Sul Minimalismo italiano – Dialogo tra Piero Sanavio, Rossana Levati, Giorgio Linguaglossa, Valerio Pedini, – Poesie di Zbigniew Herbert, Raymond Carver, Anna Ventura, Giuseppe Talia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

 

Il Mangiaparole rivista n. 1

Il n. Uno uscirà in marzo, in copertina il poeta Alfredo de Palchi

Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 9:59

Avevo scritto in un precedente Commento del 2014:

«Una lingua che ha cessato di essere la depositaria del «messaggio» o dell’«anti messaggio», che si deposita un po’ come la polvere sui mobili, che cade ed accade come per una sua legge di gravità, che adoperiamo quando parliamo in una stanza ammobiliata, in una camera d’albergo, nelle sale d’aspetto di un aeroporto, nel corridoio di un anonimo ufficio. Una lingua estranea e provvisoria».
Alberto Bevilacqua giunge a capire, acutamente, che oggi si può fare poesia soltanto se adoperiamo una «lingua estranea e provvisoria», una lingua che parliamo in un «corridoio di un anonimo ufficio», «in una stanza ammobiliata», in «una camera d’albergo» per incontri clandestini, una lingua di plastica, di stracci… Ecco, direi che Bevilacqua giunge fin qui… ma non può andare oltre… non può andare oltre la sua ontologia estetica…
*
Posto qui tre poesie di Raymond Carver, il padre del minimalismo americano con un commento di Valerio Pedini:

Il minimalismo viene ideato da Gordon Lish, scrittore ed editor della figura centrale per la poesia e la prosa minimale: Raymond Carver. Nella nota biografica su Carver, nel volume Orientarsi con le stelle, edito da Minimum fax, si leggono delle parole raccapriccianti che indirizzano tutta la poetica e l’arte minimale, ovvero «con il suo stile limpido” vorrei poi sapere che significa stile limpido? “ e la sua attenzione verso la «normalità» esistenziale della gente comune». Mi concentrerei su queste poche parole per delineare tutto il cosiddetto minimalismo, che diviene da dispregio, pregio. «Stile limpido»? Per chi non capisse cosa significhi limpido, per alcuni si dice lineare, per altri retorico, per altri ancora manierista, riconoscibile, ripetibile, copiabile, digitale, intimo, casalingo, facilmente comprensibile. Perché? Perché fa esempi. Situazioni quotidiane, che tutti possono comprendere e in cui tutti si possono ritrovare. Ecco tre poesie di

Gif twin tower destruction

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito

Tre poesie di Raymond Carver:

Compagnia

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito
che da molto tempo ormai,
posto davanti a un bivio,
ho scelto la via peggiore. Oppure,
semplicemente, la più facile.
Rispetto a quella virtuosa. O alla più ardua.
Questi pensieri mi vengono
quando sono giorni che sto da solo.
Come adesso. Ore passate
in compagnia del fesso che non sono altro.
Ore e ore
che somigliano tanto a una stanza angusta.
Con appena una striscia di moquette su cui camminare.
.
Attesa

Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. E’ quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”
.
La poesia che non ho scritto

Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.

Distantissima dall’idea “metafisica” e “barocca”, il minimalismo ergonomico si compone in strutture rigide, facilmente modellabili. Da qui però succede il dramma letterario: la ripetizione. Carver ci presenta nella prosa uomini di bassa levatura sociale, nella poesia solo e sempre se stesso. L’esempio di un uomo divorziato, di una persona stanca, di una persona innamorata, di uno scrittore fallito. Chiunque può entrarci, perché esempi facilmente interpretabili. In qualche modo, già dall’inizio l’esempio fa sì che la poesia perda il suo valore antropologico. Viene subito inscatolata, una poesia soprammobile da trasloco, facilmente rimpiazzabile con un’altra poesia da trasloco.
Un Leopardi e un Hölderlin non li puoi copiare. Un Carver sì. E tutti l’avevano capito. A partire dalla seconda moglie Tess Gallagher, che con i suoi zuccherini e le sue ragazze povere fa una prosa e una poesia dolciastra, in cui tutte le donne potevano ritrovarsi. Metafore del quotidiano. (Valerio Pedini)

Gif Balletto in microgonna

G. Linguaglossa: Dirò che là dove c’è sentore di minimalismo triviale non ci sono io

Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 11:04

A proposito del minimalismo italiano,

dirò che c’è una bella differenza tra il minimalismo di Carver e il minimalismo italiano, anzi, c’è un abisso… Quello di Paolo Ruffilli è un minimalismo inimitabile, alla maniera di Carver ma con lo stile ruffilliano.
Dirò che là dove c’è sentore di minimalismo triviale non ci sono io. Credo di essere incompatibile con il minimalismo italiano, quel medesimo minimalismo che ha imperversato sul nostro paese per più di quaranta anni come una epidemia, dalla caduta del muro di Berlino ad oggi e che ha impedito di fare le riforme di cui il paese aveva estremo bisogno. Il minimalismo è il pensare in piccolo, pensare e vivere nella convinzione che tanto le cose si metteranno a posto da sole; minimalismo è stato il colpevole silenzio della Chiesa che per quattro soldi dati dallo Stato italiano alle scuole cattoliche, ha preferito tacere in lungo e in largo sulla deriva antropologica, politica, filosofica e psicologica degli italiani; minimalismo è la doppiezza, l’ambiguità, l’ipocrisia, l’ironia facile e a buon mercato. Minimalismo è avere un concetto minimale dell’etica e dell’estetica oltre che della politica. Minimalismo è il «particulare» da cui prendeva le distanze il Guicciardini; minimalismo è farsi gli affari propri, è un sistema di pensiero antropologico. Noi in Italia non abbiamo minimalisti del calibro di Carver o della Szymborska, noi qui abbiamo e Magrelli e i magrellini, i Rondoni e i rondoniani…

il problema era già stato acutamente analizzato da Giacomo Leopardi nello Zibaldone e da Gramsci nei Quaderni quando rifletteva sulla necessità di una “riforma morale e intellettuale degli italiani”. Senza questo distinguo non si può comprendere come il mio personale atteggiamento non è solo di natura estetica ma è collegato a quel problema antropologico e storico che da prima dell’unità d’Italia era stato già intravisto da un pensatore come Machiavelli (intendo il problema di costruire un partito nazionale attorno ad un Principe). Insomma, ritengo che il problema dell’estetico non sempre si esaurisce entro il campo dell’estetica, a volte va visto entro il campo più generale che colloca il problema della delibazione estetica entro il campo più generale della Riforma politica, amministrativa, filosofica, estetica e anche religiosa del Paese. Per quanto riguarda il campo della riforma religiosa, lascio questo compito alla Chiesa e al suo capo, ma per gli altri ambiti ritengo che sia dovere anche dei poeti prendere una posizione chiara, univoca nei confronti di quello che va sotto il nome di “minimalismo italiano”, che è una forma mentale, una visione antropologica, una visione anche politica (intesa come coincidenza di interessi tra arte e status quo della società italiana). L’adesione o no al “minimalismo italiano” costituisce, nella mia visione (per fortuna non solo mia ma anche di un giovane come Valerio Pedini e di tutti i redattori dell’Ombra delle Parole), un discrimine, un confine irrinunciabile nella convinzione che l’atto estetico non è un atto neutrale e personale ma un atto eminentemente politico, un atto di educazione estetica per dirla con Schiller.

