Rossana Levati: Fattore Tempo e Fattore Spazio nella poesia di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Giorgio Caproni, Zbigniew Herbert, Il frammento e la nuova ontologia estetica, con traduzioni delle poesie in inglese di Adeodato Piazza Nicolai

Onto Gino Rago_2

Preferiva parlare a se stesso. Temeva l’altrui sordità

Due poesie di Gino Rago

Il Vuoto non è il Nulla

Preferiva parlare a se stesso. Temeva l’altrui sordità.
“L’intenzione dello Spirito Santo è come al cielo si vada.
Non come vada il cielo”.
(…)
A Pisa tutti tremarono.
Il poeta vero ama la nascita imperfetta delle cose. Come fu.
In principio… Il vero poeta lo sa.
E’ nei primissimi istanti dell’universo materiale.
Non c’è lo spazio. Non c’è il Tempo.
Non si può vedere nulla. Perché per vedere ci vogliono i fotoni.
Ma in principio i fotoni non ci sono ancora.
Né si può ‘stare’. Perché per stare ci vuole uno Spazio.
Nessuno può ‘attendere’ (o ‘aspettare’).
Perché per poter attendere o aspettare ci vuole un Tempo.
(…)
In principio. Nei primissimi istanti… È solo il Vuoto.
Il Vuoto soltanto che non è il Nulla. È un Vuoto zeppo di cose.
E’ come il numero zero. Lo zero che contiene tutti i numeri.
I negativi e positivi che sommati giungono allo zero.
In Principio… Nei primissimi istanti il Vuoto. E il Silenzio.
Ma il silenzio che contiene tutti i suoni. Il silenzio di Cage.
E l’universo materiale? Viene dalla rottura della perfezione.
(…)
È stata l’imperfezione a produrre questa meraviglia?
Sì. Il Tutto viene dalla imperfezione.
Ma i paradigmi nuovi faticano a lungo prima d’essere accettati.
Finché Luce non si stacchi dalla materia opaca.
Ma se la luce si distacca esistono i fotoni, il moto, l’attrito.
Il tempo e lo spazio. L’uomo che scrive la vita.
La poesia che scoppia dal vuoto che fluttua.

(apparsa su L’Ombra delle Parole del 9. 8. 2017)

Emptiness and Nothing

He preferred talking to himself. He feared the other’s deafness.
“The will of the Holy Spirit is like going to the sky.
It’s not as if the sky comes to you”.
(…)
In Pisa everyone trembled.
The true poet loves the imperfect birth of things. As it were.
The beginning…The true poet knows it.
It is in the very first instant of the material universe.
There is no space. There is no Time.
Nothing can be seen. Because to see, photons are needed.
But in the beginning there were no photons.
Nor can one ‘stay’. Because for staying, the Space is needed.
No one can ‘attend’ (or ‘wait’).
Because to be able to attend or wait, Time is needed.
(…)
In the beginning. In the very first instant…There is only Emptiness.
Only Emptiness which isn’t as Nothing. It is an Emptiness full of things.
It is like the number zero. The zero that contains all numbers.
The negatives and the positives that summed up make zero.
In the Beginning… In the very first istant Emptiness. And Silence.
But a silence containing all sounds. Cage’s silence.
And the material universe? It comes from the fragmenting of perfection.
(…)
Was it imperfection that created this marvel?
Yes. The Whole comes from imperfection.
But the new paradigms struggle at length before being accepted.
Until Light isn’t detatched from opaque matter.
But if the Light detatches itself, photons, motion, attrition exist.
Time and space. The Man who writes life.
Poetry that explodes from fluctuating emptiness.

(appeared on L’Ombra delle Parole on 9 August 2017)

Onto mario Gabriele_1

Cattedrale delle ombre

[…]
Perché non è la notte
Che ti nasconde Dio. Sei tu che lo nascondi
Temendo l’ombra.
Tremando di paura di fronte all’infinito.

Se non pianti le parole come chiodi
Non sei poeta
Perché quelle parole se le prende il vento.

Se dici «morte» la falce si scatena.
Muore la Parola. Non soltanto il fiore.
Senza Parola in fiore tutto il mondo muore.

Ma se non sei poeta e nomini la morte
Muori solo tu.
Non varchi la soglia della cattedrale delle ombre.

Cathedral of the Shadows

[…]
Why is there no night
That hides God. It is you who hides him
Afraid of the shadow.
Trembling with fear in front of infinity.

If you don’t pound in words like nails
No poet are you
Since those words the wind swipes away.

If you say «death» a scythe goes wild.
The Word will die. Not only the flower.
With no Word as the blossoming flower, the whole world expires.

But if you are not poet and are naming death
You only die.
You won’t cross the threshold of the cathedral of shadows.

© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of two poems by Gino Rago: Il Vuoto non è il Nulla and Cattedrale delle ombre. All Rights Reserved.

giorgio caproni

Giorgio Caproni

Commento di Rossana Levati

Tornando a riflettere sulla specificità della poesia di Gino Rago Il vuoto non è il Nulla e su come in essa venga delineato in modo nuovo il fattore Tempo, il fattore Spazio e il cosiddetto “tempo interno”, credo possa essere utile un breve confronto con questo testo di Giorgio Caproni, L’idrometra.

Giorgio Caproni

L’idrometra

Di noi, testimoni del mondo,
tutte andranno perdute
le nostre testimonianze.
Le vere come le false.
La realtà come l’arte.

Il mondo delle sembianze
e della storia, egualmente
porteremo con noi
in fondo all’acqua, incerta
e lucida, il cui velo nero
nessun idrometra più
pattinerà – nessuna
libellula sorvolerà
nel deserto, intero.

La differenza più significativa tra i due testi non è nel fatto che Caproni si ponga come osservatore o descrittore di un futuro apocalittico, posto alla fine del mondo, in cui tutte le forme viventi o quasi scompariranno dalla terra e invece Rago si ponga in un certo senso all’origine del mondo.

Caproni, descrivendo una immaginaria fine del mondo, tanto ricorrente per altro nella sua produzione (Lasciando Loco o Dopo la notizia), traccia una linea del tempo assolutamente piatta, in cui il tempo rimane immobile, o meglio il lettore è proiettato dalla descrizione del poeta alla fine del tempo.
Il poeta è presente in un punto, all’estremità della linea del tempo, in cui si colloca anche il lettore, al suo fianco, e guai a spostarsi di lì! Non si vedrebbe più nulla, privati dell’occhio del poeta che si pone come detentore di una prospettiva di verità assoluta (siamo quindi ben lontani dal “frammento”): solo lui può dire cosa accadrà appunto alla fine dei tempi. Uno spazio identificato con il velo nero dell’acqua e solo con quello: anche in questo caso, uno spazio assolutamente statico e immobile; nessun «tempo interno» lo attraversa, nessuno scarto tra più direzioni del tempo; nessuna memoria del poeta che vada a incrociarsi con l’accaduto o con ciò che potrebbe accadere, con i ricordi o con la prospettiva di un futuro che si potrebbe capovolgere nel passato, come per esempio accade nei versi di Linguaglossa ispirati da

onto Herbert

Z. Herbert: Dove passerai l’eternità?
Non lo so. Forse tra la sabbia delle nebulose.

Zbigniew Herbert:

Dove passerai l’eternità?
Non lo so. Forse tra la sabbia delle nebulose.

(1992-1998)

Giorgio Linguaglossa

Dove passerai l’eternità?
Non lo ricordo.
Forse l’ho trascorsa nella sabbia tra le meduse.
Nella nebulosa di Oort
a 140 miliardi di chilometri dal pianeta Terra.

(2018)

In questi versi futuro e passato si capovolgono; la fine del mondo potrebbe essere anche un nuovo inizio; il luogo può essere contemporaneamente tutti i luoghi, può essere sabbia di un mare pieno di meduse, può essere una nebulosa a miliardi di chilometri dalla Terra; potrebbe essere, come dice Rago, “un silenzio che contiene tutti i suoni” o “uno zero che contiene tutti i numeri”.

