
Oh Billie, l’hai cantata bene la canzone/ del giorno dopo con The very thought of you!
da http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-registro-bordo-2/
Mario M. Gabriele
Si stava sotto i segni dell’autunno.
Perdersi era l’unica certezza
di chi aveva poca fede nel domani.
Bruciavano radici e sciami di pensieri.
Di un lume si parlò all’ombra del paravento.
Maxuell ha una baita con attico e telescopio.
Cerca altri mondi, la strada per Compostela.
Ho ancora il Libro di Rose del 48,
curato da Giovanni Ferretti.
Nel mese delle rimembranze
pregammo per la madre di Arnold.
C’è un poemetto che mi attende la sera.
Quando Lowell morì in taxi
aveva dedicato tutto a To Mother.
Una notte Daddy mi venne in sogno
con annunci paranormali: la fine di Anthony.
Oh Billie, l’hai cantata bene la canzone
del giorno dopo con The very thought of you!
-Togliete le serrature dalle porte.
Togliete anche le porte dai cardini-.
Non andrò in Africa. Salutatemi Mandela.
A novembre tornano i solisti della UBS Verbier
per un resoconto su Beethoven.
Fotomontaggi e selfie non bastano a ricaricare il giorno.
Clark ha un problema con l’anima.
Non c’è giorno che non perda piume strada facendo.

Clark ha un problema con l’anima./ Non c’è giorno che non perda piume strada facendo
Giorgio Linguaglossa says:
agosto 5, 2018 at 12:52 pm
caro Mario Gabriele,
nel post di oggi dedicato a Franco Fortini, ho parlato dell’opera che chiude il novecento, Composita solvantur (1994). Dopo quest’opera la poesia italiana dormirà un sonno profondissimo costellato qua e là da rapidi e veementi sussulti dei pochissimi poeti che scrivevano contro corrente, penso a Maria Rosaria Madonna con il libro Stige (1992) riproposto quest’anno, 2018, in una edizione completa delle sue poesie: Stige. Tutte le poesie (1990-2002) da Progetto Cultura; penso a Roberto Bertoldo con i suoi libri, Il calvario delle gru (2000), L’archivio delle bestemmie (2006), Pergamena dei ribelli (2011) e Il popolo che sono (2015); penso a Giorgia Stecher con Altre foto per Album (1996), libro postumo per la morte prematura della poetessa siciliana; penso all’opera di Anna Ventura che si può leggere nella Antologia Tu Quoque. Poesie 1978-2013, (2014). La tua opera di questi ultimi anni, già da prima di Un burberry azzurro (2008), Ritratto di Signora (2014), L’erba di Stonehenge (2016 e In viaggio con Godot (2017) si presenta come una operazione monolitica di raccolta degli scartafacci metrici e stilistici, come un cantiere di aforismi e di citazioni, riscrittura di ciò che è finito triturato nelle rotative del nulla della nostra epoca a capitale globale e di minimalismo globale. Un giorno, se ci sarà un giorno dopo questo diluvio di sciocchezze e di banalismi della poesia di oggidì, se uno storico della letteratura vorrà fare un resoconto di ciò che è degno di salvezza dopo questa semina a strascico nella banalità, un giorno, dicevo, non si potrà fare a meno di ritornare ai tuoi ultimi libri, così effervescenti e minimal (se ce lo concede questa seconda epoca di barbarie somministrata) apparentemente leggeri che si possono leggere come acqua minerale in mezzo alle decine di migliaia di selfie degli altri libri di poesia che sono stati pubblicati dalla morte di Fortini ad oggi.
Mario M Gabriele says:
agosto 5, 2018 at 2:18 pm
caro Giorgio,
puoi ritenerti un critico fortunato nel senso di essere stato a contatto degli esiti linguistici di nuovi poeti, pubblicati dalla Rivista L’Ombra delle parole da cui poi si è venuto a determinare il Progetto NOE, cosa che non può dirsi altrettanto verso la critica di ieri e di oggi, che ha aperto una grande lacuna alle omissioni di opere certamente valide. Scrive Romano Luperini: «La critica letteraria si chiude in se stessa, si isterilisce nell’ambito accademico e del micro specialismo, smarrisce il nesso fra filologia e interpretazione (e, anche all’opposto, aggiungerei, la coscienza della distinzione fra questi due momenti), oppure si subordina alle esigenze del mercato e dei mass -media, diventando chiacchiera impressionistica, mero intrattenimento.» Con buona pace, aggiungerei io, di ogni proposta alternativa, lavoro in progress, e fiducia in ciò che di buono si scrive. Un giorno, negli anni della guerra, era facile imbattersi in un cartello come questo: «Non si affitta ai meridionali», che proiettandolo nel campo della poesia di oggi si potrebbe sintetizzarlo in questo modo: «Non si pubblicano poesie o libri di autori sconosciuti anche se validi», come una sorta di razzismo culturale. È mancata la critica onestamente più sincera e divulgatrice, sempre al servizio del Padrone Editoriale, aprendo il campo alla storia della “parola negata”. Personalmente credo che un buon poeta debba scrivere il meglio di sé, non esibirsi con proposizioni linguistiche di gravame ipertrofico. L’ascesi della scrittura è nel piacere del testo, per dirla con Barthes, ossia in quella leggibilità che fa nascere un nuovo Ente Estetico nel segno dell’Arte e della Poliscrittura. Un caro saluto e grazie.