Gino Rago
27 gennaio 2018 alle 12:05

SEGNALAZIONE
Fresco di stampa, segnalo ai frequentatori de L’Ombra delle Parole questo libro di fondamentale importanza sulla poesia italiana contemporanea:
Giorgio Linguaglossa, Critica Della Ragione Sufficiente (verso una nuova ontologia estetica), NOE, Edizioni Progetto Cultura, Roma, gennaio 2018, Pagine 512 € 21.00 –

“(…) Critica della ragione sufficiente è un titolo esplicito. Con il sottotitolo “verso una nuova ontologia estetica”. Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non avere fine.
I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare a una “ragione sufficiente” (…)
Un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che il presente non è affatto certo…”.

Anna Ventura
27 gennaio 2018 alle 12:41

Condivido la convinzione che un atto estetico sia anche politico; mi lascia perplessa il rovescio dell medaglia: un atto politico è anche estetico? Alla luce della realtà odierna sembrerebbe proprio di no. E nemmeno il passato ci aiuta: Pericle fu un grande esteta,ma il prezzo che pagò la Grecia fu troppo alto; l’atto estetico non aveva tenuto conto delle conseguenze concrete, e, come sempre, furono i più deboli a pagare.

Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 15:54

A proposito del minimalismo, ricevo alla mia email e pubblico questo contributo dello scrittore Piero Sanavio:

— il minimalismo, variante dell’intimismo, questo continuo rifugio di molta poesia contemporanea nazionale non escluso l’Ungaretti post Porto sepolto (figlio di Apollinaire) e Montale, questo D’Annunzio senza gli aggettivi. Non parliamo della cosiddetta poesia civile. Sicché, malgrado le sue ignoranze della cultura classica, e gli inevitabili errori, più interessante, con tutti i possibili distinguo, mi risulta il primo Quasimodo. Questo, e un’esperienza con la poesia neogreca e la lettura di Kavakis, mi spinge a valutare la riproposta della cultura classica che ritrovo in Giorgio Linguaglossa. Le tre poesie inedite:

“Confessione del poeta Cornelio Viburno: «E adesso che farà il console?»
”I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo a proposito del suo collega Druso”
“Monologo dell’Imperatore Giuliano l’apostata” –

mi sembrano importanti non soltanto dal punto di vista formale (memorie della grande stagione poetica che da Marot, traduttore di Virgilio, scende a Browning), ma ideologico nel senso di recupero di una cultura che appartiene all’Occidente e alla quale gli stessi poeti del Nuovo Mondo (Lowell) non sono stati sordi. Ti accludo qste tre poesie, o potremmo chiamarle “dramatis personae”. Tu mi conosci, sai benissimo che non sono né nazionalista né cultore dell’antico ma di fronte alla corrente ignoranza e riduzione della scrittura a confessioni intimistiche e\o dichiarazioni di fede per un partito, quest’altra scelta mi sembra un doveroso correttivo.

Roma_legionari in marcia

Così, ogni mattino mi reco pieno
di angoscia al Campidoglio

Confessione del poeta Cornelio Viburno: «E adesso che farà il Console?»

Adesso spero proprio di essere inessenziale,
invisibile, trascurabile come un piccione

che becca tra gli orti del Foro.
«Chi vivrà vedrà», mi dico tanto per consolarmi.

«In fin dei conti il Console può essere sconfitto dai barbari
o dalla guerra civile o da se stesso».

Ma ecco il Console, nel manto di porpora, sulla biga addobbata,
di ritorno dalla guerra vittoriosa,

l’ennesima guerra tra le mura della Repubblica,
che fa ingresso con le sue legioni, tra squilli di trombe

e rullio di tamburi sotto l’Arco di Trionfo.

«È il suo trionfo o il nostro?», chiedo al mio fidato amico Claudio
assiepati alla transenna del Foro della Repubblica.

Ogni mattino mi reco in allarme ai piedi del Campidoglio, negli uffici del Consolato,  cerco il mio nome tra quelli inscritti nelle liste di proscrizione.

«E se lo trovassi? – mi chiedo – che cosa farei se trovassi
 il mio nome nelle liste di proscrizione?

Andrei subito dal Console per rendergli omaggio?
Lo supplicherei di essere risparmiato?

Rinnegherei la mia fede repubblicana?
Reclamerei la mia fedeltà in lui, nel console vittorioso

che ha risolto con le armi il contenzioso?

Mi prostrerei ai suoi piedi a invocare clemenza?».
Così, ogni mattino mi reco pieno di angoscia al Campidoglio,

ma ormai spero davvero di trovare il mio nome
tra quelli iscritti nelle liste di proscrizione;

finalmente sarei libero, libero di fuggire o di umiliarmi
dinanzi alla toga del Console, mi getterei ai suoi piedi 

scongiurandolo di risparmiare me e la mia famiglia,
lo invocherei di liberarmi della mia angoscia,

di mozzarmi subito la testa o, peggio, di lasciarmi libero tra gli orti
del Foro, proprio come un piccione.

statua di romano epoca imperiale

I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo a proposito del suo collega Druso

Druso ha sempre i piedi sporchi nei calzari di cuoio,
il ventre prominente e parla un latino infarcito di dialettismi della Sabina;

inoltre, a tavola non è mai sobrio, ama l’eccesso
in libagioni e in amorazzi con le sue schiave

e con i mori che acquista al mercato al suono di sesterzi d’oro.

Nel Foro non prende mai una posizione univoca, 
ciò che dice in privato non lo ripete certo in pubblico.

È abile, sfuggente come una biscia, oleoso come la resina del Ponto Eusino,
dire che non lo amo sarebbe un eufemismo,

una ipocrisia, ma ciò che è più grave, non riesco
neanche a detestarlo.

Mi dico: «Druso è un codardo, un mentitore,
un fingitore, un voltagabbana» ma, ciononostante,

non riesco a detestarlo. Forse che dovrei rimproverargli
il suo faccione impolverato di cerusso?

In fin di conti, è un mio simile: un teatrante, un attore,
ha un mento, un naso aquilino, proprio come me.

«Non c’è alcuna differenza – mi dico – tra noi».

Druso ha il volto foderato di cerone da teatro,
scivoloso di biacca, il mento leporino e gli occhi cisposi

per il vino in eccesso della notte innanzi, ascolta
ciò che gli torna immediatamente utile,

quando non gli conviene fa il pesce in barile;
dei nostri discorsi sulla res publica, dice
 «che sì, che no, che forse, che insomma…».