La poesia di Giorgio Caproni è semplicemente descrittiva, sia pure di una realtà immaginaria e magari collocata in un prossimo futuro; non suggerisce nulla, né tanto meno problematizza, pur presentando una situazione che di per se’ “è” un problema. Si potrebbe anche dire che in essa è tutto fermo (fermo il poeta, fermo il lettore, fermo il tempo, fermo lo spazio), o, usando un termine forse più denso, che tale poesia è poco “suggestiva” (nel senso che non ha nulla da suggerire) o poco “comunicativa”, nonostante voglia porsi come tale. Può solo essere letta e la funzione che si richiede al lettore finisce lì.
Ben altro è il discorso relativo per esempio alla poesia scientifica di Lucrezio, che apre un ventaglio di problemi alla mente del lettore, o la contemplazione dello spazio stellato della Ginestra di Leopardi (“e quando miro quegli ancor più senz’alcun fin remoti nodi quasi di stelle, ch’a noi paion qual nebbia…”).

Appunto nell’esempio di Linguaglossa riportato, o nella poesia di Rago, Spazio e Tempo non sono immobili né fermi per essere letti in una descrizione che non diventa mai comunicazione efficace, ma diventano un vorticoso e denso sistema dove il lettore, come anche il poeta, può continuamente spostarsi per trovarsi all’origine o alla fine del mondo, in questa o in quella galassia, nella sabbia o nello spazio, andando a rendere nella sua memoria, nel suo interno riflettere e problematizzare, lo spazio come un andirivieni vorticoso di luoghi e il tempo come un multiplo e contemporaneo passaggio di dimensioni.

Certo non c’è nessuna verità, apocalittica o meno da dichiarare, ma la poesia acquista in suggestività, in quanto lascia al lettore una molto più grande facoltà di essere completata da ciò che ogni lettore, con il suo personale “tempo interno”, può apportare ad essa e alla sua comprensione. Se a me per esempio quando la leggo vengono in mente i racconti delle Cosmicomiche di Italo Calvino o le descrizioni dello spazio di Giorgio Manganelli, ad altri potrebbero venire in mente altre letture o diversi modelli di comprensione del mondo: ma se la passività del lettore, nella lettura di Caproni, è totale e tuttavia, finita la lettura, non rimane neanche un brivido – forse appena una impercettibile desolazione – la poesia di Rago, come quella di Linguaglossa, non finisce affatto di sollecitare la riflessione del lettore al primo impatto, ma continua a suggerire direzioni ed indica una strada fertile, perché è proprio dalla rottura della perfezione che nasce la meraviglia, e “dal vuoto che fluttua” la poesia scoppia e potrà prendere mille strade, solo che il poeta scarti appena di lato e ci voglia indicare una galassia, un ruscello, un mare remoto, l’origine del tempo o la sua fine.

Per tornare a un’altra poesia di Rago, nella Cattedrale delle ombre si potrà “tremare di paura di fronte all’infinito” ma anche affrontare quell’infinito come una ricchezza. Ma questo, in fondo, lo potrà decidere anche il lettore, non trascinato nella sua tradizionale passività da un poeta che detti una verità indiscutibile, ma scegliendo e “facendo sua” la direzione che il poeta gli avrà saputo indicare, e accettando liberamente, in un certo senso condividendo e facendo entrare nella sua memoria-esperienza, una delle direzioni che il poeta gli avrà fatto intravedere, come quei “nodi di stelle” leopardiani.

Onto Linguaglossa triste

E gli chiesi notizie intorno all’immortalità

Due poesie di Giorgio Linguaglossa

Il ritorno di Odisseo

(da Il tedio di Dio in corso di stampa)

Sono approdati a riva i naufraghi, gli straccioni.
Un cialtrone di nome Odisseo li comanda.
Sono fuggiaschi, disertori della guerra di Troia.
Omero non lo dice ma lo deduciamo noi
dalla lettura degli eventi.

L’isola sembra disabitata. Sterpaglie, stoppie, erica.
Sbarcano i greci.
Entrano incauti nel Palazzo, insondabilmente agitano le spade.
Vi abita Circe,
sorella di Eete re della Colchide e di Pasifae
moglie di Minosse.
Siede sul suo trono di quarzo.

La maga Circe li ha mutati in porci, leoni,
cani, uccelli dal becco ricurvo.
Tranne uno: Euriloco, il più bello.
Come sappiamo dal racconto di Omero,
il capo dei disertori, Odisseo, l’acuto,
con un raggiro l’ha fatta franca
ed è diventato suo amante…

La faccenda durerà fino al prossimo inganno,
al prossimo tradimento.
Tra i banditi corre voce che mediti
una nuova fuga, l’ennesimo raggiro, un’altra volgare truffa…
Dicono che attenda il giorno fausto
[al momento, le stelle non sono favorevoli
ed il plaustro non soffia ad occidente],
e che presto riprenderà il largo nel mare ondoso
per una nuova avventura.

Per adesso, Odisseo si è sistemato nell’isola di Ogigia
e amoreggia con la ninfa Calipso.
Fonti d’acqua limpida, prati fioriti, viti cariche
di grappoli di uva,
farfalle multicolori, uccelli canori…
Il disertore si riempie il gozzo di fagiani arrosto
e fichi secchi.
Si gode gli ozi di Ogigia.
Che fretta c’è?
Per tornare dalla vecchia Penelope,
c’è tempo.

The Return of Odysseus

(from God’s Tedium — soon to be published)

They have reached the shore the shipwrecked, ragged sailors.
A scoundrel called Odysseus commands them.
They are runaways, diserters from the Trojan War.
Homer does not say it but we deduce it
by reading the events.

The island seems deserted. Bushwoods, weeds, heather.
The Greeks land.
Carless they enter the Palace, with no sense they are waving swords.
Circe lives there,
sister of Eete king of Colchis and Pasiphae
wife of Minos.
He seats on his quartz throne.

The sorceress Circe has turned them into pigs, lions,
dogs, birds with crooked beaks.
Except one: Eurilocus, the most beautiful.
As we know from Homer’s tale,
the leader of the deserters, Odysseus, the shrewd one,
with a trick didn’t get trapped
and became her lover…

The story will last until the next trick,
the next betrayal.
Among the bandits the news is running he’s planning
a new getaway, the umpteenth trick, another vulgar swindle…
They say he’s waiting for the right day
[at the moment the stars are not favorable
and the breeze is not easterly blowing],
and soon he will swing wide towards the stormy sea
for a new adventure.

Odysseus, for now, has found home on the isle of Ogigia
and fools around with Calypsus the nymph.
Pure water springs, fields full of flowers, vines full
of bunches of grapes,
many-colored butterflies, singing birds…
The deserter fills his bellt with roasted fowls
and dried figs.
He enjoys the lazy time in Ogigia.
What hurry is there?
There is time
to return to old Penelope.

Marco Alvino Getulio

(da Il tedio di Dio in corso di stampa)

A Cartagine conversai con i filosofi cirenaici.
Sostenevano costoro che prolungare la vita
è un’empia stortura perché prolunga il dolore infinitamente
e moltiplica il numero dei morti.

Sostengono questi filosofi che occorre tagliare
al più presto il nodo della vita, dicono che non c’è altro modo
per vivere una vita intensa e bella.
Per tale ufficio Atropo è la dea scelta da Zeus
per dare agli uomini l’illusione dell’immortalità.

La loro tesi però non mi convinse. E cercai altrove.
Fu lì che decisi di consultare l’oracolo di Delfi,
ma il responso sibillino non mi piacque
e mi spinsi a sud del Pactolo sulle cui rive
vive il popolo dei garamanti che si nutre
di ecantorchidee e dell’ortica delle radure polverose.

Ancora più a sud c’è la Città degli Immortali
– mi dissero quei barbari –
E così mi inoltrai nel deserto dei gobbi.

Deformi dalla nascita suscitano in noi, uomini civili,
ribrezzo e recrudescenza.

Fu allora che fuggii da quelle lande desolate
e tornai tra le rive dell’Eufrate, tra i popoli che parlano la nostra lingua.

Fu allora che incontrai Dio alle porte di Persepolis.
E gli chiesi notizie intorno all’immortalità.

 

Marco Alvino Getulio

(from God’s Tedium — soon to be published)

In Carthage I conversed with the philosophers from Cirenaica.
They themselves-sustained that prolonging life
is a vile distortion since it prolongs pain without end
and multiplies the number of deaths.