-Togliete le serrature dalle porte./ Togliete anche le porte dai cardini-
Giorgio Linguaglossa says:
agosto 5, 2018 at 8:04 pm
Scrive Gianni Vattimo:
«Credo sia facile mostrare che nella storia della pittura, o delle arti visive, meglio, e la storia della poesia di questi ultimi decenni non hanno senso se non sono poste in relazione con il mondo delle immagini dei mass-media o con il linguaggio di questo stesso mondo. Si tratta, ancora una volta, di relazioni che in generale possono andare sotto la categoria heideggeriana della Verwindung: relazioni ironico-iconiche, che duplicano e insieme sfondano le immagini e le parole della cultura massificata, non solo, comunque, nel senso di una negazione di questa cultura. Il fatto che, nonostante tutto, oggi si diano ancora vitali prodotti “d’arte” dipende probabilmente da ciò, che questi prodotti sono il luogo in cui giocano e si incontrano, in un complesso sistema di relazioni, i tre aspetti della morte dell’arte come utopia, come Kitsch, come silenzio. La fenomenologia filosofica della nostra situazione si potrebbe dunque completare così, con il riconoscimento che l’elemento della perdurante vita dell’arte, nei prodotti che si differenziano ancora, nonostante tutto, all’interno della cornice istituzionale dell’arte, è proprio il gioco di questi vari aspetti della sua morte… Si tratta di un insieme di fenomeni con cui l’estetica filosofica tradizionale si misura con difficoltà».1]
La tua poesia è l’esatto duplicato di questa situazione, diciamo, aporetica in cui si trova l’arte e la poesia di oggi: che la tua poesia eredita di sana pianta: l’elemento della morte dell’arte e il suo susseguente silenzio; l’elemento del Kitsch; l’elemento delle frequentissime citazioni dai mass-media. Nella tua poesia questi tre elementi si trovano nella promiscuità più assoluta, confliggono e fibrillano creando una contestura semantica febbrile ed effervescente, quella che ho definito l’effetto bollicine dell’acqua minerale.
1] Gianni Vattimo, La fine della modenità, Garzanti, 1985, p. 66, 67
Giorgio Linguaglossa says:
agosto 5, 2018 at 10:19 pm
La formula di Hölderlin resta sempre valida: «Ciò che rimane lo fondano i poeti» (Kein Ding sei wo das Wort gebricht) «Nessuna cosa sia dove la parola manca». Ma ciò che rimane è polvere, frantumi, frammenti, schegge, pulviscolo di un mondo che li ha prodotti. Dunque è ciò che resta del circuito della produzione e della distruzione che fonda l’«ontologia del frammento e della derelizione», come l’ultima ontologia possibile per un poeta di oggi costretto a raccogliere dalla discarica pubblica le fraseologie spurie che infestano la nostra civiltà. Le fraseologie presenti nella tua poesia sono eloquenti di per sé, eloquenti nel loro affollarsi verso un orizzonte degli eventi dove la parola poetica risulta spuntata, debole, indebolita, irriconoscibile. Ciò che inaugura la tua parola poetica è un mondo irriconoscibile, privo di senso, che ammicca ad un orizzonte destinale che verrà, che annuncia con trombe di plastica e di poliuretano una fine improvvida e ingloriosa.

Una notte Daddy mi venne in sogno/ con annunci paranormali: la fine di Anthony.
Mario M Gabriele says:
agosto 7, 2018 at 9:09 am
Il valore di un testo poetico non sta tanto nella lunghezza o brevità del verso, quanto nella capacità di trasmettere il senso di una immagine, di un evento e di un trauma, consegnando ogni interpretazione al lettore. La scrittura poetica è riflessione su passato e presente in un mondo in continua trasformazione. La società commerciale è valutata nel suo sfruttamento economico finita l’era marxiana.