Del resto, sto molto attento quando il fedifrago
nei conviti mi porge il cratere colmo di vino,

fingo di bere con un sorriso sordido…  mentre con la coda dell’occhio
sbircio sempre in allarme la porta d’entrata.

in casa di Mecenate evito di guardare in volto il capo delle guardie
quando fa ingresso con il codazzo di pretoriani e di ottimati profumati.

Anch’io parlo sempre meno in pubblico
dei miei pensieri privati, e in privato

dei miei pensieri pubblici…

sesterzio  romano

 

Monologo dell’Imperatore Giuliano l’apostata

Come quando sei a teatro e vedi
sul fondale trascorrere delle ombre indecifrabili,

incomprensibili icone, però, che parlano
una loro lingua muta;

geroglifici, criptogrammi, tracce misteriose
degli dèi scomparsi, di infausti eventi;

e credi di riconoscere un profilo,
un volto, una immagine, un segmento,

una mano tesa in aiuto
 o pronta ad impugnare una spada…

Io Cesare, davanti allo specchio, chiedo a Cesare:
«È il tuo quel volto?», «Sono per te quei segni?»

Il mio dèmone mi dice che «le Moire
sono più antiche del Fato, che la mia filosofia

è aggiogata ad un carro più antico».
Mi dice anche: «guardati dai tuoi generali, Cesare!»*.

«È tua l’immagine che vedi riflessa nello specchio!»
«Una mano compirà quel gesto. Ti colpirà alle spalle.

Una Moira l’ha deciso.
Che tu forse speravi avesse dimenticato.

Ma è lì il gesto, nel nodo che Lachesi ha intessuto nel filato
del tuo manto di porpora, che dimora

nel secchio senza fondo della tua anima».

Mi chiede ancora il dèmone: «È tua quella mano,
la mano che ha impugnato la spada?

La spada chiama altra spada, Giuliano,
l’odio chiama altro odio».

«Chiedo al dèmone: quel volto che vedi riflesso nell’immagine
dello specchio corrisponde alla mia “anima”?».

«Sì, – risponde il dèmone – quel volto corrisponde al tuo profilo,
alla linea sghemba del tuo mento leporino,

alle rughe che hai agli angoli degli occhi
almeno nelle sue linee, diciamo così, generali».

«Sì ritengo di essere sempre io
il riflesso di quel volto che ho considerato,

troppo spesso, in modo incongruo, discontinuo,
a volte fraudolento,

scambiando l’effetto per la causa, o la causa per l’effetto.
Sì, sono proprio io quel volto,

il volto che gli dèi mi hanno dato,
il destino che le Moire mi hanno concesso».

roma busto maschile

*giunto nel 363 d.c. con il suo esercito a Ctesifonte, Giuliano, a soli 33 anni, fu assassinato da una congiura di alcuni ufficiali cristiani. Ecco il resoconto di Ammiano Marcellino sugli ultimi istanti di vita dell’imperatore:
“Giuliano, giacendo sotto la tenda, rivolse la parola ai circostanti depressi e tristi “é venuto il tempo, amici, di uscire dalla vita. Sono in procinto di pagare alla natura il debito che chiede, non afflitto e addolorato, ma ammaestrato dai pareri dei filosofi su quanto l’animo sia più beato del corpo, conscio che tutti i dolori, come infieriscono sui codardi, così cedono il passo a chi persiste. Non rimpiango alcuna delle mie azioni nè mi opprime il ricordo di un grave delitto, sia quando venivo relegato nell’ombra e nelle ristrettezze, sia dopo la mia ascesa al principato. Ho conservato l’animo esente da macchie, come penso, reggendo l’impero con moderazione. Considerando che il fine di un giusto impero fosse l’interesse e la salvezza dei sudditi, fui sempre alquanto propenso ad una situazione tranquilla. Ora me ne vado lietamente, e ho venerazione per il nume eterno, poiché prendo congedo non dopo una lunga e dolorosa malattia, ma nel mezzo della gloria fiorente”

(Inediti, da Tornare alla corte di Cesare? – 2010)

  

Roma6

Ho deciso di tornare alla corte di Cesare

Rossana Levati
27 gennaio 2018 alle 17:52

Vorrei aggiungere al contributo proposto da Pietro Sanavio, e sulla scia delle sue considerazioni, queste due poesie che ho letto stamattina, pubblicate sull’Ombra nel 2014:

Zbigniew Herbert

Il ritorno del proconsole

Ho deciso di tornare alla corte di Cesare
ancora una volta proverò se è possibile viverci
potrei restare qui nella remota provincia
sotto le foglie del sicomoro piene di dolcezza
e il mite governo dei malaticci nepoti
quando tornerò non intendo cercare meriti
offrirò una parca dose di applausi
sorriderò di un’oncia aggrotterò le ciglia con discrezione
non mi daranno per questo una catena d’oro
questa di ferro deve bastarmi
ho deciso di tornare domani o dopodomani
non posso vivere tra le vigne tutto qui non è mio
gli alberi sono senza radici le case senza fondamenta la pioggia
è vetrosa i fiori odorano di cera
un’arida nube bussa sul cielo deserto
in ogni caso tornerò dunque tornerò domani dopodomani
bisognerà di nuovo intendersi con il volto
con il labbro inferiore perché sappia reprimere lo sdegno
con gli occhi perché siano idealmente vuoti
e con il povero mento lepre del mio volto
che trema quando entra il capitano delle guardie
di una cosa sono certo non berrò il vino con lui
quando accosterà la sua ciotola abbasserò gli occhi
e fingerò di estrarre dai denti le tracce del pasto
cesare del resto ama il coraggio civile
entro certi limiti entro certi ragionevoli limiti
in fondo è un uomo come tutti gli altri
e ne ha abbastanza dei trucchi col veleno
non può bere a sazietà incessanti scacchi
la coppa a sinistra per Druso nella destra bagnare le labbra
poi bere soltanto acqua non staccare gli occhi da Tacito
uscire in giardino e tornare quando già hanno portato via il corpo.
Ho deciso di tornare alla corte di cesare
spero proprio che in qualche modo ci intenderemo

(traduzione di Paolo Statuti)

Giorgio Linguaglossa

Il generale Germanico scrive al suo comandante di Coorte Giulio Decimo

…mio amato Giulio Decimo, tu dici
che «non son sicuro di voler tornare
ma tornerò alla corte di Cesare,
domani o anche dopodomani».