These philosophers sustain it is necessary to cut
the knot of life as soon as possible, saying there is no other way
to live a full and beautiful life.
For that job Atropos is the goddess chosen by Zeus
so as to give men the illusion of immortality.

Their thesis however doesn’t convince me, And I searched elsewhere.
It was then I chose to consult the Oracle at Delphi,
but I didn’t like the sybilline reply
and I pushed on to the south of Patoclus on whose shores
live the Garmanti people who feed themselves
with ecantorchideas and stinkweeds from dusty plains.

Farther south is the City of the Immortals
–those barbarians told me–
And so I went into the desert of hunchbacks.

Deformed since birth they wake up, in us civil men,
repulsion and recrudescence.

It was then I ran away from those desolate lands
and went back to the shores of the Euphrates, among those who speak our own language.

It was then I met God at the doors of Persepolis.
And I asked him news about immortality…

© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem Il ritorno di Odisseo e  Marco Alvino Getulio by Giorgio Linguaglossa. All Rights Reserved.

Onto Mario Gabriele_2Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma con Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.

Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato Mimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e Three Stills in the Frame Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica  il romanzo rivisto 248 giorni Achille e la Tartaruga. Nel 2017 pubblica la monografia critica sul poeta  Alfredo de Palchi Quando la biografia diventa  mito (Progetto Cultura, Roma, 2017) e il libro di saggi Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica) con Progetto Cultura di Roma.  Ha fondato la Rivista telematica  lombradelleparole.wordpress.com  – Il suo sito personale è: http://www.giorgiolinguaglossa.com – e-mail: glinguaglossa@gmail.com

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989),Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). È membro della redazione dell’Ombra delle Parole.   Email:  ragogino@libero.it

Rossana Levati_jpg 2Rossana Levati è nata a Ravenna il 30/03/1963. Dopo gli studi classici, si è laureata in Lettere Moderne all’Università di Torino con una tesi in Letteratura Teatrale Italiana con il prof. Guido Davico Bonino.
Insegna Lettere al Liceo Classico “V. Alfieri” di Asti dal 1990; presso il Liceo astigiano ha contribuito, dal 1997 al 2012, alla organizzazione del Certame Alfieriano (una gara per studenti di tutte le scuole superiori italiane sulla interpretazione delle opere di V. Alfieri) e ha fatto parte della giuria.
Nella sua esperienza didattica ha sviluppato negli ultimi anni un particolare interesse per la persistenza del mito nelle letterature moderne e ha cercato soprattutto di seguire percorsi di raccordo tra le letterature greca e latina e la letteratura italiana ed europea moderna e contemporanea.
Ha realizzato nel corso degli anni diversi ipertesti su personaggi del mito (Antigone, Orfeo ed Euridice) e recentemente alcuni e-book sul personaggio di Elena e sull’Orestea; sta seguendo la produzione un e-book sulle Odissee moderne.

 

 

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23 risposte a “Rossana Levati: Fattore Tempo e Fattore Spazio nella poesia di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Giorgio Caproni, Zbigniew Herbert, Il frammento e la nuova ontologia estetica, con traduzioni delle poesie in inglese di Adeodato Piazza Nicolai

  1. “Per tornare dalla vecchia Penelope, c’è tempo”Forse è qui, che Ulisse tradisce la sua sotterranea debolezza,quell’ansia del ritorno che gli toglie il gusto dell’eterna avventura;che è poi anche il richiamo degli ancestri,che si può fingere di non avvertire,ma è ineludibile.Penelope lo sa, perciò è sempre tranquilla.

  2. Posto qui un mio Appunto sulla poesia Marco Alvino Getulio e un Commento di Donatella Costantina Giancaspero.

    Una poesia dimenticata e un mio breve commento.

    “[…] questa è una poesia dimenticata […] Però c’è un misterioso collegamento che unisce questa poesia a quelle povere «cose» che sostano sul mio comodino da alcuni anni, ma non so più dove esso si trovi. Probabilmente, si è perduto per sempre nei meandri del mio inconscio e lì nuota come uno sciame di pesciolini d’argento…”. (Giorgio Linguaglossa)

    Commento di Donatella Costantina Giancaspero

    […] “occorre tagliare/ al più presto il nodo della vita, dicono che non c’è altro modo/ per vivere una vita intensa e bella”. In questa verità struggente consiste l’illusione dell’immortalità, per gli uomini. Una verità tragica che spinge Marco Alvino Getulio a cercarne altrove la conferma, la veridicità. La cerca in un “altrove” desolato, più desolato e terribile della stessa “verità”, ovvero della tesi dei filosofi cirenaici. E, nel deserto, nella desolazione dell'”altrove”, luogo di “ribrezzo e recrudescenza”, quella tesi trova finalmente la sua “verità”. Marco Alvino Getulio non lo dice, ma ce lo fa intendere fuggendo dalle “lande desolate”, nelle quali s’era inoltrato, più per paura della verità, forse, che animato da reale scetticismo e volontà di ricerca. Ce lo fa intendere scegliendo infine di ritornare “tra le rive dell’Eufrate, tra i popoli che parlano la nostra lingua”. Ma qui, un incontro, quello con “Dio alle porte di Persepolis”, la certezza di questo incontro cruciale, chiude la poesia nell’ambiguità e lascia il lettore a nuovi interrogativi… Che cosa vorrà dire l’incontro con Dio? Chi è Dio? Quale verità potrà aver rivelato al nostro Marco Alvino Getulio? Quale, a noi stessi?

    Colgo l’occasione per ringraziare la prof Rossana Levati, per il suo commento brillante ed acuto che dimostra di essere entrata molto addentro le categorie della «nuova ontologia estetica».

  3. gino rago

    Altre meditazioni di Rossana Levati:

    Lungo l’asse Lucrezio-Leopardi-Calvino- (Manganelli)- ( Herbert)-
    Linguaglossa-Rago: tentativo di ricongiungimento fra scienza e poesia. nel circuito del “contesto comunicativo”.

    “Questa poesia (“Il vuoto non è il nulla”) di Gino Rago, già commentata da G. Linguaglossa quando è apparsa sul blog nel luglio del 2017, si ricollega idealmente al “De rerum natura” di Lucrezio, ma non solo.

    Certo noi abbiamo superato quella “povertà di ragione” di cui parla Lucrezio all’origine di un’umanità che, osservando il cielo “trapunto di stelle brillanti” e immaginando i percorsi “della luna e del sole” si chiede angosciosamente quale forza tenga insieme l’universo, quale sia l’origine del mondo, quale sarà la sua fine e in che modo le “mura del mondo e i suoi taciti movimenti” possano sostenere la fatica.

    Ma se oggi scienza e poesia possono tentare di ricongiungersi, dopo secoli di separazione, proprio perché il vuoto non è il Nulla, la poesia ne può comprendere la densità e la molteplicità, certo in modi diversi dalle scienze “esatte”, e può diventare riflessione sulla cosmogenesi e sulla densità dell’universo: percorso poco accessibile e poco praticato, anche nella prosa del Novecento, in cui pochi sono i tentativi di un’espressione artistica in questa direzione; vedasi per esempio quanto fa Calvino nelle Cosmicomiche, in cui riesce a coniugare la creazione fantastica e “letteraria” con il fondamento scientifico di una esplorazione dello spazio e della nascita dell’universo: la prospettiva del suo racconto è adeguata a un punto di vista inedito, che può essere di volta in volta quello di un atomo o di un qualunque essere primordiale, presentato come coscienza e come voce narrante al tempo stesso.

    Sicuramente la creazione artistica (in prosa e in versi) dovrà assumere una nuova dimensione, che potrà essere quella della discussione, della esplorazione, della riflessione problematica e al contempo della suggestione di un’arte che potrà ugualmente “alludere” alla complessità del mondo, esplorandola in una veste nuova, non più sentimentale né collegata all’inclusione dell’ “io” nel dettato poetico.

