un tempo ancora da
inventare. Non ci sono più cavalli e nemmeno
uomini vivi oltre alle streghe. Nulla è cambiato
e mai cambierà. La tua veste è sporca di guerra,
la mia puzza di sangue, versato nel nome di
qualcosa che non ricordo proprio più. Non è
stato facile trovarti e non so se mi piaci ancora
e come posso io piacere a te, la più bella di
prima della battaglia perché tu non credevi
alle premonizioni di quelle donne, mentre io
avevo sete di morte e di vita. Ricordo soltanto
che dopo aver ucciso il cavallo nemico, ho
ucciso anche il mio cavallo. Poi mi sono
addormentato sotto un pezzo di luna e al
risveglio ho visto una donna venire verso
di me. Provo a chiamarti amore perché la
mia bocca ha fame di quella parola. Dico
amore e tu mi guardi da occhi dipinti sopra
i tuoi occhi mentre le mie mani, mani-simili,
ti cercano in mezzo a tutto questo come se
fosse non impossibile ricominciare ancora
un’altra volta

Stefanie Golisch, Dr. phil., nata nel 1961. Germanista, scrittrice, traduttrice. Vive e lavora dal 1988 in Italia. Dal 1995-2003 incarico all’università di Bergamo per la letteratura tedesca contemporanea. 2002 Premio letterario Würth. Dal 2007 redattrice del blog letterario www.lapoesiaelospirito.wordpress.comDal 2009 membro del „Pen Zentrum deutschsprachiger Autoren im Ausland“ e di „Writers in Prison“. Numerose pubblicazioni letterarie e di critica letteraria in tedesco, italiano e inglese. Conferenze, seminari e incarichi universitari. 

Pubblicazioni
Uwe Johnson zur Einführung, Hamburg, 1994. (Junius Verlag)
Ingeborg Bachmann zur Einführung, Hamburg 1997. (Junius Verlag)
Vermeers Blau, Erzählung, Köln, 1997. (edition sisyphos)
Fremdheit als Herausforderung, Meran, 1998. (Monografische Reihe der Akademie Deutsch-Italienischer Studien)
Antonia Pozzi: Worte (herausgegeben und aus dem Italienischen übertragen) Edition Tartin, Salzburg/ Paris, 2005.
Pyrmont, Erzählung, Edition Thalaia, St. Ingbert, 2006.
Charles Wright: Worte sind die Verringerung aller Dinge. Gedichte
(herausgegeben und aus dem amerikanischen Englisch übertragen) edition erata, Leipzig, 2007.
Gëzim Hajdari: Mondkrank. Gedichte (herausgegeben und aus dem Italienischen übertragen) Pop Verlag, Ludwigsburg, 2008.
Selma Meerbaum-Eisinger: Non ho avuto il tempi di finire (herausgegeben und aus dem Deutschen übertragen) Mimesis edizioni, Milano, 2009.
Gründe zu sein, Gedichte, fixpoetry (Autorenbuch) , April 2010.
Luoghi incerti, (Prosa), Cosmo Iannone Editore, Isernia, 2010.
Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte (aus dem amerikanischen Englisch übertragen und herausgegeben) Mimesis edizioni, Milano, 2013.
Ferite. Storie di Berlino, Edizioni Ensemble, Roma, 2014.
Fly and Fall. Culicidae Press, Ames, 2014.
Filippo Tommaso Marinetti: Wie man die Frauen verführt. (Herausgegeben, übersetzt und mit einem Nachwort versehen von Stefanie Golisch) Berlin, 2015 (Matthes und Seitz)
Anstelle des Mondes, Pop Verlag, Ludwigshafen, 2015.
Postkarten aus Italien, Edition FZA, Wien, 2015.

In via di pubblicazione:

Filippo Tommaso Marinetti: Die Manifeste (Herausgegeben, übersetzt und mit einem Nachwort versehen von Stefanie Golisch), Berlin, 2015. (Matthes und Seitz)
Rachel Bespaloff: Ilias (Herausgegeben, übersetzt und mit einem Nachwort versehen von Stefanie Golisch), Berlin, 2015. (Matthes und Seitz)

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L’intervista “Marina Cvetaeva” di Solomon Volkov a Iosif Brodskij è stata pubblicata da Lietocolle (2016, pp.400 € 20) “Dialoghi con Iosif Brodskij”a cura di Gala Dobrynina, prefazione di Jakov Gordin e postfazione di Alessandro Niero. Lietocolle, 2016 “È il tempo la fonte del ritmo”, “Cvetaeva: Al tuo mondo dissennato /  una sola risposta – il rifiuto”, “In Occidente, quando si discute di Mandel’štam si crede di trovarlo da qualche parte tra Yeats ed Eliot, perché la musica dell’originale scompare”, “Credo che Cvetaeva sia il più grande poeta del XX secolo”.

rivoluzione d'ottobre 3L’intervistadi Solomon Volkov a Iosif Brodskij “Marina Cvetaeva, Primavera 1980 – Autunno 1990″.

Volkov: Di solito si parla di lei come di un poeta appartenente alla cerchia di Anna Achmatova, che l’ha amata e sostenuta nei momenti difficili e a cui lei deve molto. Ma dalle nostre conversazioni so che, sulla sua formazione poetica, Marina Cvetaeva ha influito molto più dell’Achmatova, e che lei ha conosciuto le poesie di Cvetaeva prima di quelle di Achmatova. Si può dire dunque che è stata lei il “poeta della sua giovinezza”, la “stella cometa” di quel periodo. Lei parla ancora oggi della creatività di Cvetaeva con incredibile entusiasmo e con una passione che, per un ammiratore dell’Achmatova come me, sono molto insolite. Molti dei suoi commenti su Cvetaeva, almeno per me, suonano paradossali. Ad esempio, quando parla della sua poesia, spesso la definisce calvinista. Perché?

Brodskij: Prima di tutto per l’assoluta novità della sua sintassi, che le permette o meglio la costringe ad andare fino al limite estremo del verso. Il calvinismo in fondo è una cosa molto semplice, è una dura lotta dell’uomo con se stesso, con la sua coscienza e la sua consapevolezza. In questo senso, tra l’altro, anche Dostoevskij è un calvinista. Calvinista, in sostanza, è l’uomo che esercita su se stesso una sorta di Giudizio Universale, senz’attendere l’arrivo dell’Onnipotente. In questo senso, non esiste in Russia un altro poeta come lei.

Volkov: E il Puškin della Rimembranza?

E con disgusto io rileggendo la mia vita

 Mi sento tremare e maledico.

Tolstoj ha sempre sottolineato l’aspetto di cruda auto condanna di questi versi di Puškin.

Brodskij: Di solito si pensa che in Puškin ci sia tutto, si è sempre pensato così per più di settant’anni dopo il duello. Dopo di che è arrivato il XX secolo… Ma ci sono molte cose che mancano in Puškin e non solo per il cambiamento delle epoche, della storia. In Puškin mancano molte cose, sia per una questione di temperamento, sia per un fatto di sesso; le donne sono sempre le più spietate nelle loro pretese morali. Dal loro punto di vista, da quello di Cvetaeva in particolare, Tolstoj semplicemente non esiste. Come fonte di giudizio su Puškin, comunque. In questo senso io sono addirittura più donna di Cvetaeva. Cosa poteva saperne il nostro conte “millelibri” di auto condanna?

Volkov: Ricorda Festino in tempo di peste? “Si dà un’ebbrezza nella guerra, sul ciglio del pauroso abisso”: in questi versi di Puškin non si sente la furia delle forze elementari, l’impeto della ribellione, come in quelli di Cvetaeva?

Brodskij: In Cvetaeva non c’è nessuna ribellione, Cvetaeva è una radicale impostazione del problema:

La voce della verità celeste

 contro la verità terrestre.

In entrambi i casi – si badi bene – dice “verità”. In Puškin questo non c’è, soprattutto la seconda verità. La prima è evidente, ed è stata completamente usurpata dall’ortodossia. La seconda, nel migliore dei casi, è soltanto una realtà, ma non la verità.

Volkov: Mi sorprende sentirglielo dire. Ho sempre pensato che Puškin parlasse anche di questo.

Brodskij: No, questo è un argomento enorme e sarebbe meglio non toccarlo. Cvetaeva qui parla davvero del Giudizio Universale, del “giorno dell’ira”, che è veramente tale, non fosse altro per il fatto che tutti gli argomenti a favore della verità della terra sono già stati elencati, e in questo elenco Cvetaeva arriva fino al limite estremo, anche se sembra si lasci trasportare. Proprio come gli eroi di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Non dimentichiamo che Puškin è un aristocratico. E, se vogliamo, un inglese nel suo rapporto con la realtà, un membro di un club inglese: ed è sempre discreto, in lui non c’è angoscia, non ce l’ha. Non c’è neanche in Cvetaeva, ma il suo modo di fare domande à la Job, alla maniera di Giobbe, “o questo, o niente”, genera quell’intensità che in Puškin non si trova. E i suoi puntini sopra la “ë” vanno oltre ogni connotazione musicale, ogni epoca, ogni contesto storico, ogni esperienza personale e temperamento. Sono lì perché lo spazio sopra le “e” deve essere riempito.

Volkov: Se si parla di angoscia, allora artisti considerati universali, come ad esempio Puškin o Mozart, non ne hanno davvero. Mozart aveva un sapere precoce, come un lillipuziano: era già vecchio prima ancora di crescere.

Brodskij: In Mozart non c’è niente di straziante, perché è oltre l’angoscia. Mentre Beethoven o Chopin vi erano immersi.

Volkov: Certo, in Mozart possiamo trovare dei riflessi del sovraindividuale, riflessi che Beethoven e soprattutto Chopin non avevano. Ma Beethoven e Chopin furono figure talmente vaste…

Brodskij: Può darsi, ma più in senso orizzontale che in altezza.

Volkov: Capisco cosa vuol dire. Ma da questo punto di vista, il crescendo del tono emotivo di Cvetaeva dovrebbe, piuttosto, scoraggiarla.

Brodskij: Proprio il contrario, nessuno lo capisce.

Volkov: Quando, riferendoci ad Auden, parlammo della neutralità della voce poetica, allora lei difese questa neutralità…

Brodskij: Ma questa non è affatto una contraddizione. È il tempo la fonte del ritmo. Ricorda quando ho detto che ogni poesia è tempo riorganizzato? E più un poeta è tecnicamente vario, tanto più intimo è il suo contatto col tempo, con la fonte del ritmo. Così Cvetaeva è uno dei poeti più ritmicamente vari, ricchi e generosi. Tuttavia, la “generosità” è una categoria della qualità; e noi cerchiamo di operare solo quantitativamente, non è vero? Il tempo parla all’individuo con voci diverse. Il tempo ha un suo basso, un suo tenore. E un suo falsetto. Semmai, Cvetaeva è il falsetto del tempo, una voce che va oltre la nozione musicale.

 Volkov: Così lei pensa che l’eccedenza emotiva di Cvetaeva abbia lo stesso scopo della neutralità di Auden? Cvetaeva raggiunge lo stesso effetto?

Brodskij: Lo stesso, se non maggiore. Secondo me, Cvetaeva, come poeta, per tanti aspetti è più grande di Auden. Quel suo tono tragico… alla fine, il tempo stesso capisce cosa sia. Deve capirlo e farsi sentire. È da qui, da questa funzione del tempo, che è apparsa Cvetaeva.

