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Poesie da materia redenta di Marina Petrillo, Progetto Cultura, Roma, 2019, pp. 100 € 12 Prefazione  di Giorgio Linguaglossa. La poesia della Petrillo alza gli scudi quando la tendenza ad ammutolire diventa insormontabile e soverchiante

Marina Petrillo figura ringhiera rossa

Prefazione  a materia redenta di Marina Petrillo, Progetto Cultura, Roma, 2019, pp. 100 € 12 di Giorgio Linguaglossa

Nel saggio giovanile Tradizione e talento individuale del 1917 Eliot mette a fuoco il problema con pragmatica chiarezza: «La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige, anzitutto, che si abbia un buon senso storico». Nella sua opera successiva il poeta inglese annuncia l’esaurimento della modernità.

Una delle caratteristiche principali della post-modernità è la critica alla modernità e il suo oltrepassamento all’indietro: all’idea del «nuovo» e di innovazione ininterrotta della letteratura, subentra l’idea del ri-ciclo e del ri-uso, della citazione, della de-costruzione. Questo è chiaro in molti autori post-moderni oggi inquadrati come neoclassici. Il mondo salvato dai ragazzini (1968) di Elsa Morante è un’opera tipicamente post-moderna, con il libero impiego di vari generi narrativi che si sovrappongono e si elidono nell’ambito di un discorso poetico ormai vulnerato; Trasumanar e organizzar (1971) di Pasolini segna l’ingresso di un discorso poetico sostanzialmente non dissimile dal discorso giornalistico e narrativo; La Beltà (1968) di Zanzotto è un superlavoro di microcitazioni e di variazioni… siamo arrivati alla summa del Moderno che si autocita e si fagocita. Altre foto per Album (1996) di Giorgia Stecher è una riscrittura del passato attraverso la lente di ingrandimento di alcune fotografie dimenticate nei cassetti di vari comò; il passato viene ripescato e rivissuto mediante vecchie fotografie dimenticate. Incredibile!, la vera rivoluzione della poesia la si fa mediante delle fotografie dimenticate in un cassetto, ripescate messe in forma poetica; la vera rivoluzione la fa Maria Rosaria Madonna con Stige del 1992 adesso ripubblicata insieme agli inediti da Progetto Cultura, Stige, Tutte le poesie (1985-2002) con la sua poesia in neolatino, fitta di scalfitture semantiche, ibridazioni lessicali dal tardo latino ieratico medievale ad un italiano arcaicizzato.

Ormai è chiaro che le rivoluzioni artistiche non si fanno più in avanti ma all’indietro, di lato, ripescando i brandelli e i sintagmi di un mondo trascorso. Auden e Brodskij sono autori tipicamente post-moderni, tornano al ri-uso della metrica tradizionale, la ribasano su un materiale sostanzialmente estraneo e refrattario alla gabbia metrica della tradizione qual è il parlato. Il Moderno, con tutte le sue avanguardie e post-avanguardie, tende a diventare un fenomeno del passato, un circo equestre, un patrimonio amministrato, un museo, mercato, rigatteria, vintage. Entriamo nel Postmoderno. All’idea del progresso estetico subentra l’idea di un regresso estetico, di una diffusione dell’estetico in tutte le direzioni, fuori dagli ambiti privilegiati e protetti della tradizione stilistica del Moderno. Il nichilismo antitradizionale delle avanguardie è progressivo, tende al futuro, vuole andare sempre oltre e al di là, distrugge il passato per costruire un mondo nuovo, distrugge in quanto c’è ancora un patrimonio da dilapidare e distruggere e c’è anche un mondo nuovo da abitare e conquistare.

Oggi, nelle nuove condizioni del Dopo il Moderno, non c’è più un passato da distruggere, anzi, non c’è più un passato, non c’è più nemmeno alcuno spazio per il Futuro.

La poesia di Marina Petrillo la si può inquadrare in questo ambito storico: un tentativo di scavalcamento all’indietro della modernità ripristinando le tematiche «alte» e quelle «basse», il lessico «alto» e quello «basso», il registro del «quotidiano» e quello del periechon.

Ne risulta un libro costituito da un conglomerato di due stili e due approcci metodologici completamente diversi: tendenzialmente ieratico il primo e tendenzialmente cronachistico e pragmatico il secondo. Ne risulta una divaricazione lessicale, prima ancora che stilistica; concettuale. Lo stile tendenzialmente gnomico-aforistico è agglutinato allo stile tendenzialmente cronachistico, ed è in questa ambivalenza, in questa oscillazione tra due stili contraddittori che si rivela la non pacificazione di ciò che non è stilisticamente conciliabile. Il problema della coesistenza di linguaggi disparati e divergenti, caratteristica delle scritture del Dopo il Moderno, non può essere avviato a soluzione con un atto individuale o con una opzione privata dello stile. Ma è qui che si gioca e si giocherà la partita della scrittura poetica del futuro: il bisogno di attraversare i linguaggi detritici e di riporto della tradizione del Moderno (hic facit saltus!) evitando di compromettersi con i detriti della cronaca e del quotidiano come ingenuamente fa il minimalismo.

[La sposa fetale, installazione di Marina Petrillo]

Molto dispari nella resa metrica, la scrittura della Petrillo è attraversata da una inquietudine stilistica e materica per tutto ciò che sfugge al calco mimetico. È l’ibridazione materica di cui si fa carico il discorso poetico di Marina Petrillo che rende questa scrittura sabbiosa, petrosa, scagliosa, acuminata, irrisolta.

Marina Petrillo, seguace di Mallarmé e adepta prediletta di Mnemosyne, considera la pratica poetica al pari di una liturgia nel senso letterale del termine che comprende una dimensione soteriologica, in cui è in argomento la salvezza spirituale, e una dimensione performativa, in cui l’attività creativa è un semplice comportamento pragmatico. La poesia si dà come celebrazione di un significato che sta al di là dei significati intramondani, di un significato trascendibile e trascendente. Detto questo, si capirà la predilezione della Petrillo per la catacresi e l’ellisse, che sono gli strumenti retorici che tendono a spostare il linguaggio verso la soglia dell’indicibile.

La poesia della Petrillo predilige l’espressione figurata, nella quale il letterale e il figurato funzionano come categorie proposizionali della differenza problematologica. Ad esempio nel sintagma «Io diffuso ad Uno», siamo indotti a ricercare altro da ciò che è detto in ciò che è detto attraverso ciò che è detto. Decifrarne il senso implica l’atto di aderire ad un universo concettuale e metaforico dominato dalla contradictio in adiecto e dalla tautologia dove l’enunciato è risposta ad un altro enunciato secretato, risposta alla questione del senso, impossibile a dirsi e a dire se non mediante un atto linguistico figurato. Nella poesia petrilliana la tautologia e l’ossimoro abitano la medesima casa del linguaggio, e il linguaggio ne paga le conseguenze con una situazione di infermità dove il locutore parte da una domanda secretata per andare verso la risposta; e la poesia è nel viaggio, nel percorso che intercorre tra il parlante locutore e il rispondente risponditore. È la ricerca del senso che qui ha luogo, che non può essere soltanto nel disvelarsi del linguaggio senza che vi sia al contempo il presenziarsi del risponditore. È un dialogo muto e intermesso che ha luogo in mezzo alla confusione dei rumori di fondo. È il solo modo in cui può darsi la poesia nella notte dei tempi dello spirituale della nostra epoca digitale.

Per Ezra Pound «una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura», e la Petrillo lavora con il bulino del cesellatore per anni intorno ad una catacresi o ad una metafora ardita. È il suo modo di partecipare ad un rito olistico nell’epoca della medietà mediatica. La severità del poeta nei riguardi di se stesso è il miglior lasciapassare per la propria poesia, il lavoro poetico richiede tenacia e auto riflessione e un senso spiccatissimo di autocritica.

Ha scritto Marina Petrillo:

«il Tempo. Spoglio di ogni linearità, abita i fotoni di infinite galassie».

Quando la poetessa romana ha messo su carta questo pensiero non aveva ancora incontrato la pratica poetica della nuova ontologia estetica; tuttavia questo pensiero l’aveva messa sulla strada giusta: che il Tempo non ha alcuna linearità, e che trasporlo nella linearità sintattica e semantica del discorso unidirezionale che procede dal soggetto e passa attraverso il predicato per giungere al complemento oggetto, è un atto di traduzione che falsa sia la realtà delle cose che si presentano nel Tempo sia il racconto che noi diamo delle nostre percezioni e sensazioni. Si tratta di un atto di falsificazione.

Questo è l’assunto base da cui prende le mosse la poesia modernista europea che ha avuto inizio nel 1954, anno di pubblicazione di 17 poesie di Tranströmer. Chi non ha metabolizzato questo fatto, continua e continuerà a fare poesia tolemaica fondata sul presupposto della linearità semantica del tempo. Il concetto, credo, è molto semplice. È questo il pilastro fondamentale della nuova ontologia estetica.

Marina Petrillo stava andando per la sua strada già da molti anni, ancora prima che nascesse la nuova ontologia estetica, pensava in termini di «tempo interiore» e di «spazio interiore», scriveva una poesia della stanza interiore, di un cosmo in miniatura fitto di infinito, dove finito e infinito sono complementari e si legittimano a vicenda.

Per fare poesia nuova, o almeno, diversa, bisogna avere la forza di mettere in discussione quei precetti su cui si fonda il convincimento che confezionare una poesia significa aderirea un discorso che preveda un concetto unilineare del tempo e dello spazio, e la Petrillo ha provato a coniugare la rarefazione sintattica e metrica della poesia di Cristina Campo e di Antonia Pozzi con l’esigenza di una poesia che facesse di quei punti di debolezza, leggi la dismetria e la distassia, un punto di forza e di ripartenza.

Cupo e colmo d’angoscia risuona il lamento di Hölderlin:

«Wozu Dicther in dürftiger Zeit?».

A che scopo? A che pro? Perché i poeti nel tempo della miseria? Che cosa hanno da dirci i poeti nel tempo della povertà?

«L’espressione tedesca [in dürftiger Zeit] – scrive Blanchot – esprime la durezza con cui l’ultimo Hölderlin si difende contro l’aspirazione degli dei che si sono ritirati, mantiene la distinzione tra le due sfere, la sfera superna e quella di quaggiù, mantiene pura, con questa distinzione, la regione del sacro che la doppia infedeltà degli uomini e degli dei lascia vuota, poiché il sacro è questo stesso vuoto che bisogna mantenere puro». 
Poco prima dei versi citati, l’elegia recita: 

Nur zu Zeiten erträgt göttliche Fülle der Mensch.
Traum von ihnen ist drauf das Leben. Aber das Irrsal
Hilft, wie Schlummer und stark machet die Not und die Nacht.

“Solo per breve tempo l’uomo sopporta la pienezza divina. / Dopo, la vita non è che sogno di loro. Ma l’errore / aiuta, come sonno, la necessità rende forti come la notte”.1 

L’errore, l’erranza, la penuria, l’indigenza… aiutano, rafforzano. Perché? Perché in questo tempo di durezza, la parola del poeta non dice più della dipartita degli dei, dell’abbandono, dell’assenza – la pienezza non è più udibile, essa ci dice che la dipartita degli dèi apre uno scenario di povertà nel tempo della durezza dell’essere; che la poesia significa il lutto, parola che oscilla tra memoria ed oblio, tra durezza e povertà dell’essere.

«Entrambi – uomo e dio – sono infedeli», scrive Hölderlin.

Di che cosa parla, infatti, il poeta? Qual è la sua materia? Se ad ogni tentativo di dire qualcosa intorno al proprio oggetto, consegna questo stesso oggetto all’oblio, lo affida alla dimenticanza? Vocazione del poeta è l’esercizio di una perpetua conservazione in perdita. Che ne è allora della parola del poeta, di quella parola che testimonia il sacro, e lo mantiene puro e vuoto?

La poesia della Petrillo alza gli scudi quando la tendenza ad ammutolire diventa insormontabile e soverchiante.

Nel tempo della estrema povertà (in dürftiger Zeit?), ha risposto Marina Petrillo con delle poesie che sembrano provenire dal tempo della mezza luce, della Lichtung, con delle parole sospese nel viale del tramonto, nella «radura» presso la quale l’ospite della terra giunge dopo un lungo silenzioso tragitto. Allora, ecco il segreto di quella frase hölderliniana: «Ciò che resta lo fondano i poeti», non tanto la parola in forza di «ciò che dura»,  ma anzitutto, la parola per  la debolezza di «ciò che resta», perché in esso i poeti fondano il loro regno illusorio fatto di stuzzicadenti e di zolfanelli bagnati di pioggia come l’infrangersi della parola poetica che non è nulla di monumentale, di statuario, di memorabile, quanto un cumulo di detriti linguistici inutilizzati e abbandonati. La parola poetica  non è una struttura metafisica stabile ma evento fragile e precario che si iscrive nell’epoca della debolezza e dell’infrangersi della parola poetica sugli scogli dell’essere un tempo stabile ed ora non più.

La parola poetica diventa esperienza della fragilità e della terrestrità, esperienza di un indebolimento di ciò che un tempo lontano era la pienezza del tempio greco o della basilica cristiana ed adesso è un luogo infirmato dal sole e dalla pioggia, dal vento e dagli uomini che abitano la terra e che ad essa ritornano, come erranti, come morti. Il linguaggio della Petrillo si dà come ciò che zerbricht,  che si infrange sugli scogli dell’evidenza della terrestrità.

C’è un filo conduttore dall’epoca di Antonia Pozzi, di Cristina Campo, di Maria Rosaria Madonna, di Anna Ventura, di Donatella Giancaspero ad oggi che lega le voci femminili fino a Marina Petrillo, che ci racconta la scomparsa del «sacro». Una così nitida monumentalità non appariva all’orizzonte della poesia italiana da tempo immemore, dove si percepiscono distintamente le scalfitture, e le incisioni del tempo e della terra, le ferite e le abrasioni del tempo, tra il nulla e il presente, dove il tempo è presenza figurale del nostro essere nel mondo, dove la parola è scontro tra mondo e terra nella forma della terrestrità.

È là dove la Petrillo foscoleggia che ottiene l’apice della monumentalità per quell’empito della voce da basso continuo, classicista nutrita di anticlassicismo per quella fedeltà alle regole formali della poesia a partire dal ritmo franto ai raffinati tecnicismi dell’a capo, attraverso cui la poesia modernista del novecento riaffiora in una veste anacronistica e inattuale in un mondo che non sa più che farsene di quella metafisica dell’apparire e del disvelarsi, del venire alla presenza di ciò che non è più presente.

Le parole della Petrillo si presentano omologhe alle parole del corredo funebre con cui si adorna il cadavere di una giovinetta passata anzitempo tra i più…

«Nella tarda modernità l’essere sempre in viaggio, non avere una casa o un porto d’arrivo e non sentire, di conseguenza, la nostalgia per un preciso luogo cui ritornare, può persino trasformarsi in un privilegio. A cosa aspira l’anima moderna, definita da Baudelaire un veliero in cerca della sua terra utopica, un trois-mats cherchant son Icarie? E dove si dirige? Verso l’allontanamento dal noto, Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau (Le Voyage, VIII, 8), per uscire comunque dal mondo, non importa dove (Anywhere out of the world!, in Spleen de Paris, XLVIII).

Se ormai il mondo non ha né centro né periferia, non si possono più desiderare rientri nelle calme acque di un porto, ma soltanto senza meta».2

(Cosa rivela Poesia al Sacerdote del Sublime Tempio…)

Dell’insidiosa tela che il sovrano Tempo
ha posto a sigillo del Mondo

più non altro che cenere si solleva.
Scuote a fatica il capo

l’ultimo amante insoddisfatto
se i fianchi si invaghiscono dello Spirito.

Solo implora la pietà di un bacio.
Involve alfine lo Spazio in azzurrità

e di sua soave Bellezza l’oro
rivela in pudico segreto.

Se accettiamo l’affermazione heideggeriana dell’opera d’arte come «messa in opera della verità», non possiamo non chiederci quale sia il messaggio di «verità» che traluce da questi versi di Marina Petrillo posti in epigrafe.
È certo che la «verità» di cui ci parla la poesia moderna non ha nulla a che fare con la «verità» della metafisica, quella, per intenderci, della piena luminosità nella quale si staglia il marmo della Nike di Samotracia; la nostra «verità» non può che essere una scalfittura che non splende più nella «luminosità» del cielo e della terra ma che abita le intemperie, la mezza luce, lo sguardo distratto benjaminiano, il cono d’ombra, gli angoli intermessi e riposti… che si dà mediante un mezzo parlare, un parlare sibillino, un parlottio smozzicato, un balbutire; non più il tempo oracolare che oggidì risulta sbreccato e corroso; siamo giunti vicini al post-tempo un tempo postruistico e turistico dal quale non ci si affaccia più dal balcone del nulla a quello dell’essere. È il tempo della nostra temporalità infirmata. È il parlare di una modesta sibilla quello della Petrillo che ci parla della perdita perpetua, un parlare dimezzato, smozzicato e infirmato di una regalità infranta e decapitata; il parlare della bocca della testa decapitata, uno smozzicare di sillabe farneticanti senza più senso alcuno, un plesso di fonemi disarticolati e incomprensibili che si presenta nelle vesti disadorne di un «enigma» sordidamente esposto alla dimenticanza dell’essere e della memoria. Ecco perché l’enigma non deve essere interpretato quanto evocato e ricordato come un monito per ciò che è stato e per ciò che sarà nel futuro. Le parole della Petrillo sembrano aleggiare attorno ad un nucleo che si è dissolto, come un fumo che il vento ha disperso.

«Non è sempre necessario che il vero prenda corpo; è sufficiente che aleggi nei dintorni come spirito, e provochi una sorta di accordo come quando il suono delle campane fluttua amico nell’atmosfera, apportatore di pace».2
Le parole della poesia petrilliana aleggiano incerte attorno ad un nucleo assente perché hanno perso la forza di gravità della sintassi e del sensorio che un tempo le teneva legate, perché quella forza si è indebolita…

(Giorgio Linguaglossa)

1 G. Agamben Creazione e anarchia, 2017 pp. 124, 125
2 M. Heidegger, Die Kunst und der Raum, St. Gallen, Erker Verlag, 1969; trad. it. L’arte e lo spazio, di C. Angelino, Genova, Il melangolo, 1984 p. 23

Marina Petrillo Polittico di figurePoesie di Marina Petrillo, da materia redenta (2019) Continua a leggere

24 commenti

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Colloquio sulla nuova poesia con Poesie tra Mauro Pierno, Giuseppe Gallo, Lucio Mayoor Tosi, Guido Galdini, Giuseppe Talìa, Giorgio Linguaglossa

 

foto-ombre-sfuggenti

È Odisseo colui che usa il linguaggio a fini propri

Giuseppe Talìa

7 aprile 2019 alle 0.33

Di cellulite non ne soffro,
di cellulosa sì.

Acido glicolico la sera,
acido ialuronico la mattina:
stabilizzano gli acidi gastrici
e mettono ordine.

I pori si richiudono, la grana
della pelle si ricompatta.
L’aspetto generale risulta luminoso.

Tisane, thé, qualche caffè.
I carciofi depurano il fegato.

La curcuma colora di arancione la lingua:
lingua spirituale, lingua come spada o lecca lecca.

Check up completo. Il corpo regge.
La mente ondivagante, invece, mente.

Oggi bianco e domani nero.
Frammenti di ricordi.

Qualche frammento manca.

La prova costume è un disastro?
Nessuna paura, abbiamo una soluzione.

Cambia utente. Prodotti farlocchi.
Sotto un cavolo firmato Guttuso
mentre si aspetta una ecografia prostatica
con la vescica piena.

Gli unici amici che ho sono i mei cani.
Segue foto; cani e una pecora in giardino.

Quanti like tra gli animalisti e opinionisti
di seconda o terza categoria.

E con il reddito di cittadinanza…
croccantini a volontà.

 

Mauro Pierno

14 febbraio 2019 alle 18:13

L’albero socchiuso ha la palpebra accennata
tollera in eterno questa alternarsi di funi

per parità affine al giorno ed al buio.
Questo che addomestichi Eva sono lo scontrarsi

di particelle elementari, nelle autostrade sfitte,
così come nelle elegie elementari; la casa che tendi

ha un giardino meraviglioso, la vita scrostata dalle statue, che scendi,
evidenzia polvere colorata.

Indossa una cintura nell’atto di spazzare.
Adamo attorciglia il prato con le stelle.

 

Guido Galdini
20 febbraio 2019 alle 11:19 

da Appunti precolombiani:

per corazza indossavano il chauapilli,
una veste spessa di cotone,
che, intrisa d’acqua salata,
acquisiva una durezza leggera e sgusciante,
e aderiva alla pelle come le squame di una sirena

potevano allora, madidi del suo canto,
immergersi nell’oceano delle frecce,
risalire la corrente, sfuggire
incolumi al richiamo, più subdolo, del silenzio.

Postilla armigera:
anche gli spagnoli hanno apprezzato
l’utilità di quest’armatura,
sostituendo la pesante ferraglia
che indossavano all’arrivo nei porti:
ma, per loro, le sirene
non si sono degnate nemmeno di tacere.