    Per me il corrispettivo in prosa della poesia di G. Rago sono proprio i racconti delle Cosmicomiche: “Sul far del giorno”, che descrive, nei ricordi del vecchio Qfwfq, l’uscita dal “buio pesto primordiale” e l’addensamento di una materia prima “uniformemente dispersa nello spazio”, nella quale poi la famiglia di protagonisti (la sorella G’d(w)n o la nonna Bb’b) assiste alla nascita della luce:
    “(…) a un tratto tutto il buio fu buio in contrasto con qualcos’altro che non era buio cioè la luce”; poi il racconto “Un segno nello spazio”, in cui il protagonista Qfwfq cerca di lasciare un segno in un punto dello spazio, “per poterlo ritrovare duecento milioni d’anni dopo, quando saremmo ripassati di lì al prossimo giro”, ma questo gesto semplice e quasi infantile è reso poi impossibile dalla mancanza di arnesi con cui produrlo, dalla mancanza di ogni forma geometrica come linea, retta o curva e dalla mancanza di mani per farlo o di occhi per vederlo, giacché “niente era mai stato visto da niente, nemmeno si poneva la questione”, mentre la Via Lattea continua il suo viaggio e il mondo naviga “al di là di spazi lontanissimi”. Ma intanto i segni si infittiscono nello spazio perché anche altri esseri-atomi di altre galassie hanno avuto la stessa idea, i segni si sovrappongono e diventano irriconoscibili, quindi introvabili nello spazio infinito.

    Oppure il racconto “La forma dello spazio”, con la descrizione di una caduta nel vuoto, caduta che non si può neppure affermare, anzi potrebbe essere un moto ascendente o l’immobilità nello stesso posto, perché mancano punti di riferimento e perfino termini per comprendere la stessa velocità.

    Così, se Lucrezio è certamente l’antecedente della poesia di Rago, a me sembra che anche la lezione di Calvino non gli sia estranea, e ritengo comunque estremamente produttiva, una sfida artistica decisiva, la strada indicata da questa composizione, veramente un “Vuoto zeppo di cose” e un “Silenzio che contiene tutti i suoni”, come se da qui la poesia potesse ripartire in tutte le direzioni e rilanciare la sua sfida-provocazione a un mondo da esplorare e spiegare: in questo caso la poesia descrive un mondo che è pieno di essere (l’essere di tutte le cose), come se esse stessero lì lì per nascere dal Nulla in cui sono condensate ma che certo non è vuoto.
    Credo che questo sia anche il senso creativo dei “poietai”, nell’accezione indicata dalla frase di Severino citata da Linguaglossa, che cioè il poeta ‘porta le cose all’essere dal nulla’.”

    Nella nota che accompagna i testi poetici di Giorgio Linguaglossa e miei, Rossana Levati coglie, nella pienezza autentica, vera del suo significato, il senso del “tempo interno” e introduce due grandi novità, proprie
    della poesia del nuovo corso fondato su nuove basi ontologiche
    ed estetiche, nel rapporto vitale poeta/lettore:

    – il circuito del contesto comunicativo;
    – il ruolo del destinatario/lettore verso il testo poetico, passivo, in una poesia
    come quella de “L’Idrometra” di Caproni, attivo e dinamico nei testi di
    Giorgio Linguaglossa e miei, quando a un certo punto della sua nota
    Rossana Levati dichiara che

    “(…) nell’esempio di Linguaglossa riportato, o nella poesia di Rago, Spazio e Tempo non sono immobili né fermi per essere letti in una descrizione che non diventa mai comunicazione efficace, ma diventano un vorticoso e denso sistema dove il lettore, come anche il poeta, può continuamente spostarsi per trovarsi all’origine o alla fine del mondo, in questa o in quella galassia, nella sabbia o nello spazio, andando a rendere nella sua memoria, nel suo interno riflettere e problematizzare, lo spazio come un andirivieni vorticoso di luoghi e il tempo come un multiplo e contemporaneo passaggio di dimensioni.”

    Gino Rago

    • “Fu allora che fuggii da quelle lande desolate / e tornai tra le rive dell’Eufrate, tra popoli che parlavano la nostra lingua /. Sono versi di grande fascinazione, che si innestano in un tessuto aedico di fronte a prove di dialogo che il poeta tenta di instaurare con i suoi interlocutori, con le loro suggestioni e fantasie, fino a immettere nella scena l’Attore Principale cioè DIO, chiedendogli notizie intorno alla Immortalità. Non ci dice altro il poeta. Qui si apre un Capitolo dai risvolti inquietanti e solitari. Il poeta indaga, bussa alle porte della civiltà antica, fingendosi tuareg nel deserto, visitando la Città degli Immortali, senza ricavare suggerimenti e umili certezze, ottenendo da Dio, incontrato alle porte di Persepolis, un silenzio incomunicante. E’ la fine della Commedia tessuta in maniera originale che lascia l’uomo in un viaggio heideggeriano verso un tragico destino di morte.Qui si ripropone di nuovo il nichilismo come la scelta più significativa di una diottria che porta a vedere il mondo nella sua fisicità. Questo di Linguaglossa, è il punto più avanzato di un intellettuale occidentale, che con la sua poesia si allontana dal pensiero di Platone. La speranza di una eterna finalità e Immortalità finisce con l’essere mero gioco di fantasia o come dice Vattimo il risultato di una ontologia debole o meglio ancora dell’ontologia dell’indebolimento dell’Essere come superamento della Metafisica.L’assenza di Dio nell’uomo è la prefigurazione stessa del nichilismo e della nascita della critica esistenzial-empirista dell’ermeneutica.

  4. Inizia con un verbo al passato, la poesia “Il Vuoto non è il Nulla” di Gino Rago. Ma subito cambia verbo, al presente. “In principio… Il vero poeta lo sa”. Perché il vero poeta lo sa? Perché egli vive il continuo principio, il farsi delle cose. “E’ nei primissimi istanti dell’universo materiale”. E’ adesso! non allora, come si prospetta nell’immaginazione antropomorfica (tutto nasce e muore), immaginazione che a quanto pare affascina ancora buona parte della scienza. Ma Gino Rago è un sapiente narratore, sa come intrattenere il lettore, come stendere lo svolgimento. “E l’universo materiale? Viene dalla rottura della perfezione”, Gino Rago ci ha in pugno: gioca sulle ambivalenze, sulla doppia, passatoe presente; ma se è presente questo verso sta a indicare una cosa molto semplice: che si torna con l’attenzione, da dove eravamo alle cose. Il poeta sta solo parlando del suo poetare, mentre gli accade. Ma la visione è davvero straordinaria!

    Ora una nota sulla poesia di Giorgio Linguaglossa:

    Fu allora che fuggii da quelle lande desolate
    e tornai tra le rive dell’Eufrate, tra i popoli che parlano la nostra lingua.

    Fu allora che incontrai Dio alle porte di Persepolis.
    E gli chiesi notizie intorno all’immortalità.

    Il lettore si domanderà come sia possibile che si possa incontrare Dio. Be’, per Giorgio Linguaglossa la risposta è semplice: Dio abita dove ci sono persone, abita l’umanità. E’ un dato di fatto; perfetta, innocente visione di un nichilista. Ma non solo, e qui viene da sorridere: “gli chiesi notizie intorno all’immortalità”.
    Si tratta di una poesia ironica e provocatoria, che non può concludersi perché: che gliene importa a un nichilista dell’immortalità? Tanto più se consapevole di essere, in quanto “essere” equivale – semplifichiamo – a dire non ” il fiore” ma ” il fiorire”. Quindi “sono” è essere, che è verbo all’infinito.

    • Era ora che la poesia italiana cominciasse a parlare di saggezza, non solo di questioni di ridotto esistenzialismo.

    • gino rago

      Lucio Mayoor Tosi trova la chiave di lettura pertinente e dotta dei miei versi del testo “Il Vuoto non è il Nulla” e ne propone un interpretazione ‘suggestiva’ nel senso caro a Rossana Levati, vale a dire ‘suggestiva’ poiché Lucio Mayoor Tosi
      ‘suggerisce’
      nel corso del suo limpido commento motivi,antefatti, suggestioni, riflessioni e quant’altro si annida e vibra nei miei versi.

      Come minimo devo ringraziarlo, soprattutto quando coglie e disvela l’idea centrale della mia ricerca di poesia che in buona sintesi è:
      “il poeta è sempre all’alba del mondo”.
      Dunque ogni volta rinnova il compito di Adamo.
      Bravo Lucio e grazie.