 

Mandel'stam a Firenze 1913

Mandel’stam a Firenze, 1913

Volkov: Ieri, tra l’altro, era il suo compleanno, e ho pensato: sono passati così pochi anni; se Cvetaeva fosse sopravvissuta potrebbe essere ancora con noi, potremmo vederla e parlare con lei. Lei, Iosif, ha parlato sia con Achmatova che con Auden. Frost è morto da non molto. Insomma, i poeti di cui stiamo discutendo, sono nostri contemporanei, e allo stesso tempo sono già figure storiche, quasi dei fossili.

 Brodskij: Sì e no. Questo è molto interessante Solomon. Di fatto, la visione del mondo che lei trova nelle opere di questi poeti è entrata a far parte della nostra percezione. Se vuole, la nostra percezione è il completamento logico (o forse illogico) di ciò che è contenuto nelle loro poesie; è lo sviluppo dei principi, delle motivazioni, delle idee, che si esplicitano nelle opere degli autori da lei citati. Dopo averli scoperti, nella nostra vita non è successo più nulla di così sostanziale, non è così? Cioè, io ad esempio, non ho incontrato niente di più significativo. Compreso il mio proprio pensiero… queste persone semplicemente ci hanno creato. E basta. Ecco cosa li rende nostri contemporanei. Nient’altro ci poteva formare così, almeno me, come Frost, Cvetaeva, Kavafis, Rilke, Achmatova, Pasternak. È questo che li rende nostri contemporanei, finché non tireremo le cuoia, fintanto che saremo vivi. Penso che l’influenza di un poeta, questa sua emanazione o irradiazione, si estenda per una o due generazioni.

 Volkov: Quando ha conosciuto per la prima volta le poesie di Cvetaeva?

 Brodskij: A diciannove, vent’anni circa. Perché prima non ero particolarmente interessato a tutto questo. Cvetaeva, ovviamente, la leggevo già allora, ma non nei libri, solo nelle copie battute a macchina del samizdat. Non mi ricordo chi me l’ha dato, ma quando ho letto il Poema della montagna, tutto si è sistemato. E da allora, niente di quello che poi ho letto in russo mi ha fatto un’impressione così grande come Marina.

Volkov: Nella poesia di Cvetaeva una cosa mi ha sempre spaventato, e cioè la sua didatticità. Non mi piaceva il suo indice puntato, la sua voglia di masticare tutto fino alla fine e di concludere poi con un truismo rimato, per cui, forse, non valeva neanche la pena di coltivare quegli orti poetici.

marina cvetaeva 1914

Marina Cvetaeva, 1914

Brodskij: Sciocchezze! In Cvetaeva non c’è nulla di simile! C’è un pensiero che di solito è estremamente scomodo e che viene portato fino alle estreme conseguenze. Da questo, forse, si può avere l’idea che quel pensiero, come si dice, punti l’indice contro di noi. Una certa didascalicità si può trovare in Pasternak: “Vivere una vita non è attraversare un campo”, ecc… ma in ogni caso non in Cvetaeva. Se si potesse ridurre la poesia di Cvetaeva ad una formula, allora questa sarebbe:

Al tuo mondo dissennato

 una sola risposta – il rifiuto.

Da questo rifiuto Cvetaeva trae anche un certo godimento; quel “no” lei lo pronuncia con un piacere sensuale: “No-o-o!”

Volkov: In Cvetaeva c’è una qualità che è anche una forma di dignità: è aforistica. Tutta Cvetaeva si può scomporre in citazioni, quasi come in L’ingegno, che guaio! di Griboedov.

Brodskij: Oh, certo!

Volkov: Ma proprio questo senso aforistico di Cvetaeva, in qualche modo, mi ha sempre spaventato.

Brodskij: Io non ho la stessa sensazione. Perché la cosa principale in Cvetaeva è il suono. Ricorda il famoso almanacco del periodo di Chruščëv Pagine di Tarusa? È uscito, mi sembra, nel 1961. C’era una raccolta di poesie di Cvetaeva (e a chi le ha scelte, per inciso, faccio un profondo inchino). E quando ho letto una sua poesia dalla serie Alberi ero completamente scioccato. Cvetaeva ci dice:

“Amici!

 Legione di confratelli!

 Voi, onde, spazzate via

 le tracce dell’offesa terrena.

 Bosco! Il mio Eliseo!”

Cos’è questo? Sta forse parlando di alberi?

 Volkov: “La mia anima, le ombre dei Campi Elisi…”.

Brodskij: Certo, chiamare bosco i Campi Elisi è una grande formula. Ma non è soltanto una formula.

Volkov: Negli Stati Uniti, e sulla loro scia in tutto il mondo, si studia il ruolo delle donne nella cultura con grande interesse; si esplorano le caratteristiche del contributo delle donne nelle arti, nel teatro, nella letteratura. Pensa che la poesia delle donne sia qualcosa di specifico?

Brodskij: Alla poesia non si possono applicare aggettivi, così come al realismo, tra l’altro. Molti anni fa, credo nel 1956, ho letto da qualche parte che in un incontro tra scrittori polacchi, in cui si stava discutendo della questione del “realismo socialista”, qualcuno si è alzato e ha detto: “Sono dalla parte del realismo, ma senza l’aggettivo”. Affari polacchi…

Volkov: Tuttavia, in poesia, la voce di una donna è diversa da quella di un uomo?

Brodskij: Solo nelle desinenze verbali. Quando sento:

Ci sono tre epoche della memoria.

 La prima è come fosse ieri…

non so dire se chi li ha pronunciati è maschio o femmina.

achmatova seduta

ritratto di Anna Achmatova

Volkov: Non riuscirò mai a separare questi versi dalla voce di Achmatova. Questi versi sono pronunciati proprio da una donna con un portamento regale…

Brodskij: L’intonazione regale di queste poesie non è tanto nella postura dell’Achmatova, quanto in quello che lei dice. La stessa cosa è con Cvetaeva:

Amici!

Legione di confratelli!

Chi dice questo? Un uomo o una donna?

Volkov: E allora questo:

Oh, lamento delle donne di tutti i tempi:

 Mio caro che cosa ti ho fatto?

Questo è proprio il grido di una donna…

Brodskij: Sa Solomon, sì e no. Naturalmente, il contenuto è di una donna. Ma in realtà… in realtà è solo la voce della tragedia – a proposito, la musa della tragedia è femminile, come tutte le muse del resto. La voce di un’enorme sciagura. Giobbe è un maschio o una femmina? Cvetaeva è un Giobbe con la gonna.

Volkov: Perché la poesia di Cvetaeva è cosi appassionata e tempestosa, e allo stesso tempo così poco erotica?

Brodskij: Mio caro, rilegga le poesie di Cvetaeva a Sofija Parnok! Per quanto riguarda l’erotismo ci mette tutti nel sacco, compreso Kuzmin e tutti gli altri. “Senza penetrare, e senza penetrare, e senza penetrare…” Oppure: “Riconosco l’amore dal dolore lungo tutto il corpo”. Allora che altro serve! È che qui ancora una volta non è l’erotismo ciò che vale, ma il suono. Il suono per Cvetaeva è sempre la cosa più importante, indipendentemente da quello di cui tratta. E ha ragione, e alla fine questo suono si riduce ad una cosa sola: “Tic-tac, tic-tac”. Scherzo…

Volkov: Alla poesia russa è successo qualcosa di strano. Per circa cento anni, da Karolina Pavlova a Mirra Lochvickaja, la donne hanno svolto un ruolo marginale nella poesia russa. E improvvisamente, sono apparsi di colpo due talenti come Cvetaeva e Achmatova, a livello dei giganti della poesia mondiale!

Brodskij: Forse non c’è nessun collegamento con il tempo. O forse c’è. Il fatto è che le donne sono più sensibili alle violazioni etiche, all’immoralità psicologica e intellettuale. E questa immoralità generalizzata è esattamente quello che il XX secolo ci ha offerto in abbondanza. E le direi anche questo: nel suo ruolo biologico l’uomo è un conformista, giusto? Un semplice esempio mondano: il marito rientra a casa dal lavoro accompagnato dal suo capo. Dopo aver pranzato il capo se ne va. La moglie allora dice al marito: “Come hai osato portare quel bastardo a casa mia?” Ma quella casa, se proprio vogliamo, va avanti grazie ai soldi che quel bastardo dà a suo marito. “A casa mia!” La donna si erge su una posizione morale perché può permetterselo. L’uomo ha un obiettivo diverso, e per questo chiude gli occhi su molte cose. Quando poi, di fatto, dovrebbero essere la posizione etica e i valori etici a stabilire il bilancio dell’esistenza. Le donne affrontano questa situazione in un modo più efficace.

 Volkov: Ma allora, come spiega il comportamento così ambiguo di Cvetaeva in quella losca storia di spionaggio in cui fu implicato suo marito, Sergej Efron: l’omicidio del transfuga Ignatij Rejss e la precipitosa fuga di Efron a Mosca? Efron è stato un agente dello spionaggio sovietico nel periodo più sordido dell’epoca staliniana. E non parliamo poi di quanto sia facile, dal punto di vista etico, condannare un tale personaggio! Ma Cvetaeva, ovviamente, ha pienamente e completamente accettato e sostenuto Efron.

Achmatova Amedeo-Modigliani-Reclining-Nude-with-Loose-Hair

Amedeo-Modigliani-Reclining-Nude-with-Loose-Hair

Brodskij: Per questo c’è un proverbio: “l’amore è cieco”. Cvetaeva si è innamorata di Efron molto presto, da ragazza, e per sempre. Era una persona di grande onestà interiore. Ha seguito Efron “come un cane”, mettendo in pratica le sue stesse parole. E qui si vede il suo principio morale: essere fedele a se stessa. Essere fedele alla promessa fatta quando era ancora una giovane ragazza. E niente di più.

Volkov: Posso essere d’accordo con questa spiegazione. Ogni tanto si cerca di giustificare Cvetaeva con il fatto che era probabilmente all’oscuro dell’attività di spionaggio di Efron. Ma è ovvio che sapeva! Se gli eventi drammatici legati all’assassinio di Rejss fossero stati per lei una sorpresa, non avrebbe mai seguito Efron a Mosca. È probabile che Efron non le avesse mai rivelato i dettagli del suo lavoro di spionaggio. Ma Cvetaeva lo sapeva, o almeno intuiva l’essenziale. Lo vediamo nella sua corrispondenza.