Queste condizioni agiscono sia in senso positivo che negativo. In più il Tempo annienta l’esistenza riducendola a perenne Vuoto.
Heidegger in Essere e tempo (1927) cristallizza la nostra fine senza alcun approdo salvifico. Il concetto di Essere determina la nascita di un chiuso perimetro all’interno del quale domina una ontologia depressiva.
Derrida ha provato a fronteggiare la caducità del nostro essere con l’approdo alla sopravvivenza attraverso la traccia della scrittura, soffermandosi, come scrive Maurizio Ferraris, sulla distinzione hegeliana fra due tipi di immaginazione: da una parte l’immaginazione riproduttiva, che è la facoltà di riprodurre rappresentazioni, cioè intuizioni sensibili interiorizzate nel ricordo, dall’altra l’immaginazione produttiva, che è invece la facoltà di produrre segni, cioè entità esteriori che veicolano un contenuto interiore (da: Derrida e la decostruzione, di Maurizio Ferraris pag. 61).
È, in altre parole, il tessuto organico che ogni poeta ha con sé, veicolandolo nei versi e nelle metafore. Chi non ci riesce gioca su altri fronti e fattori, non impegnativi e di semplice scrittura creativa.
Giorgio Linguaglossa says:
agosto 7, 2018 at 5:01 pm
Penso che ogni poeta , se è poeta, fa poesia sulla morte della poesia, non può che srotolare un lungo nastro funebre, un «rapporto dalla città assediata» (Zbigniew Herbert), una «Fermata nel deserto» (Iosif Brodskij), un «Registro di bordo» (come fai tu). L’arte autentica non può che andare a sbattere in una situazione programmaticamente aporetica: deve chiudersi in un regno di incomprensibilità quale miglior veicolo per assicurare la impenetrabilità dell’opera, l’unico modo autenticamente valido di ricostituire lo schermo del silenzio in un mondo mediatico che avanza a suon di miliardi di parole al nano secondo. La tua poesia è costretta ad auto fagocitare il linguaggio gastronomico del mediatico per riconvertirlo in linguaggio cifrato, al pari di un alfabeto Morse. Suona il piffero alla morte dell’arte recitando un alleluia e un te deum al suo funerale. È un benedicite e un maledicite insieme. È una allegria di naufragi e una melancolia del naufragio prossimo venturo. Poiché non c’è più niente di serio, la questione è serissima. La tecnica da te impiegata di ricollocazione e ristrutturazione dei frammenti dei linguaggi mediatici, è funzionale a questo apprendistato al funerale della morte dell’arte e alla estetizzazione diffusa che ne deriva di essa nel sociale. La tua poesia non ha via di uscita dal cul de sac: tentare una sortita dal Kitsch e la sua ricaduta perdurante nel Kitsch. Essa ha strenuo bisogno del negativo per auto disciplinarsi in base al negativo e restare negativa ma non per auto assoluzione quanto per la propria auto sopravvivenza. In ciò è mimetica della dialettica hegeliana, ma in senso sardonicamente negativo come ci ha insegnato Adorno. In ciò inverando l’assunto secondo il quale se la morte dell’arte è utopia, anche la sopravvivenza dell’arte nelle attuali condizioni del disordine globale della razionalità amministrata, è egualmente utopia.

Maxuell ha una baita con attico e telescopio.
Mario M Gabriele says:
agosto 7, 2018 at 7:13 pm
Se il pensiero estetico diventa un carro funebre fermandosi nella incomprensibilità, quale miglior veicolo per assicurare la impenetrabilità dell’opera, diventa il miglior automezzo per viaggiare in un mondo di colliquazione, prendendo atto che in questo tour non ci sono franchigie o bonus, ma pensieri strettamente legati alla cultura di appartenenza. Sembrerà un facile approdo o un alibi citare Vygotskij quando definì 2 stili cognitivi diversi, come percezione del mondo:- stile cognitivo globale: ossia si passa dalla totalità del fenomeno ai suoi particolari; stile cognitivo articolato: si passa dall’articolazione dei singoli elementi alla visione globale. – Da qui l’organigramma della poesia in particolare la mia, a suo tempo da me definita un ossario,perché muscoli e pelle si sono mineralizzati fuori dal corpo. «La verità non esiste, esistono solo le molte verità che l’uomo si dà. Cassirer nel suo espressionismo critico, afferma che l’uomo si è nutrito di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici a tal punto da non poter vedere più nulla se non per il tramite di questa artificiale mediazione». Qui entra Vattimo col suo pensiero debole che si presenta come superficie radiante del nichilismo. Scusami se nel mio calice e nella mia poesia non vi sono l’ostia domenicale e la domenica successiva alla Pasqua. Una studentessa un giorno intervistò Remo Bodei ponendogli questa domanda: «L’uomo ha sempre cercato di spiegare i fenomeni che accadono intorno a lui. È possibile trovare nella filosofia quelle risposte che non riesce più a trovare nella religione». La risposta di Bodei fu questa: la filosofia ci permette di avere una possibilità di dar senso al mondo, senza passare sotto «le forche caudine» di una fede «imposta». È in ultima analisi lo stesso esercizio che promuove la poesia, quella a cui ci si può infilare dentro come il cotone nella cruna di un ago con un pensiero negativo.