      Gino Rago

  5. Caro Lucio, il tuo apprezzamento è ,per me, motivo di orgoglio e di sicurezza;”sicurezza”,perchè non si sa mai come e dove stiamo camminando, se abbiamo persa la strada, o se vale la pena di andare oltre,su sentieri che non conosciamo.Cercare il nuovo nella metamorfosi dell’antico?E’ una strada possibile; in fondo, tutto è stato già detto; bisogna cercare di procedere lasciando accesa la lampada che illumina il cammino già fatto,fare tesoro del confronto con chi ci ha preceduto,o che cammina accanto a noi, tutti verso Santiago de Compostela.

  6. Quella Domanda, bagatella da due sesterzi.
    Due poesie di Gino Rago e di Giorgio Linguaglossa
    .

    Gino Rago

    Cattedrale delle ombre

    […]
    Perché non è la notte
    Che ti nasconde Dio. Sei tu che lo nascondi
    Temendo l’ombra.
    Tremando di paura di fronte all’infinito.

    Se non pianti le parole come chiodi
    Non sei poeta
    Perché quelle parole se le prende il vento.

    Se dici «morte» la falce si scatena.
    Muore la Parola. Non soltanto il fiore.
    Senza Parola in fiore tutto il mondo muore.

    Ma se non sei poeta e nomini la morte
    Muori solo tu.
    Non varchi la soglia della cattedrale delle ombre.

    Giorgio Linguaglossa

    Marco Alvino Getulio

    (da Il tedio di Dio in corso di stampa)

    A Cartagine conversai con i filosofi cirenaici.
    Sostenevano costoro che prolungare la vita
    è un’empia stortura perché prolunga il dolore infinitamente
    e moltiplica il numero dei morti.

    Sostengono questi filosofi che occorre tagliare
    al più presto il nodo della vita, dicono che non c’è altro modo
    per vivere una vita intensa e bella.
    Per tale ufficio Atropo è la dea scelta da Zeus
    per dare agli uomini l’illusione dell’immortalità.

    La loro tesi però non mi convinse. E cercai altrove.
    Fu lì che decisi di consultare l’oracolo di Delfi,
    ma il responso sibillino non mi piacque
    e mi spinsi a sud del Pactolo sulle cui rive
    vive il popolo dei garamanti che si nutre
    di ecantorchidee e dell’ortica delle radure polverose.

    Ancora più a sud c’è la Città degli Immortali
    – mi dissero quei barbari –
    E così mi inoltrai nel deserto dei gobbi.

    Deformi dalla nascita suscitano in noi, uomini civili,
    ribrezzo e recrudescenza.

    Fu allora che fuggii da quelle lande desolate
    e tornai tra le rive dell’Eufrate, tra i popoli che parlano la nostra lingua.

    Fu allora che incontrai Dio alle porte di Persepolis.
    E gli chiesi notizie intorno all’immortalità.

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/18/rossana-levati-fattore-tempo-e-fattore-spazio-nella-poesia-di-gino-rago-giorgio-linguaglossa-giorgio-caproni-zbigniew-herbert-il-frammento-e-la-nuova-ontologia-estetica-con-traduzioni-delle-poes/comment-page-1/#comment-30208
    Scrive Gino Rago:

    Perché non è la notte
    Che ti nasconde Dio. Sei tu che lo nascondi
    Temendo l’ombra.
    Tremando di paura di fronte all’infinito.

    Dunque, è l’uomo che «nasconde Dio», perché teme «l’ombra», «Tremando di paura di fronte all’infinito». Infatti «la notte», sembra essere «Dio» stesso. In questa poesia di Rago la notte prende il posto della luce, ribalta così il poeta la base di ogni pensiero teologico e teogonico: non la luce ma la notte è l’abitazione di Dio, anzi, Dio stesso è la notte. E non la «parola». Non è il «Verbo» ciò da cui e per cui prende via il «Fiat lux». No, perché è la notte il luogo e l’abito nel quale Dio si «nasconde». O, forse, lascia intuire Gino Rago, è lo stesso Dio che coincide con la «notte»?

    È singolare e paradossale questa coincidenza tra la poesia di Gino Rago e la mia titolata Marco Alvino Getulio. Sono entrambe poesie del nichilismo dispiegato, ma un nichilismo dove l’uomo si veste di potenza: non ricerca più Dio ma vuole conoscere perché Dio si nasconda nella «notte», perché quindi inganni gli uomini con la luce. È la notte la verità di Dio, essendo la luce ciò che ne permette il nascondimento. Il protagonista di Cattedrale delle ombre di Gino Rago coincide allora con il mio Marco Alvino Getulio, costui si impegna non nella ricerca di Dio ma nella scoperta dell’immortalità; brama la morte perché sa che in quel luogo si nasconde la verità dell’immortalità. Per questo ascolta i filosofi cirenaici che propugnavano la morte precoce (si badi: non la bella morte, ma la morte e basta).

    Dunque, entrambe le poesie sono impegnate in un discorso oserei dire grandioso: indagare per scoprire che cos’è la morte e che cos’è Dio, perché la morte è la dissoluzione di Dio, la sua nientificazione. Marco Alvino Getulio è attraversato da questo pensiero orribile, così come anche il protagonista della poesia di Gino Rago, Che Dio sia una Finzione o Illusione dietro la quale si cela un’altra Presenza ancora più inquietante, una presenza che ha imposto a Dio la morte per contenerlo e condizionarlo…

    Per Gino Rago soltanto il poeta può «varcare la soglia della cattedrale delle ombre», a lui solo è dato questo privilegio. Per gli altri uomini c’è soltanto la morte bieca. Il poeta può scavalcare la morte, può oltrepassarla e vincere il nichilismo…

    Marco Alvino Getulio invece incontra Dio quasi per caso «alle porte di Persepolis» (a parte la manifesta surrealtà di un tale incontro) ma non gli chiede nient’altro che semplici «notizie intorno all’immortalità», notiziole, come se si trattasse di bagatelle da due sesterzi.

    È chiaro che qui siamo impegnati in due poesie che pongono una domanda alla massima altezza possibile. È una domanda terribile perché non ce n’è un’altra più alta e impegnativa…

    Ecco cosa significa fare poesia nel Dopo il Moderno, dopo cinque decenni di poesia istrionica e ironica, di minimalismo indecente, cinque decenni di morte della poesia, adesso due poeti osano porre la Domanda fondamentale, quella per cui ne vale della vita e della morte.

    Parmenide ammonisce:

    «Per la parola e il pensiero bisogna che l’essere sia: solo esso infatti è possibile che sia, e il nulla non è: su questo ti esorto a riflettere». (DK 6)

    In queste due poesie sembra risuonare l’eco del terribile apoftegma parmenideo: è l’essere che viene prima del Verbo, esso solo ne è il presupposto…

    «Nessun’altra esperienza dell’essere si dà mai all’uomo – stante che lo stesso essere in quanto essere si dà al pensiero sempre come “così e così determinato”».1] E quale altra esperienza dell’essere è più determinata della morte? Essendo la morte la esperienza massima che negativizza ogni positivo significare dell’essere e degli enti. Dio stesso infatti dà la morte perché egli stesso è sottoposto alla morte. È questo il terribile apoftegma non detto che sta appena al di sotto del positivo significare delle due poesie prese in esame.

    Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Milano, Mimesis, 2010 p. 32

  7. Durante il Samadhi, il meditatore sperimenta l’unione con il divino. Questo è per me anche lo stato dell’essere che non è persona. Ho detto sperimenta, non ipotizza. Per Dio o per il divino, tutto è morte perché non c’è chi sperimenta e non c’è cosa. Tutto non è perché tutto è Dio. E Dio è in quanto essere (verbo) non perché abbia identità. Essere è accadimento. Che a ben vedere è quanto sostiene anche la scienza, laddove s’inoltra nella materia, pieno e vuoto. Lì scopre il farsi delle cose. Il farsi è indifferente anche al tempo. Se è indifferente al tempo, non può avere avuto inizio. Samadhi è l’esperienza possibile e umana di questa comprensione. Quando si stabilizza, allora tutto cambia; nel senso che non cambia nulla. Il poeta può giungere a questa esperienza anche senza esserne consapevole ( mica tutti siamo votati al misticismo). Ma se non sai, se non sei mistico, rientrerai in fretta o nel migliore dei casi saprai del nulla. Posso dire che è molto divertente fare l’una e l’altra cosa, ma scrive richiede adesione al pensiero…

  8. gino rago

    “Per Gino Rago soltanto il poeta può «varcare la soglia della cattedrale delle ombre», a lui solo è dato questo privilegio. Per gli altri uomini c’è soltanto la morte bieca. Il poeta può scavalcare la morte, può oltrepassarla e vincere il nichilismo…”: in poche righe, con le parole ‘giuste’, Giorgio Linguaglossa
    entra nella carne viva dei miei versi come meglio non potrebbe farsi.
    Ecco a quali risultati conduce l’interpretazione d’un testo poetico quando
    l’esercizio interpretativo si avvale del codice, del contesto e del contatto
    con il poeta e con i suoi versi, come del resto in tutte le sue prove a noi giunte attraverso L’Ombra delle Parole ha saputo fare anche Rossana Levati,
    G.R.

  9. gino rago

    Da Mariella Colonna , che ringrazio , a me (e-mail) alcune riflessioni su
    “Cattedrale delle ombre”

    “La tua ‘Cattedrale delle ombre’ introduce un elemento del tempo come memoria storica nel linguaggio sempre più profondo e penetrante che connota il tuo percorso poetico: la “Cattedrale” delle ombre racchiude in sé, evocandoli con grande evidenza scultorea, e luce interiore, il Tempo e la Bellezza, nella misura in cui l’uno si fa intimo con l’altra e la con-divide nella forza rivoluzionaria del loro incontro: il Tempo come mistero della Storia, la Bellezza come luce dell’ Essere in ogni immagine rivelata nel Tempo.

    “Non è la notte che ti nasconde Dio”: un’affermazione che finalmente fa chiarezza sul tema misterioso del Deus absconditus, presente anche in un versetto della Bibbia: “vere tu es Deus Abscinditus, Deus Israel slvator (Isaia, 45 – 15).
    Dice Gino Rago: sei tu che nascondi Dio perché ne hai paura, hai timore dell’ombra che Lo racchiude nel suo mistero, hai timore di un confronto con l’infinito, Ma al vero Poeta non si addice la paura, devi avere il coraggio di compiere il tuo percorso fino in fondo, affrontando il buio, perché sei Poeta e puoi “vedere senza vedere”, anzi senza vedere vedrai tutto il mondo immaginario che il tuo Fantasma emerso dall’inconscio riuscirà a suggerirti.

    E qui Gino Rago affronta la svolta espressiva, dalla riflessione metafisica aggredisce la materia e il suo linguaggio scabro quasi con violenza: “se non pianti le parole come chiodi”…”quelle parole se le prende il vento”. Se evochi la morte con il tuo timore Ella si scatena. Muore la parola, non soltanto il fiore e , senza parola muore il Mondo.
    Qui Rago conferisce al vero Poeta un ruolo così alto da far dipendere dalla sua Parola…addirittura la vita o la morte del pianeta e io condivido questa sua visione ardita, generosa della vera Poesia. Il poeta “falso”, invece, è condannato a morire solo, senza aver varcato la soglia della meditazione metafisica e, soprattutto, la contemplazione dell’Infinito.
    Caro Gino, qui ci avviamo al recupero di una “visione del mondo” non minimalista e semi-esistente, ma coraggiosa e completa di Storia e di passato che apre ad un futuro forse adesso difficilmente immaginabile. Sono con la tua visione ad occhi chiusi per protendere al massimo le ali dell’immaginazione!

    Grazie ancora a te e a Giorgio che ha riaperto il discorso sulla comunicazione desaussuriana, fino ad ogi un dimenticata e trascurata, ampliandola a dismisura.”

    Mariella Colonna

    I

  10. Credo che per comprendere la portata rivoluzionaria delle poesie contenute nel celebre libro che va sotto il titolo 17 poesie (1954), dobbiamo innanzitutto comprendere questa novità sostanziale: con queste poesie Tranströmer volta pagina, non fa più una poesia di paesaggio, o di paesaggio interiore, proprio lui psicoanalista, de-psicologizza il discorso poetico, la forma-poesia, deideologizza la forma-poesia, la rende inidonea ad ospitare qualsiasi discorso ideologico e, su queste basi, propone una nuova fondazione della poesia europea.
    Forse, in Italia, è stata la nuova ontologia estetica che, per prima, ha compreso appieno la portata rivoluzionaria della raccolta trastromeriana.

    Tomas Transtromer Tre poesie

    In Italia l’opera di Tranströmer è stata pubblicata da Crocetti, che nel 1996 ha dato alle stampe alcune poesie nella Antologia della poesia svedese contemporanea e, nel 2008, il volume Poesia dal silenzio. Il medesimo editore ha annunciato l’uscita, a giorni, de Il grande mistero l’ultima opera del poeta svedese, una raccolta di 45 haiku per 45 punti di vista di un oggetto semplice-complesso. Alcune poesie del poeta svedese erano apparse nell’Almanacco dello Specchio del 2007.

    (Giorgio Linguaglossa)

    da 17 Poesie (1954)

    Sotto il quieto punto volteggiante della poiana
    avanza rotolando il mare fragoroso nella luce,
    mastica ciecamente il suo morso di alga e soffia
    schiuma sulla riva.
    La terra è celata dalle tenebre frugate dai pipistrelli.
    La poiana si ferma e diventa una stella.
    Il mare avanza rotolando fragoroso e soffia
    schiuma sulla riva.

    *

    L’albero della luna è marcito e si sgualcisce la vela.
    Il gabbiano volteggia ebbro lontano sulle acque.
    È carbonizzato il greve quadrato del ponte. La sterpaglia
    soccombe all’oscurità.
    Fuori sulla scala. L’alba batte e ribatte sui
    cancelli granitici del mare e il sole crepita
    vicino al mondo. Semiasfissiate divinità estive
    brancolano nei vapori marini.

    Storia fantastica

    Ci sono giorni d’inverno senza neve quando il mare s’imparenta
    con i tratti montuosi, accucciandosi in grigie vesti di piume,
    un breve attimo blu, lunghe ore con onde che invano
    come pallide linci cercano un appiglio sulla riva ghiaiosa.
    In giorni come questo esce il relitto dal mare in cerca dei
    suoi armatori, seduti al chiasso delle città, e gli equipaggi
    annegati soffiano verso terra, più sottili del fumo di pipa.
    (Nel nord vagano le vere linci, con artigli affilati
    e occhi sognanti. Nel nord dove il giorno
    vive in una caverna giorno e notte.
    Dove il solo sopravvissuto può sedere
    alla fornace dell’aurora boreale e ascoltare
    la musica dei morti assiderati.)

  11. Una poesia di Steven Grieco Rathgeb

    Poesia davvero misteriosa questa. Il regista rimprovera gli attori durante una sequenza rivolgendo loro un’accusa gravissima: “Fermi!… Non siete più voi stessi! Tutto da rifare!”.
    Ma gli attori non capiscono perché tutto sembra continuare come prima, nulla sembra cambiato… non capiscono dove hanno sbagliato recitazione, dove sta l’errore…
    Posto questa poesia come esemplificazione di poesia de-psicologizzata, che si muove nell’epoca della de-fondamentalizzazione del soggetto… e della forma-poesia…

    IL BUON AUGURIO ovvero
    “Die Entzauberung der Welt”

    La vita era reale, splendida; e profondamente nascosti
    in noi gli alberi, i primi iris mirabili nella luce nera,
    e questo paesaggio diurno senza sogni, senza nascondigli.

    “Fermi!» esclamò d’un tratto il Regista:
    «avete studiato le vostre parti troppo a fondo!
    Non siete più voi stessi! Tutto da rifare!»

    Ci fermammo di colpo, profondamente scossi.
    Poiché nelle sue parole, in effetti, nulla si era fermato:
    e più chiari che mai il palco su cui stavamo, le spente scenografie
    come fantasmi, il cerone che ci imbrattava il viso.