Brodskij: Assieme a tutte le altre disgrazie, ha dovuto vivere anche questa catastrofe. In effetti non so nemmeno se sia una catastrofe. Il ruolo del poeta è di spiritualizzare la comunità umana: tanto gli uomini quanto il loro ambiente. Cvetaeva possedeva questa capacità, o meglio, vocazione, al massimo grado: mi riferisco alla sua tendenza a mitizzare l’individuo. Più una persona è piccola, meschina, più è gratificante il materiale adatto a questa mitizzazione. Non so cosa sapesse Cvetaeva della collaborazione di Efron col GPU, ma penso che se anche avesse saputo tutto, non lo avrebbe mai abbandonato. La capacità di vedere un senso contro ogni apparenza è una caratteristica del vero poeta. E Cvetaeva poteva spiritualizzare Efron, se non altro perché si trovava già di fronte al disastro totale della sua persona. E oltre a questo, per Cvetaeva è stata una colossale lezione sul male e un poeta non può non trarre profitto da una simile esperienza. Marina si è comportata in questa situazione con molta più dignità, e in un modo molto più naturale di come siamo abituati ad agire noi! Noi infatti che facciamo? Qual è la prima e principale reazione quando ti fanno il “contropelo”? Se una sedia non ti piace, non fai che portarla fuori dalla stanza! Se una persona non ti piace, la mandi al diavolo! Ti sposi, divorzi, ti sposi un’altra volta, due volte, tre volte, cinque volte! Hollywood, insomma. Marina, invece, ha capito che un disastro è un disastro, e che da questo si possono imparare molte cose. E inoltre – cosa che forse era più importante per lei in quel momento – con Efron nonostante tutto aveva avuto tre figli, che non erano così simili al padre, erano diversi. Questa, almeno, era l’impressione che aveva. E tra l’altro, provava un tale senso di colpa nei confronti della figlia, che non era riuscita a strappare alla morte, e si giudicava così duramente, da non potere nemmeno condannare Efron. Mi ricordo che una volta, Susan Sontag, in una conversazione, ha detto che la prima reazione di un essere umano di fronte a una catastrofe è pressappoco la seguente: dov’è l’errore? Cosa si deve fare per riprendere il controllo della situazione perché non si ripeta? Ma diceva anche che esiste un altro modo di comportarsi: lasciare che la tragedia faccia il suo corso, lasciarsi trapassare, schiacciare. Come dicono i polacchi: “stendersi sotto”. E se si riesce a rimettersi in piedi si è diventati un’altra persona. Questo, se vuole, è il principio della Fenice. Ricordo spesso queste parole della Sontag.

Volkov: Mi sembra che Cvetaeva non si sia mai ripresa dopo il disastro con Efron.

Brodskij: Non so. Non ne sono così sicuro.

Volkov: Il suo suicidio è stato una risposta alle sofferenze che ha accumulato nel corso di molti anni. Non è così?

Brodskij: Certamente. Ma sa, solo la persona che si è suicidata potrebbe analizzare e parlare con autorevolezza degli eventi che l’hanno condotta a farlo.

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Volkov: Tempo fa mi sono interessato alla questione degli omicidi politici in Europa negli anni trenta, anche perché è stata coinvolta una grande cantante russa, Nadežda Plevickaja. Ho letto molto su queste persone. Ora c’è la tendenza a presentare gli assassini come idealisti che si sono lasciati trascinare in quegli affari loschi dalle loro convinzioni ideologiche. In realtà, c’era un gran numero di sordidi personaggi che lavoravano sia per l’Unione Sovietica di Stalin che per la Germania di Hitler. Con il loro aiuto sono state eliminate molte personalità indipendenti che ostacolavano sia Stalin che Hitler. Alcuni diventavano spie per denaro, per avere privilegi, altri per sete di potere. Qui l’idealismo davvero non c’entra.

Brodskij: Credo che il caso Efron sia un classico esempio della catastrofe di una personalità mancata. Da giovane sei pieno di ambizioni, speranze, di mille cose. E alla fine ti ritrovi a Praga a recitare in un teatro di dilettanti. E allora cosa fai? O ti suicidi o ti metti al servizio di qualcosa. Perché proprio col GPU? Perché la sua famiglia, tradizionalmente, era antimonarchica e perché quando lasciò la Russia con l’Armata Bianca non era che un ragazzo. Una volta cresciuto, poi, ne aveva visti abbastanza di tutti questi “difensori della patria” in esilio, e così non gli rimaneva altra scelta che andare nella direzione opposta. E in più c’erano lo Smenovechovstvo, l’Eurasismo, Berdjaev, Ustrjalov. Ingegni raffinati, l’idea della statalizzazione comunista. “La Sovranità”. Per non parlare poi del fatto che era più comodo lavorare come spia piuttosto che abbrutirsi in una catena di montaggio di una qualsiasi Renault. E inoltre non è così invidiabile essere il marito di una famosa poetessa. Non so se Efron fosse una carogna o un miserabile, forse più quest’ultimo, anche se si è comportato davvero come una carogna. Ma perché Marina lo amasse, non spetta a me giudicarlo, e anche se le avesse dato qualcosa, da lei ha ricevuto molto di più. E per quel poco che le aveva dato, verrà salvato. Quel “poco” sarà la chiave, la “cipollina” che gli spalancherà le porte del paradiso. E poi dove ha mai visto, in questo ambiente, un matrimonio felice? Un poeta felice nella sua vita coniugale? No, le disgrazie non arrivano mai da sole, ma in “branco”, col marito o la moglie in testa.

 Volkov: Come spiega l’indistruttibile entusiasmo di Cvetaeva per Vladimir Majakovskij? Gli ha dedicato una poesia quando era ancora in vita, poi ha risposto al suo suicidio dedicandogli un intero ciclo. Mentre l’opinione di Achmatova su Majakovskij cambiava in continuazione. Lei, ad esempio, si è offesa moltissimo quando ha scoperto che la sua Il re dagli occhi grigi era stata cantata da Majakovskij sull’aria di Alla fiera se ne andava lo spavaldo villano.

 Brodskij: Non avrebbe dovuto prendersela per questo. Perché anche i versi di Majak si possono trasporre e ripresentare nel modo che si preferisce. Tutte le sue poesie in scala si possono ristampare in colonna, in quartine, e tutto semplicemente troverà il suo posto. E forse un esperimento del genere è molto più rischioso per Majakovskij che per Achmatova. D’altronde questo succede spesso: al poeta piace proprio quello che non farebbe mai nella vita. Prenda, ad esempio, l’atteggiamento di Mandel’štam verso Chlebnikov. Per non parlare poi del fatto che Majakovskij si comportava in modo davvero archetipico. Un quadro completo: dal poeta d’avanguardia, fino ad arrivare al cortigiano e alla vittima. E sei sempre roso dal tarlo del dubbio: forse bisogna fare proprio così? Forse siamo noi a essere troppo chiusi e Majak, invece, era veramente autentico, estroverso e faceva tutto in modo grandioso? E se una poesia non funziona, si può sempre trovare una scusa: le cattive poesie sono i cattivi giorni del poeta. Poi andrà meglio, poi ci si riprenderà. Ma i giorni cattivi di Majak sono stati davvero tanti… Eppure è proprio quando è andato tutto storto che le poesie sono diventate meravigliose. Certo che poi è uscito di carreggiata definitivamente. E proprio lui è stato la prima grande vittima, grande perché aveva un grande dono. Poi quello che ne ha fatto è un’altra questione. Certamente anche a Marina sarebbe piaciuto questo ruolo di poeta tribuno, aveva dentro la stessa “bestia”. Da qui sono nati i versi con questo meraviglioso pastiche à la Majak, che sono perfino meglio dell’originale:

Arcangelo dal passo pesante

 salve, nei secoli, Vladimir!

Ecco qua tutta la scaletta majakovskiana confezionata in due versi.

Volkov: A questo proposito, uno degli esperimenti che Majakovskij ha fatto sulle poesie di un altro poeta mi sembra molto ingegnoso. Nella Sconosciuta di Blok, Majakovskij, ha sostituito “sempre senza compagni, sempre sola” con “tra i libertini, sempre sola”. Majakovskij ci diceva che “sola, senza compagni” è una tautologia.

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Brodskij: Mi sembra un giochetto abbastanza mediocre. Per quello che riguarda Majkovskij e Cvetaeva avrei un’ulteriore considerazione. Penso sia stata attratta da lui per ragioni polemiche e poetiche. È Mosca, lo spirito di Mosca, il pathos espressivo della poesia. Le assicuro che in termini puramente tecnici Majakovskij è una figura estremamente seducente. Le rime, le pause. E soprattutto, credo, la complessità e la libertà dei suoi versi. Questa tendenza si ritrova anche in Cvetaeva. Marina, però, non va mai a briglie sciolte come Majakovskij. Majakovskij non conosceva altra lingua poetica, mentre Cvetaeva poteva lavorare su più registri. E comunque, qualunque sia la libertà sonora e d’intonazione dei versi di Cvetaeva, lei tendeva sempre all’armonia. Le sue rime sono più precise di quelle di Majakovskij, anche nei casi in cui i loro stili convergono.

Volkov: Tra l’altro, c’è un punto dove i suoi gusti si avvicinano sor-prendentemente a quelli di Majakovkskij: entrambi non amate Tjutčev. Majakovskij trovava solo due o tre poesie decenti in Tjutčev.

Brodskij: Non posso dire di avere un’avversione per Tjutčev, ma naturalmente preferisco di gran lunga Batjuškov. Tjutčev è indub-biamente una figura più significativa. Ma tutte queste discussioni sulle sue posizioni metafisiche, e cose del genere, non devono farci trascurare il fatto che mai prima d’allora la letteratura russa aveva prodotto figure così servili. I nostri lacchè dell’epoca di Stalin non sono che dei mocciosi rispetto a Tjutčev, non solo nei confronti del suo talento, ma soprattutto rispetto all’autenticità dei suoi sentimenti. Tjutčev non si accontentava di baciare gli stivali dell’imperatore, glieli leccava proprio. Non so perché Majakovskij ce l’avesse tanto con lui, forse perché le loro situazioni erano simili. Io non riesco a leggere il secondo volume di Tjutčev, non dico senza disgusto, ma senza esserne stupefatto. Da una parte sembra che il carro dell’universo si lanci verso il santuario del Cielo, dall’altra si cade sulle cosiddette “odi servili”, per utilizzare l’espressione di Vjazemskij. Tra poco, ci può scommettere, in Russia quei “bastardi al potere” lo metteranno su un piedistallo. Insomma, coi grandi poeti lirici che osannano tanto i circoli illegali bisogna tenere gli occhi aperti. Prima o poi vorranno la loro ricompensa. Così i dissapori con la “polizia morale” verranno equilibrati dagli Osanna al Capo Supremo. È sgradevole tutto questo. Ma ci pensa il nostro secolo, con le sue bassezze ripugnanti, a liberarci da tutti questi miseri tornaconti. Batjuškov, ad esempio, era un patriota tanto quanto Tjutčev, e per di più è stato in guerra. Tuttavia non si sarebbe mai prestato ad una simile indecenza. Batjuškov è stato largamente sottovalutato nella sua epoca, e lo è ancora oggi.

 Volkov: Mi piace molto Batjuškov, tra l’altro mi sono interessato a lui dopo aver letto Cvetaeva, che nella sua poesia “In memoria di Byron” inizia proprio con un meraviglioso e incantevole verso di Batjuškov: “Ho lasciato la brumosa riva di Albione…”. Le poesie di Cvetaeva e di Batjuškov sono state pubblicate quasi contemporaneamente, se lei ricorda, nella collana “Biblioteca del Poeta”. Ciò nonostante non possiamo paragonare Batjuškov a Tjutčev.

Brodskij: Sa, Solomon, probabilmente ho i miei pregiudizi, dei chiodi fissi professionali, e magari questa è una scusa. Ma le consi-glio di rileggere Batjuškov, tra l’altro, rileggerlo a New York…

Volkov: Secondo me non c’è niente di meglio che rileggere Batjuškov guardando l’Hudson. I tramonti sull’Hudson “si sdraiano” perfettamente “sotto” Batjuškov, anche “sotto” i poeti minori. E infatti, qui a New York, rileggo anche Goleniščev-Kutuzov due o tre volte l’anno.