Giorgio Linguaglossa says:
agosto 8, 2018 at 12:09 pm
L’amministrazione da condominio del consenso amministrato delle società tecnologiche rende la prassi artistica sempre più analoga alle esperienze gastronomiche e deculturalizzate del Kitsch. Non c’è via di uscita da questa antinomia se non mettendo fuori gioco la prassi artistica, non accettare nulla gratis, ed è quello che fa la tua poesia, altrimenti si finisce nell’imbonimento del silenzio, il che segna un vantaggio considerevole per l’arte ammaestrata e gastronomica del Kitsch che invade i probabilistici almanacchi di poesia oggi. La parentela tra il Kitsch culturale e il Kitsch non-culturale (vedi le poesie di Zeichen e della Lamarque), si va sempre più assottigliando: alla fin fine non si riesce più a distinguere una battuta di spirito del poeta di Fiume da una battuta da bar dello sport perché se si accetta la filosofia dello spot e della battuta di spirito, tutto pende peristalticamente verso la battuta di spirito tout court. «Tutto pende da ciò da cui dipende» diceva Michelstaedter. Se il «Totum è il Totem» (Adorno) ne discende che il «Totem è il Totum». Il Tutto è il Kitsch. Anche la politica è una «vetrina» dove c’è un solo attore: il Kitsch. Il Kitsch è una costruzione peristaltica che sta bene alla filosofia imbonitoria e pacificatrice che vorrebbe gli uomini imbelli, sanificati dai vaccini della demagogia. Proprio oggi che si parla a vanvera contro i vaccini perché colpevoli di aver salvato la vita a decine di milioni di persone, io mi sentirei di dichiarare: dissentiamo dal Totum, dissentiamo dal Kitsch, facciamo un’arte irriconoscibile, impenetrabile, anti imbonitoria, audacemente dialettica, dialogica, rimettiamo in piedi quello che adesso cammina sulla testa.

Quando Lowell morì in taxi
Giorgio Linguaglossa says:
agosto 8, 2018 at 12:56 pm
Mi ero dimenticato di dire che la tua poesia mette in scena «la messa in vetrina della verità», che non coincide affatto con la heideggeriana «messa in opera della verità» come esposizione di un mondo, inaugurazione di un mondo storico, appartenenza ad una comunità ma con un concetto semmai imparentato con quello. Nella tua poesia il luogo della «verità» è la «vetrina». Allora è chiaro quanto andiamo argomentando, la tua poesia è il luogo in cui la «verità» può apparire in tutto il suo splendore, retrocessa però a rossetto, belletto della faccia gonfia e tumefatta dell’immaginario dell’ipermarket globale nel quale siamo immersi. In questa «vetrina universale» la «verità» non si dà più come alétheia, come ciò che si ritira e si rivela ma come physis, come una natura naturata che si dà come un dato, che si offre, che non si ritira affatto, anzi, che si mette in «vetrina» per essere acquistata, al pari di una merce. Mette in scena la mercificazione globale quale nomos unico che vige nel mondo amministrato della vetrina globale al quale e dal quale non c’è alcuna Verwindung (remissione) che tenga o che possa riscattarci, né alcun dio che possa salvarci.
Mario M Gabriele says:
agosto 8, 2018 at 1:35 pm
Il nostro è un discorso che si avvia o si sta avviando in conclusione verso un’ipotesi di poetica, di cui sei (siamo) promotori ma che offre la stura, con contraccolpi di silenzio o di contestazione da chi disistima il nostro Progetto. È nella dinamica delle oggettivazioni linguistiche Essere per non Essere. La nostra società si stringe sempre di più, come un serpente boa all’interno di una rete tecnologica che modifica i rapporti di ascolto e di cultura, nulla a che vedere con la carta stampata e l’e-book, minimamente diffusi sul mercato. Eppure operiamo lo stesso nella preziosità del tempo davanti a noi, nella fibrillazione del pensiero, come ultima cartuccia da Winchester.