    Non c’era dubbio: era stato commesso un furto ignobile.
    E noi, ignari.

    Poi ancora un urlo dietro le quinte, «Il mondo non va più da sé!
    Fate qualcosa!» e tonfi sull’assito, le grida di stupore
    quasi visibili nell’aria
    che veniva lacerandosi di traverso.

    «Mmmm…» mormorò rapito il Regista,
    sprofondato nella sua poltrona, gli occhi rivolti in su,
    quasi gioisse di noi, o di queste fronde d’albero che ora stormivano
    solo immaginandosi;
    quasi ce l’avesse fatta, avesse infine preso il largo
    un re dalla mantella azzurra in una barca sull’oceano,
    in viaggio verso la salvezza.

    Altro non potei fare che cercare in me
    il tuo viso nella sua estrema, sfaccettata durezza,
    da cui tuttavia sorgevano molteplici profondità,
    sul semplice amalgama di sabbia
    la luce respinta si approfondiva in un lungo
    corridoio, e da laggiù avanzavi,
    seppure di sbieco superavi uno dopo l’altro i rovelli,
    lo sguardo non più derubato avanzava fermo
    oltre i molti presenti in ogni dove, la folla di nichilisti che spingeva,
    tormentandosi nel buio.

    Di nuovo guardai lo specchio. Era una finestra. E il paesaggio
    un inaspettato presagio.
    I campi di grano, morbida onda, prossimi ormai alla mietitura,
    il fiume verde-bruno che muove tra le sponde
    rallegrandosi dei suoi riflessi azzurri:
    e molto più avanti, dove i salici d’argento disperdono nivei fiori
    solo per celare, come all’inizio di un verso,
    qualche usignuolo.

    “Non vedete,” gridò ancora la voce fuori campo,
    “come tutti ve la danno a bere?”

    In effetti, il buio era più fitto che mai.
    Ma proprio là dentro, nel cuore dello sguardo – volto del paesaggio
    – in questo conoscersi e non riconoscersi
    sorgeva un tasso d’intensità sconosciuto, come se irradiassimo luce
    inaudita.

    Come se fossimo sempre stati
    nient’altro che noi stessi.

    Aveva ragione da vendere, il Regista.

    La partita l’avevamo stravinta.

    1987-2012

  12. La parte finale di questa splendida poesia di Steven Grieco mi rimanda un film,”La grande bellezza”:anche lì,la luce della verità è insostenibile; perciò il protagonista vi rinuncia,accontentandosi di innocenti originalità: l’orso/giocattolo gigante, la grande giraffa ,la bellissima donna che muore .Perchè nessun pozzo è profondo,e inesplorabile come quello che sta in noi stessi;non c’è Freud che tenga.

  13. Giuseppe Talia

    L’idrometra è un insetto acquatico che vive lungo sponde di fiumi, torrenti e stagni. E’ un insetto che non ama o meglio non è adatto geneticamente a sopravvivere nelle profondità dei corsi d’acqua che abita, preferendo svernare sul pelo dell’acqua, senza mai avventurarsi negli abissi o in balia di correnti dei luoghi di spettanza. La poesia di Giorgio Caproni, L’idrometra, rispecchia la caratteristica propria dell’insetto assunto a metafora di superficie (la vita) di contro la profondità dell’acqua (la morte). Il credito poetico che Caproni prende a prestito deriva essenzialmente da Eliot, ma quel “di noi” con cui inizia la poesia e “con noi” con cui si continua, integrano sia tempo esterno (TE) che tempo interno (TI), dove per tempo esterno intendiamo, almeno nella locuzione tradotta da Steven Grieco e da Giorgio Linguaglossa, la Storia che “prende forma solo se la si guarda” (Roland Barthes), mentre con tempo interno si intende l’esperienza o la dis-locazione del soggetto, per dirla con Linguaglossa. Cosi, a noi pare, la poesia di Caproni l’idrometra contiene in nuce entrambi i tempi come testimonianza “del mondo e della storia” (TE), principalmente, e “nostre testimonianze” (TI), a cui si aggiungono, in una veste essenziale i due aggettivi “incerta e lucida” che creano un cortocircuito, una sorta di ossimoro o metalogismo.

    La giusta prosecuzione della lirica di Caproni parrebbe essere quella di Herbert, così come ripresa ed estesa da Linguaglossa , dove TE e TI si collocano in successione nei cinque versi di Linguaglossa con un assist molto più consono alla realtà esperienziale del TI:
    Dove passerai l’eternità?
    Non lo so. Forse tra la sabbia delle nebulose.
    (Herbert)

    Forse l’ho trascorsa nella sabbia tra le meduse.
    (Linguaglossa)

  14. Caro Giuseppe Talia,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/18/rossana-levati-fattore-tempo-e-fattore-spazio-nella-poesia-di-gino-rago-giorgio-linguaglossa-giorgio-caproni-zbigniew-herbert-il-frammento-e-la-nuova-ontologia-estetica-con-traduzioni-delle-poes/comment-page-1/#comment-30238
    che una mia poesia venga accostata ad una di Caproni mi onora, detto questo non mi importa tanto che una mia poesia sia migliore di una di Caproni o di altri grandi poeti del novecento (e credo che anche Gino Rago la pensi così), ma che un interprete di raffinata sensibilità come Rossana Levati abbia messo il punto sulle ernormi differenze di costruzione tra una poesia della «vecchia ontologia» pentagrammatica del novecento italiano e una poesia di Gino Rago e mia, una poesia della «nuova ontologia estetica», questo sì, mi interessa molto.

    Rossana Levati ha compreso perfettamente che una nuova impostazione «ontologica» in poesia implica sempre una «nuova e diversa» utilizzazione dei vari Fattori che compongono il «nuovo» pentagramma: il Fattore TI. (tempo interno), il Fattore S. (fattore spazio), il Fattore TE (tempo esterno); a sua volta lo Spazio nella nuova ontologia si divide in Spazio interno e Spazio esterno e le parole non vengono più selezionate per il loro valore fono-tonale e fono simbolico come avveniva nel novecento ma in base ad un concetto che inquadra la parola nello (dentro) lo spazio interno e dentro il tempo interno. E non solo la «parola» ma anche il «metro» ubbidirà ai Fattori dianzi citati, il metro sarà considerato non più per i suoi valori «elastici» fono e tono simbolici e semantici, ma per i suoi Valori Fattori che introducono il Tempo e lo Spazio all’interno del «metro».

    Quanto dico è ben visibile nella poesia della «nuova ontologia estetica», è sufficiente dare una occhiata a come vengono utilizzati i vari Fattori nella poesia, ad esempio, di Lucio Mayoor Tosi, di Donatella Costantina Giancaspero, di Mario Gabriele o di Steven Grieco Rathgeb.

    Questo non vuol dire che una poesia scritta secondo questi nuovi criteri sarà più bella di una scritta secondo la «vecchia ontologia estetica», questo vuol dire soltanto che in europa è nata da tempo un nuovo modo di concepire i Fattori T. e S. nella poesia europea, e a questo io ci metto anche una data di inizio: il 1954, data di pubblicazione del libro di Tomas Tranströmer, 17 poesie, tradotto da noi con circa 40 anni di ritardo.