Velemir Chlebnikov

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Brodskij: Che non è male. In generale, tra i poeti russi, non vorrei dire di secondo piano, ma di seconda fila, c’erano delle personalità assolutamente meravigliose. Ad esempio Dmitriev con le sue favole. Che poesia! La fiaba russa è una cosa assolutamente stupefacente. Krylov è un poeta geniale con una capacità sonora comparabile alla poesia di Deržavin. E Katenin! Nessuno ha scritto niente di così penetrante sul triangolo amoroso. Guardi adesso se i tramonti sull’Hudson non s’intonano con Katenin. O ancora Vjazemskij, a mio parere è il fenomeno più considerevole della pleiade puškiniana. È sempre così, la società designa un poeta come il più grande, come capofila. Questo accade soprattutto in una società autoritaria, a causa di quel parallelismo idiota tra il poeta e lo zar. Ma la poesia è molto di più di quello che un “dominatore delle menti” suggerisce. Scegliendone uno solo, la società si condanna all’una o all’altra versione di assolutismo monarchico. Cioè, rifiuta il principio democratico. Ed è per questo che poi non ha alcun diritto di incolpare il sovrano o il suo primo ministro: la società stessa è colpevole della scelta dei suoi lettori. Se avessero conosciuto meglio Vjazemskij e Baratynskij, non avrebbero avuto una fissazione così grande per lo zar Nikolaša. Le libertà dei cittadini sono il prezzo che la società civile paga per l’indifferenza alla cultura. Il restringimento dell’orizzonte culturale è l’origine delle ristrette prospettive politiche; niente quanto l’autocastrazione culturale prepara così bene il terreno per l’instaurazione della tirannia. E alla fine è logico che si arrivi a tagliare le teste.

Volkov: Lei ha elencato alcuni poeti di, diciamo, “seconda fila”: Dmitriev, Katenin, Vjazemskij. Cosa mi piace di loro? Che sono personalità forti e attraenti e non solamente degli scrittori notevoli. La vita di ciascuno di loro è un romanzo appassionante. Per non parlare di Krylov o di Baratynskij…

Brodskij: Quello che m’interessa, in questi casi, è il lato umano. Un uomo che scrive può avere successo o fallire. Ma per lui non è questo l’essenziale, l’essenziale è la sua scommessa sul futuro. Non si tratta tanto di contare sulla posterità, ma sulla longevità del linguaggio che usa. Il poeta possiede, percepisce con il suo senso musicale qualcosa che gli assicura se non l’immortalità, almeno un futuro immaginabile.

Volkov: Per quello che riguarda Ivan Krylov, possiamo dire con certezza che, fino a quando vivrà la lingua russa, le sue fiabe saranno lette. Anche se la scuola in Russia sta facendo di tutto per toglierci il piacere che Krylov ci procura.

Brodskij: No, se c’è una cosa che la scuola non è riuscita ad avvelenarmi, è proprio Ivan Andreevič… Anche se facevano tutto quello che gli passava per la testa…

Volkov: Dicevamo che questa dichiarazione di Cvetaeva –

Al tuo mondo dissennato

 una sola risposta – il rifiuto

– costituisce, in sostanza, il programma della sua opera. E inoltre questi versi sono una sorta di, come si suol dire, “poesia d’occasione”, scritti in coincidenza con l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’esercito di Hitler nel marzo del 1939. Cvetaeva ha consacrato a questo evento undici poesie, una più bella dell’altra. Aveva già scritto quattro poesie nel settembre del 1938, quando Hitler aveva annesso i Sudeti della Cecoslovacchia, e queste non sono le sole risposte poetiche di Cvetaeva su temi d’attualità. Ha scritto poesie politiche durante tutta la sua vita; basta ricordare il ciclo L’accampamento dei cigni, dove celebra il Movimento Bianco. Ma deve ammettere che, a questo proposito, Cvetaeva non è una figura tipica della poesia russa moderna. C’è la convinzione diffusa che la poesia russa di oggi sia molto politicizzata. Ma è un errore. In realtà sono pochi i grandi poeti russi del XX secolo che hanno scritto poesie su soggetti politici; e non parlo, naturalmente, delle poesie “su commissione”: di quelle ce n’erano a bizzeffe. Questo è singolare. Guardi il XIX secolo: abbiamo Ai calunniatori della Russia di Puškin, le poesie di Vjazemskij, Russia di Chomjakov, le poesie di Tjutčev – che lei ama così poco –, tutte opere di prim’ordine, degne di un’antologia letteraria. Dove sono oggi versi della stessa caratura, dedicati a fatti d’attualità della seconda metà del XX secolo? Deržavin ha accompagnato la morte di Paolo I con i versi ‘‘tace il rauco ruggito del Nord”. Dove sono i versi sulla caduta di Chruščëv? Perché i poeti russi non hanno reagito all’invasione della Cecoslovacchia del 1968 con la stessa forza con cui Cvetaeva aveva risposto all’occupazione nel 1939? Dopo tutto, anche lei, in realtà, scriveva “per il cassetto”, e non si aspettava una pubblicazione immediata.

Brodskij: Ciò non è del tutto giusto. Credo ci siano cose che non conosciamo ancora. Ma è vero che, ancora oggi, io non ho letto niente che descriva direttamente la presa di Budapest o di Praga da parte degli invasori sovietici. Anche se conosco un gruppo di poeti russi per cui il riferimento, diciamo, alla rivolta ungherese del 1956 o ai disordini in Polonia negli anni cinquanta, è stato essenziale.

Volkov: Non si può ricostruire la storia moderna a partire da questi versi.

Brodskij: Sì, certo, né la storia morale né la storia politica. E c’è un’altra cosa interessante: nella poesia russa non si è quasi mai riflessa l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale. C’è, naturalmente, una generazione di cosiddetti poeti di guerra, a cominciare da quella assoluta nullità di Sergej Orlov, pace all’anima sua. O Mežirov, con le sue schifezze che non stanno né in cielo né in terra. E poi ancora Gudzenko, Samojlov. Alcune poesie sulla guerra, veramente belle devo dire, le ha scritte Boris Sluckij, e cinque o sei anche Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij. In realtà a tutti questi Konstantin Simonov e Surkov (pace all’anima loro, ma ho dei forti dubbi che la possano trovare) non interessava né la tragedia nazionale né la catastrofe mondiale, ma piuttosto provavano compassione per se stessi. Chiedevano che li si compiangesse. Per non parlare dei fiumi di fango del dopoguerra, dei pugni alzati nel vuoto dopo la battaglia… Nel migliore dei casi, si trattava di un dramma preso in prestito dalla guerra, in assenza del loro dramma personale; nel peggiore dei casi era un vero e proprio sfruttamento dei morti, un portare acqua al mulino del Ministero della Difesa. Semplicemente per accalappiare nuove reclute. Non c’era un minimo di comprensione per quello che era successo all’intera nazione. E questa è una barbarie: in fondo abbiamo sepolto venti milioni morti… Ma questa mattina, in un certo senso ho avuto fortuna, stavo preparando un’edizione per una raccolta di versi scelti di Semën Lipkin. C’è un enorme numero di poesie su questo argomento: sulla guerra, o comunque legate alla guerra. L’impressione è che lui solo sia intervenuto in difesa di tutti, in difesa della nostre belle lettere: ha salvato, per così dire, la reputazione nazionale. Tra l’altro è stato uno dei pochi che si è preso cura di Cvetaeva al suo ritorno in Russia dopo l’esilio. Insomma, per me è un poeta meraviglioso. Non era secondo a nessuno. Nessun prosaicismo scontato, è dell’orrore dell’epoca che ci parla; in questo senso, Lipkin è proprio allievo di Cvetaeva. E se parliamo dei versi che Cvetaeva ha dedicato alla Cecoslovacchia, o del suo L’accampamento dei cigni, dobbiamo dire che i primi sono una variazione sul tema del suo Accalappiatopi e che nel secondo l’elemento più importante è quello vocale. Credo che il “movimento Bianco” abbia sedotto Cvetaeva più come formula poetica che per la sua realtà politica. La migliore delle sue poesie sull’Armata Bianca è quella con gli otto versi che finiscono con: “Dopo la parola dovere si scriverà la parola Don”.

Volkov: Ciononostante mi stupisce che nell’ambito della poesia d’occasione, d’attualità, agli autori russi del XX secolo, così ricco di spunti, siano mancati il temperamento e lo slancio. In questo senso, la sua poesia In morte di Žukov, a mio parere, va per conto suo, rinnova una tradizione russa antica che risale a Deržavin e alla sua poesia Il fringuello, che è l’epitaffio a un altro grande comandante russo, Suvorov. È quello che chiamiamo una poesia “statale”, o se preferisce “imperiale”.

Brodskij: In questo specifico caso il termine “statale” non mi dispiace. Penso anche che questa poesia a suo tempo avrebbe dovuto essere pubblicata sulla “Pravda”. E per quella poesia, tra l’altro, ne ho dovuta mandar giù di merda.

Volkov: Cosa intende?

Brodskij: Per gli emigrati del dopoguerra, per tutti quei DP sfollati in Occidente, beh, Žukov è legato a cose davvero sgradevoli. Con l’avanzata delle sue truppe sono stati costretti a fuggire, per questo non hanno nessuna simpatia per Žukov. E poi anche i Paesi Baltici hanno molto sofferto a causa sua.

Volkov: Nella sua poesia non si sente nessuna particolare simpatia per il maresciallo Žukov, sul piano emotivo si è davvero trattenuto.

Brodskij: È proprio vero. Ma se un uomo non è abbastanza colto, o addirittura non lo è per niente, di solito non nota questi “particolari”. Reagisce come il toro davanti al mantello rosso. Vede Žukov e basta. Ho sentito tante di quelle chiacchiere anche dalla Russia, anche cose completamente ridicole, come se con questa poesia mi fossi prostrato ai piedi dei superiori. Molti tra noi sono rimasti in vita grazie a Žukov e farebbero bene a ricordare che è stato Žukov, e non un altro, a salvare Chruščëv da Berija. È stata la sua divisione Kantemirovskaja a entrare a Mosca con i carri armati nel luglio del 1953 e a circondare il Teatro Bol’šoj.

Volkov: I carri armati si sono fermati davanti al Bol’šoj o davanti al Ministero dell’Interno?

Brodskij: Che importa, in fondo è la stessa cosa… Žukov è stato “l’ultimo dei Mohicani” russi, l’ultimo “capotribù dei pellerossa”, come si dice.

Volkov: Capisco cosa intende quando parla di vite salvate da Žukov. Quasi tutti i miei parenti sono morti nell’Olocausto, nel ghetto ebraico di Riga. E mi ricordo che una volta, era probabilmente alla fine degli anni sessanta, ad un concerto di musica sinfonica nelle vicinanze di Riga, a Dzintari, ho notato un uomo seduto di fronte a me; sulla sua giacca aveva quattro stelle d’oro, come dire che era stato quattro volte Eroe dell’Unione Sovietica! La luce si spense ra-pidamente senza che io riuscissi a riconoscerlo. E osservando questa specie di riccio bianco e la sua corposa nuca rossa, mi sono chiesto fino all’intervallo chi poteva mai essere quell’uomo, con un numero così grande di onorificenze sul petto. Quando nell’intervallo il maresciallo Žukov, perché naturalmente era proprio lui, si alzò, tutta la sala lo fissò con ammirazione. E ricordo che questo mi sorprese: perché mai Žukov, che nella sua vita aveva già avuto tutta la gloria e il rispetto possibili, aveva bisogno di venire al concerto indossando una giacca civile con le sue decorazioni?

Brodskij: Lo trovo assolutamente naturale, è un’altra mentalità, quella militare. Qui non si tratta di sete di gloria, non dimentichiamo che in quel momento era già stato escluso da tutto.

Volkov: Sì, ai tempi era stato congedato in via definitiva da almeno un decennio.