Mario M Gabriele says:
agosto 8, 2018 at 4:53 pm
caro Giorgio,
il nostro colloquio è stato fruttuoso, per alcuni complicato. Abbiamo reso un buon servizio ai cultori della poesia, e a coloro i quali esigono da noi chiarimenti su ciò che stiamo realizzando, pur nella dimensione estetica di citazioni, di materiali assolutamente tecnici. In questo dipanarsi di idee, guarda un po’ mi sono lasciato prendere dalla dialettica, dimenticando una cosa, ossia il mio dovere nel ringraziarti di tutto ciò che in questi commenti sono affiorati sulla mia poesia. Lo faccio ora scusandomi dell’amnesia, sempre con il piacere della mia condivisione. Grazie.
Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016). La porte ètroite (1916). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara (1994); Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci; Psicoestetica di Carlo Di Lieto (2006); e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Gaetano Salveti, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Francesco D’Episcopo, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci, Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Altri interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it e Altervista.
Posto qui la mia ultima poesia del libro ancora inedito in stile NOE
Gino Rago
21ma Lettera a Ewa Lipska
[Dismatriati]
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/08/09/mario-m-gabriele-una-poesia-inedita-da-registro-di-bordo-con-un-dialogo-tra-lautore-e-giorgio-linguaglossa-lontologia-del-frammento-e-della-derelizione-il-kitsch/comment-page-1/#comment-37059
cara Madame Hanska,
ieri ho parlato a lungo con la donna di Somalia
giunta da noi chissà per quali vie.
Se potesse prenderebbe un panno,
pulirebbe tutta la sua vita, cancellerebbe il viaggio,
getterebbe a mare la valigia che l’ha portata fin qui,
dice che ha perso in un sol colpo tutto il suo capitale.
Dio invece non è più tornato dal mio amico di Roma,**
dice di non sentirsi in forma, o forse si vergogna
perché se la spassa tutte le notti con Madame Jovanka,
e le sue damigelle presso l’albergo della felicità.
Si lamenta perché il mio amico**
si è rifiutato di scrivere la recensione sulla creazione…
ma, in fin dei conti, neanche lui si sente troppo bene,
e così prende la tintarella sulla spiaggia sul Tevere
dove l’amministrazione capitolina ha edificato uno stabilimento balneare,
dice che vuole ascoltare le parole del fiume,
quelle sì molto più interessanti della mega creazione.
** E’ Giorgio Linguaglossa
——————————————————————–
GR
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/08/09/mario-m-gabriele-una-poesia-inedita-da-registro-di-bordo-con-un-dialogo-tra-lautore-e-giorgio-linguaglossa-lontologia-del-frammento-e-della-derelizione-il-kitsch/comment-page-1/#comment-37060
Dimorare nella ontologia debole non significa fare una poesia debole, significa porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, osservare le cose come di sfuggita. Ecco, per esempio introdurre «Dio» nella poesia come fa Gino Rago e farlo andare in giro a chiedere una «recensione» al suo «amico di Roma», presentare «Dio» in vesti dimesse non significa dimidiarlo o mancargli di rispetto, anzi, il contrario, implica una restituzione di senso, un accettare la realtà delle cose, il reale pensiero degli uomini del nostro tempo i quali hanno retrocesso «Dio» sullo sfondo, in serie B. «Dio» non è più importante di qualsiasi altro disgraziato che calpesta il suolo della terra, ormai «Dio» può essere anche un nostro vicino di casa, ci possiamo anche andare al bar a prendere un caffè.
Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi.
Accedere alle cose stesse non significa aver da fare con esse come con oggetti, ma incontrarle in un gioco del naufragio del linguaggio nel quale l’esserci esperisce anzitutto la propria mortalità. Si accede alle cose per via della accettazione della propria finitudine, quando scopriamo il nostro essere relittuali, il nostro naufragio di relitti quali siamo. E questo lo testimonia lo Zerbrechen (l’infrangersi della parola) mediante il quale noi esperiamo la caducità e la finitezza del nostro essere mortali e l’essere la poesia un effetto di silenzio, tanto più quanto più il tono è sardonico e metaironico, come in questa poesia di Gino Rago, dove c’è un personaggio, nientemeno che «Dio» il quale interviene negli affari correnti dei mortali, e se la prende con «l’amico di Roma» che «si è rifiutato di scrivere una recensione sulla creazione», sommo oltraggio per il «Dio» il quale non è affatto «morto» come idiosincraticamente edittato da Nietzsche due secoli or sono ma è resuscitato ed ha preso luogo come mortale tra i mortali e costretto a mendicare una «recensione» al pari di un qualsiasi postulante di questo mondo.