Cosa vuoi che ti dica?, un tempo
sei stato un valoroso soldato,
il tuo generale era fiero di te,
vessillifero della centuria, ti ho visto in
cento battaglie sempre davanti ai manipoli,
forse sei stato inviso agli dèi ctonii
se mille frecce non ti hanno colpito
e cento spade si sono spezzate sul tuo scudo…

Tu mi dici che adesso pianti gli alberi
di ulivo sui declivi dei colli di Miromagnum
e insegni ai bambini le poesie di Ennio
e dei neoteroi di Roma, e che sei
contento così, che il tuo animo
ha trovato la quiete che cercavi…

Lascia che io ti dica come tutto ciò è fallace amico mio
Cesare si pasce della nostra quiete,
lui è munifico e beffardo, sordido

e astuto, distribuisce frumento
alla plebe, sesterzi ai fedeli pretoriani
e spettacoli con i tori, i leoni e con curiosi
cavalli dal lungo collo che vengono dall’Africa,
le arene sono rosse per il sangue
dei gladiatori, i prezzi della Suburra
sono alla portata di tutte le tasche
e il regime è democratico, temperato;
ci danno ad intendere che il Principato
sia lo sbocco naturale del peripato…

Cinquanta inverni ci pesano sul volto
attraversato da spighe di grano maturo.
Ti chiedo: per quanto tempo ancora dovremo
tollerare questo Cesare di argilla?
Per quanto tempo ancora dovremo fingere
assenso alle sue magagne e inneggiarlo
con iperboli sottili e lambiccate?
Per quanto tempo, Giulio Decimo?
Già, dicono le folle che Cesare è magnanimo,
che alla corte di Cesare c’è posto,
che c’è sempre un posto al sole
per chi accetta di stare all’ombra.

«Appunto – dico io – per chi accetta di stare all’ombra».

Commento di Rossana Levati

La giudico una interessante forma di poesia che riprende le radici della cultura occidentale, come afferma Sanavio, e che racchiude anche molti elementi di una poesia civile:
Una “corte di Cesare” (quale corte? Quella antica o quella odierna?) che incombe sullo sfondo, con le sue attrattive e la sua pericolosità (come non ripensare a Orazio, quando si giustifica con Mecenate, nella Epistola VII, perché, dopo aver chiesto quattro o cinque giorni di riposo lontano da Roma, non solo non vi è tornato per tutta l’estate e l’inverno, ma si rifiuta di farlo fino ai venti della prossima primavera..); vi si descrive il regime di un imperatore “munifico e beffardo” che si pretende e si presenta “democratico, temperato”; un “Cesare d’argilla” che vuole essere ammirato, che richiede inni ed elogi con “iperboli sottili” e che è pronto a cedere un posto al sole purchè si resti all’ombra, alla sua ombra…
Ho trovato questo testo grandioso, perché gli echi di Orazio ma anche di Tacito (il ritorno di Agricola alla corte di Domiziano) vi si assommano, perché getta una luce obliqua sul presente e sui rapporti tra politica e cultura, tra luoghi in luce e luoghi in ombra nella stessa cultura, strettamente connessa con la macchina del potere “imperiale”; e perché vi ho ritrovato, come nel “Monologo di Giuliano l’Apostata” segnalato da Sanavio, una dolente riflessione sul potere e sulla sua fragilità e cecità, come ci indica Kavafis nelle sue poesie dedicate a Cesare, Antonio, Nerone, tutti travolti da una storia che non hanno saputo né comprendere né controllare.

Roma1

Caro Tallia, tu dici: stiamo bene qui, all’ombra del sicomoro

Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 18:27

Una lettera di Germanico al suo compagno d’arme Tallia

Caro Tallia, tu dici: stiamo bene qui, all’ombra del sicomoro
tra cespi di forsizie e ciuffi di araucarie, simulando deferenza
per le ipotiposi del Cesare di argilla, in fin dei conti
l’eternità è una figura del presente… a furia di rotolare nella sua corte
di mezzani e di faccendieri il Cesare andrà a sbattere contro
quella cosa che i posteri chiamano, con un eufemismo, la storia…
Mi auguro, Tallia, che tu abbia ragione, ma se ragione non hai,
almeno vivrai incolume gustando il vino mieloso della tua cantina
e i fichi secchi della cirenaica.

Tre Poesie di Giuseppe Talia
27 gennaio 2018 alle 23:58

Caro Germanico, bene non sto. Il sicomoro non produce frutti.
L’infiorescenza carnosa degli acheni si è seccata.
I mezzadri non pagano più l’affitto ed anche il podere
da quando i galli hanno smesso di mietere, non produce che erbacce.
Me ne sto all’ombra del pitosforo nano, l’ unica pianta a resistere
In questi mesi di siccità, con indosso il finissimo cashemere
della Mongolia, ingualcibile e antibatterico, hot couture.

Giuseppe Talia
28 gennaio 2018 alle 2:56

Paolo Ruffilli

Mi ama. Non ho dubbi. Me lo ripeto come un mantra.
Ogni suo whatsapp me lo ricorda: – Che fai? Sei solo?
E solo sto. Mi tiene sotto scacco. – Domani non posso.
No, domani no. E quando sarà, che pioggia d’oro!
Che baci possenti! Poche parole, sì ma veraci. Mi ama,
non ho dubbi. Torna da viaggi con i capezzoli doloranti.

Nacht und Nebel

Amavo Vincent.
Una mattina la Gestapo bussò alla mia porta.
Stavo preparando la colazione.
Vincent era ancora nel tepore
Del letto. Drinner oder draussen!
La porta si chiuse alle mie spalle.
Un treno e la neve che non finiva mai.
Vincent e il tepore del letto.
Un ricordo lontano, lontano.
Mi cucirono sul petto un triangolo rosa.
La pelle attaccata all’osso.
Fame e stenti nei capannoni dissenterici.
Quanti siamo? Quanti saremo?
Il Wissenschaftlich-humanitäres Komitee?
Lontano, lontano.
Ogni tanto scambio qualche parola con Adna.
Mi mostra il suo triangolo nero.
Mi racconta delle serate
Al Dorian Gray, al Flauto Magico.
Io chiudo gli occhi. Vincent, Vincent. Dove sei?
E una sera Vincent mi venne in sogno:
Totgeschlagen – Totgeschwiegen

* Totgeschlagen – Totgeschwiegen è una iscrizione su un monumento a Colonia e significa “colpito a morte – messo a tacere.

 

Risposta in poesia di Giorgio Linguaglossa

28 gennaio 2018 alle 10:09

I poeti di corte

caro Tallia, i poeti di corte, tu lo sai,
sono timidi e infidi, incidono, gli inetti, sulle tavolette di cera

i loro versicoli ossequiosi al Cesare di turno,
lo vezzeggiano, lo inneggiano, lo adulano e,

nel mentre che cicalano alle sue spalle,
indorano le loro parole, le incartano con del papiro egizio

per farle apparire preziose…
ciarlano di pitosfori e di limoni, brigano con il Palazzo

per ottenerne favori al Corriere della sera e alla Stampa,
vergano sulla terza pagina le loro insulse noticine letterarie

mentre irridono i Malvolio e i Benvolio, che non sai mai
con chi se la prendano veramente, gli inetti…

i sordidi non nominano mai i loro interlocutori
dicono soltanto che sono dei mestatori e che non sanno

quello che scrivono…

gli inetti, caro Tallia, sono una malfida congrega di malvissuti
che inneggiano a Venere e a Giove, Marte non li turba e,

se del caso, ammiccano anche a quel galileo
che oggi va tanto di moda qui nell’Urbe.