Brodskij: Sì, appunto. E non dimentichiamo che gli eroi dell’Unione Sovietica, non devono “fare la fila per prendersi una birra”.

Volkov: E cosa l’ha spinta a scrivere Versi sulla campagna d’inverno del 1980? Questa poesia sull’invasione sovietica dell’Afghanistan è stata, credo, per i suoi lettori, tanto inaspettata quanto la sua poesia In morte di Žukov…

Brodskij: È stata una reazione a quello che avevo visto alla televisione, Budapest, Praga… noi ascoltavamo la BBC, o leggevamo i giornali, ma non vedevamo niente. Ma con l’invasione dell’Afghanistan… non so quale altro avvenimento mondiale mi abbia così impressionato. Eppure alla televisione non hanno mostrato nessun orrore. Ho semplicemente visto dei carri armati, che avanzavano su un altopiano pietroso. E mi ha colpito l’idea che questo altopiano non aveva conosciuto prima nessun carro armato, nessun trattore, nessuna ruota ferrata, mai. È stato uno scontro sul piano degli elementi, del ferro contro la pietra. Si fossero limitati a mostrare gli afghani uccisi o feriti…. Sa, a tutto questo, soprattutto in quei luoghi, l’occhio umano è già abituato: senza cadaveri non ci sono notizie. Ma la cosa è successa in Afghanistan, e oltre a tutto il resto, era una violazione dell’ordine naturale. Ecco cosa ti fa impazzire, insieme al sangue. Mi ricordo che sono rimasto annichilito per tre giorni. E poi, nel mezzo della discussione sull’invasione, ho di colpo realizzato che i soldati russi che si trovavano in Afghanistan avevano diciannove o vent’anni. Se negli anni sessanta, io e i miei amici, con le nostre “signore”, non avessimo avuto una condotta più o meno “protetta”, è del tutto possibile che i nostri figli si sarebbero trovati lì, tra gli invasori. E questo pensiero mi ha procurato una nausea intollerabile. È da qui che ho cominciato a scrivere questi versi. Quando hanno fatto la stessa cosa in Europa, quando sono entrati in Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, era chiaro che dopo tutto era solo un’altra ripetizione, l’ennesimo “giro” della storia europea in una nuova tappa. Rispetto alle tribù afghane, però, non era solamente un crimine politico, ma anche un crimine antropologico, e un colossale errore di evoluzione. È come un’irruzione dell’età del ferro nell’età della pietra, o come un’improvvisa glaciazione. Quanto alle sue osservazioni sulle sorprese inattese dei Versi sulla campagna invernale… non vedo alcuna differenza stilistica tra questi e le mie poesie sulla natura e sul tempo. E naturalmente, quando ho cominciato a scrivere Versi sulla campagna invernale ho cercato di risolvere altri problemi, non precisamente formali, piuttosto di intonazione. Ma è successo più tardi…

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Volkov: I lettori occidentali conoscono bene Cvetaeva, Mandel’štam, Pasternak, Achmatova, particolarmente gli ultimi due. Puškin è conosciuto soprattutto grazie alle opere di Čajkovskij. Ma i nomi di Baratynskij e Tjutčev non dicono nulla nemmeno al lettore occidentale più istruito. Voglio dire che la poesia russa in Occidente è soprattutto quella del XX secolo, mentre la prosa russa è conosciuta grazie agli autori del XIX secolo. Come è successo?

Brodskij: Per questo ho una risposta semplice. Prenda ad esempio Dostoevskij. La problematica di Dostoevskij, sempre se usiamo un concetto sociologico, è legata a un tipo di società che in Russia ha cessato di esistere dopo la rivoluzione del 1917, mentre qui in Occidente, la società è rimasta la stessa, vale a dire, capitalista. È per questo che Dostoevskij è così fondamentale per l’Occidente. Prendiamo l’uomo russo di oggi: certo, Dostoevskij può essere interessante per lui; può svolgere un ruolo cruciale nello sviluppo dell’individuo, nel risvegliare la sua coscienza. Ma quando il lettore russo esce di casa, si trova di fronte ad una realtà che non è quella descritta da Dostoevskij.

Volkov: Ricordo che anche Achmatova ha parlato di questo argomento.

Brodskij: Esatto. Si ricorda? Quando un uomo, dopo aver fucilato un ennesimo gruppo di condannati, rientra a casa dopo il suo “lavoro”, e si prepara per andare a teatro con sua moglie e litiga pure con lei per la sua acconciatura… E non ha nessun rimorso di coscienza, niente di dostoevskijano! Mentre per un occidentale le situazioni, i dilemmi di Dostoevskij sono sempre anche i suoi. Per lui sono riconoscibili. Da qui viene la popolarità di Dostoevskij in Occidente, da qui nasce l’intraducibilità di gran parte della prosa russa del XX secolo.

Volkov: La sua inaccessibilità.

Brodskij: Sì, una certa incompatibilità. Per leggere della prosa bisogna almeno immaginare la realtà che c’è dietro. Ma la realtà sovietica, descritta dalla migliore prosa russa di quel periodo, è stata così tanto rovesciata e trasformata, non trova? Per apprezzare la prosa che la descrive è indispensabile avere una certa conoscenza della storia dell’Unione Sovietica, o comunque fare uno sforzo d’immaginazione – cosa a cui non ogni lettore si presta, occidentale compreso. Mentre per leggere Dostoevskij o Tolstoj, il lettore occidentale non deve fare alcun sforzo di immaginazione; l’unica fatica che gli è richiesta è quella di sfondare il muro di quei nomi e patronimici russi. Tutto qui.

 Volkov: Perché allora la poesia russa del XIX secolo rappresenta una difficoltà così insuperabile?

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Brodskij: Per quello che riguarda la reazione del pubblico inglese, ho una teoria. Di fatto la poesia russa del XIX secolo si fonda in modo naturale sulla metrica, e la traduzione in inglese richiede il mantenimento di questa metrica. Ma non appena il moderno lettore inglese si trova di fronte a questa misura di regolarità, pensa subito alla sua poesia nazionale che già da un bel po’ di tempo l’ha tediato. O, peggio ancora, non la riconosce come familiare. E tra l’altro, le conversazioni impegnate degli snob di qui sulla poesia russa del XX secolo, non mi sembrano così convincenti. E questo perché la loro conoscenza di Pasternak o Achmatova si basa sulle traduzioni, che discordano enormemente dagli originali. In queste traduzioni spesso si enfatizza il contenuto, ma si trascurano gli aspetti strutturali. Questo è giustificato anche dal fatto che nella poesia inglese del XX secolo l’idioma principale è il verso libero. E direi ancora: l’utilizzo del verso libero nelle traduzioni, naturalmente, permette di rendere il testo originale in modo più o meno completo, ma solo a livello del contenuto, non oltre. È per questo che, in Occidente, quando si discute di Mandel’štam si crede di trovarlo da qualche parte tra Yeats ed Eliot, perché la musica dell’originale scompare. Ma, dal punto di vista degli esperti di qui, nel XX secolo ciò è ammissibile e giustificato. E su questo punto i piedi.

Volkov: Se volesse spiegare l’essenza della poesia di Cvetaeva agli studenti americani che non conoscono il russo, a quale poeta anglofono la paragonerebbe?

Brodskij: Quando parlo loro di Cvetaeva cito l’inglese Gerard Manley Hopkins e l’americano Hart Crane, anche se di solito questi confronti sono sprecati perché i giovani non conoscono né la prima né il secondo, e ancora meno il terzo. Ma se si prendessero la briga di gettare uno sguardo su Hopkins e Crane, almeno scoprirebbero la complessità della dizione di Cvetaeva, cosa che in inglese non si incontra tanto facilmente: la complessità della sintassi, l’enjambement, questi salti attraverso l’evidente, tutto quello che ha reso celebre Cvetaeva, almeno sul piano della tecnica. E se continuassimo il parallelismo con Crane (anche se in generale non esiste una vera somiglianza), vedremmo che la loro fine è stata la stessa: Il suicidio. Anche se Crane, credo, avesse meno motivi per suicidarsi. Ma, ancora una volta, non sta a noi giudicare.

 Volkov: A proposito di parallelismi, accidentalmente o no, per le nostre conversazioni abbiamo selezionato quattro poeti: Auden, Frost, Cvetaeva e Achmatova, cioè due donne russe e due uomini di cultura anglosassone. Frost e Achmatova hanno verosimilmente pensato di emigrare, ma poi sono rimasti nei loro paesi. Mentre Cvetaeva e Auden sono entrambi emigrati, per poi “rientrare” prima della loro morte. Naturalmente, questa è una coincidenza puramente esteriore. Ma suggerisce il pensiero che, alla fine, al poeta viene data una scelta limitata di ruoli da giocarsi nella vita. A questo proposito vorrei chiederle: da quando lei è emigrato qui, Cvetaeva le è diventata più vicina? Ora la capisce meglio “da dentro”?

Brodskij: La comprensione non dipende dagli spostamenti geografici, dipende dall’età. E penso che se oggi ho capito qualcosa di diverso della poesia di Cvetaeva, è per un’affinità di sentimenti. In realtà Cvetaeva era estremamente riservata su ciò che le accadeva attorno, non ha quasi mai sfruttato la sua biografia per i suoi versi. Prenda il Poema della montagna o il Poema della fine: qui si tratta di una lacerazione globale e non della rottura con una persona reale.

Volkov: Penso che per Cvetaeva quell’effetto di distacco sia dovuto all’impossibilità di paragonare la valanga delle sue poesie con i personaggi concreti che le hanno provocate. Cvetaeva, molto probabilmente, aveva l’impressione di descrivere una situazione reale. Lei stesso ha detto che era la più sincera dei poeti russi.

Brodskij: Proprio così.

Volkov: E non si riferiva forse anche alla sincerità “biografica” dei suoi versi? E la sua prosa? Dopo tutto è completamente autobiografica!

Brodskij: Cvetaeva è veramente il poeta russo più sincero, ma è una sincerità, questa, che si pone prima di tutto sul piano della musicalità, come quando si grida di dolore. Il dolore è biografico, ma il grido è impersonale. Quel suo “rifiuto”, quello di cui abbiamo parlato prima, ricopre tutto, include ogni cosa. Compreso il dolore personale, la patria, l’esilio, i bastardi incrociati qua e là nella vita. La cosa più importante è che questa intonazione, questo tono di rifiuto, in Cvetaeva è anteriore alla sua esperienza. “Al tuo mondo dissennato una sola risposta – il rifiuto”. Non si tratta tanto del “mondo dissennato” (per provare questo sentimento in fondo basterebbe un solo incontro con la sfortuna), ma del triplice suono della lettera “o”, che funge qui da denominatore comune. E possiamo certamente dire che gli eventi della sua vita hanno confermato la giustezza della sua intuizione originale. Ma l’esperienza della vita non conferma nulla. Nella poesia, come nella musica, l’esperienza è qualcosa di secondario. Nella materia con cui operano i vari settori dell’arte c’è sempre una specifica, irrevocabile dinamica lineare. Un proiettile, metaforicamente parlando, percorre la distanza che il materiale di cui è fatto gli impone. Non dipende dall’esperienza. Tutti facciamo più o meno le stesse esperienze. Possiamo anche supporre che ci fossero delle persone che hanno vissuto esperienze più dolorose di Cvetaeva, ma non c’erano persone con la sua capacità di piegare la materia e di subordinarla. L’esperienza, la vita, il corpo, la biografia, tutt’al più assorbono il contraccolpo. Il proiettile invece viene lanciato lontano seguendo le dinamiche del suo materiale. In ogni caso non sto cercando nelle poesie di Cvetaeva dei parallelismi con la mia personale esperienza. E davanti alla sua forza poetica non posso che rimanere completamente stupefatto.