Giuseppe Gallo

16 febbraio 2019 alle 8:07

 Ecco una risposta di qualche rilievo di Massimo Donà ad una domanda altrettanto importante:

«Una delle caratteristiche dell’arte – e con essa la poesia – possiamo dire essere la sua capacità di rompere quei legami semantico-sintattici che danno forma al mondo così come noi lo conosciamo e grazie ai quali noi attribuiamo significato alla realtà.

In quale rapporto stanno l’arte e la filosofia? Possiamo dire che l’arte da sempre è anche filosofia nella misura in cui il suo rappresentare e manifestarsi costituiscono una reale provocazione per il pensiero e la riflessione, rivelando ciò che muove dal fondo l’agire dell’uomo?

Certo, la poesia e l’arte “pro-vocano” da sempre i filosofi – e proprio per i motivi che ho appena indicato. È pur vero che ogni forma dell’agire umano è mossa da un fondamento che non ha ragione alcuna (in quanto fondamento di tutto); e che proprio a partire da questa irragionevole ragione muovono anche le parole del poeta, o più in generale le forme dell’arte. Ma queste ultime mai dimenticano – come capita invece a tutti noi, nel quotidiano –, il fondamento di cui sono espressione. Quello stesso che, in quanto tale, non può tollerare finalità che non si esauriscano nel semplice dispiegarsi di forme artistiche che non muovono mai un passo in avanti. Ecco perché le parole della poesia e le forme dell’arte in generale non significano propriamente “nulla”; appunto perché, in esse, a dirsi e dispiegarsi, è appunto un fondamento (o arché) che, in quanto “in-condizionato”, finisce per dire sempre e solamente se medesimo. Ossia, nulla di de-terminato. Facendosi semplice “negazione” di ogni determinatezza, e dunque di ogni significato, e di ogni finalità; quelli stessi che la vita, invece, mai può fare a meno di darsi e proporsi. Perché la vita quotidiana non sa del fondamento che la rende possibile, ma riconosce le cose e le persone solo in relazione a fini e scopi sempre ancora da raggiungere, e soprattutto non ancorati ad alcun incondizionato, ma liberi di essere raggiunti  o mancati – anche perché, ai nostri occhi, si danno come semplicemente “altri” da quel che le cose tutte sarebbero, in quanto semplici significati, in quanto parzialità ritenute vincolate ad un “negativo” ridotto a mera “alterità” (secondo il dettato del Sofista platonico)».

Lucio Mayoor Tosi

16 febbraio 2019 alle 18:12

Vorrei conoscere il parere di Giorgio Linguaglossa, in merito a un aspetto della nuova poesia di cui si è parlato ancora poco: chi è il lettore della nuova ontologia estetica, come legge e cosa apprezza di questa poesia?

Ho riletto le due poesie postate nei commenti, quella di Giorgio e quella di Mauro Pierno. Più volte. Il tono alto e l’andamento epico della prima, contrasta con l’enigma di alcuni versi contenuti nella poesia di Pierno. La prima avrebbe potuto benissimo reggere il verbo al presente, è una metafora stralunata, inconscia, fatta della materia dei sogni, inquieta come a me sembrano spesso le poesie di Giorgio; la seconda, se letta con occhiali di vecchia ontologia, corre il rischio di passare inosservata… Ma non è così: sia il primo verso “L’albero socchiuso ha la palpebra accennata” che l’ultimo “Adamo attorciglia il prato con le stelle” hanno preziosità, che a un lettore NOE non dovrebbero passare inosservate. Non sembrano derivare da T. Tranströmer ma si potrebbe dire che sono di quella scuola – Tranströmer scriveva poesia piegando il ferro della prosa…

Giorgio Linguaglossa

16 febbraio 2019 alle 18:55

caro Lucio,

è vero, la mia poesia potrebbe essere messa con i verbi al presente, non so, ci devo pensare… è una possibilità… è una mia vecchia poesia che non mi soddisfaceva, ho eliminato molte perifrasi inutili che appesantivano il già pesante clima di dramma incombente. Non so, vorrei sapere il parere dei lettori.

La poesia di Pierno la trovo esilarante. In lui c’è un virtuosismo che fa deragliare il senso delle singole frasi, che sorprende l’attesa del lettore… sì, Pierno ha subito il fascino di Tranströmer, ma come non subirlo? soltanto i non-poeti possono non subirlo, Tranströmer ha cambiato il DNA della poesia occidentale, e chi non lo capisce e non lo ha capito finora non lo capirà mai.

Quanto ai lettori di poesia, che oggi sono scomparsi, penso che la nuova ontologia estetica debba semplicemente crearselo il nuovo lettore. Un compito tremendamente difficile. Del resto continuare a fare poesia alla maniera di Roberto Carifi (tanto per fare un nome) è ormai inutile, a che servirebbe? E non solo perché è stata già fatta, quanto perché quella è una via che la storia ha sbarrato con del filo spinato. Quelle poetiche si sono esaurite da tempo immemorabile, e chi non se ne è accorto dorme sonni tranquilli…

La poesia di Pierno la trovo brillante, fresca, frizzante. Ecco, lui fa una poesia frizzante, tutta sul presente, che si esaurisce nel presente, proprio come le bollicine dell’acqua frizzante… Pierno riesce benissimo a fare bollicine di gas elio…

E poi c’è la questione gigantesca della poesia narrativizzante che si è fatto in questi ultimi decenni che, letteralmente, fa morire di noia gli eventuali sparuti lettori di poesia…

Guido Galdini

17 febbraio 2019 alle 8:01

E perché non al futuro, semplice o anteriore, o al congiuntivo presente, a qualche condizionale, all’imperativo…

Potrebbe essere una modalità (solo elettronica) in cui il lettore sceglie, in cima, il tempo, e tutta la poesia si adegua.

Giorgio Linguaglossa

17 febbraio 2019 alle 10:19

Forse hai ragione tu, Guido, si potrebbe mettere in internet un testo che preveda la possibilità di modificare i verbi a piacimento del lettore; sarebbe un ottimo modo per coinvolgere i lettori di poesia e dar loro una parte attiva nella costruzione di una poesia. Una sorta di ipertesto.

Caro Giuseppe Gallo, le parole del filosofo Massimo Donà che tu hai citato sono quanto mai pertinenti, bisogna ragionarci sopra, la poesia, come ogni altro manufatto dell’universo, non ha alcun senso né alcun fondamento. Non c’è da stupirsi o da disperarsi per questo, dio è morto da un pezzo, per fortuna oserei dire, le ragioni ce le diamo da soli, i fondamenti ce li diamo da soli… ma guai a quelle organizzazioni di partito o quei movimenti culturali che hanno preteso di dare delle ragioni o dei fondamenti alla praxis degli uomini.

Qualcuno, mi spiace dirlo, mi scrive ogni tanto o mi dice che la nostra proposta di poetica, diciamo così, sarebbe costrittiva perché il distico ingabbia e altre parole consimili, qualcun altro ci accusa di scrivere tutti allo stesso modo etc. Ovviamente io respingo al mittente queste accuse e le ribalto contro i mittenti dicendo che è la poesia che si scrive in miliardi di esemplari ad essere irriflessa e inconsapevole in quanto adotta dei metri e uno strofeggiare che si rinviene in miliardi di esemplari! È vero proprio il contrario! Come non capirlo? Qui noi stiamo soltanto investigando nuovi modi di interpretare quei luoghi retorici che sono sempre lì e che non debbono essere ripetuti alla cieca se non si vuole ricadere nell’epigonismo di massa.

Un aneddoto. Tempo fa, un editore rifiutò di pubblicare una mia raccolta scrivendomi che la mia poesia «era spiccatamente teatrale». In questo giudizio si può misurare tutta l’incompetenza di chi lo ha emesso. Come se la poesia tutta non fosse una cosa eminentemente orale e teatrale che si presta non solo alla lettura ottica ma anche alla recitazione!

Sottoscrivo in pieno quanto affermato dal filosofo sulla poesia come «archè», la poesia è un atto «incipitario» che non ha in sé alcuna «finalità», alcun «senso», ha soltanto un «inizio»… e questo sia detto con tranquillità, chi cerca il senso può comporre delle preghiere, degli epitalami, degli epitaffi, degli aforismi, dei romanzi veristi, delle illustrazioni… il campo è ampio…

Giorgio Linguaglossa

21 gennaio 2019 alle 10:50

Qualche giorno fa un lettore mi ha chiesto quali siano i punti qualificanti della «nuova poesia» denominata «nuova ontologia estetica». Beh, penso che la riflessione odierna di Steven Grieco Rathgeb sia un contributo fondamentale sulla «nuova poesia», si tratta di una indagine a campo aperto sulla «nuova poesia», sui concetti fondamentali di «tempo interno», «tempo esterno», sul «montaggio in cinematografia e in poesia», sulla «pressione del tempo interno», sulla spazializzazione del tempo e la temporalizzazione dello spazio in poesia, sui concetti fondamentali di «disfania» e «distopia» (in poesia), sul concetto di «immagine» in poesia con i riferimenti doverosi all’haiku, a Tranströmer e Celan…

Perché sia chiaro che una «nuova ontologia estetica» implica un diverso concetto sulla «ontologia pratica vigente», che si tratta di un atto rivoluzionario, nel senso che sconvolge le regole cui ci eravamo assuefatti, indicandone nuovi sensi, nuove significazioni, indicando nuove apertura politiche, nuove pratiche esistenziali, nuove esperienze…

Una «nuova ontologia estetica» indica sempre un nuovo modo di indicare la «cosa», nominare il mondo, abitare la terra, abitare il divino, abitare tra le parole, sostare nella disfania, misurare la diafania delle parole, perché le parole sono importanti, in sé e per sé, e per noi, per la comunità, per contrastare la deriva verso quelle che un filosofo italiano, Maurizio Ferraris,1] chiama le «postverità», le «mesoverità», le «ipoverità» e le «iperverità» «documediali», quelle zattere linguistiche che si moltiplicano nelle civiltà del post-immaginario di massa dell’Occidente, nel cosiddetto post-contemporaneo che si nutre di fake news, di twitter, di facebook, di instagram, di sms…

Adorno e Horkheimer hanno scritto questa frase in tempi non sospetti, in Dialettica dell’Illuminismo (1947):

“La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo”. Leggendo queste parole mi viene fatto di pensare agli artisti agli scrittori e ai poeti di oggi, che sono ad un tempo «scaltri» e «stupidi»…

È Odisseo colui che usa il linguaggio a fini propri.
È lui il primo uomo che impiega il linguaggio secondo una «nuova ontologia pratica», e una «nuova ontologia estetica»; infatti, chiama se stesso «Udeis», che in greco antico significa «Nessuno». Impiega il linguaggio nel senso che lo «piega» ai propri fini strumentali, a proprio vantaggio. Affermando di chiamarsi «Nessuno», Odisseo non fa altro che utilizzare le risorse che già il linguaggio ha in sé, ovvero quello di introdurre uno «iato», una divaricazione tra il «nome» e la «cosa», una ambiguità, una falsità. Odisseo impiega una «metafora», cioè porta il nome fuori della cosa per designare un’altra cosa. I Ciclopi i quali sono vicini alla natura, non sanno nulla di queste possibilità che il linguaggio cela in sé, non sanno che si può, tramite il «nome», spostare (non la cosa direttamente) ma il significato di una «cosa», e quindi anche la «cosa».

La poesia di Omero altro non è che l’impiego della téchne sul linguaggio per estrarne le possibilità «interne» per introdurre degli «iati» tra i nomi e le cose, e il mezzo principale con cui si può fare questo è la metafora, cioè il portar fuori una cosa da un’altra mediante lo spostamento di un nome da una cosa ad un’altra. È da qui che nasce il racconto omerico, l’epos e la poesia, dalla capacità che il linguaggio ha di dire delle menzogne.

1] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017 pp. 182 € 13

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Poesie di Giuseppe Talia, Roberto Bertoldo, Gino Rago, Mauro Pierno – La nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico – Dimorare nella ontologia debole implica la costruzione di una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica. Il naufragio del linguaggio – Dialoghi e Commenti

 

Foto Famiglia Adams

porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica,

Giuseppe Talia

Parto per un viaggio.
Volo con una Musa Low Cost.

Destinazione l’immaginazione.
Un’applicazione ferma. Dove siamo?

Nel trittico del cane. Io, Es e Sé.
Nell’alternativo concept tra pianeti nani;

nella perduta via degli anelli planetari;
nel viaticum della storia allucinata.

Una toccata e fuga fugace.
Un pacchetto, una combinazione

sul planisfero di misura in misura.
Un raid in moto su Marte.

Una foto condivisa su Android.
Villaggi globali di misere capanne.

Un campo di guerra, d’ogive e di speranza.
Un resort di lusso con l’alluce sul capezzolo

di una qualsivoglia Venere o a stritolare ossa
Di bimbi-bambù. In ogni cosa che finisce

e inizia nel Mar Morto come un profugo.

.
Roberto Bertoldo

A tutte le donne che non ho potuto amare
dedico la miseria delle mie poesie
cosicché non abbiamo rimpianti –
le poesie sono la prova della mia mediocrità, lo spasimo ultimo
delle parole che restano nel fodero,
astratte, negli archivi della notte, sfibrati tuoni
della tempesta che mi ha reso l’amore
una querelle infinita. E ora raccontate
la povertà del mio cuore senza sapere lo stupro
che ha screziato di gabbia la pelle di un bimbo,
senza sapere del sole tramortito nelle mie vene.

.
Gino Rago

21ma Lettera a E. L. 

[Dismatriati]

cara Madame Hanska,

ieri ho parlato a lungo con la donna di Somalia
giunta da noi chissà per quali vie.

Se potesse prenderebbe un panno,
pulirebbe tutta la sua vita, cancellerebbe il viaggio,

getterebbe a mare la valigia che l’ha portata fin qui,
dice che ha perso in un sol colpo tutto il suo capitale.

Dio invece non è più tornato dal mio amico di Roma,**
dice di non sentirsi in forma, o forse si vergogna

perché se la spassa tutte le notti con Madame Jovanka,
e le sue damigelle presso l’albergo della felicità.

Si lamenta perché il mio amico**
si è rifiutato di scrivere la recensione sulla creazione…

ma, in fin dei conti, neanche lui si sente troppo bene,
e così prende la tintarella sulla spiaggia sul Tevere

dove l’amministrazione capitolina ha edificato uno stabilimento balneare,
dice che vuole ascoltare le parole del fiume,

quelle sì molto più interessanti della mega creazione.

(** È Giorgio Linguaglossa)

giorgio 1998

da sx Giorgio Linguaglossa, Antonella Zagaroli, Roma, pub di San Lorenzo, 1998 – Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi

Commento di Giorgio Linguaglossa

Dimorare nella ontologia debole non significa fare una poesia debole, significa porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica, osservare le cose come di sfuggita. Ecco, per esempio introdurre «Dio» nella poesia come fa Gino Rago e farlo andare in giro a chiedere una «recensione» al suo «amico di Roma», presentare «Dio» in vesti dimesse non significa dimidiarlo o mancargli di rispetto, anzi, il contrario, implica una restituzione di senso, un accettare la realtà delle cose, il reale pensiero degli uomini del nostro tempo i quali hanno retrocesso «Dio» sullo sfondo, in serie B. «Dio» non è più importante di qualsiasi altro disgraziato che calpesta il suolo della terra, ormai «Dio» può essere anche un nostro vicino di casa, ci possiamo anche andare al bar a prendere un caffè.

Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi.

Accedere alle cose stesse non significa aver da fare con esse come con oggetti, ma incontrarle in un gioco del naufragio del linguaggio nel quale l’esserci esperisce anzitutto la propria mortalità. Si accede alle cose per via della accettazione della propria finitudine, quando scopriamo il nostro essere relittuali, il nostro naufragio di relitti quali siamo. E questo lo testimonia lo Zerbrechen (l’infrangersi della parola) mediante il quale noi esperiamo la caducità e la finitezza del nostro essere mortali e l’essere la poesia un effetto di silenzio, tanto più quanto più il tono è sardonico e metaironico, come in questa poesia di Gino Rago, dove c’è un personaggio, nientemeno che «Dio» il quale interviene negli affari correnti dei mortali, e se la prende con «l’amico di Roma» che «si è rifiutato di scrivere una recensione sulla creazione», sommo oltraggio per il «Dio» il quale non è affatto «morto» come idiosincraticamente edittato da Nietzsche due secoli or sono ma è resuscitato ed ha preso luogo come mortale tra i mortali e costretto a mendicare una «recensione» al pari di un qualsiasi postulante di questo mondo.

«Le tecniche delle arti, ad esempio e prima di tutte, forse, la versificazione nella poesia, possono esser viste come accorgimenti – non a caso tanto minuziosamente istituzionalizzati, monumentalizzati anch’essi – che trasformano l’opera in residuo, in monumento capace di durare perché già fin dall’inizio prodotto nella forma di ciò che è morto; non per la sua forza, cioè, ma per la sua debolezza».1] Non accade a caso che una poesia riesca ad essere «monumento» (in senso heideggeriano) quando viene edificata con le parole anti monumentali, residuali, con situazioni e stati di cose corrivi, quando la paradossalità viene consegnata al lettore nella veste dimessa del relittuale, del residuo, del rimosso. La poesia riesce tanto più significativa quanto più appare dimessa, apatica, anti enfatica, come un accadimento casuale, un infortunio del pensiero distratto, una distrazione del pensiero.

  1. Vattimo La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 95

*

Franco Fortini La città nemica, 1939

Gino Rago

11 agosto 2018 Continua a leggere

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La nuova patria metafisica delle parole – Una poesia di Steven Grieco Rathgeb da Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) – Lettura dei primi due versi di una poesia di Steven Grieco Rathgeb di Giorgio Linguaglossa – La crisi del Soggetto novecentesco e la nuova ontologia estetica

gif nel sonno

Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com

Gif woman with arcencielGiorgio Linguaglossa

La crisi del Soggetto novecentesco e la nuova ontologia estetica

Come potrà il Soggetto parlare di se stesso se esso non è più il Soggetto ma un soggetto? Come potrà il Soggetto validare il proprio discorso se non infirmando il discorso che va facendo nel mentre che lo asserisce? È ancora possibile un discorso non-assertorio da parte del soggetto scollegato e spodestato da se stesso? Sì, è ancora possibile.

Questa «positività» del proposizionalismo poetico che promana come un lezzo dalla poesia assertoria e suasoria del novecento epigonico deriva dalla illusione di voler ancora imbastire un discorso poetico fondato sulla illusoria illusione del Soggetto legiferante, del Soggetto egemone (a pendio elegiaco o post-sperimentale fa lo stesso).
Io invece ritengo altamente proficuo un discorso poetico che fondi quella «positività» sullo zoccolo duro del «negativo», della «mancanza», della «traccia», della dis-locazione, dello spaesamento, della estraniazione.

Il fonatore dunque non coincide più con il locutore.
Il soggetto problematizzato si rivela essere il soggetto retorizzato. Qualcuno parla, sì, non è il soggetto ma un «Altro» che parla.

La filosofia moderna sostiene che il soggetto è indicibile. La poesia e il romanzo fanno di questo indicibile il senso stesso del discorso poetico e narrativo. Qui si rivela una antinomia del discorso poetico e romanzesco, ma è una antinomia fruttuosa che darà i suoi frutti migliori nella poesia europea da Herbert a Tranströmer.

La traccia dell’origine, in Derrida, funzionerà esattamente come un che di originario: esso si produce occultandosi e manifestandosi in Altro. Con la conseguenza che il linguaggio poetico e il linguaggio narrativo subiranno le conseguenze di questa non-adeguazione dell’originario a se stesso attraverso un Logos di un non-originario che si comporta tale e quale al logos dell’originario.

I linguaggi poetici veramente vitali saranno quelli, a mio avviso, che accetteranno di misurarsi con la non-adeguazione del discorso poetico all’originario, che si metteranno la coscienza in pace rispetto a questo problema accettandolo come il terreno negativo dal quale ricostruire l’infranto a partire dalla frammentazione.

La narrativizzazione della poesia moderna, quella che è stata chiamata da un autorevole critico «la poesia verso la prosa», altro non è che un riflesso della crisi del logos che si vedrà costretto ad accentuare il carattere assertorio e suasorio del demanio «poetico» con la conseguenza di una sovra determinazione della «comunicazione» nell’ambito del discorso poetico e narrativo.

gif bzz

Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar/ radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano

La riflessione di Heidegger (Sein und Zeit è del 1927) sorge in un’epoca, quella tra le due guerre mondiali, che ha vissuto una problematizzazione intensa intorno alla de-fondamentalizzazione del soggetto. Oggi, in un’epoca di crisi economica e spirituale, mi sembra che i tempi siano maturi affinché vi sia una ripresa della riflessione intorno alle successive tappe della de-fondamentalizzazione del soggetto. L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante.