Giorgio Linguaglossa
28 gennaio 2018 alle 12:53

Posto qui due poesie di Anna Ventura. Due poesie due ritratti. La prima narra di Cesare tra «i boschi nordici, d’inverno» ripreso da una cinepresa nascosta durante una campagna militare nel nord dell’Europa (non sappiamo quale, ma non è importante), lui «che sarà il padrone del mondo», mentre invece gli avvenimenti decisivi che riguarderanno la sua persona viene decisa a migliaia di chilometri di distanza, nell’Urbe… Nella seconda poesia la cinepresa nascosta ci informa del momento dell’ultima decisione del poeta scrittore Petronio arbiter, quando decide di auto togliersi di mezzo, con una cena tra gli amici, declamando poesie e cibandosi di leccornie tra battute di spirito e celie. L’argomento centrale di queste poesie è sempre quello, il problema del rapporto tra il poeta e il Potere. Possono passare secoli o millenni ma il problema è sempre quello che ha fatto scrivere a Platone di voler esiliare i poeti dalla città.

Due poesie di Anna Ventura

Tu quoque

Cesare nei boschi nordici, d’inverno.
Dorme poco, mangia niente;
se non combatte, scrive. La parola
si affila come un’arma. Come un’arma
è infallibile. Cesare sa
che sarà il padrone del mondo,
ma ora è solo,
nel bosco innevato. Le guardie
dormono, il fuoco
si va spegnendo in piccole lingue
rosse e gialle. Cesare
non ha rimorsi,
non ha rimpianti,
non ha paura. Ma a Roma,
nelle quiete stanze
di una casa patrizia,
lì dove si aggrumano
tutti i rimorsi,
tutti i rimpianti,
tutte le paure,
lì dove il condottiero
nessun pensiero indirizza,
lì un pugnale si affila.

Petronio Arbiter

L’Arbiter sapeva
di essere in pericolo,
e non se ne curava; sapeva
che, comunque, la morte arriva,
né temeva un’anticipazione;
ma lo disgustava l’idea
di una violenza brutale,
di una mano sporca
che lo avrebbe trafitto
con un pugnale
forse già insanguinato. Perciò,
meglio morire per propria scelta,
a banchetto, tra parole leggere.
Forse aveva ragione Trimalcione,
che nel suo epitaffio,
dove si definisce
“pio, forte e fedele”, avverte:
“Non ascoltò mai un filosofo”.
L’Arbiter amava quella creatura
nata dalla sua fantasia inquieta:
così lontana da lui,
così vicina alla terra.

Una poesia di Gino Rago
28 gennaio 2018 alle 15:55

Il filosofo Erèsia

Alla domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,
risponde il filosofo Erèsia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,
il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua:
non mi aspetto l’eternità e so che nessun verso oltrepasserà la morte.
I poeti lo sanno da sempre: le poesie sono mortali».
(…)

16 commenti

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16 risposte a “Sul Minimalismo italiano – Dialogo tra Piero Sanavio, Rossana Levati, Giorgio Linguaglossa, Valerio Pedini, – Poesie di Zbigniew Herbert, Raymond Carver, Anna Ventura, Giuseppe Talia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

  1. Ricevo da Steven Grieco Rathgeb questa poesia di un poeta americano di 29 anni, Ocean Vuong, per la problematica del minimalismo della poesia dei nostri tempi.

    Caro Giorgio,
    le notizie su Ocean Vuong che trovi qua sotto, più una sua poesia da me tradotta in italiano, in qualche modo rispondono al recente post sull’Ombra dedicato a John Stanizzi. Penso che questo vietnamita Americano, ancora molto giovane, è più adatto a rappresentare la poesia americana attuale: il tentativo, anche negli U.S.A., di uscire dalle secche della brutta poesia del secondo Novecento.

    Ocean Vuong, 29 anni, poeta vietnamita Americano, ha vinto il T.S.Eliot Prize for Poetry https://www.theguardian.com/books/2018/jan/15/ts-eliot-prize-goes-to-ocean-vuongs-compellingly-assured-debut-collection prestigiosissimo premio poetico britannico, con la raccolta Night Sky with Exit Wounds (Cielo di notte con ferite d’uscita), published by Jonathan Cape. Di lui la poetessa Kate Kellaway https://www.theguardian.com/books/2017/may/09/night-sky-with-exit-wounds-ocean-vuong-review dice nel sottotitolo della sua recensione nel Observer: “The poet’s debut reveals a master of juxtaposition willing to tell difficult stories with courage” (Nell’esordio del poeta scopriamo un maestro della giustapposizione, pronto a raccontare con coraggio storie difficili)

    Untitled (Blue, Green and Brown) oil on canvas: Mark Rothko: 1952
    di Ocean Vuong

    The TV said the planes have hit the buildings.
    & I said Yes because you asked me
    to stay. Maybe we pray on our knees because god
    only listens when we’re this close
    to the devil. There is so much I want to tell you.
    How my greatest accolade was to walk
    across the Brooklyn Bridge
    & and not think of flight. How we live like water: wetting
    a new tongue with no telling
    what we’ve been through. They say the sky is blue
    but I know it’s black seen through too much distance.
    You will always remember what you were doing
    when it hurts the most. There is so much
    I need to tell you – but I only earned
    one life. & I took nothing. Nothing. Like a pair of teeth
    at the end. The TV kept saying The planes…
    The planes…& I stood waiting in the room
    made of broken mockingbirds. Their wings throbbing
    into four blurred walls. & you were there.
    You were the window.

    Senza titolo (Blu, verde, marrone): olio su tela: Mark Rothko 1952
    di Ocean Vuong

    La TV disse gli aerei hanno colpito i palazzi.
    & io ho detto Sì perché m’hai chiesto
    di rimanere. Forse preghiamo in ginocchio perché dio
    ascolta solo quando arriviamo a essere così vicini
    al diavolo. Quante cose ti voglio dire.
    Come il mio più grande riconoscimento è stato
    attraversare Brooklyn Bridge
    & non pensare alla fuga. Come viviamo simili all’acqua: bagnando
    una nuova lingua e non dicendo
    cosa abbiamo passato. Dicono il cielo sia azzurro
    ma io so che è nero visto attraverso troppa distanza.
    Ricorderai sempre quello che facevi
    quando fa più male. Quante cose
    ti voglio dire – ma io ho meritato (guadagnato) una vita
    soltanto, & non ho preso niente. Niente. Come un paio di denti
    alla fine. La TV continuava a dire Gli aerei…
    Gli aerei… & io sono rimasto ad aspettare nella stanza
    fatta di usignoli rotti. Le loro ali che sussultavano
    diventando quattro mura sfocate. & tu eri lì.
    Tu eri la finestra.