Volkov: Cosa direbbe del rapporto di Cvetaeva con la stampa degli emigrati?

Brodskij: Dei miserabili. Gentaglia. Tra l’altro, non va dimenticato quanto questo pubblico fosse politicizzato, soprattutto nell’ambiente dell’emigrazione. E in più, no, piuttosto in meno, la mancanza di risorse.

Volkov: Per undici anni Cvetaeva in esilio non ha potuto pubblicare un solo libro. Gli editori non volevano rischiare di pubblicarla. Lei invece lo desiderava molto. E mi ha veramente stupito quante umiliazioni, quante imposizioni della censura era pronta ad accettare.

Brodskij: È davvero incredibile. Ma d’altronde, quando hai detto l’essenziale, poi si può anche tagliare qualche passaggio, qualche “pezzo-non pezzo”. Ancora una volta anche questo diventa secondario.

Volkov: Nella sua vita non è mai stato costretto da pressioni esterne a dover modificare le sue poesie o la sua prosa?

Brodskij: Mai.

Volkov: Mai?

Brodskij: Mai.

Volkov: Cvetaeva suscita facilmente avversione proprio a causa del suo “calvinismo”. Ho ascoltato le sue lezioni, ho letto i suoi articoli su Cvetaeva. Da tutto questo, tenendo conto anche delle nostre conversazioni precedenti, ho imparato a leggere la sua poesia e la sua prosa con molta più attenzione di prima. Devo ammettere che preferisco decisamente Achmatova a Cvetaeva, e tra loro due, diciamolo pure, le relazioni erano piuttosto complicate. E la stessa Achmatova ha sempre ripetuto che il poeta più importante del XX secolo era Mandel’štam. Lei è d’accordo?

Brodskij: Beh, se davvero dobbiamo lasciarci andare a questo tipo di discorsi, allora no, non sono d’accordo. Credo che Cvetaeva sia il più grande poeta del XX secolo. Certamente, Cvetaeva.

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UNA POESIA INEDITA  di Giorgio Linguaglossa da TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE (Three Stills in the Frame) traduzione di Steven Grieco Chelsea Editions 2015 pp. 330 dollari 20 Prefazione di Andrej Silkin

Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015

Prefazione di Andrej Silkin “TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE”

 Il linguaggio di poeti come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini del tempo di Wordsworth ma è un linguaggio «nuovo». Eliot mette a punto una sofisticatissima colloquialità. Quello che Yeats dice a Eliot noi lo potremmo rivolgere a Giorgio Linguaglossa e, più in generale, alla migliore poesia moderna. Scrive Yeats: «Eliot has produced his great effects upon his generation because he has described men and women that get out of the bed or into it from mere habit; in describing this life that has lost at heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effects by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantics rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty».

Giorgio Linguaglossa è, in un certo senso, il poeta meno italiano e più europeo della tradizione poetica italiana. Nato, come a lui piace dire, a Costantinopoli, vive da sempre a Roma, le due capitali dell’Impero romano. In lui coabitano le due decadenze: di Roma e di Costantinopoli; il senso della decadenza dell’impero d’Occidente e un nuovo paganesimo; il tardo impero della Roma di oggi con le sue feste orgiastiche e la corruzione; il disprezzo per il Palazzo del potere e il culto di Afrodite; il suo essere senza speranza senza essere disperato. Di qui la serenità luciferina del suo universo popolato da angeli gobbi, uccelli storpi, démoni e falsi angeli come Sterchele, da filosofi che non si piegano come Carneade e da imperatori mentitori come Costantino ma ci sono anche figure femminili dalla bellezza sconcertante: Enceladon, Beltegeuse, Marlene, la dama veneziana in maschera, la ragazza con l’orecchino di perla e poi l’humour noir disseminato ovunque. Il suo albero genealogico è presto detto: Mandel’štam, Eliot, Brodskij, Milosz, Herbert, Tranströmer fino a Zagajewski. È questa la sua costellazione ideale. Entro questa costellazione Linguaglossa coltiva ormai da trenta anni un discorso poetico che non ha analogie nella tradizione del Novecento italiano: con un linguaggio medio, quasi colloquiale, il poeta tocca il diapason dello stile sublime e del parlato della plebe. Roma, la città in cui vive, è ancora la città pagana della antica plebe, con i suoi tribuni e i suoi Menenio Agrippa, i faccendieri e i portaborse del paese più corrotto d’Europa. Del resto, un poeta come Linguaglossa non poteva sortire che da un paese uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale e in degrado morale e istituzionale, immerso in una profonda decadenza politica, economica e spirituale. La decadenza della Roma corrotta e l’inconsapevolezza dei suoi abitanti costituiscono il leit motif traslato della sua poesia, ne sono il filo conduttore. La poesia linguaglossiana non può vivere che all’interno dell’alcova della decadenza e della corruzione, in essa trova la sua linfa e la sua ragion d’essere.

foto dei miei genitori, Roma, 1946

foto dei miei genitori, Roma, 1946

La composizione che dà il titolo a questa Antologia «Tre fotogrammi dentro la cornice», è probabilmente la poesia che «rompe», anche dal punto di vista metrico, la tradizione della poesia italiana del Novecento: il metro utilizzato viene piegato alle esigenze delle immagini e delle metafore. Il metro viene curvato dalla forza di gravità delle immagini. Esattamente l’opposto di quanto si è fatto in Italia nella poesia del secondo Novecento che ha privilegiato un «parlato» piccolo borghese incentrato sulle vicende personali, sul privato, sulle occasioni, una poesia diaristica, del presente per il presente. Linguaglossa opta invece per una poesia che dal presente si proietta nel futuro. Una poesia dantesca, dunque, costruita con spezzoni di immagini e di metafore di inusitata felicità espressiva. Ricomporre l’infranto, ecco il proposito di Linguaglossa, un progetto di arditezza quasi insostenibile.

La poesia «Tre fotogrammi dentro la cornice» prende inizio dagli anni Trenta, quando i suoi genitori neanche si conoscevano e il bambino non è ancora stato concepito; si passa, nella strofa successiva, ad una fotografia degli anni Quaranta dei genitori del poeta scattata casualmente da un fotografo in una via di Roma. La poesia ha lo svolgimento di un gomitolo, inizia da un punto per abbracciare tutta la storia del Novecento italiano ed europeo con un crescendo drammatico ed epico fino al finale: il poeta sul letto di morte. Ci sono voluti venti anni per completare questa poesia. È probabilmente la composizione di maggiore ardimento della poesia italiana del dopo Montale. Nella costruzione della sua poesia Linguaglossa parte da un principio: che la poesia non ha sinonimi e che le metafore sono transitabili e traducibili da una lingua all’altra, passano da una poesia all’altra con lievi modifiche, che la poesia è una esperienza più che un significato, ovvero, che più significati disparati legati da un rapporto di inferenza e di inerenza danno quale risultato una esperienza significativa non più legata alla persona del poeta ma che è divenuta una esperienza di tutti, una esperienza collettiva, un patrimonio della collettività transnazionale e della Lingua. La poesia comunica prima ancora di essere compresa, ha una sua forza d’urto legata alla costellazione di esperienze di cui si fa portatrice.

His poetry has the two marks of «modernist» work, the liveliness that comes from topicality and the difficulty that comes from intellectual abstruseness. The topical and the intellectual, the lively and the difficult, these are effects of modernist work. I tratti metafisici nel lavoro di Linguaglossa sono evidentissimi, non per nulla nel 1995 egli firma un «Manifesto della nuova poesia metafisica» in assoluta contro tendenza con la prassi della poesia italiana del tempo. È per questo motivo che la indirezione, la reticenza emotiva, la metafora e la metafora antitetica (la catacresi) hanno un ruolo così vasto nella sua poesia, ma il principio sintetico che integra tutti i particolari della poesia è quasi sempre omesso, perché esso è presente in tutti i particolari un po’ e non si dà mai per intero, non reclama alcuna evidenza ma deve essere il lettore a individuarlo e riconoscerlo.

È la condizione dell’uomo nel tardo Moderno quello che sta a cuore a Giorgio Linguaglossa. Con le sue parole: «la poesia è soltanto uno strumento (sofisticatissimo) per la rilevazione delle quantità di isotopi di uranio e di cesio che si trovano nell’atmosfera (nella biosfera) dell’ambiente linguistico. Assodato che la democrazia del tardo Moderno è quella che reclama a gran voce che tutte le arti siano eguali, eguali in quanto tutte inessenziali; inessenziali in quanto tutte decorative, ne deriva che la tendenza al decorativismo costituisce il piano inclinato di tutta l’arte del tardo Moderno. Addirittura, risulta problematico financo discorrere di arte nel “reale” del villaggio globale e del villaggio mediatico, che conosce soltanto la diffusione dell’estetico, dato che se ne è perduto perfino il concetto; senza contare che un’arte senza stile quale è quello della poesia del tardo Moderno ricade e rientra nell’estetico per la porta di servizio (non certo per la porta principale). Direi che un’arte senza stile è quella che richiede la diffusione dell’estetico. Che cos’è l’estetico se non un “servizio” che la diffusione dell’architettura e del design permettono all’arte della democrazie dell’occidente europeo? Anche se è vero che tutte le filosofie che discettano di un’arte senza stile non sanno quello che fanno (impegnate come sono nell’eutanasia della libertà), in verità, essa sta incondizionatamente dalla parte della comunità servile, orgogliosamente partigiane della techné dei medaglioni

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie

Il linguaggio poetico di Linguaglossa sta incondizionatamente dalla parte della libertà. Al poeta spetta il compito di utilizzare il linguaggio logorato della civiltà mediatica, un qualcosa di assolutamente inutilizzabile (non-orientabile, come il nastro di Moebius). Il linguaggio poetico è qualcosa che proviene già da uno scarto di qualcun altro e di qualcosa d’altro. Ed è proprio questo il particolare, diciamo così, statuto del linguaggio poetico contemporaneo. Quasi che una posizione di autenticità sia possibile soltanto aggiudicandosi dosi massicce di «scarti». Un’attesa senza futuro è destinata a diventare un intermezzo, un interludio, un interspazio temporale tra due punti del presente. Così si verifica una cancellazione dell’esistenza sospesa tra due punti. La cancellazione diventa la spia di una condizione oggettiva della condizione umana. È una poesia, questa di Linguaglossa, che non deriva più da alcun ordine delle cose, perché non c’è alcuna Ragione che presiede l’organizzazione totale della vita amministrata. Ciò che spetta alla poesia è presto detto: tenere alto il presentimento di un riscatto della condizione umana.

È il retroterra della Divina Commedia di Dante Alighieri quello da cui muove questa poesia, che si presenta come una sterminata galleria di personaggi che agiscono, sognano, lottano per la sopravvivenza. La sua forza espressiva deriva dalla consapevolezza del demanio di rottami e di scarti entro il quale la poesia è costretta a rovistare e saccheggiare. Le esperienze significative saranno, appunto, quelle che abitano stabilmente il demanio dei rifiuti indifferenziati della Storia sordidamente e sarcasticamente guidata dall’angelo Achamoth (l’angelo della Storia secondo la teologia cristiana).