Oggi anche la poesia non può non investigare con nuovi strumenti espressivi gli aspetti della attuale fase della crisi spirituale.
Oggi una nuova ontologia estetica non può non prendere a parametro del proprio comportamento proprio questa de-fondamentalizzazione del soggetto. E ripartire da lì.

Sulla veranda: Meena e Beena Mathur

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

Scrive René Char: «Le parole che sorgono sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro». Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA – LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Poesie e Commenti di Giorgio Linguaglossa, Mariella Colonna, Edith Dzieduszycka, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero, Antonio Sagredo, Tadeusz Rozewicz, Alfonso Cataldi, Serenella Menichetti, Adeodato Piazza Nicolai

Foto Bauhaus 1

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità»

Giorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 10:10

Dice bene Luigi Celi quando scrive che Eliot, Pound, Mandel’stam (ma io ci aggiungerei anche Pessoa, i polacchi: Milosz, Herbert, Krinicki, Rozewicz, Szymborska… i cechi Petr Kral, Ajvaz, Topol, Reznicek… gli svedesi Tranströmer, Frostenson, Aspenstrom… il finnico Rolf Jacobsen, la bulgara Josifova, la rumena Crasnaru, gli italiani Alfredo de Palchi e Angelo Maria Ripellino, le italiane Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna etc.) sono i basamenti sui quali è fondata la nuova ontologia estetica. Il basamento degli autori modernisti è quello che ha fatto la grande poesia europea del primo e secondo novecento, questo è indubbio. Penso che è da qui che bisogna ripartire. Tracciare le coordinate della migliore poesia europea è utile, anzi, indispensabile; fare critica del presente e del passato è il miglior veicolo per allestire la poesia del presente e del futuro.

Certo, all’interno di questo ampio ventaglio della poesia europea ci può stare chi, come Antonio Sagredo, privilegia un autore piuttosto che un altro, o che voglia spostare il baricentro della NOE un po’ più ad est… questo è ammissibile, e anzi anche auspicabile, ciascuno può e deve forzare l’elastico della NOE dove e quando e nella misura che ritiene più opportuno…

Sul problema dell’Essere e del Nulla, io ho la mia posizione, ma ciò non significa nulla di costrittivo, ciascuno può nutrire le proprie convinzioni filosofiche e religiose. Presento qui alcuni miei «appunti» sulle questioni più propriamente filosofiche toccate dal saggio di Luigi Celi.

Sull’Estraneo

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta. Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene.

Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.

Strilli Rago1Sul Frammento

Il frammento reca incisa in sé la traccia dell’essere-per-la-morte,apre un varco dal quale si può sbirciare nella dimensione dell’iscrizione della mancanza, nel vuoto che si apre nella mitica pienezza ontologica dell’essere.

Ma c’è mai stato un’epoca della mitica pienezza dell’essere? O è un nostro abbaglio? Un miserabile infortunio del pensiero?

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Sta tra il dado e la clessidra.

Ecco perché l’età pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento». L’Estraneo fa irruzione nel frammento.

Si può anche dire così: il frammento è la dimora stabile dell’Estraneo.

Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano, che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia.

Strilli LeoneSul Nichilismo

L’atto originario è un venire in presenza, ma può venire in presenza solo in quanto esso è un atto a partire dalla indistinzione e indifferenza del nulla che l’origina. Così, l’atto originario che viene in presenza è lo stesso atto originario che si auto annulla e recede nella indistinzione e nell’indifferenza del nulla. L’atto originario, proprio in quanto crea il tutto, simultaneamente crea il nulla, e proprio in quanto si-fa-presenza si fa anche assenza, ossia abolizione di essere e di presenza.

Il nichilismo è un immenso campo di possibilità, significa che il nulla è prolifico. Il nichilismo è il luogo della possibilizzazione di infinite possibilità espressive, indica che tutte le questioni sono aperte, che tutte le questioni sono possibilizzazioni del pensare, tutte le questioni sono possibili. In questa ottica si ha una grande estensione delle possibilità estetiche come forse mai si è avuto nel passato.

Presso i minimalisti inconsapevoli di oggi si è avverato l’assunto adorniano secondo cui «la metafisica trapassa in micrologia», vale a dire che senza metafisica si va dritti nella micrologia del quotidiano e della topologia acrilica della poesia e dell’arte alla moda di oggi.

Tra l’altro, agli sciocchi che guardano con sospetto alla metafisica, dovremmo dire che una infinità di concetti e parole che tra l’altro usiamo tutti anche nella nostra vita quotidiana quali «libido» di Freud, la «Cosa» di Lacan, il concetto di «Infinito», quello di «Principio» etc. sono tutti concetti metafisici in quanto di essi non si dà e non si potrà mai dare una prova scientifica, sperimentale, che so, isolare l’infinito e dire: ecco qua, abbiamo messo l’Infinito in provetta… voglio dire che senza i concetti e le parole della metafisica noi non riusciremmo neanche a parlare tra di noi… ma anche la parola «poesia» è un concetto della metafisica, senza quella parola scomparirebbe di colpo tutta l’arte di tutti i secoli, dal paleolitico superiore ai giorni nostri…

(Giorgio Linguaglossa)

Strilli Král A tratti un libro ripostoGiorgio Linguaglossa

10 novembre 2017 alle 10:32

Ricevo e pubblico due poesie di Adeodato Piazza Nicolai alla maniera della nuova ontologia estetica:

Adeodato Piazza Nicolai

Alice nel paese del post-reale

Senza alcuna meraviglia. Manca soltanto un minuto
allo scoccare del vero
che non c’è. Poiché semplicemente non esiste…
[…]
scoccano le sei del pomeriggio serale. Ancora non nasce
la prima-vera. Il matto cappellaio non sa confezionare
il giusto cappello per Alice dispersa nel Paese delle Pastiglie.
S’è appisolata sulla sponda dell’invisibile naviglio
dove il mago cinese sembra alquanto impaziente: ha quasi
perso la sua memoria e la regina lo incalza con inclemenza.
[…]
Quel mago fuori di testa è l’assassino che vuole far fuori
Il cappellaio nascosto dietro il pollaio
dove sospetta la differenza fra uovo e gallina.
O Alice, povera fanciulla caduta nel buco che non esiste.
Da lì fuoriesce l’amico coniglietto incapace di darle alcun consiglio.
Scappa, Alice, fuggi velocemente. Attenta al terrificante riflesso
dell’incantevole specchio dorato ma frntumato alla base …
[…]
Accipicchia a quel maledetto riflesso che illude ogni cosa
e ogni realtà. Dov’è tuo papà? Sta forse scrivendo il suo libro
per misurare l’inesistenza del tempo…? Chissà.
[…]
Adesso parte il cavallo senza carrozza. Hai nelle mani una piccozza
per aiutarti a scalare le crude pareti del buio nero.
Attenta ai draghi, vulcani, incendi immanenti e alle foreste distrutte.
La fuga per sempre sarà fugata/frugata e mai consumata dal fuoco
che non può bruciare e neanche bucare…
Bussa alla porta del Mad Hatter e/o Capellaio Matto
però nella casa non c’è più nessuno.
Ognuno è partito per l’altra oltranza in cerca della stanza
finale.
Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca
di sognare viaggiare affabulare… Seguila bene fino al traguardo.
Sul portmanteau senza Mad Hatter c’è appeso il cappello
che tu volevi, ferito a morte dal troppo dolore.
L’aurora lo vede sbiadire. Alice, svegliati; sulle tue guance
scivolano lacrime di gioia…
Postscriptum: domani verrà la nuova puntata quando
la Rossa Regina, nascosta in cantina, ordinerà le guardie
regali d’imprigionare il Mago cinese. Good-bye fino
alla prossima cinepresa…

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 8 novembre, ore 21:45

I venetoi trasumananti
[—]
Un fosco mattino come pochi a Venezia. Un timido Ashenbach
chiuderà gli occhi per sempre sulle sabbie del Lido.
Pallido, certamente ammalato era sceso da qualche cittadina
austro-ungarica per l’ultima vacanza sulle strade immorali…
Passeggia sulle rive dell’Adriatico, una rosa nell’occhiello,
in cerca dell’ultimo bordello.
[…]
Cavalcati dai Venetoi, splendidi cavalli corrono sui colli.
… Arrivano i romani imperiali a soggiogarli;
dopo il millenio e alcuni centenni, anche
2 guerre mondiali attraverseranno il loro fertile territorio
e nel dopoguerra (anni 50-60-70) tanti di loro scopriranno
il dolce boom statunitense …
tutto cambierà: contadini-impresari, nobili e certi operai
faranno enormi fortune alle spese della Madre Gea — sono
esportatori di vini in tutto il mondo, di scarpe eleganti, di macchinari
e pure armamenti, tecnologie avanzate, ecc. ecc.
ingrasseranno le pance di banche e ricchi padri-padroni.
[…]
Più tardi spunterà la Lega nordista colma di sogni-promesse-
fandonie
per mandibolare i poveri superstiti nelle venete pianure
insieme alle montagne… Il loro slogan: “Far-Fuori-Roma-Ladrona”.
Alla fine anche loro diventeranno ladri e truffatori,
rispettabilmente marci ciarlatani.
[…]
Mediocri città, piccoli paesi e magre cittadine del Veneto,
insieme ai villaggi delle Dolomiti, si spappoleranno:
emigranti in ogni angolo del mondo in cerca di lavoro
e la tragedia cresce tuttora!
Appena concluso il referendum per ottenere poteri speciali
Ploden/Sappada diventerà terra friulana, abbandonando
(per agevolazioni economico-politiche?)
la Provincia di Belluno e passando al Friuli.
Quanti altri paesi confinanti seguiranno l’esempio?
Forse Cortina, Regina delle Dolomiti, sarà la prossima.
[…]
Due giorni fa un cadorino ventunenne
morì drogato …
con vari amici al funerale; fu sepolto in questo modo
un altro membro
del clan post-moderno venetoiano e non vetruviano …

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 9 novembre, ore 6:22

LD07

«la metafisica trapassa in micrologia» (Adorno)

Giorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 10:51

‎Serenella Menichetti‎ da La scialuppa di Pegaso (FB)

MOLTI MA MOLTI SECOLI FA
C’ERA UN PAPA

C’era una volta un papa.
-Quale papa?-
-Un papa tutto d’oro
che spesso mangiava.-
-Che mangiava?-
-La pappa al pomodoro.
E poi si addormentava.-
-Dove si addormentava?-
-Sopra un trono.
Un trono tutto d’oro
e poi si risvegliava.-
-E che faceva?-
-Faceva colazione
mangiava un bel calzone,
con dentro un gran ripieno.-
-Che ripieno?
Addirittura un treno.-
-Un treno?-
-Si, un treno.
Un treno di prosciutto
se lo pappava tutto.-
-E poi?-
– Faceva un gran bel ratto-
-Ratto?-
-No, un gran bel retto-
-Retto?-
-No, un gran bel ritto-
-Ritto?-
-No, un gran bel rotto-
-Rotto?-
-Si, lui rompeva tutto.-
-Perchè tutto?-
-A causa di quel rutto-
Serenella Menichetti
“Filastroccare Fantasia in rete”

Strilli Tranströmer 1Gino Rago

10 novembre 2017 alle 10:58

Nel poema “LORO”, da me letto, riletto, metabolizzato e perfino AMATO, per il carico di novità di linguaggio non già specificatamente per i motivi e/o i temi che l’autrice affronta, Edith Dzieduszycka che atteggiamento assume verso il tempo? Che rapporto instaura con lo spazio? In quale conto tiene il ‘nominalismo’ (non necessariamente lirico): più precisamente, Edith Dzieduszycka parla di ‘alberi’, ‘animali’, ‘piante’ ,in generale, o gli alberi diventano pioppi, platani, cilieigi… E le piante vengono nominate come robinie, tigli, glicini… E lo stesso per gli animali e gli ‘uccelli’?

Nel caso di “LORO” Edith Dzieduszycka quale ruolo affida all’IO? Che uso fa l’autrice della punteggiatura? Il poema di Edith Dzieduszycka è o no riconducibile e interpretabile all’interno del linguaglossiano Spazio Espressivo Integrale (formidabile strumento ermeneutico concepito e adottato per la prima volta da Giorgio Linguaglossa)?

Edith Dzieduszycka in “LORO” è nello spirito premoderno, moderno, tardomoderno, postmoderno o addirittura si muove nella dimensione del transumanesimo…? E altro e altro ancora…

Credo che oggi l’esercizio d’un tentativo non dico di ‘critica’ ma più semplicemente di ‘tentativo d’interpretazione’ di un testo poetico non possa più sottrarsi agl’interrogativi prima rivelati e/o sommessamente elencati, per evitare che non soltanto in poesia ma anche nella critica letteraria la desertificazione si spinga anche nell’Amazzonia.

Ciò detto, ammiro la vastità di dottrina di Luigi Celi. Ma da quando Giorgio Linguaglossa mi ha accostato allo Spazio Espressivo Integrale, come strumento d’interpretazione dell’altrui poesia, non me ne distacco quando cerco d’analizzare l’altrui poesia verso per verso, così come ho tentato di fare con LORO di Edith Dzieduszycka, con Preghiera per un’ombra di Giorgio Linguaglossa, con l’ALLEGORIA recente di Mary Colonna, con ‘il gondoliere turbato‘ di Francesca Dono di appena ieri.

Strilli GriecoGiorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 12:14

Un esempio di interrogazione poetica del nichilismo.

Donatella Costantina Giancaspero

Ripieghiamo in direzione del bar


Ripieghiamo in direzione del bar, sul margine di un autunno.
Le suole obbediscono al selciato, che marcisce tra piovaschi
e smottamenti di luce tra le crepe.
Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,

in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.

Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?».

Sai, delle piccole cose non sono più tanto sicura, ormai:
vado un po’ per tentativi…

Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone.
E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.
Nel fondo, resta il dubbio.
(inedito)

traduzione in francese di Edith Dzieduszycka

Nous replions vers le bar, en marge de l’automne.
Nos semelles obéissent au terrain, qui pourrit entre averses
et éboulements lumineux au fond des crevasses.

D’un bloc à l’autre, les passants acheminent le crépuscule
vers l’hiver.
Ils marchent avec nous jusqu’à le but. Et puis,
nous les laissons aller.
Nous laissons aussi le refuge des poches,
en cet instant qui ouvre la porte aux miroirs
et aux yeux qui se souviennent.

Les voilà appuyés au zinc, en silence, -devant, le café que tu m’as offert-
sans répondre à la demande “combien de sucre?”.

Des petites choses, tu sais, je ne suis plus tellement sûre, désormais,
je procède un peu à tâtons…

Un sourire opaque, en réponse, de la glace derrière le banc.
Et la gorgée pleine, avec un arrière-goût d’inaptitude. 
Tout au fond, reste le doute.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoCommento di Giorgio Linguaglossa

La poesia non narra, è. La poesia vuole narrare un determinato essere dell’Esserci, il momento in cui l’Esserci avverte nel profondo la nullità del proprio fondamento; con le parole di Heidegger: «il nullo fondamento della propria nullità».

I verbi che introducono all’essere, sono: «Ripieghiamo», «Camminano», «Lasciamo», «Stanno». Sono i verbi guida perché indicano una azione. Ma i verbi, e le proposizioni che succedono ad essi, non narrano degli accadimenti, narrano piuttosto dei non-accadimenti, sono essi i segnali significativi che ci introducono nella modalità esistentiva del personaggio della poesia. Sono appena accennati, come in scorcio, degli elementi figurativi: gli isolati, «i passanti», «il crepuscolo», «l’inverno» elencati uno dopo l’altro quasi fossero dettagli insignificanti, ed invece sono essenziali per poter mettere insieme tutti i dettagli e fornire un quadro della condizione esistenziale sotto analisi. Tutti gli elementi del quadro tendono e concordano nella espressione che occupa il momento centrale di esso: «il rifugio delle tasche». In questa espressione viene condensata tutta la temperie e l’atmosfera dei versi precedenti, è una metafora e una catacresi che apre una fenditura di significato più profondo. In quell’accenno al fondo delle «tasche», c’è tutto lo scacco di una esistenza, è il buco nero entro il quale tutto precipita: il momento del risveglio della coscienza verso il momento della decisione anticipatrice, è un «istante» che si perde tra gli «specchi». Altra metafora fulminante perché condensa la sensiblerie della condizione esistenziale raffigurata in precedenza, marcandone il carattere di inautenticità e di falso.

Adesso la poesia può procedere al salto, alla interruzione della prima parte che resta, necessariamente, una parte introduttiva all’unica azione che accade veramente; tutto ciò che viene detto prima è frutto di un processo immaginativo, indiziario: adesso due persone stanno al bar davanti ad un «caffè». Una semplice domanda: «quanto zucchero?».
Una domanda anodina e casuale, banale, risveglia l’Esserci dalla dispersione nell’anonimato della sua coscienza; quel «senza risposta» rimarca piuttosto il senso di sorpresa, di stupore e di smarrimento per la inadeguatezza che il domandato avverte rispetto alla domanda del domandante, inadeguatezza per il non sapere quale risposta dare, quale sia la più consona alla circostanza e alle condizioni convenzionali del bon ton e del savoir vivre. La domanda, corriva e banale, risveglia nel profondo e dal profondo la coscienza assopita del domandato.
Tutto qui. La poesia è già finita. Tutto quel che segue è un accompagnamento, un completamento musicale della sensiblerie; ci sono elencati alcuni dettagli che servono a completare il quadro esistentivo.

La poesia raffigura un momento della presa di coscienza dell’essere dell’Esserci, ed è significativo che questa presa di coscienza avvenga in un luogo insignificante, un luogo qualunque, generico come un «bar», con «i passanti» che passano e «inoltrano il crepuscolo verso l’inverno». La poesia raffigura il momento di una decisione anticipatrice, reso nei suoi momenti essenziali, ridotti al minimo…

«L’Esserci, una volta che si è deciso, assume autenticamente nella propria esistenza di essere il nullo fondamento della propria nullità. Noi concepiamo esistenzialmente la morte come la possibilità già chiarita dell’impossibilità dell’esistenza, cioè come la pura e semplice nullità dell’esserci. La morte non si aggiunge all’Esserci all’atto della sua “fine”; ma è l’Esserci che, in quanto Cura, è il gettato (cioè nullo) “fondamento” della sua morte. La nullità, che domina originariamente l’essere dell’Esserci, gli si svela nell’essere-per-la-morte autentico. L’anticipazione fa emergere chiaramente l’esser colpevole dal fondamento dell’intero essere dell’Esserci».1]

1] M. Heidegger Essere e tempo, trad. di Pietro Chiodi, Milano, Longanesi, 1976 p. 370

Strilli Gabriele2Alfonso Cataldi

10 novembre 2017 alle 13:42

Per mia sensibilità (per mio gusto?) la poesia di Donatella Costantina Giancaspero è quella che sento più attinente alle richieste della NOE nel momento in cui si appresta a rappresentare “il buco nero entro il quale tutto precipita”. Nei suoi versi non si esplicitano case senza tetti, alberi senza radici, automobili senza motori. Non nomina mai “senza”, “vuoto”, “mancanza”, sono le immagini potenti a restituirci la sua idea di nichilismo.

 Anna Ventura

10 novembre 2017 alle 17:02

Mi piace,molto, la poesia di Donatella Giancaspero,capace di evocare tutti i fantasmi che si nascondono dietro un’espressione banale (“Quanto zucchero?”).Forse, anche, per un mio ricordo personale. Perchè le storie si assomigliano tutte,e solo la pialla del tempo può restituirci la serenità dell’indifferenza; il che,purtroppo, non è una grande conquista. Ma,col tempo, impareremo ad amare i nostri fantasmi:quando saranno (cito ancora Didimo Chierico)”come calore di fiamma lontana”.

Strilli RagoMariella Colonna

10 novembre 2017 alle 18:31

Donatella Costantina,

hai fatto qualcosa di assolutamente inedito, non soltanto (inedito) da parte tua, ma dei poeti in genere: hai acceso un cristallo di luce autunnale sulla banalità del quotidiano. Non voglio rovinale la persuasa linearità delle parole

disegnate o meglio scolpite nella grigia presenza della stagione che avanza, preferisco citarti:

«…Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,
in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.
Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?…».

Forte l’idea dei passanti che aiutano il crepuscolo a spegnersi nell’inverno avaro di sole, compagni di un breve viaggio… che poi vanno scomparendo e noi ” li lasciamo andare” .come assecondando un’onda che va a morire sulla sabbia. Che la domanda senza risposta sia proprio la più facile…è un notevole invenzione poetica. In fondo è proprio vero, è alle domande più semplici che non sappiamo dare risposta!

Poesia Nuova, intensa.

 Gino Rago

 10 novembre 2017 alle 19:25

Perfino il sorriso non è diretto. Giunge sull’autrice attraverso la riflessione della lastra posta dietro il bancone. Unica certezza è il fondo nella tazza del caffè da poco sorseggiato. E un tempo i fondi del caffè, come le strutture viscerali di certi animali, venivano interpretati…

” i passanti inoltrano il crepuscolo / verso l’inverno.”