«Le tecniche delle arti, ad esempio e prima di tutte, forse, la versificazione nella poesia, possono esser viste come accorgimenti – non a caso tanto minuziosamente istituzionalizzati, monumentalizzati anch’essi – che trasformano l’opera in residuo, in monumento capace di durare perché già fin dall’inizio prodotto nella forma di ciò che è morto; non per la sua forza, cioè, ma per la sua debolezza».1] Non accade a caso che una poesia riesca ad essere «monumento» (in senso heideggeriano) quando viene edificata con le parole anti monumentali, residuali, con situazioni e stati di cose corrivi, quando la paradossalità viene consegnata al lettore nella veste dimessa del relittuale, del residuo, del rimosso. La poesia riesce tanto più significativa quanto più appare dimessa, apatica, anti enfatica, come un accadimento casuale, un infortunio del pensiero distratto, una distrazione del pensiero.
G. Vattimo La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 95
Dopo Franco Fortini, Mario M. Gabriele. Molte cose cambiano in un meglio, in modo che Fortini non poteva immaginare; non tanto e non solo per il fatto che Gabriele non si serve dell’ideologia ma perché gli manca anche la sottile consolazione, la speranza, e un po’ anche l’ottimismo che erano di Fortini.
Insieme a questi “valori” cambia il verso risolutore; che per Fortini era l’approdare su una non meglio definita realtà, mentre per Gabriele, come penso gli altri poeti NOE, quel reale viene individuato con precisione nelle “cose”; sicché diventa reale anche una rivista con su Marilyn Monroe. Oggetto e mito sono in presa diretta. Nulla avrò a che fare con la speranza; se mai lo scorrere del tempo, il divenire, anche se non mancano le avvertenze: “Fotomontaggi e selfie non bastano a ricaricare il giorno.”
In questo viaggiare senza unica meta io non sento negatività, così come pare a me che la morte dell’arte sia ormai avvenuta. Siamo nel post mortem.
Dopo la disillusione – decesso dell’ideologia, messa in pausa dell’operatività marxista – la presa d’atto di vivere nel reale illusorio, coscienti dell’illusione. E nel continuo giocare di specchi rimbalzano numerose le comprensioni; senza categorie valoriali perché tutto è fuori serie. Si sta parlando di nuova poesia non della ripresa dal periodo del muto; anzi, viviamo ormai in un tale baccano che diventa meritoria l’azione di mettere ordine alle voci: disporne l’incoerenza diventa un mestiere non ancora riconosciuto. Lo sarà più avanti, quando parrà evidente a tutti il fenomeno dell’assemblaggio non conclusivo. Poesia è un aspetto di quel fenomeno, ha il suo ministero ma non è tutto.
Scrivevo ed partito involontariamente…
Scusatemi!
Eppure si attorciglia al collo
il nodo di una formica.
A pose fatte
le congratulazioni ostruiscono
un nido all’alba
quanto un torrente, un cimelio o un cumulo
di ortiche,
quanto le nuvole rientrate
sulla bilancia
della ragione.
GRAZIE OMBRA.
la nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/08/09/mario-m-gabriele-una-poesia-inedita-da-registro-di-bordo-con-un-dialogo-tra-lautore-e-giorgio-linguaglossa-lontologia-del-frammento-e-della-derelizione-il-kitsch/comment-page-1/#comment-37070
Non è semplice costruirsi un nuovo linguaggio critico, ma penso che esso dovrà essere fatto con gli stessi materiali con cui è fatta la nuova poesia. La poesia della nuova ontologia estetica richiede il nuovo linguaggio critico, ma non è cosa semplice né automatica. Con tutta probabilità un nuovo linguaggio critico militante non vedrà mai la luce perché non è nell’interesse dei grandi gruppi editoriali e istituzionali favorire o avallare un nuovo linguaggio critico [del resto io stesso dico sempre che non sono un critico, né un tuttologo, tento di fare critica ma non sono sicuro affatto di riuscirci, sono consapevole dei miei limiti].
