Archivi tag: Giorgio Manganelli

Dialoghi e Commenti intorno alla nuova ontologia estetica – Giuseppe Talia, Steven Grieco Rathgeb, Giorgio Linguaglossa, Alfredo Rienzi, Anna Ventura, Giuseppe Talia, Rossana Levati, Roland Barthes, Maurizio Ferraris, Giorgio Manganelli, Pier Aldo Rovatti, Poesie di Czeslaw Milosz, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Carlo Livia, Cecco Angiolieri, Donatella Costantina Giancaspero

 

Collage di Commenti del 13 febbraio 2018

Giorgio Linguaglossa

A proposito della poesia di Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi

Lui e Lei avevano due simil gatti:
Andersen e l’altro Eckersberg. Entrambi maschi.
E castrati.
Andersen amava le camicie bianche
Eckersberg il contatto con la nudità.
“Fetente ma raffinato”, così recitava
la pubblicità.
Ma Lei aveva a cuore Andersen.
Se lo teneva in braccio o sulle spalle,
anche stando in piedi mentre cucinava:
sapori dell’India per loro e bianchi
ma finti spaghetti per Gatto Eckersberg
il nudista.
Lei stava morendo. Lo faceva ogni giorno.
Lui se non aveva da leggere svitava
e avvitava qualsiasi cosa.
John Lennon, Miles Davis, Natasha Thomas.
Lei quei pontili sospesi sul lago. Ma senza nebbia
e nemmeno dragoni. Solo cose per Andersen.
(Se la noia non vi assale, penso io
vuol dire che siete fumatori).
– Tutta l’Europa del sud è un canile.
A cominciare da Courbet. Non è vero, Eckersberg?
Quell’Origine del mondo, appena concepito
con furore. Quel leccarsi le dita…
Lei non rispondeva (stava morendo).
Contemplava le forme molli di un cubo
le bollicine dell’axterol, le lancette
dell’orologio sull’ora e i secondi.
– Probabilmente il sole. Disse Lei.
E non tornarono sull’argomento.
Tranne un giovedì, allorché Lei disse:
– Credo che ad Andersen farebbe bene
un piatto di trippa ogni tanto.
Il cargo dei viveri Okinawa era in ritardo
ormai di tre settimane (sei mesi terrestri).
Salgari sarebbe già partito in missione
con a bordo almeno tre robot ambasciatori
di marca tedesca.
Ma era stagione di polveri.
Difficile poter comunicare, inutile sprecare
Metafore. Si sarebbero perse nel vuoto
tra le lune. Quindi Lui e Lei si misero d’accordo
per spedire un messaggio criptato
al sovrintendente dei beni umani,
Ork il maligno; in realtà un povero cristo
circondato da macchine, alcune a vapore
(per via della pelle che nella stagione delle polveri
gli si seccava. Puntualmente e orribilmente).
“Aghi OrK”, così iniziava il messaggio
“Le bdhko di lk snmlir8jk! Andersen bd in vgeytz!
Si dia una mossa”.
La risposta non si fece attendere:
“Mi sono informato: niente trippa sul cargo Okinawa.
Ma posso mettervi da parte dei pomodori irlandesi”.
E in un secondo messaggio aggiunse:
“Per il gatto ho un Mickey Mouse del ’63.
Il mio l’ha già letto. Lo so, non è divertente”.
Le quattro linee del tramonto si stavano fondendo
nel sogno turco di Moon light.
Lui si tolse le spalline di cristallo, si strofinò gli occhi
e senza dire una parola volle intrattenersi ancora un po’
con Lei, che nel frattempo aveva terminato
di raddrizzare, così diceva, tutti i rametti del prezzemolo.
Fecero programmi. Il letto scandinavo ondeggiava
rumorosamente.
Vista dal giardino lenticolare, la casa sembrava
un traforo di merletti. Ork il maligno, come al solito
stava trasmettendo pensieri sconclusionati.
Lo chiamava Ozio dei poveri. Oppure
a seconda del momento, solo ‘Zio.