Qui siamo alla delegittimazione totale. Costantina Donatella Giancaspero ribalta i cicli delle stagioni, inverte i ruoli: non più il tempo-clima a sospingere i passanti-uomini da una stagione all’altra, ma gli uomini-passanti a inoltrare il crepuscolo verso la stagione invernale, in una atmosfera liquida in cui la relazione con l’altro/a non soltanto non riesce ad andare oltre una sorta di soddisfazione immediata, ma non implica nemmeno un minimo di assunzione di responsabilità, di doveri e di diritti reciproci in grado d’essere durevoli…

In questi versi, già ben commentati da Mary Colonna e da Giorgio Linguaglossa, resi anche in lingua francese dalla elegante, raffinata traduzione di Edith Dzieduszycka, il poeta si colloca in uno spazio e in un tempo del dopo postmoderno. E’ in uno stato in cui il senso del ‘Sé’ è

mancante. Perché? Perché i confini del Sé (Costantina Donatella Giancaspero stessa) sono fluidi. Perché la sua unità viene lucidamente e abilmente convertita in pluralità di sfaccettature: che rimane al poeta in questo stato tutto cosciente? Al poeta, a Costantina Donatella Giancaspero, rimane soltanto il gioco del linguaggio nel quale disperdere l’Io, visto che l’evento nel caffè, anch’esso un nonluogo, è assorbito dalla superficie…

Foto Emma Watson minimalist

«Le previsioni del tempo sono buone»
«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano» (E. D.)

Strilli TosiMariella Colonna

11 novembre 2017 alle 0:42

Carissimo Adeodato,

la tua favola di Alice è ASSOLUTAMENTE STRAORDINARIA. secondo me il segreto si nasconde nel doppio livello di realtà-favola su cui fai scorrere i tuoi versi, doppio livello in cui favola e realtà si intrecciano si confrontano, si negano, e infine si abbracciano drammaticamente, senza mai rivelare dove dobbiamo orientarci per assaporarne il messaggio:

“…Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca

di sognare viaggiare affabulare… Seguila bene fino al traguardo.

Sul portmanteau senza Mad Hatter c’è appeso il cappello

che tu volevi, ferito a morte dal troppo dolore.

L’aurora lo vede sbiadire. Alice, svegliati; sulle tue guance

scivolano lacrime di gioia…”

“…Il cappello / che tu volevi ferito a morte per troppo dolore…” è il testimone concreto dei fatti: ma non sappiamo quali fatti e perché proprio un cappello faccia da testimone

“…L’aurora lo vede sbiadire: forse è un sogno di Alice, CHE VOLEVA QUEL DELIZIOSO CAPPELLO TUTTO PER SE’, o forse è un incubo di Alice, che lo VEDE SVANIRE CON LACRME DI GIOIA. O forse è tutt’e due le cose…un SOGNO che diventa un INCUBO.

Per capire è necessario risalire indietro.

“…scoccano le sei del pomeriggio serale…”

“… il matto cappellaio non sa confezionare / il giusto cappello per Alice dispersa nel Paese delle Pastiglie…” qui il riferimento molto realistico dovrebbe essere alla realtà. Luigina ha l’influenza ma non vuole stare a letto ed è… dispersa in quello strano Paese dove, “nascosto dietro il pollaio, un mago assassino “fuori di testa” vuol uccidere il cappellaio… perché (soggetto è il mago) sospetta che ci sia una differenza tra l’uovo e la gallina… oppure che ci sia una differenza tra l’uovo e la gallina (in tal caso il soggetto, colui che sospetta è il cappellaio); certo il dubbio sulla primogenitura tra uovo e gallina è storico e forse qui ha come effetto uno sconcertamento del lettore che certo non pensa più a Luigina che non vuole stare a letto con l’influenza, ma all’ipotesi della Creazione del mondo a cui si contrappone ormai da un paio di secoli e più la teoria dell’Universo in evoluzione che nessuno (il signor Nemo?)avrebbe creato dal nulla, tantomeno Dio in Persona. OGNUNA DELLE DUE TESI è COMUNQUE INDIMOSTRABILE, ma sembra che comunque la Scienza contemporanea abbia preso una strada diversa con la teoria dei Quanti e il Principio di Indeterminazione di Eisenberg.

Ad Alice, adesso, conviene fuggire via, troppi misteri e pericoli la minacciano. C’è anche quel maledetto riflesso dello specchio dorato che va in frantumi alla base e , quindi, riflette male nella parte bassa, proprio quella dove potrebbe specchiarsi Alice! Adeodato la esorta a stare attenta “Al terrificante riflesso… che illude ogni cosa e ogni realtà. Dov’è tuo papà? Sta forse scrivendo il suo libro per misurare l’inesistenza del tempo…? Chissà…”.

[…] l’allusione alla mancanza del Padre di Alice introduce discretamente un motivo familiare intimo che fa ruotare di nuovo il cerchio magico in una direzione diversa, con Adeodato al posto di Lewis Carroll.

“…Adesso parte il cavallo senza carrozza. Hai nelle mani una piccozza

per aiutarti a scalare le crude pareti del buio nero.

Attenta ai draghi, vulcani, incendi immanenti e alle foreste distrutte.”

Si ritorna al mistero del cappello, sottolineato però dal mistero più estraniante e coinvolgente ad un tempo:

“…Nella casa non c’è più nessuno…”

“…Ognuno è partito per l’altra oltranza in cerca della stanza

finale…” Il poeta allora chiede aiuto e salvezza alla favola poetica…e riapre il cerchio magico

“…Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca

di sognare viaggiare affabulare…”

Caro Adeodato, questa è una gran bella poesia e Alice-Luigina sarà fiera di te! Hai fatto un bel regalo anche alla NOE! GRAZIE!

Strilli Dono Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2017 alle 8:43

Sono d’accordo con Alfonso Cataldi: “Ripieghiamo in direzione del bar” è una poesia NOE, per le ragioni che ha detto e perché vi è accadimento – tutto cinematografico, con pochi dialoghi, silenzi e rumore di passi –. A ogni verso corrisponde un istante, e come passa il tempo così fanno i versi. Cessati gli uragani delle fantasie di questi giorni, fa piacere potersi rifugiare nel bar di una poesia. Tutto è visivo, anche il fondo della tazzina del caffè:

“Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone. 

E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.

Nel fondo, resta il dubbio”.

Il verso “Nel fondo, resta il dubbio” pare un’espressione del viso.

Complimenti a Donatella Giancaspero.

Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2017 alle 9:35

Io non amo tanto le poesie di Eliot. L’arrivo degli americani ha sempre creato in Europa degli scompensi. E poi allora andava molto il giornalismo; che in poesia significa fluenza discorsiva, ritmo e musicalità: tutte cose che con le poesie che si fanno qui, c’entrano davvero poco.

Sulla poesia “Loro” di Edith Dzieduszycka, mi pare dissi a suo tempo che è un testo catartico, che sembra uscito da qualche incontro di psicoterapia. Mi è piaciuto ma non capisco perché se ne parli tanto. Però Edith sembra avere un forte temperamento o, quanto meno, la forza sembra essere tra i suoi obiettivi. Ma ho letto quasi niente di suo.

Antonio Sagredo: con la poesia NOE c’entra poco o nulla, perché è poeta a modo suo; se ha qualche similare bisogna guardare a Carlo Livia. Però ultimamente ho letto cose di Sagredo che ho trovato più vicine allo stile NOE; ho il sospetto che ci stia lavorando, come pure sta facendo Calo Livia.

Non sono tanto d’accordo con questa affermazione di Giorgio Linguaglossa: “Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano, che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia”, più che altro non vorrei passasse l’dea, del tutto irreale, che il pensiero possa essere chiassoso e che si voglia portare il lettore sulle montagne russe; piuttosto, sì, su qualche cima innevata… Sono invece pienamente d’accordo con Luigi Celi quando annota che ” Compito della poesia è il Risveglio, diceva il poeta filosofo Kikuo Takano”. Del risveglio, non del sogno !

Foto profil Marilyn bianco e nero

Leggere il giornale in autobus, in piedi è quasi impossibile. (E.D.)

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 12:19

Edith Dzieduszycka Tre poesie inedite da Grovigli

«Le previsioni del tempo sono buone».

Il respiro di prima si trasformò in sospiro.
E allora diventava quello lì.
«Una settimana.
A volte di meno, a volte di più».

Dipendeva dalla densità della nuvola.
«È solo un tentativo – dissi – vediamo cosa succede».

Lui aveva insistito, incomprensibilmente.
Ma intuiva la finta.

«Sarebbe solo tempo perso – ribadii – corriamo
sul filo del rasoio. Aspettiamo un po’
e forse sapremo qualcosa di più».

L’appartamento era polveroso, grigio,
per niente accogliente, anzi piuttosto lugubre.

«Io avrei scelto il mare insieme a due coppie di amici
che a lei, chi sa perché, non piacciono affatto».
*
Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano.
Un sentore un po’ acido alla gola, appena passato l’uscio.
L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè.

Provava un disagio indefinibile.
Forse per l’autunno in arrivo?
In quell’incertezza stava ogni volta il lato antipatico della faccenda.
Come cambiano i punti di vista secondo l’umore!
Ogni casa ha la sua impronta, la sua emanazione specifica.
Far capire. Non dire.
Questo era il suo vizio.

«Perché non potrebbe andare sempre così?»
Dovrò fare la spesa domani.

Il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi.
Cosa avrebbero dovuto dirsi?, domandarsi?, confessarsi?
Ma, ripartire?
– Che parola vuota, per andare dove? –
«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».
«Il tempo che si calmino gli animi».
Però aveva insistito, incomprensibilmente.
Anche se non era nelle sue abitudini.

Ma questa volta era diverso.
Ormai non avrebbe saputo più niente.
Doveva farsene una ragione.

*

Due settimane fa, esattamente.
Aveva tutte le ragioni del mondo per essere scocciato.
Ma che ci faccio qui?
Sto diventando masochista?
Il dentista consigliava un antibiotico.
quella città nella stagione incerta,
un po’ malinconica, avvolta nelle prime nebbie leggere dell’autunno.
Solo per agitare un po’ le acque.
Per una volta potrebbe fare questo sforzo.

– Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette –

Cinque anni dopo si era ripresentato lo stesso problema.
Una persona gentile, discreta, un po’ eterea e distratta.

La loro vita era diventata più complicata.
Non se ne capacitava.

Leggere il giornale in autobus, in piedi è quasi impossibile.

Mario Gabriele In viaggio con Godot Cover gialla

Un Appunto di Giorgio Linguaglossa

La poesia di Edith Dzieduszycka si muove anch’essa all’interno di quella gigantesca problematica che nel novecento è stata denominata «esistenzialismo», con il che deve intendersi il problema del senso dell’essere dell’Esserci, ovvero, della «situazione emotiva fondamentale dell’angoscia come apertura caratteristica dell’esserci».1] Ecco alcune frasi paradigmatiche della Dzieduszycka:

«Le previsioni del tempo sono buone»

«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano»

«Due settimane fa, esattamente»

Ecco gli incipit delle tre poesie che introducono direttamente all’interno di «una» temporalità indicandone i limiti del calendario e, ironicamente, le caratteristiche climatiche della stagione; ma c’è anche un accenno ai tratti sopra segmentali del linguaggio umano: «Gli sguardi, i gesti, i silenzi» i quali, al contrario delle parole, «non ingannano». Ecco delineata la cornice temporale dell’esistenza umana, tra rammemorazioni, amnesie, rimozioni, denegazioni, abreazioni e informazioni, e poi «il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi». Anche qui ci sono degli elementi del quotidiano insignificante, banale, da rottamare, anzi, già rottamato, che entra nella sua poesia con il suo statuto di rottame, di frammento: «L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè», insieme ad elementi delle intenzioni e delle preterintenzioni: «Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette». Il parlato è fuso insieme al pensato e al quasi pensato; pensieri quasi inconsci friggono e collidono a contatto con i pensieri dell’io e con le istanze perentorie del super-io che irroga sentenze e sensi di colpa.

Nella poesia della Dzieduszycka si assiste al dramma eroicomico e serissimo della rappresentazione dell’angoscia come su un palcoscenico; le sue poesie sono sempre teatralizzate, teatralizzazioni dell’inconscio e delle sue peripezie: il problema principe è la indistinzione della «verità» dalla ciarla e la impossibilità di darsi un orizzonte di autenticità. Una oscurità profondissima impedisce di discernere il vero dal falso, il subdolo dalla mistificazione, perché c’è qualcosa nel fondo limaccioso dell’inconscio che ci svia continuamente, qualcosa di inconoscibile che sovrasta l’io:

«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».

1] Martin Heidegger Sein un Zeit, Verlag, 1927. Essere e tempo, trad. it. a cura di Pietro Chiodi Milano, Longanesi, 1976 p. 231

Strilli Busacca Vedo la vampaDonatella Costantina  Giancaspero

11 novembre 2017 alle 14:05

Cari amici,

Edith Dzieduszycka, Alfonso Cataldi, Anna Ventura, Mariella Colonna, Francesca Dono, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, vi sono grata per l’interesse che ha suscitato in voi questa mia poesia. L’ho conclusa proprio pochi giorni fa e non pensavo che Giorgio me l’avrebbe pubblicata sulla rivista. È stata un’autentica sorpresa! Anche il suo commento lo è stato e la traduzione di Edith, che ringrazio doppiamente. Ormai, quando scrivo, mi sento sempre più convintamente attratta dalla nuova prospettiva poetica indicata dalla NOE. Ho compreso che questo orientamento mi si addice alla perfezione. Probabilmente, lo cercavo da sempre, ma senza saperlo e soprattutto senza che nessuno me ne potesse dare indicazione precisa. Perciò, non potrò mai ringraziare abbastanza Giorgio Linguaglossa, mia imprescindibile bussola, per aver corretto la mia navigazione poetica, che se ne andava un po’ a naso, diciamo, seguendo l’intuito… Con l’ago puntato sulla NOE, invece, sento di poter raggiungere nuovi (e non effimeri) territori espressivi.

Ecco, cari amici, questo mi sento di dire in risposta ai vostri commenti tanto positivi.

Anche il poemetto di Edith Dzieduszycka, “Loro”, si inserisce nella ricerca operata dalla e nella Nuova poesia; e questo già prima che si parlasse di NOE. Un dato significativo del fatto che certi esiti espressivi si affermano necessariamente, perché imposti dalle direttive del Tempo storico.

L’originalità del poema “Loro”, a mio avviso, sta nell’insieme compatto di forma e contenuto: l’una necessaria all’altro, in quanto la crisi profonda dell’Io (“il suo scacco ontologico”, come ebbe a dire Giorgio, in un precedente commento), la crisi esistenziale, emergente da questi versi, non può altro che avvalersi di frasi brevi, chiuse in se stesse dalla punteggiatura. E di un tono perentorio, che trova nel parlato la sua manifestazione più forte. Molto è stato detto riguardo a questo poemetto e tutto davvero illuminante rispetto al suo significato. In ultimo, il saggio di Luigi Celi mi pare esemplare.

Concludo così, rinnovando il mio grazie, unito all’augurio… Buona poesia a tutti voi!

Foto New York traffic

«È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta». (Marcuse)

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 16:29

Per tornare al caro amico e interlocutore Luigi Celi,

sarei curioso di conoscere il tuo punto di vista sulla nuova ontologia estetica, dopo la valanga di commenti, poesie, rilievi che sono piovuti in coda al suo articolo. Ormai questo nuovo modo di intendere il testo poetico è una realtà, la poesia italiana si è rimessa in moto (con quali risultati lo vedremo, ma già alcuni risultati sono sotto gli occhi di tutti).

La Nuova Poesia della nuova ontologia estetica è già di per sé un fatto nuovo, direi travolgente, travolgente (lasciatemelo dire) per la stagnante poesia italiana di questi ultimi decenni. Un fatto epocale, storico, in fin dei conti. Come scritto da molti poeti qui intervenuti, già da tanti anni i singoli poeti cercavano nuove vie, nuovi mezzi di espressione, certe novità erano nell’aria da molti anni, basti pensare a poeti diversissimi che non si conoscevano tra di loro prima di incontrarsi qui su questa piattaforma: Mario Gabriele, Steven Grieco Rathgeb, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Donatella Costantina Giancaspero, Edith Dzieduszycka, Francesca Dono, Letizia Leone, Gino Rago, Giuseppe Talia, Anna Ventura, Alfonso Cataldi, Carlo Livia, Mariella Colonna, Chiara Catapano, Vincenzo Petronelli, Adeodato Piazza Nicolai, Luigina Bigon, Mauro Pierno, Laura Canciani… più altri autori che si situano nelle vicinanze di questo nuovo Grande Progetto e che ci seguono da tempo con interesse…

Io dico sempre che il nostro punto di riferimento deve essere l’Acmeismo degli anni dieci del novecento, il movimento che ha cambiato il volto della poesia del novecento (non solo russo)…

ho scritto di recente che «la Lingua di relazione si è de-psicologizzata», e che di conseguenza, si è verificato un «raffreddamento» delle parole, un «raffreddamento» stilistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, chi non se ne è accorto continua a redigere frasi protocollari, che recano il calco dell’antico endecasillabo, dell’antico novenario, mentre invece, in realtà, nella realtà della lingua parlata e tele trasmessa, non è rimasto nulla di tutto questo armamentario un tempo nobile. Il poeta di oggi ha a che fare con una cosa nuova: la parola «raffreddata» e con un nuovo processo: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno più la risonanza di un tempo: voglio dire che le parole del linguaggio poetico della tradizione, diciamo, dagli anni sessanta del novecento, hanno perso risonanza. E allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, raccolta di rottami dalle discariche della lingua quali sono internet, il linguaggio televisivo, il linguaggio di facebook, instagram, twitter, sms… non resta al poeta di oggidì che fare copia e incolla di frammenti.

Molto opportunamente, uno scrittore come Salman Rushdie ha affermato che i frammenti sono già in sé dei simboli, ovviamente de-simbolizzati. Così, senza che ce ne siamo accorti, la fragmentation è diventata il modo normale di costruzione delle opere letterarie, siano esse romanzi, racconti o poesie; ovunque ci volgiamo, vediamo frammenti, incontriamo frammenti. Noi stessi siamo frammenti, al pari delle particelle subatomiche che sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi che quel grande circuito che è il CERN di Ginevra identifica un giorno sì e un altro pure, là dove si fanno collidere i fotoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando.

La poesia si è prosaicizzata, prosasticizzata. Si tratta di un fenomeno storico, epocale di cui non resta che prenderne atto.

 Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 18:09

con le parole di Marcuse:

«È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».

*

Nel 2010 così rispondevo ad una domanda postami da Luciano Troisio:

Domanda: Tu individui linee laterali del secondo Novecento…

Risposta: Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo.

Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera (1951) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta.

Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti.

Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo capolavoro: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di

una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, invece, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna; in questi ultimi anni ci sono figure importanti: Mario M. Gabriele, Antonio Sagredo, Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De Robertis, Costantina Donatella Giancaspero; né bisogna dimenticare la riproposizione del discorso lirico da parte del lucano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein: i vincoli dello spazio – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.

È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici del «quotidiano». La composizione assume la veste di frammento incompiuto, dove il silenzio tra le parole assume un valore semantico preponderante. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «filosofici»; il risultato è che la micrologia convive e collima qui con il solipsismo più asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.

Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche », o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto

di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

 

foto Le biglie

Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando il cielo è in pace e finisce il giorno (A. Sagredo)

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 17:20

Antonio Sagredo vuole spostare il baricentro della «nuova ontologia estetica» – Spostare? – Se mai rovesciarla perché sia più efficace e incisiva e capace di conservare in un museo la vecchia poesia del ‘900 – poi a proposito di T. S. Eliot (così amato da Luigi Celi, e lo capisco) l’ho così rivoltato come un guanto di vecchio ermellino che non si riconosce più il suo specchio e la sua finzione in BISTROT:

*
Bistrot

Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando il cielo è in pace e finisce il giorno,
come un infermo folle che sul letto si acquieta .
Torniamo da viali chiassosi poco noti,
dai luoghi strepitanti dei flâneurs,
nei tranquilli cantucci di locande lussuose,
bistrots lindi e colmi d’ogni sorta di pietanze;
sono sfiniti i viali come un piacevole ragionamento
di concreto disimpegno,
e ci inducono a una domanda opprimente
e ci allontanano da una sopportabile risposta.
Oh, rispondete, cos’è?…
quando saremo tornati da un consulto.

In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili,
erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo,
e della chiacchiera.

Il giorno limpido che scivola via dai corpi riflessi delle vetrate ,
l’aria pura che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti
ha premuto e ha pestato coi denti i circoli dell’aurora,
ha fronteggiato i tempestosi oceani delle chiaviche,
s’è scrollata di dosso le scintille in fuga per la canna fumaria,
è volata dal tetto decollando d’un tratto,
e mirando una tempestosa sera primaverile
ha sciolto i suoi anelli e s’è destata.