Da quanto precede risulterà chiaro che la poesia di Linguaglossa si pone come zona refrattaria alle tendenze apologetiche del minimalismo europeo e occidentale proprio del tardo Moderno; siamo ben al di là della dimensione della superficie o superficiaria della poesia occidentale, della direzionalità indifferenziata e della stagnazione stilistica permanente della parte occidentale dell’impero.

È chiaro che il non-stile del tardo Moderno sia anche uno stile, anzi, lo stile par excellence del tardo Moderno: lo stile del beota, lo stile di servizio. Forse nessuno come Eugenio Montale ha compreso così a fondo le questioni legate allo stile da «ectoplasma» nell’epoca della pinguedine degli stili che caratterizza dagli anni Settanta del Novecento la poesia europea. Oggi, in pieno tardo Moderno, lo stile demotico trova il suo corrispettivo sintagmatico nello stile ironico colloquiale che prende in prestito dalla oralità della filmografia e del cabaret telematico la pinguedine della propria irresponsabilità estetica.

Da questi pochi cenni apparirà chiaro come Giorgio Linguaglossa sia tra i pochi poeti europei di oggi che scrive una poesia di responsabilità estetica, che ha il coraggio di addossarsi tutta la responsabilità derivante dallo statuto del proprio atto linguistico. Di qui il mio augurio di leggerlo e meditarlo.

pitigrilli Hitler-e-Mussolini

TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE

Anni trenta. La cartilagine delle stelle getta un’ombra.
Città di quinte e fondali che si spostano mentre

i personaggi del dramma stanno fermi; teatro di marionette,
regno infantile delle favole e dello spirito. Felicità.

Un bimbo gobbo con le ali salta giù dal melo fiorito
entra dalla finestra nella mia stanza e dice:

«il catalogo delle navi è pronto;
tra di esse c’è un mozzo di nome Omero

che ancora non conosce il passato perché non ha vissuto il futuro».
Mio padre è felice, anche mia madre è felice,

non sanno l’uno dell’altra; sulla ghiaia di piazza Bologna
corre il bambino che ancora non c’è;

una scimmia indossa la redingote, scarpe di vernice
e il cappello a cilindro; le camicie nere brulicano come vermi,

inneggiano al duce; Mussolini ha dichiarato guerra all’Inghilterra
ed io sono contento di non esserci.

Una foto degli anni quaranta. C’è mia madre che si affaccia
sul bordo della cornice: si guarda l’orlo della manica; vertigine;

fa un gesto come per schivare (!?) qualcosa o qualcuno
o forse nasconde (!?) in un cofanetto il bocchino d’avorio.

Nel primo stipo a destra del comò:
un fascio di lettere avvolte in un nastro azzurro,

sopra il comò un vaso con il volto saraceno, una maschera
di bianca maiolica, il portacipria senza cipria, il portamine d’argento,

la scatolina smaltata a fiori celesti, cammei con volti di avorio
rivolti a sinistra, il flacone bombato senza profumo,

il fermaglio d’argento per capelli, guanti di garza nera,
calze di seta impalpabili come ali di farfalla,

lo specchietto da borsetta annerito dal fumo delle bombe.
È arrivata una lettera, mia madre la apre; sono io

che scrivo: «Cartagine è stata rasa al suolo. Torno presto, la guerra è finita».
Delle ombre si abbracciano dentro uno specchio impolverato

gelidi venti si baciano in uno stagno.
Anonymous ha preso stabile cittadinanza: i suoi speaker

parlano alla radio con eloquio forbito.

Anni cinquanta. Cade la neve alla finestra.
Un bambino la osserva da dietro i vetri,

il padre ciabattino batte i chiodi sull’incudine
l’acido muriatico scava un solco nel vestito di velluto

di mia madre, una ninfa suona il flauto al cardellino
sul ramo di corbezzolo. Trilla il carillon,

sul davanzale brilla il rosso geranio nel vaso di maiolica
un lampo illumina il pane e il vino sopra il tavolo

un cavallo dalla bianca criniera galoppa sulla spiaggia
di fronte a un mare in tempesta… mi chiedo:

“che cosa significa il mare in tempesta,
mia madre, il cavallo biancocrinito, il pane e il vino sopra il tavolo?”.

Una gialla farfalla volteggia sopra un cirrico mare.

La giostra

La giostra

La grigia guarnigione dell’alba posa l’uniforme verdastra sulla città;
da qualche parte posata sulla ghiaia di piazza Winckelmann

c’è la giostra con i cavallucci a dondolo, il drago rosso,
il saraceno con il turbante azzurro che impugna la scimitarra

la macchinina a pedali…
Ecco che il congegno si mette in marcia:

tinnire di campanelli argentini;
il girotondo!, tutto si muove in senso antiorario

eppure è fermo, come nell’ambra di un milione di anni;
si spegne un lampione nel giardino buio:

resta il cigolio della giostra illuminata.

Stanza d’albergo; località balneare: mare, cielo azzurro, palmizi.
Sulla torre un rosso orologio.

Le lancette indicano l’immobilità del tempo.
Un grande cancello in ferro con lance a punta;

al di là aspri orti selvatici. Decido di entrare. Entro.
Un colonnato in candido marmo aggetta su una scala

ripida che scende nel buio.
“È il varco dell’Inferno”, penso con sgomento

questo pensiero sconnesso; nei penetrali ci sono finestre
murate e porte, tante porte di materia metallica.

Apro una porta.
La finestra è spalancata sulla ringhiera in ferro: al di là, il mare,

le imposte fanno entrare un fascio di luce all’interno:
una donna nuda canta davanti al mare;

una figura, vista di spalle, guarda fuori della finestra:
suona un violino; gouaches découpées scorrono all’orizzonte.

Il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo,
ma sappiamo che lui c’è.

gabriele d'annunzio e benito mussolini

gabriele d’annunzio e benito mussolini

Una fotografia degli anni quaranta.
Mio padre in divisa grigioverde dell’esercito italiano

a fianco c’è mia madre. Il suo volto si guarda allo specchio
(quello annerito dalle bombe) e parla dall’ombra

alla luna che si mette in posa per la foto,
ha i capelli ondulati;

camminano in una via della capitale come trafelati, corrucciati,
ma da chi, da che cosa (!?)

“dove stanno andando – mi chiedo – e perché così di fretta?”.
Quanti anni sono trascorsi? Che cosa c’è oltre

la cornice a sinistra della fotografia (!?)
Che cosa c’è oltre la cornice a destra (!?)

Una finestra dà sul cielo stellato: con il vestito dell’ombra la notte entra
nella stanza: una domestica rovista in una cassapanca,

esegue gli ordini della dama che sta sulla destra;
in primo piano la Venere di Urbino è distesa nuda, sul giaciglio

con la mano sul pube, il suo volto verso di noi che stiamo all’esterno,
e osserviamo il quadro di Tiziano.

Il sipario fa un passo indietro, Arlecchino incespica,
un putto alato scocca una freccia dall’arco, un altro putto

immerge la mano nell’acqua del sarcofago: osservano la fotografia.
Un fotogramma: il bancone della tabaccheria, Paternò.

Mia madre vende sigarette agli avventori
gira la chiave nella serratura, chiude la porta,

getta la chiave nello scrigno, prende con sé il vestito di velluto.
La grande casa immersa fra gli aranci adesso parla.

Il cielo è azzurro e il sole sfolgora sereno.
Riavvolgiamo il nastro del tempo: 1945. Russia.

Lenzuolo di neve; una mitragliatrice spara nella tormenta.
Così il periscopio gira cattura lo spazio

i ricordi parlano una lingua straniera
vanno a caccia delle anime che diventano ombre.

Una bandiera bianca prende vita dal mare.

Las Meniñas: qui a sinistra c’è l’infanta Margherita in guardinfante
con i valletti premurosi, le damigelle d’onore e il nano, l’italiano

Nicola Pertusato che si volta verso di noi; alle spalle di Velazquez
un intruso spia dal vano della porta. La commedia degli sguardi

è il dramma, o la farsa, degli equivoci.
Lo sguardo di chi osserva è l’effrazione di una serratura,

irruzione della profondità, divisibilità del visibile.
Vivere per anni contro se stessi mescendo saggezza e idiozia,

guardare dietro i vetri spessi d’una finestra
inoltrarsi irresoluto il triste principe di Danimarca.

«È questo il mio teatro?»; «sì, è questo Sire, dovete recitare».
Un fotogramma del Novecento.

Statue bianche sulle scale mobili salgono e scendono,
la veranda ospita il canto del gallo

e il sole tramonta sempre di nuovo sul mare azzurro.
Mia madre fa in fretta i bagagli, deve andarsene lontano,

prendere il largo, a occidente, a oriente,
Costantinopoli, Samarcanda, oltre il meridiano di Greenwich,

fa lo stesso.

Kokoschka dipinge a tinte forti il Colosseo
Bach insegna liturgia in una canonica di campagna

e Rembrandt sul cavalletto ritrae mio padre di spalle.
Frammenti di un percorso di fuga.

Si apre una cornice. Palazzo Medici Riccardi, cappella dei Magi.
Sulla parete occidentale cavalcano i Magi che indossano manti striati,

il pittore, Benozzo Gozzoli, dipinge un cardellino sul ramo di corbezzolo;
a sinistra, si apre una finestra nella cornice: Venezia.

Ponte di Rialto. Una dama di cristallo
indossa un guardinfante di seta azzurra, sorride, si volta

verso di me che sono nato nel futuro,
agita febbrilmente il ventaglio

e passeggia tra i leoni di piazza San Marco.
Città di trine e merletti, laguna di vetro;

sul suo volto una maschera di bianca maiolica;
alla sua destra, un paggio in livrea celesteazzurra a righe verticali

reca sulla spalla una scimmia che agita la coda e strilla,
l’inchino di un cicisbeo con la parrucca incipriata

che lei arresta con un gesto goffo… È così bella!
Il bianco guardinfante della dama solleva l’oscurità

diventa diafano e leggero come un pallone di piume…
– si apre un’altra finestra nella seconda cornice –

una gialla farfalla si alza in volo dal suo zigomo
e scompare al di là della fronte, sopra il limite della cornice.

pitigrilli Benito_Mussolini

Terza cornice del pensiero.
Mia madre bambina. Distesa di limoni e aranci. Sicilia.

Frugo nel secondo stipo del comò:
un calamaio, inchiostro di china, carta di riso azzurra,

una stilo col pennino d’oro, cianfrusaglie, una foto:
mia madre con il suo uomo negli anni cinquanta. Roma.

Atelier del pittore: Tiziano dipinge ancora l’amor sacro e l’amor profano.
Mia madre, la dama veneziana del Settecento

con il volto di bianca maiolica, il diafano guardinfante,
mio padre in divisa grigioverde. Che cosa significa?

Perché tutto ciò?
C’è una connessione o una sconnessione?

Una cucitura o una scucitura?
Un salto o una cicatrice?; quarta, quinta, sesta cornice

del pensiero (…) Roma, la finestra sul cortile, 1954;
– quale secolo cade in questo cortile? –

piazza Bologna, il triciclo, il bambino che corre attorno al palazzo;
via Lorenzo il Magnifico n. 7:

il negozio di calzolaio di mio padre
con la pelle di coccodrillo in vetrina.