  2. gino rago

    Meditazioni intorno a “Sul quadridimensionalismo”, da
    “Critica della Ragione Sufficiente” di Giorgio Linguaglossa, Pagine 76/77

    “La madeleine. Il selciato sconnesso.
    Il tintinnio di una posata.
    Le chiavi di casa perdute in un prato.

    Diventano in noi la resurrezione del passato?
    Fanno riapparire il tempo nello spazio?
    […]
    Il passato si ripete nella materia grazie alla memoria
    se il tempo perduto esce
    dalla profondità quadridimensionale.

    Perché l’uomo stesso è spaziotempo.
    Perché al profondo, al lungo e al largo
    soltanto l’uomo lega ciò che fu.

    Il tempo perduto. Il tempo passato.
    Gli infiniti punti dello spazio e gli infiniti istanti del tempo
    possono vibrare insieme solo nella Memoria.
    E il presente è la scheggia di tempo che ricorda il passato.

    La morte qui non c’entra. (…)”

    Gino Rago

  3. Rossana Levati

    Le poesie proposte oggi alla nostra lettura ci offrono, tra le altre cose, anche la possibilità di riflettere sulla non-persistenza della storia e della politica e sulla persistenza o non-persistenza della poesia.
    Certo, dipende da quale tipo di poesia: è vero, come diceva Gino Rago qualche giorno fa, che “Il grande poeta non è chiamato a dare risposte, ma a porsi grandi domande”; per questo credo che la poesia possa anche trasformare l’errore della storia in una grande verità, non certo, intendo dire, per “giustificare” l’errore /l’orrore della storia ai nostri occhi, ma per porcelo in una luce diversa, dove la storia possa svelarsi nella sua inconsistenza e la vita dell’uomo nel cosmo, pur se nel breve spazio di un attimo, possa ancora brillare nella sua ricchezza o sembrarci più vicina e comprensibile nella sua brevità e fragilità.
    La poesia nasce dalla fragilità ma non per forza sarà condannata alla stessa debolezza dell’uomo che la produce; potrà essere scritta sull’acqua o sul vento ma potrà anche trasformare la fragilità umana nella propria forza e nella propria sfida al tempo, non perchè il mondo sia armonia (Herbert ci dice che “ L’unità infranta si disgregò in particelle vivaci come gocce di mercurio”, ne “L’inizio”) ma perché la poesia ci può consentire di riaprire la strada all’immaginazione (Herbert, “Bisogna ricominciare da capo/ il cammino verso l’immaginazione”, ne “Gli scacchi”) e in questo senso la poesia ha una sua durata e persistenza, una sua immortalità, come ha indicato Anna Ventura a proposito del suo libro “I cercatori di oblio”.

    In questa direzione vorrei tornare a Ritsos e a un esempio della sua poesia civile:
    Le tre vecchie-fantasmi dell’Isola di Melos che con la pasta di pane hanno modellato uccellini, cosparsi di caramella rossa e azzurra, e li hanno dati ai propri figli da mangiare e giocarci, sono sostituti del poeta e della sua creazione , come è evidente quando poco dopo riescono a vedere cose (isolette apparse d’un tratto sul mare) che nella realtà quotidiana non esistono, non hanno una realtà tangibile:
    “II VECCHIA – All’improvviso, laggiù, in lontananza sul mare ecco le isolette! – non le avevamo mai viste, no, non c’erano prima!
    III VECCHIA – Isolette azzurre, trasparenti, d’un tratto s’illuminavano nel tramonto, tremolavano come pietre preziose, ardevano e si spegnevano: poi diventavano cenere, svanivano nella notte.
    LE TRE – Ma noi, noi le avevamo viste e sapevamo che esistevano, e sapevamo che il mondo era immenso, più grande di ciò che vedevamo, e noi non eravamo sole.”

    Ma è proprio dal centro di questo dolore, di questa insensatezza della distruzione di Melos, operata da un impero che si pretendeva duraturo ma è sprofondato negli abissi della storia, che il poeta ci può presentare la sua riflessione, una riflessione che non ci darà risposte definitive ma almeno ci porrà una grande domanda, sul senso dell’ingiustizia e del dolore, e che potrà trasformare il “tempo passato” in “tempo presente”, attuale per noi, strappandolo alla dimensione di un “tempo perduto” e perciò inutile:

    “ Davvero, com’è che ancora ci ripensiamo, ricordiamo? allora vuol dire che Milos è esistita e anche noi siamo esistite e ancora viviamo –
    I VECCHIA – e una sera, quella parola, “patria”, è ancora dentro di noi
    II VECCHIA – e una sera, quella parola, “libertà”, è dentro di noi, dentro di noi,
    III VECCHIA – e quell’altra parola, “morte!”, compagna della libertà, si nutre delle nostre viscere,
    LE TRE – come il seme di nostro marito – e si gonfia, si gonfia, ci riempie tutte – eh! eccoci ancora fecondate a settant’anni, a ottant’anni, per partorire ancora molti figli, mille figli, figli dell’isola, e partorire di nuovo Milos dalle guance di rosa. Oh! Signore, stiamo mica vaneggiando? Signore, siamo mica morte e spuntiamo come fantasmi dall’altra parte del mondo? Signore, pietà, Kyrie eleison, Signore, pietà – facciamo il segno della croce: – ecco, la nostra mano, – la vediamo, eccola che fa il segno della croce ed ecco anche la sua ombra sul davanzale –ah! Signore, una mano degna di tenere ancora il pane, il neonato, il coltello, la bandiera!”
    (da “La distruzione di Melos”, ne “L’albero della prigione e le donne”)

    Ritsos ci ha detto che “Là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che/ Inizia/ La storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza / Dell’uomo” (“Dopo l’alleanza”) e ha rivolto i suoi versi a chi verrà, a noi venuti dopo di lui, destinatari della sua poesia, esattamente come Herbert, pur consapevole della precarietà della sua vita di poeta, dice con equilibrio: “restituisci la sella vuota senza rimpianti/ restituisci l’aria a un altro” (ne “Il viaggio”)

  4. Oggi il minimalismo nel romanzo e nella poesia rispecchia il fenomeno della de-culturalizzazione delle masse un tempo cultualizzate dalla scuola di massa. Ad esempio, date in pasto alla massa de-culturalizzata le poesie di questo post, e nessuno saprebbe come valutarle perché sono venuti meno tra le masse de-culturalizzate i criteri e la cultura di base per comprendere un testo letterario complesso. Resta il fatto che anche tra gli «addetti ai lavori» è raro incontrare una persona che abbia mantenuto una sufficiente indipendenza e capacità culturale di giudizio tale da consentirgli la delibazione di un testo letterario. Quello che resta è una media capacità di comprendere un testo scritto in uno stile mediamente cosmopolitico, cioè appiattito e sproblematizzato.
    Rileggiamo un testo del 1970 in idioma siciliano di Bagheria di Ignazio Buttitta (1899-1997).