E davvero non ci sarà da aspettare
per l’aria pura che risale dai vicoli,
che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti;
e davvero non ci sarà da aspettare
per improvvisare una maschera, non incrociare i volti.
E davvero non ci sarà da aspettare per salvare e distruggere,
e per oziare e per le notti dei piedi ……….
che abbattono ed elevano una risposta sulla tua stoviglia.
Non c’è tempo per noi due,
e davvero non c’è attesa per mille decisioni certe
e per mille realtà e reazioni
dopo una mancata colazione: tè e mollica di pane.

In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili,
erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo,
e della chiacchiera.

E davvero non ci sarà più tempo
di rispondersi: sarò vile e non sarò vile?
Andare avanti diritto e salire sulle scalinate
con la chierica ben in vista…
e saranno muti per la folta capigliatura.
Di sera mi vestivo al completo, il collo tutto libero
e intorno nemmeno una fibbia allentata,
e saranno muti davanti a grosse gambe e braccia!
Non avrò timore di armonizzare gli universi?
Nell’eternità non c’è tempo
per indecisioni e reazioni che riempirà.

Perché da tempo le ho ignorate, tutte le ho ignorate.
Ho ignorato i mattini, le sere e i premeriggi,
Non ho esagerato la mia morte a colpi di cucchiaio,
ignoro i mutismi allegri senza battiti palpitanti
sopra la musica che se ne va da un domestico spazio.
Così, come stare al sicuro?

E ho già ignorato gli occhi, tutti li ho ignorati,
gli occhi che non ti mirano in una frase non espressa
e quando non enunciato mi blocco su un pianoro,
quando sono spuntato e mi raddrizzo sulla parete,
come potrei allora finire
a risucchiare tutti interi i miei giorni e le mie disabitudini?
Perché non dovrei tutelarmi?

E ho già ignorato tutte gli arti inferiori, li ho tutti ignorati,
questi piedi senza armille, imbrunite e coperte,
ma nel buio più totale liberate, quasi rasate!.
È l’afrore che s’allontana da un vestito
che mi fa annoiare così?
Piedi sospesi su un tavolo, liberati da una sciarpa.
E che dovrei tutelarmi, allora?
E come finire?

Muto, dall’alba sono fermo, affissato, nei larghi viali?
E ho mirato l’aria buona che fluiva nelle pipe
di tanti uomini in camicia insieme sui balconi?

Non avrei dovuto o potuto essere tanti artigli levigati
inchiodati sulle onde di mari tempestosi.

E il premeriggio, il mattino, inquieto… sveglio, così!
Irruvidito da corte dita,
sveglio… attivo… o sanissimo realmente,
in piedi sull’impiantito, qui lontano da te e da me.
Non dovrei, dopo le leccornie,
aver la debolezza di trattenere l’istante alla sua tranquillità?
Malgrado abbia trangugiato e riso, bestemmiato e riso di nuovo,
malgrado non abbia mirato la mia testa poco capelluta
mancante su un vassoio…
io sono un profeta – e questo mi interessa.
Non ho visto l’eternità della mia pochezza infiacchirsi.
Non ho visto il mortale valletto abbandonare il mio soprabito, ma aver contegno,
e alla lunga, ne ero confortato.

E prima di tutto non vi sarebbe stato vantaggio,
prima delle porcellane e delle leccornie,
fra maioliche bianche e qualche mutismo
tuo e mio, non ci sarebbe stato un vantaggio
di rinascere con un pianto,
di dilatare l’universo all’infinito
e di fissarlo in una risposta liberatoria,
di rispondere: “Non esiste ritorno! Lazzaro, Io non ritornerò!
Lazzaro, rientra, perDio! Avevate ragione, Lazzaro, si risorge solo per finta,
non vi dirò nulla!”.
Se nessuno, sgualcendo il cuscino accanto al capo,
rispondesse: “È quello che intendevo.
Si, è così”.

Ci sarebbe stato un vantaggio, prima di tutto,
ci sarebbe stato un vantaggio,
prima dei mattini e gli spazi urbani detersi: piazze e viuzze;
prima i raccontini, le porcellane da tè, le sottovesti che strepitano sulla volta.
E non è quello, o poco di più?
È possibile non dire esattamente quello che non intendo!
Ma come se assorbisse un lumicino schizzi di nervi in se stesso su una parete:
ci sarebbe stato un vantaggio
se , sgualcendo un cuscino o mettendo uno scialle sul corpo
ritirandosi all’interno di una stanza, si rispondesse
“Si, è così.
Non è questo ciò che intendevo”.

Si, sono il Principe PDNCQD, è il destino che lo vuole;
non sono uno del suo seguito, uno che non servirà
a renderlo meno pingue, ritirarsi da una scena o meno,
dissuadere il principe, incerto indocile strumento
irriverente, infelice d’essere inutile.
Non politico, imprudente e disordinato,
privo di ordinari verdetti, ma un po’ intelligente;
quasi austero,
o spesso davvero quasi un Bisbetico, spesso.

Divento giovane, divento giovane.
Indosserò calzoni srotolati per intero.

Unirò i miei capelli torno al collo. E, sarò vile, a digiunare di una pesca?
Indosserò calzoni di nera stoffa, e me ne starò fermo sui moli.
Traducevano le sirene il silenzio una all’altra.
Non credo che erano mute per me.

Se ne venivano verso la riva per la sessa,
scompigliando la nera peluria di onde avvilite
quando svuota la bonaccia l’acqua né bianca, né nera.

Negli immensi spazi marini abbiamo prosperato
accanto alle sirene non coronate d’alghe variopinte.

Fino a quando suoni disumani ci assopiscono,
e ci leviamo – su, dalle acque!

(antonio sagredo, Roma, 21/22 maggio 2015)

Foto uomo tigre

gli uomini ribelli/ gli angeli dannati/ cadevano a testa in giù/ l’uomo contemporaneo/ cade in ogni direzione (T. Rozewicz)

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 17:25

Per Edith i miei personali apprezzamenti che si ripetono identici a quel che scrissi a proposito dei suoi versi: asciuttezza e profondità coincidono… che è qualità rara.

Mario M. Gabriele

11 novembre 2017 alle 18:09

Basta questa poesia, Sagredo, per stare un po’ in allegria compagnia, come sarebbe bastato, per esempio a Leopardi aver scritto soltanto l’Infinito. Ma per un vecchio enologo come me che custodisce il vino delle migliori poesie, trovo questi tuoi versi, a parte le risonanze eliotiane e il timbro ironico, un vero colpo d’ala a cielo aperto.

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 18:00

E aggiungerei – anzi aggiungo e dichiaro – che è ormai maturo, se non già marcio (“La terra desolata” come titolo è errato, la traduzione precisa è “La terra marcia”! ) il tempo di ri-iniziare un NUOVO TEMPO per la Poesia, così come sempre è stato all’inizio di un nuovo secolo… la NOE sta dando un piccolo contributo, che è gigantesco vista la piattezza assoluta dello stato in cui versa la POESIA Italiana e non solo… i tempi sono già maturi (mi ripeto) poiché saremo fra un tempo non molto lontano davanti a sconvolgimenti che dire epocali è un eufemismo banale e spicciolo.

Avevo già dato un esempio con i versi delle mie 10 “LEGIONI” nel 1989… inascoltati poiché pioneristici : e questo è cosa ovvia per chi non ha orecchie. Sarebbe il caso che mi si desse l’opportunità di postarli…uno alla volta e per l’ultima volta… lo stile è quanto ci sia stato di meglio negli ultimi 60 anni: presunzione? No, consapevolezza.

Giorgio Linguaglossa

novembre 2017 alle 19:25

Scriveva il poeta polacco Tadeusz Rozewicz nel 1963:

[…]
gli uomini ribelli
gli angeli dannati
cadevano a testa in giù
l’uomo contemporaneo
cade in ogni direzione
contemporaneamente
in giù in su ai lati
in forma di rosa dei venti
un tempo si cadeva
e ci si sollevava
in verticale
oggi
si cade
in orizzontale.

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Mariella Colonna, Poesia inedita – Sotto il tendone del Teatro di strada – Allegoria della condizione infernale dell’uomo sulla terra… con un Commento di Mariella Colonna e un Appunto di Giorgio Linguaglossa

 

Commedia eroicomica in versi prosastici sulla trama di una [di Giorgio Linguaglossa] poesia.

Siamo in un tendone di un «Teatro di strada» dove si sta allestendo un «Grande spettacolo» dal titolo misterioso: Il bacio è la tomba di Dio,  con la partecipazione del primo attore, Mario Gabriele,  e di il Signor K., Madame Hanska e  Anonymous (creazioni artistiche di Giorgio Linguaglossa), e Miss Evelyn (creazione artistica di Mario Gabriele). E ancora, in prima persona intervengono gli attori: Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Elena, Ecuba di Troia, Odette, (personaggio scaturito dalla fantasia di Mariella Colonna);  e personaggi vari di altre poesie. Dimenticavo, c’è anche «una Galleria con quadri animati»; e un Signor K2, e, infine, addirittura un K3! Sembra un manicomio ambulante! Ci sono delle Signore che litigano tra di loro, si colpiscono con le borsette… E c’è nientemeno Dio che interviene di qua e di là per tentare di comporre gli innumerevoli dissidi che nel frattempo si moltiplicano come funghi. Siamo nel bel mezzo del paradosso e della peritropè (capovolgimento), di una realtà surrazionale, al di là del reale e del non reale: siamo nel multireale multiprospettico proprio della dimensione psichica, nella dimensione della «nuova ontologia estetica».

Oserei dire, con Andrea Emo, che «nel paradosso è sempre e finalmente l’unica verità; ma nel paradosso, e perciò nella Verità, possiamo soltanto credere. Il linguaggio, il Verbo del Paradosso, è il mito; soltanto il mito sa esprimere il paradosso».1 Infatti, la valorizzazione e la trasmutazione del quotidiano in mito, implica il rivolgimento del linguaggio in linguaggio mitico, come espressione di un «reale» profondamente paradossale e sovra-razionale.

1 Cfr. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989, p. 34

(Giorgio Linguaglossa)

Gif volti

Gif, Roy Lichtenstein

[Interpretazione del testo e regia di Mariella Colonna.]

Sotto il tendone del Teatro di strada, aperto a nord a sud
ad est e ad ovest, il signor K [personaggio della poesia
di Giorgio Linguaglossa] grida e la voce si diffonde
nelle quattro direzioni dello spazio:

“Venite, venite tutti a vedere
il più grande spettacolo del mondo
dal titolo insuperabile: Il bacio è la tomba di Dio!
Avete mai sentito una cosa del genere??
Vi presento me stesso, il signor Kappa,
il sommo… prestigiatore, il mago portentoso
capace di cambiare i destini degli uomini
e dei popoli!

Alla modesta cifra della vostra anima
(che non vale niente)
posso fare di voi il contrario di quello che siete,
poveri incapaci e depressi abitanti
di questo miserabile pianeta avviati alla catastrofe!
Ascoltatemi dunque!
(si rivolge ai suoi scherani)
“Suvvia, date fiato alle trombe! Inizi lo spettacolo!”

“Un momento…alt!”
“E voi chi siete?”
“Sono il signor K!”
“Ah, questa poi…
il signor K(appa) sono io!”
“Siamo due Signor K, io sono famoso ormai
per essere passato dalle poesie di Mario Gabriele
in quella di Giorgio Linguaglossa intitolata ‘Il corvo entra dalla finestra’…
“per corteggiare una dama, miss. Evelyn…”.

“Ma che state dicendo? Di che diavolo parlate?
Rivolgendosi al pubblico: “Non sa che io
sono tanto più famoso di lui…”
“È la verità. Piuttosto voi…”
“Tacete! Fate un silenzio di pietra quando parlate con me…
State a sentire: vedete quella torre?”
“Sì, la vedo…”
“Ma no, non quella che vedete! Quella che non vedete!”
“Va bene, credo di aver capito.”
“C’è scritta una frase bizzarra.”
“Ma non riesco a leggerla bene. Non ho con me gli occhiali.”
“Vi ho detto che non dovete ‘vederla!’
E neppure leggerla, non avete bisogno degli occhiali,
vi basti immaginare.”
“L’imagination au pouvoir!”
“Così va meglio, però.
Prima di tutto ditemi perché avete interrotto l’inizio
dello spettacolo?”
“Volevo che lei, signor Kappa,
ci spiegasse il senso di tutto questo baccano…”
“Questo mai, se lo facessi, addio suspence…
c’è un incredibile evento che vi inchioderà sulle sedie,
cari signori! Ma adesso
continui lei, signor K2, che dice di essere il mio doppio!
Da quale parte del mondo viene?”

“Vede, signor Kappa, io e lei siamo due personaggi complicati:
io vengo non dalla mia terra, ma da due poesie.
La prima l’ho scritta io che sono un poeta e mi chiamo
Mario Gabriele; nella mia poesia ho creato Evelyn:
lei si è presa una sbandata per me e io per lei.
Ma, per attrarla e farmi desiderare, mi sono recato
con il nome d’arte di Signor K nella poesia-opera d’arte
di Giorgio Linguaglossa!
Una Galleria con quadri animati
che hanno molto movimentato l’Incontro con miss Evelyn.
Quando ho scelto di identificarmi con il signor K,
ero all’oscuro della sua identità, signor Kappa.”
“Lei dunque sa meglio di me chi sono?”
Se è per questo anche lei sa meglio di me
chi sono e chi è il signor K n.3, che poi è il primo!”

“Va bene, allora basta! Non mi confonda le idee
con altre spiegazioni, tenga pure il mio nome,
ma, mi raccomando, coll’aggiunta del 2 , lei è il signor K2!
E sappia che… chi porta il mio nome porta dentro di sé
qualcosa di me”.
“Essere K2 aumenterà il mio fascino agli occhi di Evelyn.
D’altra parte, anche la mia Evelyn è ambigua,
adesso è un’elegante signora Liberty… ma, Gi Elle dice che ha
un passato da megera e prosseneta: si guadagnava da vivere con le carte etc…”.
“Ma sì, la conosco bene anche io, il patto è concluso: vede,
con la musica-luce verde-rossa rivolta ora al suo volto ora al mio…
Diamo inizio allo spettacolo!” Continua a leggere

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Antologia n. 2 nuova ontologia estetica – poesie inedite di Pavel Arsen’ev (1986) e Ryszard Krynicki (1943), Adeodato Piazza Nicolai, Giuseppe Talia, Antonio Sagredo – traduzioni di Paolo Galvagni e Paolo Statuti con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Strilli Giancaspero

(grafica degli “strilli” di Lucio Mayoor Tosi)

Giorgio Linguaglossa
31 agosto, 2017

C’è una «logica» delle metafore e delle metonimie. Un linguaggio poetico privo di logica è un linguaggio poetico scombiccherato, claudicante, incomprensibile. Per questo un poeta come Valéry parlava della poesia che ha la precisione di una «matematica applicata». Anche nel linguaggio poetico c’è una «logica».
La logica è la grammatica profonda del linguaggio, al di là della sua grammatica concettuale che ne è la sintassi. È Essa che pone in evidenza le relazioni di senso (che non si dicono in quel che si dice ma che si mostrano, e che ciascuno è in grado di comprendere in quanto semplice utilizzatore di lingua naturale).
Il linguaggio poetico è la tematizzazione esplicita di ciò che è contenuto nel linguaggio naturale; per cui il secondo viene prima del primo. È un linguaggio in quanto scritto, decontestualizzato, in cui tutto è chiaro, univoco, intelligibile da subito perché costruito per questo scopo. È il prodotto della riflessione del linguaggio su se stesso, l’esplicitazione delle sue strutture di senso soggiacenti alle relazioni dei parlanti immersi nel linguaggio naturale.
Dal linguaggio relazionale del linguaggio naturale al linguaggio poetico c’è una frattura e un abisso, un salto e un ponte.
La problematizzazione del linguaggio poetico si esprime, quale suo luogo naturale, in metafore e in immagini. Tutto il resto appartiene al demanio discorsivo-assertorio che ha la funzione politica di convincere un uditorio. A rigore, si può sostenere che un linguaggio poetico privo di metafore e immagini non è un linguaggio poetico. E con questo scopriamo l’acqua calda, ma è indispensabile ripeterlo, anche adesso in tempi di semplicismo filosofico-poetico.
Lo scetticismo – che data da Satura (1971) in giù nella poesia italiana – ha dato i suoi frutti avvelenati: ha ridotto la poesia italiana ad ancella dei mezzi di comunicazione di massa, ad un surrogato di essi; l’ha resa sostanzialmente un linguaggio non differenziato da quello della «comunicazione».
Un aneddoto, circa alla metà degli anni novanta a Milano venne stilato un «manifesto», redatto, mi sembra da un certo Italo Testa e sottoscritto da personaggi noti, che sollecitava la rivalutazione della «comunicazione» in poesia. All’epoca, ci restai di princisbecco, adesso non mi meraviglio più di nulla, ormai la poesia-comunicazione ha invaso ogni pertugio di buon senso. All’epoca, avevo pubblicato (1995) sul n. 7 di Poiesis il «Manifesto della nuova poesia metafisica», che andava in direzione diametralmente opposta.
Di fatto, da Satura in poi fino ai giorni nostri, non c’è stato nessun poeta italiano degno di stare allo stesso livello di un Tranströmer, questo è un nodo che finora non è stato sciolto dell’Istituzione poesia così come si è solidificata oggi in Italia.
La poesia che si fa oggi in Italia è un linguaggio ingessato (nel migliore dei casi) e un linguaggio comunicazionale (nel peggiore).

Strilli Grieco
Due poesie di Ryszard Krynicki

[Tra i massimi poeti polacchi contemporanei, Ryszard Krynicki nasce il 24 giugno del 1943 nel lager austriaco di Wimberg, a Sankt Valentin. Ha ottenuto diversi premi letterari, tra cui il premio internazionale Kościelski (1976), è anche traduttore dal tedesco di Brecht, Nelly Sachs, Paul Celan. Il volume Punkt magnetyczny (Il punto magnetico, 1996) contiene un’ampia scelta di versi delle sue raccolte precedenti, tra cui Akt urodzenia (Atto di nascita, 1969), Organizm zbiorowy (Organismo collettivo, 1975), Nasze życie rośnie (La nostra vita cresce, 1978), la sua ultima raccolta è Kamień, szron (Il sasso, la brina, 2004). Nel 1988 Krynicki ha fondato la casa editrice a5, che pubblica poesia contemporanea, tra cui Herbert e Szymborska.
Gli esordi di Krynicki nel 1968 sono legati al movimento di Nowa Fala (Nuova Ondata), composto da poeti dello spessore di Zagajewski, Karasek, Barańczak, Kornhauser, accomunati da uno sguardo lucido e critico sul regime e dalla volontà di rispecchiarne, nella maniera più fedele, il grigiore e la disperazione quotidiani.
Nella sua poesia si riscontra la presenza di un tono quasi oracolare innestato su di un lessico sobrio, spoglio, schietto, a volte sarcastico, a volte umorale. I tratti sopra segmentali entrano con pieno diritto nella poesia occupando un posto d’onore. Esponente di spicco della generazione della Nowa Fala, Krynicki ha un timbro, una voce individuale. La sua voce si esprime bene nei momenti in cui prende posizione con interrogativi incalzanti e alti, quando può prendere posizione nei confronti del regime e della storia. Sue poesie sono reperibili nell’antologia “Almanacco dello specchio 2007”, Mondadori.]

Strilli Rago
Il poeta è pudico

Il poeta è pudico.
Lo è perché parla di sé, anche se in minima parte, immette nella poesia un moto, l’emozione di un istante vissuto proprio così, lì o altrove, ma comunque vissuto.
Almeno lo dovrebbe.
C’è chi immagina e racconta; ci inonda di versi profondi, ridondanti e colti che però non hanno vita.
Ci si può difendere da versi così? Mah!
Se piacciono, sono pur sempre poesia: falsa, copiata sbirciando componimenti di altri, ma di base una certa sensibilità c’è.
Io ho un sistema: scelgo un momento mio della giornata, butto i pensieri e leggo a voce alta, fingendomi l’autore e poi mi interrogo.
Posso dire di essere stato onesta nella lettura? Ho interpretato bene il suo pensiero? E come ne esce il suono? Scivolano le parole, o si arrotolano su se stesse?
Ecco, rispondendo a tutto questo ottengo delle prime risposte che saranno convalidate o smentite da poesie successive.
Non ho mai provato a leggere le poesie in altre lingue che la mia. Deve essere una esperienza esaltante.
Purtroppo mi difetta la pronuncia di molti idiomi, quindi è una esperienza che non farò mai.
Accetto senza riserve, quindi, il dire di questo autore. La semplicità dello scritto (e la bravura del traduttore: non scordiamoli mai) ne fa un testo prezioso.

Effetto di estraniamento

Preferisco leggere i miei versi in una lingua straniera:
occupato a rigirare cautamente in bocca
i sassolini della pronuncia corretta
sento meno la spudoratezza della mia confessione.