Lucio Mayoor Tosi in questa poesia ci rende familiare una serie di esperienze impossibili, il che non equivale ad una esperienza limite della condizione della normalità, quella in cui normalmente ci troviamo nella vita quotidiana, ma ad un’altra situazione che richiede un altro ordine di parole e un altro piano immaginativo. Si tratta di un’«altra» pratica delle parole, un «altro» modo di abitare il linguaggio poetico. Si tratta di una serie di esperienze impossibili che qui trovano convegno, esperienze che non potranno mai trovar luogo nell’ambito della normale vita quotidiana, almeno in quell’idea del quotidiano che un pensiero positivizzato vorrebbe farci credere. Il quotidiano qui è stato ridotto in frammenti, decontestualizzato e ricontestualizzato in un «altro» ordine, propriamente un ordine ultroneo ed erraneo che non è più in contatto con il pensiero unidirezionale e unilineare che una estetica positivizzata vorrebbe inculcarci, il quotidiano non è affatto quel monolite dell’io penso dunque sono ma abita un «altro» piano del reale, quello dove vige un «altro» principio: noi (una pluralità) forse pensiamo i pensieri di altri in un «altro» modo, il nostro modo è una pluralità di modi, e forse noi pensiamo veramente solo quando non pensiamo, solo quando pensiamo negli spazi, negli interstizi tra un pensiero e l’altro, quando sostiamo nei retro pensieri che non sono nostri ma di altri, che noi crediamo di aver fatto propri. Il fatto è che noi sostiamo e pensiamo nei pensieri di altri. Ergo, noi siamo altri.

Questo modo di intendere il reale e il soggetto, la soggettità e la soggettività, produce il mondo della «alterità». Il mondo è una continua alterità di eventi che interagiscono con la mia soggettività plurale, cambiandola, deformandola… i vettori di questa deformazione morfologica, di questo cambiamento sono la metafora e la metonimia, e la chiave di accesso a questi veicoli è l’«immagine» che può abitare contemporaneamente più spazi e più tempi. L’immagine temporalizza lo spazio e spazializza il tempo, l’immagine crea lo spazio nel mentre che crea il tempo, fa vuoto, crea il vuoto dal nulla e crea il nulla dal vuoto. Letteralmente: senza l’«immagine» la «nuova ontologia estetica» cessa semplicemente di esistere. L’impiego dell’«immagine» entro queste coordinate categoriali rende possibile il «pensare l’impossibile» della poesia di Lucio Mayoor Tosi e anche di quella di un Mario Gabriele, poesia la cui procedura è singolarmente complessa, plurale perché richiede una dimestichezza, una pratica della alterità del linguaggio, una pratica linguistica e metaforica del tutto nuova e inusitata, almeno per la poesia italiana, perché una tale pratica la si trova ad esempio nella poesia di un Tomas Tranströmer e in quella di un Petr Kral o di un Michal Ajvaz.

Scrivevo in un commento del 22 aprile 2016 alle 17.38: Continua a leggere

34 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Rossana Levati: Fattore Tempo e Fattore Spazio nella poesia di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Giorgio Caproni, Zbigniew Herbert, Il frammento e la nuova ontologia estetica, con traduzioni delle poesie in inglese di Adeodato Piazza Nicolai

Onto Gino Rago_2

Preferiva parlare a se stesso. Temeva l’altrui sordità

Due poesie di Gino Rago

Il Vuoto non è il Nulla

Preferiva parlare a se stesso. Temeva l’altrui sordità.
“L’intenzione dello Spirito Santo è come al cielo si vada.
Non come vada il cielo”.
(…)
A Pisa tutti tremarono.
Il poeta vero ama la nascita imperfetta delle cose. Come fu.
In principio… Il vero poeta lo sa.
E’ nei primissimi istanti dell’universo materiale.
Non c’è lo spazio. Non c’è il Tempo.
Non si può vedere nulla. Perché per vedere ci vogliono i fotoni.
Ma in principio i fotoni non ci sono ancora.
Né si può ‘stare’. Perché per stare ci vuole uno Spazio.
Nessuno può ‘attendere’ (o ‘aspettare’).
Perché per poter attendere o aspettare ci vuole un Tempo.
(…)
In principio. Nei primissimi istanti… È solo il Vuoto.
Il Vuoto soltanto che non è il Nulla. È un Vuoto zeppo di cose.
E’ come il numero zero. Lo zero che contiene tutti i numeri.
I negativi e positivi che sommati giungono allo zero.
In Principio… Nei primissimi istanti il Vuoto. E il Silenzio.
Ma il silenzio che contiene tutti i suoni. Il silenzio di Cage.
E l’universo materiale? Viene dalla rottura della perfezione.
(…)
È stata l’imperfezione a produrre questa meraviglia?
Sì. Il Tutto viene dalla imperfezione.
Ma i paradigmi nuovi faticano a lungo prima d’essere accettati.
Finché Luce non si stacchi dalla materia opaca.
Ma se la luce si distacca esistono i fotoni, il moto, l’attrito.
Il tempo e lo spazio. L’uomo che scrive la vita.
La poesia che scoppia dal vuoto che fluttua.