    Lingua e dialettu

    Un populu
    mittitilu a catina
    spughiatilu
    attuppatici a vucca
    è ancora libiru.

    Livatici u travagghiu
    u passaportu
    a tavula unnu mancia
    u lettu unnu dormi,
    è ancora riccu.

    Un populu
    diventa poviru e servu
    quannu ci arrubbanu a lingua
    addutata di patri:
    è persu pi sempri.

    Diventa poviru e servu
    quannu i paroli non figghianu paroli
    e si mancianu tra d’iddi.
    Mi nn’addugnu ora,
    mentri accordu la chitarra du dialettu
    ca perdi na corda lu jornu.

    Mentre arripezzu
    a tila camuluta
    ca tissiru i nostri avi
    cu lana di pecuri siciliani.

    E sugnu poviru:
    haiu i dinari
    non li pozzu spènniri;
    i giuelli
    e non li pozzu rigalari;
    u cantu
    nta gaggia
    cu l’ali tagghiati.

    Un poviru
    c’addatta nte minni strippi
    da matri putativa,
    chi u chiama figghiu
    pi nciuria.

    Nuàtri l’avevamu a matri,
    nni l’arrubbaru;
    aveva i minni a funtana di latti
    e ci vìppiru tutti,
    ora ci sputanu.

    Nni ristò a vuci d’idda,
    a cadenza,
    a nota vascia
    du sonu e du lamentu:
    chissi non nni ponnu rubari.

    Non nni ponnu rubari,
    ma ristamu poviri
    e orfani u stissu.

    Ignazio Buttitta

    (1970)

    • Questa poesia di Buttita mi riconferma la convinzione che la poesia è inspiegabile, un miracolo che avviene, anche se raramente.
      Buttitta è un grande poeta, a prescindere dal mezzo che sceglie per esprimersi; il dialetto siciliano è un tramite che gli è particolarmente congeniale per esprimersi,forse perchè c’è sempre un legame forte tra territorio e parola,e Buttitta sente fortemente sia il territorio che la parola.La poesia, comunque, è sempre un misterioso dono degli dei.

  5. gino rago

    “Dove passerai l’eternità?”

    Zbigniew Herbert:
    “Dove passerai l’eternità?
    Non lo so. Forse tra la sabbia delle nebulose.”

    (1998)

    Giorgio Linguaglossa

    “Dove passerai l’eternità?
    Non lo ricordo.
    Forse l’ho trascorsa nella sabbia tra le meduse.
    Nella nebulosa di Oort
    a 140 miliardi di chilometri dal pianeta Terra.”
    (2018)

    Mariella Colonna

    “Dovunque passerò l’eternità…voglio avere con me i miei amici poeti, con Gino Rago capo-cordata: sarebbe bello non allontanarsi troppo dal pianeta: non si sa mai, se avremo la testa tra le nuvole, stare per l’eternità galleggiando sospesi per aria senza i piedi per terra non è divertente!
    Abbraccio forte, e grazie.”
    (2018)

    Edith de Hody Dzieduszycka

    “Carissimo Gino, mi sembra ” LA ” domanda senza risposta possibile, salvo nel sogno, con la fantasia dell’immaginazione, forse dentro la poesia…
    Certo ci si può sbizzarrire inventando mondi lontani e consolatori, sapendo che sono sempre e soltanto frutto della nostra inventiva, o invenzione.
    Se potessi scegliere, mi piacerebbe un giardino profumato di lilla… con mele e senza serpente!
    Interessante la risposta di Giorgio, che vede l’eternità dietro di sé e non davanti. Avevo scritto una poesia sul tema del “prima”, ti ricordi?
    Un abbraccio a te.”
    (2018)

    Vito Taverna
    “Spero di  passare l’eternità   a casa mia tra le cose amate a rileggere libri di poesia :”Località Scandolaia 14 – ” e magari ci vediamo.”
    (2018)

    Gino Rago

    Il filosofo Erèsia

    “Alla  domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,
    risponde il filosofo Erèsia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,
    il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua:
    non mi aspetto l’eternità e so che nessun verso oltrepasserà la morte.
    I poeti lo sanno da sempre: le poesie sono mortali».”
    (2018)

    Gino Rago

    • gino rago

      “Dove passerai l’eternità?”

      Rossana Levati

      “(…)
      Io non ho ancora deciso dove passarla ma non credo di poter scegliere.
      Comunque spero di passarla in un posto che non sia troppo lontano da te!
      (Temo che questa sia la mia eresìa e che non c’entri con Erèsia!…)

      P.S.: Comunque spererei ci fosse il mare!”
      (2018)

      GR

  6. Dimmi qualcosa sullo specchio.
    Cosa c’è dietro?

    Non lo so.
    Forse dovresti guardare cosa c’è davanti… allo specchio.

    • gino rago

      Lo specchio

      Cara signora Schubert, mi capita di vedere
      nello specchio Greta Garbo. E’ sempre più simile
      a Socrate. Forse la causa è una cicatrice sul vetro.
      L’occhio incrinato del tempo. O forse è solo una stella
      che sbraita nel vaudeville locale.

      Ewa Lipska
      *

      • la «cicatrice sul vetro» e Greta Garbo «sempre più simile a Socrate» sono pezzi geniali. Questa è vera nuova ontologia estetica. Ewa Lipska ci ha preceduti tutti da un bel po’. Così si fa poesia NOE. Pochissime parole. A mare tutte le parole inutili. A mare l’elegia, A mare il quotidiano dei quotidianisti. A mare le chiacchiere da talkshow. Scrivere delle poesie come si scrivono le lettere, in fretta perché ci chiamano gli impegni, in fretta perché il tempo è prezioso, usando le parole stracci, le parole di tutti i giorni… e poi una metafora fulminante… una sola…

  7. Una poesia di Adam Zagajewski

    I filosofi

    Finitela d’ingannarci, filosofi
    il lavoro non è la gioia l’uomo non è il fine ultimo
    il lavoro è sudore mortale Dio quando torno a casa
    vorrei dormire ma il sonno non è che la cinghia di trasmissione
    che mi porge al giorno che segue e il sole è una falsa
    moneta al mattino squarcia le mie palpebre saldate come prima
    della nascita le mie mani sono due sfruttati e neanche
    le lacrime mi appartengono prendono parte alla vita pubblica
    come oratori con le labbra screpolate e il cuore che
    si è risaldato al cervello
    il lavoro non è gioia ma dolore incurabile
    come malattia della coscienza aperta come nuove borgate
    per le quali con alti stivali di pelle
    passa il cittadino vento

    (traduzione di Paolo Statuti)

  8. Adam Zagajewski (Leopoli, 1945), da Dalla vita degli oggetti. Poesie 1983-2005 (a cura di Krystyna Jaworska, Adelphi, 2012)