Il Signor Anonimous, in abito scuro, entra nel negozio.
«Godete di una bella vista da qui», dice; ed io penso:

“È così ben vestito!”; «sì – rispondo – abbiamo un bel panorama».
«Vostra signoria resta qui stasera?»,

replica l’interlocutore voltandosi di scatto.
Mia madre spalanca la finestra: «è primavera?», chiede a se stessa

o al misterioso convenuto?, mentre Tiziano al piano di sopra
si prepara a fare le valigie. Venezia se ne va al largo, si allontana,

indossa una maschera bianca, diventa irriconoscibile.
«Vostra Maestà, voi mi ordinate di restare qui?», chiedo all’improvviso

ma Anonimous si volta verso la finestra aperta sul mare.
«Il Signor Posterius questa mattina si è ferito

a un gambo di rosa pungendosi il dito», dice Tiziano,
«Anonimous è uscito in una notte di luna piena»,

(«per andare dove?», gli chiedo)
«dei ladri sono entrati nel negozio dei fragili cristalli

e Benozzo dipinge ancora il cardellino sul ramo di corbezzolo».
«Tutto qui?»; «tutto qui, non c’è altro».

Una porta di cristallo, la Signora in guardinfante gira la maniglia.
Profumo di vaniglia, cipria e borotalco

tetralogia degli specchi alle quattro pareti.
È lei, mia madre, la dama veneziana che abita il Settecento?

Il secolo dei lumi e della tolleranza?

Un salone giallo.
Il cancelliere von Müller, il fido Eckermann e la sua amante Charlotte von Stein

ai piedi del letto: il poeta è morente.
Un vento gelido spira dai monti innevati.

Da una porta laterale, di fronte allo specchio, fa ingresso teatrale
un Signore incipriato vestito di nero,

si muove a scatti, con movimenti rigidi, algidi, legnosi,
dispensa motti sul galateo, bon ton, idiotismi

e profezie a buon mercato.
«Signori, la recita è finita. Sipario.»

(1992-2013)

THREE STILLS IN THE FRAME

The 1930s. The cartilage of the stars casts a shadow.
Cities made of wings and backdrops move, while
the characters of the play stand still. A puppet theatre,
a child’s kingdom of fairy tales and the mind. Happiness.
A hunchback boy with wings jumps down from the blossoming apple tree,
enters my room through the window and says:
“The catalogue of ships is ready:
amongst them is a deck-hand, Homer by name,
he still doesn’t know the past because he hasn’t seen the future.”
My father is happy, and my mother is happy, too.
Neither knows about the other. A child yet to be born
runs on the gravel in Piazza Bologna.
A monkey puts on a redingote, patent leather shoes
and a top hat. Blackshirts spread everywhere like worms,
saluting the Duce. Mussolini has declared war on England
and I’m happy not to be there.

A photo from the 1950s. My mother is there, looking out over the edge
of the frame. She’s looking at one of her shirt cuffs. Vertigo.
She makes a gesture as if to avoid (!?) something or someone,
or is she hiding (!?) the ivory cigarette holder in a case.
In the first drawer of the dresser, on the right,
a bundle of letters tied together with a blue ribbon.
On top of the dresser, a vase with the face of a Moor, a white majolica mask,
the powder-compact without the powder, the silver propeller pencil,
the little blue-flowered enamel box, cameos with ivory faces facing left,
the perfume bottle without the perfume, the silver hair clip, black gauze gloves,
silver stockings impalpable as a butterfly’s wings.
The looking glass in the purse blackened by the smoke of bombs.
A letter has arrived, my mother opens it: it’s me writing:
“Carthage has been razed to the ground. I’m coming home soon,
the war is over.
Shadows hug each other inside a dusty mirror,
ice-cold winds kiss in a pond.
Anonymous has taken on full citizenship. Its speakers
talk on the radio with a polished eloquence.

roma donna acconciatura 4

The 1950s. Snow falls outside the window.
A child watches the snow from behind the glass panes,
his cobbler father hammers the nails on the anvil,
the hydrochloric acid burns a groove in my mother’s velvet dress,
a nymph plays a flute for the goldfinch on a branch
of the strawberry tree. A music box chimes,
on the window sill a red geranium glows in the majolica vase,
a flash of lightning lights up the bread and wine on the table,
a white-maned horse gallops on the beach
in front of a stormy sea.
And I wonder: “the stormy sea, my mother,
the white-maned horse, the bread and wine on the table – what do they mean?”
A yellow butterfly flits over a cyrrhus-thronged sea.

Dawn’s grey garnison lays down its greenish uniform on the city.
Somewhere on the gravel in Piazza Winckelmann
is a merry-go-round with hobby horses, a red dragon,
a blue-turbanned Moor with a sabre in his hand.
The toy car with treadles.
Now the platform starts turning, silvery bells tinkle:
ring-around-a-rosy! Everything moves counterclockwise
and yet lies still, like inside amber a million years old.
A lantern in the dark garden goes out.
The creaking, lit-up carousel remains.

A hotel room. A seaside resort. Sea, blue sky, Canary palms.
A red clock on the tower.
The hands point to the stillness of time.
A great iron gate with pointed stakes.
Beyond, overgrown kitchen gardens. I decide to go in. I go in.
A row of snow-white columns jutting out onto a steep
staircase descending in the darkness.
“It’s the Gate to Hell,” I think, in a muddled way,
and I’m frightened. The penetralia have bricked-up
windows and doors, lots of metal doors.
I open one of them.
A wide open window, an iron railing outside: beyond is the sea,
a ray of sunlight comes in through the shutters.
A naked woman sings in front of the sea.
A figure, seen from behind, is looking out of the window,
playing the violin. Gouaches découpées run along the skyline.
The easel and the painter are outside the canvas:
we don’t see him, but we know he’s there.

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile

A photo from the 1940s.
My father, wearing an Italian Army uniform.
My mother stands beside him. Her face looks at itself in the mirror
(the one blackened by bombshells) and from the darkness speaks
to the moon which poses for a picture,
has wavy hair.
They walk down a street in Rome as if worried and out of breath:
who or what are they running from?
“Where are they going,” I wonder, “and why in such a rush?”
How many years have passed? What is outside
the frame, on the left of the picture?
What is outside on the right of the picture?
A window looking out on a starlit sky. Clothed in a shadow,
night enters the room. A maid searches for something in a chest,
follows instructions given by a lady on the right.
In the foreground the Venus of Urbino lies naked on the bed,
one hand on her crotch, facing us who are on the outside
looking at Titian’s painting.
The curtain takes one step back, Harlequin stumbles,
a winged putto shoots an arrow from his bow,
another putto dips his hand into the water
inside the sarcophagus. They look at the picture.
A still: the tobacco counter, Paternò.
My mother sells cigarettes to patrons,
turns the key in the lock, closes the door,
tosses the key into a jewel box, takes the velvet dress along with her.
Now the big house in the orange grove speaks.
The sky is blue and the sun shines quietly.
We rewind the tape of time. 1945. Russia.
A sheet of snow. A submachine gun firing in the snowstorm.
The periscope turns, capturing space,
memories speak a foreign language,
they go hunting for souls that turn into shadows.
A white flag comes alive over the sea.

Velazquez Las Meninas

Velazquez Las Meninas

Las Meniñas: here on the left is the Infanta Marguerita in crinoline
with solicitous valets, ladies-in-waiting and the dwarf, the Italian
Nicola Pertusato, who turns and looks at us.
Behind Velazquez an intruder eavesdrops at the door.
The comedy of looks is the drama of errors
(or is it the farce of errors).
The observer’s glance burgles through a keyhole,
depth breaking in, divisibility of the visible.
Living for years against oneself, mixing wisdom and idiocy,
watching from behind thick windowpanes
Denmark’s sad prince coming in with hesitant steps.
“Is this my theatre?” “Yes, it is, Sire, and you’re being asked to act.”
A still from the 1900s.
White statues move up and down on the escalators,
the veranda hosts the cock’s crow, and the sun
sets time and again over the blue sea.
My mother quickly packs her bag, she has to go far away,
she has to reach the open sea, westward, eastward,
Constantinople, Samarkand, beyond the meridian of Greenwich,
what difference does it make.
Kokoshka uses strong colors to paint the Colosseum,
Bach teaches liturgy in a country parish
and Rembrandt on the easel depicts my father seen from behind.
Fragments from a headlong flight.

A frame opens up. Palazzo Medici Riccardi, the Magi Chapel.
On the western wall the Magi on horseback wear striped cloaks.
The painter, Benozzo Gozzoli, paints a goldfinch on a branch of the strawberry tree.
On the left, a window opens inside the frame: Venice.
The Rialto bridge. A crystal lady
wears blue silk crinoline, smiles, turns
in my direction – I, who am born in the future.
She feverishly waves her fan
as she strolls amid the lions in St. Mark’s Square.
City of lace, glass lagoon.
A white majolica mask hides her face.
On her right, a page in light-blue striped livery
carries on his shoulder a monkey who moves his tail and shouts;
a cicisbeo with a powdered wig makes a bow
she stops him with an awkward gesture. She’s so beautiful!
The lady’s white crinoline lifts the darkness,
becomes translucent, light as a ball of feathers.
Another window opens in the second frame –
a yellow butterfly wings up from her cheekbone
vanishing on the other side of her forehead, outside the frame.

roma donna acconciatura 1

The third frame in my mind.
My mother as a little girl. Spreading grove of lemon and orange trees. Sicily.
I search in the second drawer of the dresser:
an inkwell, china ink, sky-blue ricepaper,
a fountain pen with a golden nib, knick-knacks, a photo:
my mother with her partner in the 1950s. Rome.
The painter’s atelier: again Titian is painting sacred and profane love.
My mother, the 18th century Venetian lady
with a face of white majolica, the translucent crinoline,
my father wearing an Italian Army uniform. What does it mean?
Why all this?
Is it a connect or a disconnect?
A seam, or its unseaming?
A leap or a scar? Fourth frame, fifth, sixth frames in my mind.
Rome, a window on the courtyard. 1954.
What century falls in this courtyard?
Piazza Bologna, the tricycle, the little boy runs around the building.
Via Lorenzo il Magnifico, 7.
My cobbler father’s workshop
with the crocodile skin in the shop window.
Mr. Anonymous, in a dark suit, enters the shop.
“You have a beautiful view here,” he says.
“He’s so well dressed,” I think.
“We have a lovely panorama,” I reply.
Turning abruptly, my interlocutor says:
“Are you staying here this evening, sir?”
My mother opens the window wide. “Is it Spring?”
Is she just wondering, or asking the mysterious person?
Meanwhile, Titian starts packing his bags upstairs.
Venice reaches the open sea, grows distant,
wears a white mask, becomes unrecognizable.
I blurt out: “Your Majesty, do you order me to stay here?”
But Anonymous turns to the window open onto the sea.
“This morning Mr. Posterius got hurt –
he pricked his finger touching the stem of a rose,” says Titian.
“Anonymous has gone out on a full moon night,”
(“Going where?” I wonder)
“Thieves have broken into the shop of fragile crystals,
and Benozzo is still painting the goldfinch perching on a strawberry tree.”
“Is that all?”
“That’s all, nothing else.”
A crystal door, the Lady in crinoline turns the door knob.
A scent of vanilla, face powder and talcum powder,
a tetralogy of mirrors on the four walls.
Is the Venetian lady from the 18th century my mother?
The century of enlightenment and tolerance?

A yellow drawing room.
Chancellor Von Müller, the trusty Eckermann and his mistress Charlotte von Stein
at the dying poet’s bedside.
An icy wind blows down from the snow mountains.
From a side door, in front of the mirror, enter a gentleman
with a flourish, powdered and dressed in black.
He moves jerkily, with stiff, frozen movements,
dispensing maxims on etiquette, bon tons, idioms
and cheap prophecies.
“Ladies and gentlemen, the performance is over. Curtain.”

(1992-2013)

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