Un nuovo linguaggio ermeneutico deve prendere tutto da tutto, proprio come fa la poesia della nuova ontologia estetica, deve saper gettare a mare i vecchi linguaggi, la vecchia terminologia. Un nuovo linguaggio critico deve essere polittico, eclettico, ellittico, deve saper anche improvvisare, deve saper trattare i linguaggi di disparati campi, non escluso quello del giornalismo e quello filosofico e quello della moda, deve essere un conglomerato di esperienze e di stili, un concentrato di altri linguaggi, di iconologie, di fraseologie, deve saper parafrasare, deve essere rapido, inquieto, contraddittorio, deve saper accettare la contraddittorietà come elemento fondante del pensiero critico, deve saper anche auto confutarsi, essere polimorfo. Deve essere tutto tranne che parlare un linguaggio istituzionalizzato, istituzionale…
”Le parole della nuova poesia sanno di essere effimere, transeunti, fragili, entropiche. Le parole che vivono nel nostro mondo non possono che essere volatili. Il sostrato ontologico dell’Occidente del Dopo il Moderno è qualcosa di dis-locato, di volatile i cui componenti appartengono alla categoria dei conglomerati, fatti di giustapposizioni e di emulsioni, di lavorati e di semilavorati, materiali che si offrono alla costruzione, alla auto-combustione e alla entropizzazione. Il Moderno del Dopo il Moderno è ragguagliabile a un gigantesco conglomerato di elementi aerei, fluttuanti, effimeri dal quale sembra sia scomparsa la forza di gravità. Le parole sembrano allentarsi e allontanarsi dal rigore sintattico, appaiono volatili, frante. Ma qui interviene il rigore del poeta svedese che le tiene incatenate alla orditura sintattica del testo.
“Ma qui interviene il rigore del poeta svedese che le tiene incatenate alla orditura sintattica del testo”.
Il poeta svedese ha bene in mente come fare per mettere in prosa la sua idea di poesia. Peccato che l’immersione in apnea – inconscio in Land art – sia tanto breve. L’operazione può essere sempre ripetuta ma ne va del linguaggio e della comprensione – si diceva dell’incomprensibilità del surrealismo – In T. lo sforzo immaginativo è ridotto a zero, le immagini si evidenziano da sé. Appaiono. Il fatto che queste costruzioni siano ottenute con parole trovate per fiducia “nel caso” ha dell’incredibile.
caro Lucio,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/08/09/mario-m-gabriele-una-poesia-inedita-da-registro-di-bordo-con-un-dialogo-tra-lautore-e-giorgio-linguaglossa-lontologia-del-frammento-e-della-derelizione-il-kitsch/comment-page-1/#comment-37076
tu scrivi: «così come pare a me che la morte dell’arte sia ormai avvenuta. Siamo nel post mortem.
Dopo la disillusione – decesso dell’ideologia, messa in pausa dell’operatività marxista – la presa d’atto di vivere nel reale illusorio, coscienti dell’illusione.»
La morte dell’arte è già avvenuta, è avvenuta (se vogliamo davvero dargli un anno di decesso) nel 1994, l’anno di pubblicazione di Composita solvantur di Fortini, l’ultimo poeta che insieme a Bertolucci e Luzi faceva ancora parte di una schiera di poeti intellettuali che avevano consapevolezza storica del novecento (in questo senso erano «storici»). I poeti che sono venuti dopo di allora avevano (ed hanno) una minore consapevolezza storica. Tutto qui, non mi sembra di dire delle enormità. Ciò che fa la stoffa di un poeta è la sua consapevolezza storica di integrarsi ed interagire con un tessuto anch’esso storico. Ecco, nei poeti che sono venuti dopo il 1994 si verifica una minore consapevolezza della propria storicità stilistica.
Questo fatto (però bisogna dirlo), porta con sé un certo numero di problemi «storici»; innanzitutto, una certa libertà di giocare con gli stili, la libertà di essere liberi dallo stile, dal problema dello stile, e quindi dai problemi estetici e, in questo senso, anche dai problemi politici, politici in quanto i problemi estetici non si presentano mai belli e nudi come estetici, tranne che per le anime belle e gli ingenui scaltriti dalla propria ingenuità.
Una flessione della consapevolezza storica porta con sé anche una minore attenzione per le problematiche ermeneutiche, critiche, retoriche, filosofiche che accompagnano il fare poetico, infatti non è un caso che dopo la generazione degli ultimi Grandi, i poeti che sono venuti dopo non sono mai stati al contempo poeti e critici, poeti e intellettuali, i poeti si sono limitati ad essere solo poeti, si sono occupati ciascuno del loro orticello.