(traduzione di Paolo Statuti)

Strilli Leone

Due poesie di Pavel Arsen’ev

[Pavel Arsen’ev è nato nel 1986 a San Pietroburgo, dove vive tuttora. È ricercatore presso l’Ateneo pietroburghese (cattedra di teoria della letteratura). Pubblica versi e articoli nel sito http://www.polutona.ru, su riviste russe e straniere. Dal 2009 organizza il festival di poesia sull’Isola Kanonerskij a San Pietroburgo. È il redattore capo dell’almanacco “Translit”. Ha pubblicato le raccolte To, čto ne ukladyvaetsja v golove [Quello che non si ripone nella testa] (2005), Bescvetnye zelënye idei jarostno spjat [Idee verdi incolori dormono furenti] (2011). Suoi versi in traduzione italiana sono apparsi in Tutta la pienezza del mio petto (Lietocolle 2015)].

quando è giunta l’ora di pagare il vino
tutti in un attimo sono ritornati sobri
hanno spento la loro trasgressione francese
hanno acceso il razionalismo francese
e con zelo improbabile hanno cominciato
a contare la quota di partecipazione di ciascuno
nelle follie brille

Secondo la costituzione

il presidente risulta
il presidente conduce
il presidente introduce
il presidente è a capo
il presidente ha il diritto di fermare
il presidente viene eletto
il presidente emana
il presidente ha il diritto
il presidente può essere eletto
il presidente può avvalersi
il presidente può consegnare
il presidente insignisce
il presidente designa
il presidente non può occupare
il presidente provvede
il presidente possiede
il presidente promulga
il presidente si rivolge
il presidente determina
il presidente libera
il presidente realizza
il presidente revoca
il presidente porta
il presidente presenta
il presidente accetta
il presidente firma
il presidente conferisce
il presidente inizia
il presidente interrompe
il presidente scioglie
il presidente decide
il presidente pone
il presidente conferma
il presidente forma
il presidente introduce
il presidente emane
il presifentr decide
il presidente pone
il presidente conferma
il presidente forma
il presidente introduce
il presidente
forse

(Traduzione di Paolo Galvagni)

Strilli Dono

Giorgio Linguaglossa
19 giugno 2017 alle 15.44

Scrivevo qualche tempo addietro:
“… c’è stato un tempo in cui quell’aggettivo era una «forma verbale», cioè indicava una «azione» (la rifrazione della luce su di un corpo e il riflesso di quella luce su di un altro corpo). Ora, in prosa non è più possibile scrivere dando ascolto a questo complesso problematico, ma in poesia sì, è assolutamente necessario fare apparire al di sotto dell’aggettivo la sua vera sostanza verbale. Che cosa voglio dire? Voglio dire semplicemente che la poesia diventa viva e significativa se noi teniamo presente il valore verbale di azione insito in ogni parola, e che nella costruzione sintattica e semantica poniamo attenzione alla «azione» che costituisce il comune denominatore verbale sia dell’aggettivo che del sostantivo. La costruzione sintattica è analoga allo spazio che viene ad essere deformato dalla presenza della gravità della materia. La costruzione sintattica e semantica non è un in sé dato per definitivo, ma è una forma del pensiero che si adatta alla «gravità della materia verbale»”.

Strilli Tosi

GiuseppeTalia (ex Panetta)
11 novembre 2014 alle 22:02
.
Gran bel discorso, caro Linguaglossa, condivisibile. Il male di noi poeti occidentali è che “copuliamo” troppo, e copuliamo con noi stessi, ci facciamo tante pippe mentali. E allora Linguaglossa, rileggi Thalìa e trova quante copule vi siano, 3, 4 (funzionali ma non necessarie) su 80 pagine? E nei Fiori di U? 2 copule superflue su circa 200 versi (ho controllato).
Allora, il mio miglior haiku zen? Questo:

Rotola l’estate
si stacca dalla pianta
il fico d’india.

Quello più intrigante? Quest’altro:

Il gatto all’alba
ascolta il concerto
sognando le ugole.

Giuseppe Talia (ex Panetta)
12 novembre 2014 alle 20:17

Lack of memory. Il grande male del nostro nuovo secolo.
Mnemosine, figlia del cielo (Urano ) e della terra (Gea), nella velocità dell’oggi, a chi può essere paragonata? Se dicessi a suo fratello Crono farei una pubblicità occulta a una nota marca di orologi.
E allora, il passato cerchiamo di farlo rivivere nell’immediato. Proviamo a fermarlo, andiamo contro-tempo.

da Salumida (2010)

I vicoli di pietra sussurravano
E tu padre germogliavi d’urla
Un cerotto alla morfina piano
Cambiava i grumi delle tue pupille
Il limone giallo t’assomigliava
Magro come un gambo di nebbia
Si nasce e il mondo cambia colore
L’infanzia verde il sole giallo
Arancione in quei tramonti
Che dicono tutto
Si cresce, non si finisce mai
Di crescere, rosso, olivastro
Con gote di quel che non sai
Una caduta in bicicletta
La ferita e il sangue porpora
Nessun ideale se non il bucaneve
Il tempo carico di luce
Pieno di odori e di sapori
Sapessi dove sono anima mia
Sono dove il sole mi sbatte
Sulle rocce che si sfaldano
Sono dove il vento costruisce
Le rocce con nuovi granelli
E la pioggia solidifica e lava
Sono dove il falco fa il suo nido
E volteggia per sempre portando
Un insetto una lucertola o niente
Dove i pesci saltano sull’onda
E s’affondano nei sabbiali
Coralli ancora teneri
Sapessi a volte come il fumo
Il vapore della terra sale in aria
In piccole gocciole trasparenti
Dove la montagna erutta fuoco
Fonde l’acciaio e l’agape
La gemma che non ha valore
Ci insegna a ricordare tutto
Quando saremo fluttuanti
Fra metafore spente
Su una nave spaziale
Strapiena di gente
Notte di tuoni acqua e vento
Un finimondo finito in fretta
Un frantoio unto e dilavato
Di nuovo il sole brucia
Della frescura temporalesca
Con vigore si vendica
Stelle nella lavastoviglie
Sassi stellari e navicelle
Di sapone nello scarico
Della discarica dei gabbiani
Ingorghi di clacson e polveri
Sottili nelle viscere di Eva
Con un Adamo dal pomo torto
Nel secchio del riciclaggio
Anche oggi i passerotti
Hanno beccato le briciole
Sul balcone
Venuti a luce d’autunno
Sono volati via di colpo
Non appena la finestra

È un finale interrotto questo di Giuseppe Talia che ci richiama alla mente la poesia di Petr Král per certi suoi aspetti psichici. Il poemetto di Talia è del 2010, ha una vitalità che deriva a mio avviso dal pochissimo spazio concesso ai verbi, l’azione verbale è del tutto assente; similmente, è assente la copula «è», anch’essa messa in castigo. Il fatto è che così priva di verbi la poesia di Talia sta come slegata, sciolta, le parole sono come tanti palloncini che vanno verso il cielo e lì si perdono; prive della gravità esercitata dai verbi le parole acquistano leggerezza e gassosità, sembrano non raggiungere mai la stabilità (apparente) del significato. Una Musa last minute tanto cara a Giuseppe Talia, appesa alla improvvisazione del momento, quasi una esecuzione jazz.

(g.l.)

Strilli Gabriele
da La Musa last minute (inedito)

Guido Oldani

Fiacco di clorofilla e di gambe d’argilla
Detenuto nel container come scontenuto
Betoniera terminale del poeta mantenuto
Cementizzato nell’ars poetica, oldaniano
Realismo militante, con antologie allappanti
Per l’infelice vita di codeina e di camomilla.

Strilli Ventura

Due poesie di Adeodato Piazza Nicolai

Tu luna
Lassù come ti senti?
Sverginata allunata
calpestata espropriata
sembri perfino dimagrita.
Cosa direbbe Leopardi?
Scivolerebbe forse
una lacrima
sulle sue guancie?
Non saprei dire ma soffro
una pena infinita…
Se fossi un barbone
itinerante ti amerei
con occhi sognanti
però non lo sono.
Spreco così
parole malconcie
a lenire un poco
questa ferita.

©2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 13 luglio, ore 5:00

dall’ontologia estetica di Ajvaz

In piena umiltà inseguiamo il paradosso
della classica meta-poesia un po’ dimenticata
o messa in cantina poiché (la crediamo)
sia rimasta senza benzina. Forse meglio tuffarsi
nei labirinti borgesiani o perdersi nella sua
biblioteca infinita. Anche Jung e Jodorowski
ci conducono in fiumi sotterranei che a volte
spuntano sulla superficie, ma solo come frammenti
e lamenti delle viscere poetiche sotterrate
da troppe teorie sparpagliate a vanvera un po’
dappertutto …

E il teorema di Zeno ha ancora qualche
valore? Un disonore studiarlo tuttora? Da tempo
tento di varcare certi confini immaginari, muraglie
illusionarie. Non voglio ritornare né all’alfa né all’omega.
Lasciatemi remare e poi ascoltare il fruscio delle vele
sulla barca mai costruita dalle mie mani,
chissà se ci sono altri porti sepolti da esplorare…

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 27 giugno, ore 18:30

Strilli Linguaglossa
Giuseppe Talìa
13 luglio 2017 alle 22.18

A proposito di luna, eccone tre scritte parecchi anni fa.
La prima, calza a pennello a proposito degli ultimi atti vandalici commessi all’istituto Falcone (e tutti questi “strani” roghi che bruciano in Campania, in Calabria, in Sicilia ?)

Morto il chiarore
la luna incanutita
rotola giù e si scioglie
come un’aspirina
S’acquieta il fragore
nell’aria ammutolita
si ferma sulle soglie
e scoppia come mina
E’ strage nel furore
la Torre dei Pulci ferita
Roma Milano le spoglie
e quel sospetto che affina.
La seconda, una luna che si specchia nel danno ambientale.

Dove sei?
In fondo a quale pozzo
Galleggi nel percolato?
Un cerchio di luce ! Morta?
Uno spicchio
Forse specchio
Madre?
Faccia butterata
Inguaribile
Cuore di lupo
Con ciaspole e piccone
Il biancore di neve
Candrama
Forgi il falcetto
Mieti i gambi storti.
La terza, un primo quarto (di luna)

una
sono una
non certo trina
mi vesto di crinolina
e cresco da notte a mattina
deambulante dea creta dell’universo
sono la luna di quando crescono le fragole
la luna di quando i cervi perdono le corna
minimo falcetto lievito nel sommerso
madreperla nell’immenso concesso
e porto fortuna porto sfortuna
sono di fiume e di laguna
nel cielo di china
non sono trina
sono una
una

Strilli Giancaspero

Poesia di Antonio Sagredo

Non ho mai desiderato una forma perfetta
che fosse soltanto poesia e prosa insieme
per un non comprendersi rivolto a tutti
con una misera sofferenza per il poeta e il suo lettore.

La poesia è decente quando è estranea a se stessa:
da noi si genera tutto ciò che già sapevamo,
gli occhi sono fissi per accogliere perfino una tigre,
senza requie lei nella luce con la sua coda immobile.

È ingiusto pensare che la poesia è soggetta agli angeli,
umilmente si crede che siano dei demoni.
L’umiltà dei poeti si genera in luoghi conosciuti,
la loro superbia è possanza della consapevolezza.

Quale creatura irrazionale desidera il potere degli angeli
che una sola lingua ciarlano in una casa non loro.
E che felici e gioiosi donano labbra e dita
per non mutare a loro vantaggio la sua destinazione?

Perché ciò che ieri era sano è stato disprezzato,
tutte le creature non hanno idea di come io sia triste
poi che invano ho cercato una maniera
per odiare l’Arte con estrema severità.

Mai c’è stata un’epoca in cui si leggevano libri ottusi
per avere gioia e felicità con Intolleranza e avversità.
È la stessa cosa di quando non si è letta nessuna pagina
di opere che ci giungono dalla Clinica delle Felicità.

(marzo, 2016 à la maniere di Milosz)

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Kjell Espmark, POESIE SCELTE da “Quando la strada gira” (1993), “Illuminazioni” e da “Lo spazio interiore” (2014) – “La tradita: solo un contorno senza forza”, “A fianco del suo banco c’è il banco”. Traduzione di Enrico Tiozzo, con una Nota critica di Giorgio Linguaglossa

Kjell Espmark (1930) è tra i maggiori scrittori svedesi della sua generazione. La prima pubblicazione di poesia avviene nel 1956. È anche saggista, romanziere e drammaturgo, ha al suo attivo una sessantina di volumi che gli sono valsi la cattedra di Letterature comparate all’Università di Stoccolma, la cooptazione nell’Accademia di Svezia – dove ha ricoperto per un lungo periodo l’incarico di presidente della commissione Nobel – e una grande quantità di premi nazionali e internazionali. fra le opere più note ritroviamo libri come Vintergata (2007), Det enda nödvändiga – Dikter 1956-2009 (2010) e la sua autobiografia, dello stesso anno, I ricordi mentono, tradotto e pubblicato in Italia nel 2014. Con Aracne ha pubblicato il romanzo L’oblio. Sempre con Aracne ha pubblicato Lo spazio interiore, opera con la quale ha vinto il Premio Letterario Camaiore 2015 – Sezione Internazionale.

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Nota critica di Giorgio Linguaglossa

Il problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa», così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece si può dare l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento. Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente. È interessante andare a computare la topologia della poesia di Espmark; di solito si tratta di interni domestici ripresi per linee diagonali, sghembe e in scorcio; le storie esistenziali sono quelle della grande civiltà urbana delle società postindustriali; le vicende sono quelle del privato, quelle esistenziali, vicende sobriamente prosaiche di una prosaica vita borghese; non c’è nessuna metafisica indotta, ma un domesticità e una prosaicità dei toni e delle situazioni Potremmo definire questa poesia di Espmark come una sobria e prosaica epopea dell’infelicità borghese del nostro tempo post-utopico. Emerge il ritratto di una società con Signore e Signori alla affannosa ricerca di un grammo di autenticità nell’inautenticità generale. Qui da noi nel secondo Novecento hanno tentato questa direzione di sviluppo della poesia Giorgio Caproni con Il conte di Kevenhuller (1985) e Franco Fortini con Composita solvantur (1995), da diversi punti di vista e con opposte soluzioni, ma sempre all’interno di un concetto di resistenza ideologica alla società borghese, la dimensione esistenziale in sé era estranea a quei poeti come alla cultura italiana degli anni Settanta Ottanta. Per il resto, quella problematica esistenziale che balugina in Espmark, da noi è apparsa per fotogrammi e per lacerti, in modo balbuziente e intermittente, qua e là. Più chiaramente quella problematica è presente nella poesia italiana del Novecento presso i poeti non allineati, in Alfredo De Palchi con Sessioni con l’analista (1967), in Helle Busacca con la trilogia de I quanti del suicidio (1972) ; in chiave interiorizzata, in Stige di Maria Rosaria Madonna (1992); in chiave stilisticamente composta in Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996). Ma siamo già a metà degli anni Novanta. In ambito europeo è stato il tardo modernismo che ha insistito su questa problematica: Rolf Jacobsen con Silence afterwards (1965), Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) e, infine, Kjell Espmark con le poesie che vanno dal 1956 ai giorni nostri. Si tratta di un ampio spettro di poeti europei che hanno affondato il bisturi sulla condizione umana dell’uomo occidentale del nostro tempo. Presentiamo qui una scelta delle poesie del poeta svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo, lasciando alle poesie la diretta suggestione di quanto abbiamo appena abbozzato.

foto segnali stradaliPossiamo paragonare la poesia di Espmark ad una fotografia asimmetrica, dove non c’è un baricentro, non c’è un equilibrio, ma disequilibrio, frantumi, frammentazioni. Dove ci sono segnali stradali, nebbie che si intersecano con fumi di ciminiere e gas di scarico delle automobili, dove lo spazio verticale è ripreso orizzontalmente. Il vero segreto dell’arte contemporanea è il disequilibrio… magari invisibile ma pervasivo, che si diffonde in tutte le direzioni, come micro fratture che minano dall’interno anche il materiale più resistente. Il disequilibrio, l’estraneità, il perturbante, l’unheimlich, il rimosso, l’inaudito, l’equivoco, la crisi esistenziale vista dal vivo dei personaggi fanno parte integrante della poesia di Espmark.

Abbiamo bisogno di una poesia che abbia nei suoi ingredienti di base quelle «cose» che Lucio Mayoor Tosi ha chiamato con una brillante definizione il “fermo immagine”, il “girare intorno all’oggetto”, la frantumazione, la «fragmentation»; ed io aggiungerei, la sovrapposizione e l’entanglement delle immagini e dei frammenti. Il mondo globale ha prodotto e messo in circolo una miriade di frammenti incomunicabili. Quei frammenti siamo noi. Siamo frammenti de-simbolizzati. Siamo diventati Altro. Utilizzare e assimilare questi frammenti è un atto di vitale importanza non solo per la poesia ma anche per il romanzo. Infatti, ho fatto due nomi di romanzieri che hanno scritto romanzi a partire dalla raccolta di frammenti: Orhan Pamuk e Salman Rushdie. I poeti italiani sembrano alieni da questa impostazione delle problematiche del «poetico». Però, in questi ultimi anni del nuovo millennio sembra configurarsi una nuova sensibilità per la poesia che abbia il suo punto centrale nella problematica dell’esistenza. Non è un caso che questa problematica sia al centro delle riflessioni di questa rivista. Anche in Italia qualcosa sembra muoversi.
Utilizzare i “frammenti” significa piegare la sintassi e la fonetica alla «natura» dei frammenti, cambiare il modo stesso di costruzione del verso libero modulato sull’antico calco endecasillabico, significa fare i conti con un nuovo concetto di “spazio” e di “tempo” metrico, significa la velocizzazione del lessico, e il suo rallentamento…

kjell espmarkLeggiamo questa poesia dello svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo. Me l’ha mandata il grande traduttore dallo svedese. Leggiamola. E osserviamo le frasi sincopate, i repentini cambi di marcia, le impennate delle analogie, le perifrasi interrotte; i punti di vista che si intrecciano e si accavallano, i fermi immagine, le riprese etc.
Voglio dire che qui abbiamo qualcosa di nuovo come impianto di una struttura, una struttura in versi liberi che perde continuamente il proprio baricentro, che perde l’equilibrio, e che proprio grazie a questa continua perdita di equilibrio metrico e sintattico, paradossalmente, la poesia riesce a mantenersi in un assai precario e nuovo equilibrio. Ecco, questo è un esempio del modo di scrivere una poesia assolutamente moderna.

Ella è dunque stata un’altra per otto anni
senza saperlo.
Ogni giorno c’è stato un equivoco.
Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo.
L’inaudito non è nel guardare all’improvviso
in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti.
L’inaudito è vedere un pomeriggio
scambiati otto anni della propria vita.
I figli l’hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore
è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti
una comunanza piena di antenne vaganti.
Solo lei ne è rimasta fuori.
II prezzo per la calma di tutti splendenti come maggiolini
è la sua esistenza falsificata.
Ella guarda il volto trasparente nello specchio.
È del tutto estraneo.
Le mani che diventano bianche intorno al lavandino
non più del suo proprio biancore
non sono sue. Lei non può trattenersi.
E vomita tutti i ricordi menzogneri:
questo volto semichiaro su di lei
sciolto in desiderio e assicurazioni
la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate
questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo
quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento.
Ella vomita tutta questa vita falsa
queste giornate dal tanfo di gusci di gambero. Continua a leggere

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Giorgio Linguaglossa: Riflessioni sul concetto di “Paradigma”, Ilya Prigogine, Alfredo De Palchi “Sessioni con l’analista” (1967), Tomas Tranströmer, Jorge Luis Borges, Salman Rushdie,  il Post-moderno e il Modernismo europeo – Con una riflessione di Massimo Forti Robert Frost : “Scrivere in verso libero è come giocare a tennis con la rete abbassata”

eclissi sole 5.

Scrive Massimo Forti su “Il Messaggero” del  29 maggio 2003:

“Ha cavalcato la tigre della scienza moderna, così lontana dal quadro di rassicuranti “certezze” della fisica classica, persino con allegria. Talvolta contagiosa. Caos, instabilità, disordine, probabilità, casualità, complessità catastrofi… L’universo di Ilya Prigogine era come il Paese delle Meraviglie di Alice dove tutto cambia, tutto è possibile, tutto è rimesso continuamente in gioco. Premio Nobel per la chimica per le sue ricerche sull’entropia e sulle strutture dissipative non si stancava di sottolineare che anche Einstein aveva avuto paura della rivoluzione scatenata dalla fisica quantistica, che sostituiva alle sicurezze del mondo di Newton i concetti di aleatorietà e di probabilità. Non era stato, forse, proprio il padre della relatività a dire la celeberrima frase: «Non posso credere che Dio giochi a dadi»?
Prigogine, no. Come tutti i grandi scienziati consapevoli della sconvolgente e irreversibile svolta generata dalla teoria dei quanti, si trovava perfettamente a suo agio nel pirotecnico universo descritto profeticamente (nell’Ottocento!) da Lewis Carroll nei suoi capolavori. Nel mondo reale – ha detto, con implacabile lucidità, il grande chimico russo – non esiste un sistema che non sia instabile e che non possa prendere svariate direzioni. La fisica einsteiniana e post-einsteiniana non esprime certezze ma possibilità. Questa è stata la lezione, per qualcuno esaltante e per altri inquietante, di Prigogine. Ma, sempre fondata su solidissime basi scientifiche.
«L’universo», mi disse in occasione di un incontro a Firenze, «è come un romanzo. In principio c’è la storia del cosmo, seguita da quella della materia. Poi, c’è quella della vita e infine quella dell’umanità, la nostra. Queste storie sono concatenate l’una con l’altra proprio come le mille notti arabe di Sheherazade. Ma nuove storie ci attendono e possono essere scritte. Il romanzo dell’universo non è ancora finito e forse non finirà mai...»”.