    Da questo diverso modo di concepire il tempo interno, lo spazio interno ed esterno e il «metro», è nata in Europa un diverso modo di fare e pensare la poesia. Per esempio, l’uso della punteggiatura nella poesia di Emily Dickinson è sintomatico di una nuova sensibilità nei confronti della frase fono e tono simbolica. Il punto segna una «fine», da cui dovrà, nella frase successiva, seguire una «ripresa», un nuovo «inizio». Sono questi i sintomi di un nuovo modo di concepire la poesia, di una nuova sensibilità…

    Credo che anche nella tua esperienza poetica, da quando hai fatto esplodere i fotoni-parole della tua poesia, tanti anni fa, c’era in nuce il progetto di costruire una «nuova poesia». Anche nella tua poesia si verifica un affollamento, un infittimento di attanti con il che il «metro» che ne consegue risulta costipato, stretto, infiammabile, revulsivo… credo che questo sia il tuo modo di intendere il fenomeno che dicevamo, il fenomeno di una «nuova ontologia estetica» che incombe… Chi non se ne è accorto continua a scrivere come sempre… come se Tranströmer non ci fosse mai stato…

    Anzi, pregherei Costantina Giancaspero di ri-postare il suo commento dove parlavi del parallelismo tra il punto nella poesia e la pausa musicale in musica, perché l’ho trovato molto istruttivo…

    Scrive Carlo Sini a proposito del «raffreddamento» delle parole:

    «Un riferimento al sanscrito primitivo consente a Fenollosa di affermare che il patrimonio linguistico europeo crebbe inizialmente sfruttando le innumerevoli omologie e analogie naturali, cioè costruendo le grandi metafore che sono alla base di ogni linguaggio. Anche in Occidente il linguaggio orale si sviluppò seguendo il filo della metafora e crescendo, di metafora in metafora, sino a costituire una sorta di grande stratificazione geologica di significati. Ma la nostra scrittura non ha conservato memoria di tale processo. Essa si è formalizzata e “raffreddata” nella logica imbalsamata dei dizionari. Da noi solo i poeti, dice Fenollosa, vi reagiscono per quanto possono. «Questa anemia del linguaggio moderno è incoraggiata dalla scarsa forza coesiva dei nostri simboli fonetici».

    A questo punto, pensare per immagini e pensare per frammenti di immagine, cioè pensare per frammenti significa pensare un correlativo oggettivo e soggettivo e non tradurre semplicemente le immagini in parole, qui non si tratta di tradurre le immagini in una struttura frastica di tipo tradizionale e convenzionale, ma pensare in un sistema frastico che sia esso stesso una immagine o più immagini correlate e irrelate. Pensare è immaginare.

    • donatellacostantina

      Rispondendo all’invito di Giorgio Linguaglossa, ripropongo qui quanto avevo scritto a proposito del punto e della punteggiatura in poesia.

      Molto spesso, nelle nostre poesie, il punto non cade soltanto dov’è necessario che esso sia, ovvero alla fine della frase, ma compare anche al suo interno, dove potremmo aspettarci, magari, una semplice virgola, e questo come a voler prolungare quel respiro: si tratta di una “pausa”, direi pensando in termini musicali; una pausa un po’ più lunga, rispetto alla virgola. In questo uso della punteggiatura consiste il “fraseggio” interno al poeta; “fraseggio”, inteso anche qui, in senso musicale, ossia come la particolare maniera di dare espressività all’esecuzione di un brano, strumentale o vocale, avvalendosi di tutti quei segni utili a porre in evidenza le varie strutture della composizione. In un tempo binario semplice, ad esempio un 4/4 (“quattro quarti”), il punto potrebbe corrispondere a una pausa di minima, che, per chi non la conoscesse, è una nota bianca con la gamba.

      Mi sono sentita di fare il parallelo tra la punteggiatura e le pause musicali, perché a questo penso io, quando scrivo i miei componimenti. Perciò, nel leggere la poesia di un altro, interpreto la punteggiatura allo stesso modo. Anche gli “a capo” li intendo così, come inerenti al fraseggio musicale; un doppio “a capo”, ad esempio, potrebbe corrispondere a una “battuta vuota”. Insomma, questo è il significato, per me, della punteggiatura in poesia e della durata del verso.
      In questo senso, talvolta, le composizioni poetiche sembrano siano state pensate dall’autore allo stesso modo di brani musicali scritti per un organico strumentale più o meno vario e complesso.

  15. Rossana Levati

    La mia esperienza di lettrice de l’Ombra è piuttosto recente, risale a meno di un anno fa. Iniziata dapprima saltuariamente, col tempo è diventata sistematica.
    Vorrei sottolineare che di primo impatto sono rimasta disorientata dalla presentazione dei lineamenti della NOE, che non credo di aver neppure compreso subito. Ho continuato tuttavia a leggere pazientemente la Rivista e sono debitrice della costanza con cui Giorgio Linguaglossa e Gino Rago hanno spiegato, nei loro post sulla rivista, la vecchia ontologia estetica e la nuova, le caratteristiche della nuova poesia, i suoi fondamenti epistemologici, gli elementi stilistici e tecnici, gli aspetti più individuali dei vari autori via via presentati che, con caratteri personali, aderiscono in forme diverse all’esigenza di rinnovamento nella stagnazione della poesia italiana. Grazie ai numerosi e ricchi interventi, a volte polemici ma sempre appassionati, ho potuto gradualmente comprendere ciò che all’inizio mi era sembrato veramente “un altro linguaggio”.
    Ha perfettamente ragione Giorgio Linguaglossa quando dice che la critica deve cambiare le categorie estetiche adeguate alla interpretazione della vecchia poesia che non corrisponde più ai canoni della Noe e che queste vecchie categorie sono oggi inefficaci. Io mi sono accorta che non avevo strumenti critici abbastanza adeguati alla comprensione e alla classificazione di quello che andavo leggendo sulla rivista e che non avrei capito nulla se avessi continuato a ragionare nei vecchi termini: così ho provato ad appropriarmi delle indicazioni usate da Giorgio Linguaglossa per accostarmi alla lettura di questi testi in modo nuovo.
    Credo di dover ragionare invece ancora un po’ sugli aspetti metrici e ritmici, sul nuovo ritmo frantumato, accelerato e discontinuo che è tipico di questa poesia: al di là della nuova posizione della punteggiatura, della riduzione di aggettivi esornativi ecc., è proprio globalmente un ritmo nuovo che affiora in questi testi (un metro non più basato sui valori fonici ma che incorpora il Tempo e lo Spazio) sul quale io credo di dover riflettere ulteriormente perché non ho trovato finora le parole esatte per descriverlo. E’ un po’ come abituare l’orecchio a una musica nuova, ci vuole il tempo necessario per farla scendere dentro di se’, nella propria percezione acustica, e per ascoltarla in modo giusto.
    Ringrazio, per le parole di apprezzamento al mio piccolo contributo, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero e Gino Rago: le accolgo con gratitudine, anche come un invito a procedere nella lettura della Rivista e a focalizzare sempre meglio la mia comprensione…

  16. Giuseppe Talia

    Gentile professoressa Levati, a scanso di equivoci, visto che non ci conosciamo, la mia nota di eri non era in virtù né di polemica né di confutazione al suo pregevole studio comparativo su autori così diversi eppure così consonanti, seppure lo scarto generazionale (il fattore Tempo, come anche lo Spazio) gioca un ruolo non di poco conto: due autori viventi a cui possiamo ancora porore domande dirette e due poeti consegnati alla Storia, per quest’ultimi possiamo solo interrogare i testi, come degli esegeti o antropologi o paletnologi.
    Anche Caproni, per esempio ha utilizzato la forma metrica spezzata, persino nei sonetti monoblocco. Riguardo al tempo interno ed esterno, credo di avere spiegato nella analisi precedente cosa intendevo. Caproni è di un’altra generazione, ma le sue metafore sono vive, l’idrometra, per esempio già dal titolo, rimanda a un certo occidente, alla sua storia, visto che è un insetto che prolifera solo ed esclusivamente in europa.

    La mia analisi precedente non era certo mirata a sminuire il valore di chicchessia. Anzi, cercava di stabilire il valore di Caproni (non ha mai vinto un Nobel, per fortuna), anche nell’ottica di un verso di Rago che mi ha colpito particolarmente: Il poeta vero ama la nascita imperfetta delle cose.

  17. Rossana Levati

    Gentile Giuseppe Talia,
    la ringrazio della sua precisazione ma le assicuro che non ho inteso la sua nota come polemica verso la mia analisi; anzi, leggo tutti i contributi come arricchimenti per la mia formazione, mantenendomi sempre disponibile ad imparare dagli interventi di chi, con l’esperienza dei propri studi e delle proprie letture, può contribuire a una migliore conoscenza degli autori e delle loro opere.

  18. Sovviene una metamorfosi antica
    nel nodulo alla base del collo,
    invadente presagio d’Ovidio.
    D’uguale & soddisfatta creazione,
    partenogenesi & mito,
    ti cresce in eccesso di sebo
    quest’ innocua presenza d’io.

    GRAZIE OMBRA.

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