    Autoritratto

    Tra computer, matita e macchina da scrivere passa
    metà della mia giornata. Col tempo farà mezzo secolo.
    Abito in città straniere e talvolta parlo
    con sconosciuti di cose indifferenti.
    Ascolto molta musica: Bach, Mahler, Šostakovič, Chopin.
    Vi trovo tre elementi, forza, debolezza, dolore.
    Il quarto non ha nome.
    Leggo i poeti, i vivi e i morti, da loro apprendo
    costanza, fede e orgoglio. Cerco di capire
    i grandi filosofi – ma di solito riesco
    ad afferrare solo brandelli dei loro preziosi pensieri.
    Amo fare lunghe passeggiate per le strade di Parigi
    e guardare i miei simili, animati dalla gelosia,
    dalla brama o dall’ira, osservare la moneta d’argento
    che passa di mano in mano e lentamente perde
    la sua forma rotonda (si usura il profilo dell’imperatore).
    Accanto crescono gli alberi, e nulla esprimono,
    a parte la verde, indifferente perfezione.
    Sui campi volteggiano uccelli neri
    che attendono pazienti come vedove spagnole.
    Non sono più giovane, ma c’è ancora chi è più vecchio di me.
    Amo il sonno profondo, quando non ci sono,
    la corsa veloce in bicicletta per la campagna, quando i pioppi
    e le case si dissolvono come cumuli in un cielo sereno.
    Talvolta mi parlano i quadri nei musei
    e allora l’ironia svanisce all’improvviso.
    Adoro osservare il volto di mia moglie.
    Ogni domenica telefono a mio padre.
    Ogni due settimane incontro gli amici,
    in questo modo restiamo fedeli gli uni agli altri.
    Il mio paese si è liberato da un male. Vorrei
    che a ciò seguisse ancora un’altra liberazione.
    Potrei in ciò essere d’aiuto? Non so.
    Non sono un vero figlio del mare,
    come scrisse di sé Antonio Machado,
    ma figlio dell’aria, della menta e del violoncello
    e non tutte le strade del mondo alto
    incrociano i sentieri della vita che, per ora,
    mi appartiene.

    (Traduzione di Krystyna Jaworska)

  9. Ho spedito ad un autore che mi chiedeva una nota critica sui suoi scritti questa riflessione, già comparsa sull’Ombra. Ho fatto male?

    Nuova Ontologia Estetica significa pensare per fondamenti ontologici.

    L’ontologia da economia curtense della poesia post-lirica nelle versioni epigoniche che si sono avute nella tradizione italiana degli ultimi decenni viene sottoposta a critica dalla «nuova ontologia estetica», da una nuova economia del discorso poetico. Non c’è nulla di scandaloso nel pensare l’ontologia dei fondamenti. Ogni poesia riposa su un fondamento di ontologia estetica, anche quella in apparenza più tradizionale, anche quella più ingenua e sussiegosa che rifugge da ogni petizione di poetica che si basa implicitamente su una ontologia (involontaria e immediata) del senso comune. È del tutto naturale che il pensiero estetico pensi le proprie fondamenta ontologiche, chi non riflette sulle fondamenta del proprio pensiero è un pensatore ingenuo, nel migliore dei casi apologetico, nel senso che fa apologia dell’esistente.

    Oggi finalmente in Italia si avverte il bisogno di un pensiero che pensi i fondamenti della poesia, e questo lo fa la «nuova ontologia estetica». In fin dei conti, una nuova ontologia dei nomi che noi definiamo estetica perché si applica alla poesia (e non solo) altro non è che un nuovo modo di dare dei «nomi» alle «cose», usare delle «parole» al posto di altre. La scelta delle parole è determinante, ma una scelta la si fa in base a dei criteri, dei principi, che noi definiamo «ontologici» e non legati a mere idiosincrasie soggettive.
    Il punto di appoggio per comprendere il «concettuale», scriveva Adorno, è il «non concettuale», ma il «non concettuale» non lo si può comprendere senza far ricorso ad un «nuovo concettuale», altrimenti esso si dissolve in vacuo e vuoto nominalismo.
    Una poesia basata sulla coscienza immediata, sulla immediatezza del senso comune, può essere un bisogno corporale legittimo, un anelito, un desiderio di espressione personalistica che è destinato a rimanere sul piano della espressione comune.

    Dovremmo chiederci perché mai sorga soltanto oggi nella poesia italiana un nuovo bisogno ontologico, il bisogno di ancorare la «nuova poesia» ad una «nuova ontologia». Il bisogno di una «nuova ontologia» del poetico è oggi diventato una necessità.

  10. https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/29/sul-minimalismo-italiano-dialogo-tra-piero-sanavio-rossana-levati-giorgio-linguaglossa-valerio-pedini-poesie-di-zbigniew-herbert-raymond-carver-anna-ventura-giuseppe-talia-gino-rago-giorg/comment-page-1/#comment-30603
    Vorrei dire qualche parola sulla poesia di Giuseppe Talia, Nacht und Nebel, che trovo splendida, essenziale, proprio come deve essere una poesia targata NOE, con le parole contate e rastremate. Questa volta Giuseppe ha cessato di «scherzare» o di «giocare» con le parole, quelle parole che un tempo, tanto tempo fa gli scoppiarono tra le mani e che non si sono mai più rinsaldate e ricomposte. Questa poesia chiuderà il volume in corso di stampa di Giuseppe Talia, Lo chiude nel senso che io penso che aprirà un nuovo corso della sua poesia, che nessuno potrà indovinare, neanche lui…

  11. Giuseppe Talia

    Io credo che oltre la “linea innica” e la “linea elegiaca” esistano, a partire da Satura di Montale, altre due linee, quella “epigonica” e quella “retorica”, che hanno soppiantato le prime due a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Una poesia come Nacht und Nebel, fuoriesce, ed è un miracolo, dalle due ultime linee.
    Ad onor del vero, devo ringraziare Giorgio Linguaglossa per l’editing, come pure delle sollecitazioni che nel corso di questi ultimi anni, attraverso un ossessivo e pervicace battere sullo stesso tasto, ha permesso ai più sensibili di capire che forse è arrivato il momento di tracciare una strada diversa rispetto alle quattro vie. Un nuovo crocicchio.

  12. Concordo con il tuo punto di vista caro Talia, tra la “linea innica” e la “linea elegiaca” (dizioni di Contini) è venuto il momento di tracciare il solco di un nuovo percorso. Adotto, a ragion veduta, la parola «percorso» e non parlo di «linea», né di «scuola» (perché non abbiamo nulla da insegnare a nessuno), né «canone» né «mini canone» (ironica dizione di Berardinelli) perché quello lo si fa, semmai, a posteriori… usciamo da ogni forma di «epigonismo» e di «retorica», facciamo parlare gli stracci, parliamo come si fa in autobus, al bar mentre prendiamo il caffè o mentre parliamo allo smartphone… la metafora verrà, se verrà, da sola, senza accompagnamento musicale di ottoni e di tromboni…

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