 

eclisse disole 8

Eclissi

Il Cambiamento di paradigma

Cambiamento di paradigma (dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza), è l’espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante. Il concetto di scienza rivoluzionaria è messo in contrasto con la sua idea di scienza normale.
Anche nella storia della letteratura, i nuovi paradigmi non piovono semplicemente dal cielo. Il nuovo che voglia imporsi deve distaccarsi necessariamente dal vecchio per legittimarsi di fronte alla tradizione, così ché, mediante un nuovo modo di vedere l’oggetto, noi accediamo anche ad una nuova visione del mondo. I più importanti mutamenti di paradigma nella storia della poesia italiana avvengono a cavallo tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, e in questa accezione un libro come Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo De Palchi è un libro fondamentale e in anticipo sui tempi, tanto che l’opera non venne recepita dai contemporanei in Italia (come ho spiegato in più occasioni).
Il titolo di Paradigma (2001), legato al nome e all’opera poetica di Alfredo De Palchi voleva alludere proprio a quel cambiamento della visione della poesia italiana degli anni Sessanta che la sua opera sottintendeva, in particolare il carattere pre-sperimentale della sua poesia che anticipava lo sperimentalismo. L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn “un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, “lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista, invece invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.

Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist.
Dice Kuhn citando Max Planck: “Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa.”

Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

salman rushdie con la moglie

salman rushdie con la moglie

Possiamo dire che quell’epoca che va da L’opera aperta di Umberto Eco (1962) a Midnight’s children (1981) e Versetti satanici di Salman Rushdie (1988) si è concluso il Post-moderno e siamo entrati in una nuova dimensione. Nel romanzo di Rushdie il favoloso, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, diventano lo spazio della narrazione dove non ci sono separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Oserei dire che con la poesia di Tomas Tranströmer finisce l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonetica) ed  inizia una poesia topologica che integra il fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili) ed il fattore Spazio. Chi non si è accorto di questo fatto, continuerà a scrivere romanzi tradizionali (del tutto rispettabili) o poesie tradizionali (basate ancora su un concetto di reale e di finzione separati), ovviamente anch’esse rispettabili; ma si tratta di opere di letteratura che non hanno l’acuta percezione, la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo “dominio” (per dirla con un termine nuovo).

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Tomas-Transtromer

Nei nuovi romanzi e nelle nuove poesie, finzione e realtà non costituiscono più un’opposizione ontologica, il reale stesso si mostra come il fittizio o fantastico potenziale; il presunto originale si presenta come un mero poscritto ad un testo passato, una sorta di palinsesto nel quale appaiono le tracce di ciò che il Novecento aveva già pensato e ci aveva consegnato. La poesia di Eliot e Brecht rappresenta i due corni della distanza che separa due tipi di poesia rendendole inconciliabili. Ancora una volta il grande precursore di questo modo di intendere la letteratura è stato Borges con Finzioni (1941) e con Pierre Menard autore del Chisciotte (scritto già nel 1939); l’ambizione di Menard sarebbe stata quella di riscrivere il Chisciotte adeguato al proprio tempo. Ebbene, l’opera di Borges ci pone il problema seguente: che non è possibile scrivere un’opera di letteratura se non consideriamo il fattore Tempo che interviene a modificarla dall’interno. Ecco il punto: nel mondo tecnologico odierno è il fattore Tempo ad essere sovversivo. A mio modesto parere, della nostra epoca presente sopravvivranno soltanto le opere che si approprieranno del fattore Tempo, ovvero, che hanno riflettuto sulla funzione deformante del tempo nella scrittura lineare progressiva che va dall’inizio alla fine seguendo una segmento direzionale.

eclissi sole 7

Eclissi

Il fattore Tempo all’interno della forma-poesia

Quando parlo dell’ingresso del fattore Tempo all’interno delle poesie vorrei dire qualcosa di diverso di quanto ci dice il concetto del fattore Tempo esterno all’opera d’arte. La teoria della ricezione è basata sul fattore Tempo in quanto elemento esterno all’opera d’arte, io invece intendo qualcosa di assai diverso: il fattore Tempo (da cui l’essere heideggeriano) è qualcosa che ci inerisce nel profondo e fonde in un unico dominio il reale e il fittizio, l’immaginario e il simbolico, l’io e l’Altro, il chi parla con chi ascolta. E la poesia di un Tranströmer indica mirabilmente questa nuova condizione ontologica. Chi non comprende questo nesso, a mio avviso, è destinato a rimanere indietro, a concepire la poesia, il romanzo, la musica e la pittura in quanto caratterizzate da quel flusso continuo (ma esterno) che chiamiamo convenzionalmente Tempo.

Risposta a Gino Rago

caro Gino Rago,
come tu hai compreso perfettamente, la mia posizione di poeta che riflette sulla poesia (e che tenta di farla), si basa sulla comprensione dei mutamenti fondamentali che dal 1922 anno di pubblicazione di The waste land di Eliot, arriva ai giorni nostri. Il Novecento è stato un secolo ricco e convulso, che ha visto un susseguirsi rapidissimo di mutamenti di paradigma. Dopo Eliot la poesia europea e occidentale è cambiata. Ma prima di Eliot una rivoluzione analoga era stata introdotta da Mandel’stam con la sua idea di una poesia basata sulla metafora tridimensionale.
In Italia, la poesia del neorealismo e del post-ermetismo è ancora attestata su un concetto arretrato e non evoluto di forma-poesia. Questa arretratezza impedì la lettura e la ricezione di un libro come Sessioni con l’analista di De Palchi (1967) e tuttora è presente una fortissima resistenza, come sappiamo, alla rivisitazione del paradigma poetico dominante. Con Satura di Montale (1971) le cose cambiano, ma a mio avviso in peggio, perché si continua a pensare ad una poesia lineare progressiva in linea di continuità con la tradizione italiana che si faceva iniziare da Myricae di Pascoli. È restata estranea alla cultura poetica italiana l’idea di una poesia come modellizzazione secondaria del fattore Tempo, cioè una poesia che non seguisse più il modello lineare progressivo. Sfuggiva, e sfugge ancora oggi che la poesia più evoluta in Europa è stata la poesia che va sotto la denominazione di poesia modernista, non si arriva a comprendere che la poesia italiana ha oggi bisogno urgentissimo di un nuovo tipo di DISPOSITIVO ESTETICO che contempli la adozione di un concetto di poesia tridimensionale, ovvero, fondata sulle proprietà del peso specifico e sulla forza gravitazionale che ha ogni costrutto linguistico. E qui mi fermo.

Wallace Stevens. Photo of Robert Frost and Stevens at the Casa Marina Hotel in Key West, ca. 1940

Wallace Stevens. Photo of Robert Frost and Stevens at the Casa Marina Hotel in Key West, ca. 1940

Io ho sempre pensato quello che la celebre battuta di Robert Frost ha riassunto in modo mirabile: “Scrivere in verso libero è come giocare a tennis con la rete abbassata”.

Il pensiero di Salman Rushdie è chiarissimo: non si può fare poesia senza presupporre delle regole condivise, altrimenti ognuno si fa le regole a propria immagine e somiglianza, con il che la “competizione” non è più una competizione ma un dialogo tra autisti, tra sordo-muti. Quello che si è verificato nella poesia italiana post-Montale è un po’ questo, e anche per responsabilità che investono alcuni poeti di rango: cioè aver accettato l’assunto equivoco che si potesse scrivere poesia in blank verse (metro libero) senza avere in mente alcuna idea di ciò che comporta il metro libero. Innanzitutto, il problema dell’a-capo, e subito dopo, quello della «durata» del verso: quando e dove un verso deve finire, deve (può) cominciarne un altro? Chi lo stabilisce? E perché? E che cosa significa (e comporta) l’utilizzo del “verso libero”? – Interrogativi pressanti come si vede anche a occhio nudo e di primo acchito.

Porto un esempio personale (così non faccio torto a nessuno):

Nella mia modesta falegnameria del verso libero (perché anch’io dopo Blumenbilder (Passigli, 2013) la cui stesura risale a 28 anni prima, ormai scrivo in verso libero), mi sono accorto che se cambio o sopprimo una parola (o più parole) di una poesia X del terzo verso, mi si pongono dei problemi di sbilanciamento per cui sono costretto ad intervenire sul verso n. 4 e magari anche sul n. 5, e financo sull’ultimo verso. Quello che voglio dire lo dico in modo molto semplice: che un disequilibrio del verso n. 3 si riproduce e rimbalza in un disequilibrio nei versi seguenti… fino spesso all’ultimo verso, per cui sono indotto ad inserire altri versi (o spezzoni di versi) (o tagliare dei versi) tra i versi proprio per tentare di riequilibrare la composizione di spinte e di contro spinte, di forze e di contro forze che agiscono all’interno di quello che io chiamo il “poligono di tiro” della composizione poetica.

Il verso libero (quello che crediamo ingenuamente che sia libero) in realtà non è libero affatto. Soltanto un poeta ingenuo e illetterato o superficiale può credere che il verso libero sia libero da tutte le regole, per il semplice fatto che una volta cancellate le regole (ammesso e non concesso che questo sia possibile), ecco che ci troviamo costretti ad introdurre noi stessi nel poligono della composizione delle regole ferree. E tanto più queste regole sono ferree quanto più la composizione ne beneficerà. Ma le regole che introduco nella mia composizione non possono essere arbitrarie (come quello di abbassare il cestello nel gioco del basket o allargare la porta nel gioco del calcio) ma debbono essere condivise (anche in maniera silenziosa) ma la dove non c’è condivisione di regole non c’è neanche libertà, si ha soltanto confusione.

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UNA POESIA INEDITA  di Giorgio Linguaglossa da TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE (Three Stills in the Frame) traduzione di Steven Grieco Chelsea Editions 2015 pp. 330 dollari 20 Prefazione di Andrej Silkin

Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015

Prefazione di Andrej Silkin “TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE”

 Il linguaggio di poeti come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini del tempo di Wordsworth ma è un linguaggio «nuovo». Eliot mette a punto una sofisticatissima colloquialità. Quello che Yeats dice a Eliot noi lo potremmo rivolgere a Giorgio Linguaglossa e, più in generale, alla migliore poesia moderna. Scrive Yeats: «Eliot has produced his great effects upon his generation because he has described men and women that get out of the bed or into it from mere habit; in describing this life that has lost at heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effects by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantics rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty».

Giorgio Linguaglossa è, in un certo senso, il poeta meno italiano e più europeo della tradizione poetica italiana. Nato, come a lui piace dire, a Costantinopoli, vive da sempre a Roma, le due capitali dell’Impero romano. In lui coabitano le due decadenze: di Roma e di Costantinopoli; il senso della decadenza dell’impero d’Occidente e un nuovo paganesimo; il tardo impero della Roma di oggi con le sue feste orgiastiche e la corruzione; il disprezzo per il Palazzo del potere e il culto di Afrodite; il suo essere senza speranza senza essere disperato. Di qui la serenità luciferina del suo universo popolato da angeli gobbi, uccelli storpi, démoni e falsi angeli come Sterchele, da filosofi che non si piegano come Carneade e da imperatori mentitori come Costantino ma ci sono anche figure femminili dalla bellezza sconcertante: Enceladon, Beltegeuse, Marlene, la dama veneziana in maschera, la ragazza con l’orecchino di perla e poi l’humour noir disseminato ovunque. Il suo albero genealogico è presto detto: Mandel’štam, Eliot, Brodskij, Milosz, Herbert, Tranströmer fino a Zagajewski. È questa la sua costellazione ideale. Entro questa costellazione Linguaglossa coltiva ormai da trenta anni un discorso poetico che non ha analogie nella tradizione del Novecento italiano: con un linguaggio medio, quasi colloquiale, il poeta tocca il diapason dello stile sublime e del parlato della plebe. Roma, la città in cui vive, è ancora la città pagana della antica plebe, con i suoi tribuni e i suoi Menenio Agrippa, i faccendieri e i portaborse del paese più corrotto d’Europa. Del resto, un poeta come Linguaglossa non poteva sortire che da un paese uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale e in degrado morale e istituzionale, immerso in una profonda decadenza politica, economica e spirituale. La decadenza della Roma corrotta e l’inconsapevolezza dei suoi abitanti costituiscono il leit motif traslato della sua poesia, ne sono il filo conduttore. La poesia linguaglossiana non può vivere che all’interno dell’alcova della decadenza e della corruzione, in essa trova la sua linfa e la sua ragion d’essere.

foto dei miei genitori, Roma, 1946

foto dei miei genitori, Roma, 1946

La composizione che dà il titolo a questa Antologia «Tre fotogrammi dentro la cornice», è probabilmente la poesia che «rompe», anche dal punto di vista metrico, la tradizione della poesia italiana del Novecento: il metro utilizzato viene piegato alle esigenze delle immagini e delle metafore. Il metro viene curvato dalla forza di gravità delle immagini. Esattamente l’opposto di quanto si è fatto in Italia nella poesia del secondo Novecento che ha privilegiato un «parlato» piccolo borghese incentrato sulle vicende personali, sul privato, sulle occasioni, una poesia diaristica, del presente per il presente. Linguaglossa opta invece per una poesia che dal presente si proietta nel futuro. Una poesia dantesca, dunque, costruita con spezzoni di immagini e di metafore di inusitata felicità espressiva. Ricomporre l’infranto, ecco il proposito di Linguaglossa, un progetto di arditezza quasi insostenibile.

La poesia «Tre fotogrammi dentro la cornice» prende inizio dagli anni Trenta, quando i suoi genitori neanche si conoscevano e il bambino non è ancora stato concepito; si passa, nella strofa successiva, ad una fotografia degli anni Quaranta dei genitori del poeta scattata casualmente da un fotografo in una via di Roma. La poesia ha lo svolgimento di un gomitolo, inizia da un punto per abbracciare tutta la storia del Novecento italiano ed europeo con un crescendo drammatico ed epico fino al finale: il poeta sul letto di morte. Ci sono voluti venti anni per completare questa poesia. È probabilmente la composizione di maggiore ardimento della poesia italiana del dopo Montale. Nella costruzione della sua poesia Linguaglossa parte da un principio: che la poesia non ha sinonimi e che le metafore sono transitabili e traducibili da una lingua all’altra, passano da una poesia all’altra con lievi modifiche, che la poesia è una esperienza più che un significato, ovvero, che più significati disparati legati da un rapporto di inferenza e di inerenza danno quale risultato una esperienza significativa non più legata alla persona del poeta ma che è divenuta una esperienza di tutti, una esperienza collettiva, un patrimonio della collettività transnazionale e della Lingua. La poesia comunica prima ancora di essere compresa, ha una sua forza d’urto legata alla costellazione di esperienze di cui si fa portatrice.

His poetry has the two marks of «modernist» work, the liveliness that comes from topicality and the difficulty that comes from intellectual abstruseness. The topical and the intellectual, the lively and the difficult, these are effects of modernist work. I tratti metafisici nel lavoro di Linguaglossa sono evidentissimi, non per nulla nel 1995 egli firma un «Manifesto della nuova poesia metafisica» in assoluta contro tendenza con la prassi della poesia italiana del tempo. È per questo motivo che la indirezione, la reticenza emotiva, la metafora e la metafora antitetica (la catacresi) hanno un ruolo così vasto nella sua poesia, ma il principio sintetico che integra tutti i particolari della poesia è quasi sempre omesso, perché esso è presente in tutti i particolari un po’ e non si dà mai per intero, non reclama alcuna evidenza ma deve essere il lettore a individuarlo e riconoscerlo.

È la condizione dell’uomo nel tardo Moderno quello che sta a cuore a Giorgio Linguaglossa. Con le sue parole: «la poesia è soltanto uno strumento (sofisticatissimo) per la rilevazione delle quantità di isotopi di uranio e di cesio che si trovano nell’atmosfera (nella biosfera) dell’ambiente linguistico. Assodato che la democrazia del tardo Moderno è quella che reclama a gran voce che tutte le arti siano eguali, eguali in quanto tutte inessenziali; inessenziali in quanto tutte decorative, ne deriva che la tendenza al decorativismo costituisce il piano inclinato di tutta l’arte del tardo Moderno. Addirittura, risulta problematico financo discorrere di arte nel “reale” del villaggio globale e del villaggio mediatico, che conosce soltanto la diffusione dell’estetico, dato che se ne è perduto perfino il concetto; senza contare che un’arte senza stile quale è quello della poesia del tardo Moderno ricade e rientra nell’estetico per la porta di servizio (non certo per la porta principale). Direi che un’arte senza stile è quella che richiede la diffusione dell’estetico. Che cos’è l’estetico se non un “servizio” che la diffusione dell’architettura e del design permettono all’arte della democrazie dell’occidente europeo? Anche se è vero che tutte le filosofie che discettano di un’arte senza stile non sanno quello che fanno (impegnate come sono nell’eutanasia della libertà), in verità, essa sta incondizionatamente dalla parte della comunità servile, orgogliosamente partigiane della techné dei medaglioni

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie

Il linguaggio poetico di Linguaglossa sta incondizionatamente dalla parte della libertà. Al poeta spetta il compito di utilizzare il linguaggio logorato della civiltà mediatica, un qualcosa di assolutamente inutilizzabile (non-orientabile, come il nastro di Moebius). Il linguaggio poetico è qualcosa che proviene già da uno scarto di qualcun altro e di qualcosa d’altro. Ed è proprio questo il particolare, diciamo così, statuto del linguaggio poetico contemporaneo. Quasi che una posizione di autenticità sia possibile soltanto aggiudicandosi dosi massicce di «scarti». Un’attesa senza futuro è destinata a diventare un intermezzo, un interludio, un interspazio temporale tra due punti del presente. Così si verifica una cancellazione dell’esistenza sospesa tra due punti. La cancellazione diventa la spia di una condizione oggettiva della condizione umana. È una poesia, questa di Linguaglossa, che non deriva più da alcun ordine delle cose, perché non c’è alcuna Ragione che presiede l’organizzazione totale della vita amministrata. Ciò che spetta alla poesia è presto detto: tenere alto il presentimento di un riscatto della condizione umana.

È il retroterra della Divina Commedia di Dante Alighieri quello da cui muove questa poesia, che si presenta come una sterminata galleria di personaggi che agiscono, sognano, lottano per la sopravvivenza. La sua forza espressiva deriva dalla consapevolezza del demanio di rottami e di scarti entro il quale la poesia è costretta a rovistare e saccheggiare. Le esperienze significative saranno, appunto, quelle che abitano stabilmente il demanio dei rifiuti indifferenziati della Storia sordidamente e sarcasticamente guidata dall’angelo Achamoth (l’angelo della Storia secondo la teologia cristiana).

Da quanto precede risulterà chiaro che la poesia di Linguaglossa si pone come zona refrattaria alle tendenze apologetiche del minimalismo europeo e occidentale proprio del tardo Moderno; siamo ben al di là della dimensione della superficie o superficiaria della poesia occidentale, della direzionalità indifferenziata e della stagnazione stilistica permanente della parte occidentale dell’impero.

È chiaro che il non-stile del tardo Moderno sia anche uno stile, anzi, lo stile par excellence del tardo Moderno: lo stile del beota, lo stile di servizio. Forse nessuno come Eugenio Montale ha compreso così a fondo le questioni legate allo stile da «ectoplasma» nell’epoca della pinguedine degli stili che caratterizza dagli anni Settanta del Novecento la poesia europea. Oggi, in pieno tardo Moderno, lo stile demotico trova il suo corrispettivo sintagmatico nello stile ironico colloquiale che prende in prestito dalla oralità della filmografia e del cabaret telematico la pinguedine della propria irresponsabilità estetica.

Da questi pochi cenni apparirà chiaro come Giorgio Linguaglossa sia tra i pochi poeti europei di oggi che scrive una poesia di responsabilità estetica, che ha il coraggio di addossarsi tutta la responsabilità derivante dallo statuto del proprio atto linguistico. Di qui il mio augurio di leggerlo e meditarlo.

pitigrilli Hitler-e-Mussolini

TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE

Anni trenta. La cartilagine delle stelle getta un’ombra.
Città di quinte e fondali che si spostano mentre

i personaggi del dramma stanno fermi; teatro di marionette,
regno infantile delle favole e dello spirito. Felicità.