C’è stato, è indubbio, uno scadimento dell’orizzonte poetico, la poesia è diventata quella cosa che si fa in «privato», nel loculo dell’ascensore o sullo scrittoio di casa; la poesia è diventata una ancella minore, in diminuendo, delle faccende di casa, e infatti i poeti «nuovi» appartengono tutti a questa categoria: sono poeti fatti in casa, che si muovono in casa, che fanno poesia piena di spiritosaggini o di idilliche scempiaggini, tutte cose rigorosamente parlando rigorosamente «private». Ed ecco una lunghissima, interminabile schiera di poeti poeti, di poeti «privati»: Patrizia, Cavalli, Giampiero Neri, Lamarque, Jolanda Insana, Valentino Zeichen… Cucchi, De Angelis… fino ai più giovani Magrelli e i magrellisti. C’è stata, è chiarissimo, una discesa culturale della produzione poetica, discesa come sproblematizzazione di tutte le questioni metafisiche.
Voglio dire che andando di sproblematizzazione in sproblematizzazione siamo arrivati ad un tipo di poesia disossata, ridotta al calco dell’io, che tratta dei problemi personali, privati, psicologici (rispettabilissimi problemi, non ne dubito, ma sicuramente non pertinenti alla forma-poesia).
La nuova ontologia estetica vuole essere una reazione netta e drastica a questa deriva interminabile verso la debolezza del debolismo della prassi e del pensiero del poetico.
Caro Giorgio,
si è mai data una definizione critica di “nuovo”, oltre a quella corrente di “nuovo” come vaga ma sempre valida ragione d’acquisto?
Un’opera d’arte è nuova se non contiene elementi del passato. Ma è il passato che ci fa dire se una cosa è da ritenersi bella oppure no, valida oppure no…
Di per sé l’opera nuova non è né bella né brutta. Il passato può giustificarne l’esistenza ma i parametri di giudizio non possono essere gli stessi di un tempo.
Il giudizio rivela che passato e futuro si aprono per prospettive diametralmente opposte. Difficile guardare avanti e indietro allo stesso tempo. La critica che guarda avanti dovrà avventurarsi per nuove prospettive. Il giudizio di valore non potrà essere lo stesso che ci viene offerto dal passato. Di fatto, per il nuovo, il passato sembra inutilizzabile. A meno che non si tentino operazioni di folle prospettiva, come porre a confronto un dipinto di Van Gogh con uno di Raffaello Sanzio, una poesia di adesso posta accanto a una qualsiasi terzina dantesca… In questo caso si utilizzerebbe un arco di tempo col passato a dir poco smisurato, vertiginoso; non il passato prossimo a noi, ché quello tutto sommato si trova a ridosso del nuovo… Non se ne verrebbe a capo.
Il nuovo si propone nella prospettiva “futura”. Il nuovo si propone come passato per un tempo futuro. Il nuovo è progettuale. Lo è sempre stato, fin dall’antichità…
«Gadamer cita un significativo passo di Dilthey su Schleiermacher, in cui Dilthey scrive: “ognuno dei suoi Erlebnisse è compiuto in se stesso, è un’immagine particolare dell’universo sottratta a ogni connessione esplicativa”. Questo significato dell’Erlebnis romantico era però ancora legato a una visione panteistica dell’universo; l’Erlebnis della cultura del novecento, e dello stesso Dilthey, è del tutto soggettivo, privo di ogni legittimazione ontologica: in un verso, in un panorama naturale, in una musica, il soggetto sovrano distilla in modo del tutto casuale e arbitrario una totalità di significato, che resta priva di ogni connessione organica con la sua situazione storico-esistenziale e con la “realtà” nella quale egli vive.»1
Mi riallaccio a questo appunto di Vattimo perché è esplicativo del carattere auto referenziale delle citazioni e dei frammenti contenuti a iosa nelle poesie della nuova ontologia estetica, dove ciascuno dei frammenti congloba ed esaurisce in sé un Erlebnis sganciato da qualsiasi significato ontologico, in quanto privo di qualsiasi legittimazione ontologica. Ciò significa che la poesia della nuova ontologia estetica è costituita da una serie di atti arbitrari, arbitrari se visti dal punto di vista del soggetto, perché non si dà più un soggetto che è deputato a dare legittimità ai suoi predicati, e i predicati sono così liberi, svincolati dal soggetto, possono formicolare e trasmigrare dove vogliono o a caso…
1 G. Vattimo La fine della modernità, 1985, Garzanti, p. 131
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