Un bimbo gobbo con le ali salta giù dal melo fiorito
entra dalla finestra nella mia stanza e dice:

«il catalogo delle navi è pronto;
tra di esse c’è un mozzo di nome Omero

che ancora non conosce il passato perché non ha vissuto il futuro».
Mio padre è felice, anche mia madre è felice,

non sanno l’uno dell’altra; sulla ghiaia di piazza Bologna
corre il bambino che ancora non c’è;

una scimmia indossa la redingote, scarpe di vernice
e il cappello a cilindro; le camicie nere brulicano come vermi,

inneggiano al duce; Mussolini ha dichiarato guerra all’Inghilterra
ed io sono contento di non esserci.

Una foto degli anni quaranta. C’è mia madre che si affaccia
sul bordo della cornice: si guarda l’orlo della manica; vertigine;

fa un gesto come per schivare (!?) qualcosa o qualcuno
o forse nasconde (!?) in un cofanetto il bocchino d’avorio.

Nel primo stipo a destra del comò:
un fascio di lettere avvolte in un nastro azzurro,

sopra il comò un vaso con il volto saraceno, una maschera
di bianca maiolica, il portacipria senza cipria, il portamine d’argento,

la scatolina smaltata a fiori celesti, cammei con volti di avorio
rivolti a sinistra, il flacone bombato senza profumo,

il fermaglio d’argento per capelli, guanti di garza nera,
calze di seta impalpabili come ali di farfalla,

lo specchietto da borsetta annerito dal fumo delle bombe.
È arrivata una lettera, mia madre la apre; sono io

che scrivo: «Cartagine è stata rasa al suolo. Torno presto, la guerra è finita».
Delle ombre si abbracciano dentro uno specchio impolverato

gelidi venti si baciano in uno stagno.
Anonymous ha preso stabile cittadinanza: i suoi speaker

parlano alla radio con eloquio forbito.

Anni cinquanta. Cade la neve alla finestra.
Un bambino la osserva da dietro i vetri,

il padre ciabattino batte i chiodi sull’incudine
l’acido muriatico scava un solco nel vestito di velluto

di mia madre, una ninfa suona il flauto al cardellino
sul ramo di corbezzolo. Trilla il carillon,

sul davanzale brilla il rosso geranio nel vaso di maiolica
un lampo illumina il pane e il vino sopra il tavolo

un cavallo dalla bianca criniera galoppa sulla spiaggia
di fronte a un mare in tempesta… mi chiedo:

“che cosa significa il mare in tempesta,
mia madre, il cavallo biancocrinito, il pane e il vino sopra il tavolo?”.

Una gialla farfalla volteggia sopra un cirrico mare.

La giostra

La giostra

La grigia guarnigione dell’alba posa l’uniforme verdastra sulla città;
da qualche parte posata sulla ghiaia di piazza Winckelmann

c’è la giostra con i cavallucci a dondolo, il drago rosso,
il saraceno con il turbante azzurro che impugna la scimitarra

la macchinina a pedali…
Ecco che il congegno si mette in marcia:

tinnire di campanelli argentini;
il girotondo!, tutto si muove in senso antiorario

eppure è fermo, come nell’ambra di un milione di anni;
si spegne un lampione nel giardino buio:

resta il cigolio della giostra illuminata.

Stanza d’albergo; località balneare: mare, cielo azzurro, palmizi.
Sulla torre un rosso orologio.

Le lancette indicano l’immobilità del tempo.
Un grande cancello in ferro con lance a punta;

al di là aspri orti selvatici. Decido di entrare. Entro.
Un colonnato in candido marmo aggetta su una scala

ripida che scende nel buio.
“È il varco dell’Inferno”, penso con sgomento

questo pensiero sconnesso; nei penetrali ci sono finestre
murate e porte, tante porte di materia metallica.

Apro una porta.
La finestra è spalancata sulla ringhiera in ferro: al di là, il mare,

le imposte fanno entrare un fascio di luce all’interno:
una donna nuda canta davanti al mare;

una figura, vista di spalle, guarda fuori della finestra:
suona un violino; gouaches découpées scorrono all’orizzonte.

Il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo,
ma sappiamo che lui c’è.

gabriele d'annunzio e benito mussolini

gabriele d’annunzio e benito mussolini

Una fotografia degli anni quaranta.
Mio padre in divisa grigioverde dell’esercito italiano

a fianco c’è mia madre. Il suo volto si guarda allo specchio
(quello annerito dalle bombe) e parla dall’ombra

alla luna che si mette in posa per la foto,
ha i capelli ondulati;

camminano in una via della capitale come trafelati, corrucciati,
ma da chi, da che cosa (!?)

“dove stanno andando – mi chiedo – e perché così di fretta?”.
Quanti anni sono trascorsi? Che cosa c’è oltre

la cornice a sinistra della fotografia (!?)
Che cosa c’è oltre la cornice a destra (!?)

Una finestra dà sul cielo stellato: con il vestito dell’ombra la notte entra
nella stanza: una domestica rovista in una cassapanca,

esegue gli ordini della dama che sta sulla destra;
in primo piano la Venere di Urbino è distesa nuda, sul giaciglio

con la mano sul pube, il suo volto verso di noi che stiamo all’esterno,
e osserviamo il quadro di Tiziano.

Il sipario fa un passo indietro, Arlecchino incespica,
un putto alato scocca una freccia dall’arco, un altro putto

immerge la mano nell’acqua del sarcofago: osservano la fotografia.
Un fotogramma: il bancone della tabaccheria, Paternò.

Mia madre vende sigarette agli avventori
gira la chiave nella serratura, chiude la porta,

getta la chiave nello scrigno, prende con sé il vestito di velluto.
La grande casa immersa fra gli aranci adesso parla.

Il cielo è azzurro e il sole sfolgora sereno.
Riavvolgiamo il nastro del tempo: 1945. Russia.

Lenzuolo di neve; una mitragliatrice spara nella tormenta.
Così il periscopio gira cattura lo spazio

i ricordi parlano una lingua straniera
vanno a caccia delle anime che diventano ombre.

Una bandiera bianca prende vita dal mare.

Las Meniñas: qui a sinistra c’è l’infanta Margherita in guardinfante
con i valletti premurosi, le damigelle d’onore e il nano, l’italiano

Nicola Pertusato che si volta verso di noi; alle spalle di Velazquez
un intruso spia dal vano della porta. La commedia degli sguardi

è il dramma, o la farsa, degli equivoci.
Lo sguardo di chi osserva è l’effrazione di una serratura,

irruzione della profondità, divisibilità del visibile.
Vivere per anni contro se stessi mescendo saggezza e idiozia,

guardare dietro i vetri spessi d’una finestra
inoltrarsi irresoluto il triste principe di Danimarca.

«È questo il mio teatro?»; «sì, è questo Sire, dovete recitare».
Un fotogramma del Novecento.

Statue bianche sulle scale mobili salgono e scendono,
la veranda ospita il canto del gallo

e il sole tramonta sempre di nuovo sul mare azzurro.
Mia madre fa in fretta i bagagli, deve andarsene lontano,

prendere il largo, a occidente, a oriente,
Costantinopoli, Samarcanda, oltre il meridiano di Greenwich,

fa lo stesso.

Kokoschka dipinge a tinte forti il Colosseo
Bach insegna liturgia in una canonica di campagna

e Rembrandt sul cavalletto ritrae mio padre di spalle.
Frammenti di un percorso di fuga.

Si apre una cornice. Palazzo Medici Riccardi, cappella dei Magi.
Sulla parete occidentale cavalcano i Magi che indossano manti striati,

il pittore, Benozzo Gozzoli, dipinge un cardellino sul ramo di corbezzolo;
a sinistra, si apre una finestra nella cornice: Venezia.

Ponte di Rialto. Una dama di cristallo
indossa un guardinfante di seta azzurra, sorride, si volta

verso di me che sono nato nel futuro,
agita febbrilmente il ventaglio

e passeggia tra i leoni di piazza San Marco.
Città di trine e merletti, laguna di vetro;

sul suo volto una maschera di bianca maiolica;
alla sua destra, un paggio in livrea celesteazzurra a righe verticali

reca sulla spalla una scimmia che agita la coda e strilla,
l’inchino di un cicisbeo con la parrucca incipriata

che lei arresta con un gesto goffo… È così bella!
Il bianco guardinfante della dama solleva l’oscurità

diventa diafano e leggero come un pallone di piume…
– si apre un’altra finestra nella seconda cornice –

una gialla farfalla si alza in volo dal suo zigomo
e scompare al di là della fronte, sopra il limite della cornice.

pitigrilli Benito_Mussolini

Terza cornice del pensiero.
Mia madre bambina. Distesa di limoni e aranci. Sicilia.

Frugo nel secondo stipo del comò:
un calamaio, inchiostro di china, carta di riso azzurra,

una stilo col pennino d’oro, cianfrusaglie, una foto:
mia madre con il suo uomo negli anni cinquanta. Roma.

Atelier del pittore: Tiziano dipinge ancora l’amor sacro e l’amor profano.
Mia madre, la dama veneziana del Settecento

con il volto di bianca maiolica, il diafano guardinfante,
mio padre in divisa grigioverde. Che cosa significa?

Perché tutto ciò?
C’è una connessione o una sconnessione?

Una cucitura o una scucitura?
Un salto o una cicatrice?; quarta, quinta, sesta cornice

del pensiero (…) Roma, la finestra sul cortile, 1954;
– quale secolo cade in questo cortile? –

piazza Bologna, il triciclo, il bambino che corre attorno al palazzo;
via Lorenzo il Magnifico n. 7:

il negozio di calzolaio di mio padre
con la pelle di coccodrillo in vetrina.

Il Signor Anonimous, in abito scuro, entra nel negozio.
«Godete di una bella vista da qui», dice; ed io penso:

“È così ben vestito!”; «sì – rispondo – abbiamo un bel panorama».
«Vostra signoria resta qui stasera?»,

replica l’interlocutore voltandosi di scatto.
Mia madre spalanca la finestra: «è primavera?», chiede a se stessa

o al misterioso convenuto?, mentre Tiziano al piano di sopra
si prepara a fare le valigie. Venezia se ne va al largo, si allontana,

indossa una maschera bianca, diventa irriconoscibile.
«Vostra Maestà, voi mi ordinate di restare qui?», chiedo all’improvviso

ma Anonimous si volta verso la finestra aperta sul mare.
«Il Signor Posterius questa mattina si è ferito

a un gambo di rosa pungendosi il dito», dice Tiziano,
«Anonimous è uscito in una notte di luna piena»,

(«per andare dove?», gli chiedo)
«dei ladri sono entrati nel negozio dei fragili cristalli

e Benozzo dipinge ancora il cardellino sul ramo di corbezzolo».
«Tutto qui?»; «tutto qui, non c’è altro».

Una porta di cristallo, la Signora in guardinfante gira la maniglia.
Profumo di vaniglia, cipria e borotalco

tetralogia degli specchi alle quattro pareti.
È lei, mia madre, la dama veneziana che abita il Settecento?

Il secolo dei lumi e della tolleranza?

Un salone giallo.
Il cancelliere von Müller, il fido Eckermann e la sua amante Charlotte von Stein

ai piedi del letto: il poeta è morente.
Un vento gelido spira dai monti innevati.

Da una porta laterale, di fronte allo specchio, fa ingresso teatrale
un Signore incipriato vestito di nero,

si muove a scatti, con movimenti rigidi, algidi, legnosi,
dispensa motti sul galateo, bon ton, idiotismi

e profezie a buon mercato.
«Signori, la recita è finita. Sipario.»

(1992-2013)

THREE STILLS IN THE FRAME

The 1930s. The cartilage of the stars casts a shadow.
Cities made of wings and backdrops move, while
the characters of the play stand still. A puppet theatre,
a child’s kingdom of fairy tales and the mind. Happiness.
A hunchback boy with wings jumps down from the blossoming apple tree,
enters my room through the window and says:
“The catalogue of ships is ready:
amongst them is a deck-hand, Homer by name,
he still doesn’t know the past because he hasn’t seen the future.”
My father is happy, and my mother is happy, too.
Neither knows about the other. A child yet to be born
runs on the gravel in Piazza Bologna.
A monkey puts on a redingote, patent leather shoes
and a top hat. Blackshirts spread everywhere like worms,
saluting the Duce. Mussolini has declared war on England
and I’m happy not to be there.

A photo from the 1950s. My mother is there, looking out over the edge
of the frame. She’s looking at one of her shirt cuffs. Vertigo.
She makes a gesture as if to avoid (!?) something or someone,
or is she hiding (!?) the ivory cigarette holder in a case.
In the first drawer of the dresser, on the right,
a bundle of letters tied together with a blue ribbon.
On top of the dresser, a vase with the face of a Moor, a white majolica mask,
the powder-compact without the powder, the silver propeller pencil,
the little blue-flowered enamel box, cameos with ivory faces facing left,
the perfume bottle without the perfume, the silver hair clip, black gauze gloves,
silver stockings impalpable as a butterfly’s wings.
The looking glass in the purse blackened by the smoke of bombs.
A letter has arrived, my mother opens it: it’s me writing:
“Carthage has been razed to the ground. I’m coming home soon,
the war is over.
Shadows hug each other inside a dusty mirror,
ice-cold winds kiss in a pond.
Anonymous has taken on full citizenship. Its speakers
talk on the radio with a polished eloquence.

roma donna acconciatura 4

The 1950s. Snow falls outside the window.
A child watches the snow from behind the glass panes,
his cobbler father hammers the nails on the anvil,
the hydrochloric acid burns a groove in my mother’s velvet dress,
a nymph plays a flute for the goldfinch on a branch
of the strawberry tree. A music box chimes,
on the window sill a red geranium glows in the majolica vase,
a flash of lightning lights up the bread and wine on the table,
a white-maned horse gallops on the beach
in front of a stormy sea.
And I wonder: “the stormy sea, my mother,
the white-maned horse, the bread and wine on the table – what do they mean?”
A yellow butterfly flits over a cyrrhus-thronged sea.

Dawn’s grey garnison lays down its greenish uniform on the city.
Somewhere on the gravel in Piazza Winckelmann
is a merry-go-round with hobby horses, a red dragon,
a blue-turbanned Moor with a sabre in his hand.
The toy car with treadles.
Now the platform starts turning, silvery bells tinkle:
ring-around-a-rosy! Everything moves counterclockwise
and yet lies still, like inside amber a million years old.
A lantern in the dark garden goes out.
The creaking, lit-up carousel remains.

A hotel room. A seaside resort. Sea, blue sky, Canary palms.
A red clock on the tower.
The hands point to the stillness of time.
A great iron gate with pointed stakes.
Beyond, overgrown kitchen gardens. I decide to go in. I go in.
A row of snow-white columns jutting out onto a steep
staircase descending in the darkness.
“It’s the Gate to Hell,” I think, in a muddled way,
and I’m frightened. The penetralia have bricked-up
windows and doors, lots of metal doors.
I open one of them.
A wide open window, an iron railing outside: beyond is the sea,
a ray of sunlight comes in through the shutters.
A naked woman sings in front of the sea.
A figure, seen from behind, is looking out of the window,
playing the violin. Gouaches découpées run along the skyline.
The easel and the painter are outside the canvas:
we don’t see him, but we know he’s there.

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile

A photo from the 1940s.
My father, wearing an Italian Army uniform.
My mother stands beside him. Her face looks at itself in the mirror
(the one blackened by bombshells) and from the darkness speaks
to the moon which poses for a picture,
has wavy hair.
They walk down a street in Rome as if worried and out of breath:
who or what are they running from?
“Where are they going,” I wonder, “and why in such a rush?”
How many years have passed? What is outside
the frame, on the left of the picture?
What is outside on the right of the picture?
A window looking out on a starlit sky. Clothed in a shadow,
night enters the room. A maid searches for something in a chest,
follows instructions given by a lady on the right.
In the foreground the Venus of Urbino lies naked on the bed,
one hand on her crotch, facing us who are on the outside
looking at Titian’s painting.
The curtain takes one step back, Harlequin stumbles,
a winged putto shoots an arrow from his bow,
another putto dips his hand into the water
inside the sarcophagus. They look at the picture.
A still: the tobacco counter, Paternò.
My mother sells cigarettes to patrons,
turns the key in the lock, closes the door,
tosses the key into a jewel box, takes the velvet dress along with her.
Now the big house in the orange grove speaks.
The sky is blue and the sun shines quietly.
We rewind the tape of time. 1945. Russia.
A sheet of snow. A submachine gun firing in the snowstorm.
The periscope turns, capturing space,
memories speak a foreign language,
they go hunting for souls that turn into shadows.
A white flag comes alive over the sea.

Velazquez Las Meninas

Velazquez Las Meninas

Las Meniñas: here on the left is the Infanta Marguerita in crinoline
with solicitous valets, ladies-in-waiting and the dwarf, the Italian
Nicola Pertusato, who turns and looks at us.
Behind Velazquez an intruder eavesdrops at the door.
The comedy of looks is the drama of errors
(or is it the farce of errors).
The observer’s glance burgles through a keyhole,
depth breaking in, divisibility of the visible.
Living for years against oneself, mixing wisdom and idiocy,
watching from behind thick windowpanes
Denmark’s sad prince coming in with hesitant steps.
“Is this my theatre?” “Yes, it is, Sire, and you’re being asked to act.”
A still from the 1900s.
White statues move up and down on the escalators,
the veranda hosts the cock’s crow, and the sun
sets time and again over the blue sea.
My mother quickly packs her bag, she has to go far away,
she has to reach the open sea, westward, eastward,
Constantinople, Samarkand, beyond the meridian of Greenwich,
what difference does it make.
Kokoshka uses strong colors to paint the Colosseum,
Bach teaches liturgy in a country parish
and Rembrandt on the easel depicts my father seen from behind.
Fragments from a headlong flight.

A frame opens up. Palazzo Medici Riccardi, the Magi Chapel.
On the western wall the Magi on horseback wear striped cloaks.
The painter, Benozzo Gozzoli, paints a goldfinch on a branch of the strawberry tree.
On the left, a window opens inside the frame: Venice.
The Rialto bridge. A crystal lady
wears blue silk crinoline, smiles, turns
in my direction – I, who am born in the future.
She feverishly waves her fan
as she strolls amid the lions in St. Mark’s Square.
City of lace, glass lagoon.
A white majolica mask hides her face.
On her right, a page in light-blue striped livery
carries on his shoulder a monkey who moves his tail and shouts;
a cicisbeo with a powdered wig makes a bow
she stops him with an awkward gesture. She’s so beautiful!
The lady’s white crinoline lifts the darkness,
becomes translucent, light as a ball of feathers.
Another window opens in the second frame –
a yellow butterfly wings up from her cheekbone
vanishing on the other side of her forehead, outside the frame.

roma donna acconciatura 1

The third frame in my mind.
My mother as a little girl. Spreading grove of lemon and orange trees. Sicily.
I search in the second drawer of the dresser:
an inkwell, china ink, sky-blue ricepaper,
a fountain pen with a golden nib, knick-knacks, a photo:
my mother with her partner in the 1950s. Rome.
The painter’s atelier: again Titian is painting sacred and profane love.
My mother, the 18th century Venetian lady
with a face of white majolica, the translucent crinoline,
my father wearing an Italian Army uniform. What does it mean?
Why all this?
Is it a connect or a disconnect?
A seam, or its unseaming?
A leap or a scar? Fourth frame, fifth, sixth frames in my mind.
Rome, a window on the courtyard. 1954.
What century falls in this courtyard?
Piazza Bologna, the tricycle, the little boy runs around the building.
Via Lorenzo il Magnifico, 7.
My cobbler father’s workshop
with the crocodile skin in the shop window.
Mr. Anonymous, in a dark suit, enters the shop.
“You have a beautiful view here,” he says.
“He’s so well dressed,” I think.
“We have a lovely panorama,” I reply.
Turning abruptly, my interlocutor says:
“Are you staying here this evening, sir?”
My mother opens the window wide. “Is it Spring?”
Is she just wondering, or asking the mysterious person?
Meanwhile, Titian starts packing his bags upstairs.
Venice reaches the open sea, grows distant,
wears a white mask, becomes unrecognizable.
I blurt out: “Your Majesty, do you order me to stay here?”
But Anonymous turns to the window open onto the sea.
“This morning Mr. Posterius got hurt –
he pricked his finger touching the stem of a rose,” says Titian.
“Anonymous has gone out on a full moon night,”
(“Going where?” I wonder)
“Thieves have broken into the shop of fragile crystals,
and Benozzo is still painting the goldfinch perching on a strawberry tree.”
“Is that all?”
“That’s all, nothing else.”
A crystal door, the Lady in crinoline turns the door knob.
A scent of vanilla, face powder and talcum powder,
a tetralogy of mirrors on the four walls.
Is the Venetian lady from the 18th century my mother?
The century of enlightenment and tolerance?

A yellow drawing room.
Chancellor Von Müller, the trusty Eckermann and his mistress Charlotte von Stein
at the dying poet’s bedside.
An icy wind blows down from the snow mountains.
From a side door, in front of the mirror, enter a gentleman
with a flourish, powdered and dressed in black.
He moves jerkily, with stiff, frozen movements,
dispensing maxims on etiquette, bon tons, idioms
and cheap prophecies.
“Ladies and gentlemen, the performance is over. Curtain.”

(1992-2013)

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