(apparsa su L’Ombra delle Parole del 9. 8. 2017)

Emptiness and Nothing

He preferred talking to himself. He feared the other’s deafness.
“The will of the Holy Spirit is like going to the sky.
It’s not as if the sky comes to you”.
(…)
In Pisa everyone trembled.
The true poet loves the imperfect birth of things. As it were.
The beginning…The true poet knows it.
It is in the very first instant of the material universe.
There is no space. There is no Time.
Nothing can be seen. Because to see, photons are needed.
But in the beginning there were no photons.
Nor can one ‘stay’. Because for staying, the Space is needed.
No one can ‘attend’ (or ‘wait’).
Because to be able to attend or wait, Time is needed.
(…)
In the beginning. In the very first instant…There is only Emptiness.
Only Emptiness which isn’t as Nothing. It is an Emptiness full of things.
It is like the number zero. The zero that contains all numbers.
The negatives and the positives that summed up make zero.
In the Beginning… In the very first istant Emptiness. And Silence.
But a silence containing all sounds. Cage’s silence.
And the material universe? It comes from the fragmenting of perfection.
(…)
Was it imperfection that created this marvel?
Yes. The Whole comes from imperfection.
But the new paradigms struggle at length before being accepted.
Until Light isn’t detatched from opaque matter.
But if the Light detatches itself, photons, motion, attrition exist.
Time and space. The Man who writes life.
Poetry that explodes from fluctuating emptiness.

(appeared on L’Ombra delle Parole on 9 August 2017)

Onto mario Gabriele_1

Cattedrale delle ombre

[…]
Perché non è la notte
Che ti nasconde Dio. Sei tu che lo nascondi
Temendo l’ombra.
Tremando di paura di fronte all’infinito.

Se non pianti le parole come chiodi
Non sei poeta
Perché quelle parole se le prende il vento.

Se dici «morte» la falce si scatena.
Muore la Parola. Non soltanto il fiore.
Senza Parola in fiore tutto il mondo muore.

Ma se non sei poeta e nomini la morte
Muori solo tu.
Non varchi la soglia della cattedrale delle ombre.

Cathedral of the Shadows

[…]
Why is there no night
That hides God. It is you who hides him
Afraid of the shadow.
Trembling with fear in front of infinity.

If you don’t pound in words like nails
No poet are you
Since those words the wind swipes away.

If you say «death» a scythe goes wild.
The Word will die. Not only the flower.
With no Word as the blossoming flower, the whole world expires.

But if you are not poet and are naming death
You only die.
You won’t cross the threshold of the cathedral of shadows.

© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of two poems by Gino Rago: Il Vuoto non è il Nulla and Cattedrale delle ombre. All Rights Reserved.

giorgio caproni

Giorgio Caproni

Commento di Rossana Levati

Tornando a riflettere sulla specificità della poesia di Gino Rago Il vuoto non è il Nulla e su come in essa venga delineato in modo nuovo il fattore Tempo, il fattore Spazio e il cosiddetto “tempo interno”, credo possa essere utile un breve confronto con questo testo di Giorgio Caproni, L’idrometra.

Giorgio Caproni

L’idrometra

Di noi, testimoni del mondo,
tutte andranno perdute
le nostre testimonianze.
Le vere come le false.
La realtà come l’arte.

Il mondo delle sembianze
e della storia, egualmente
porteremo con noi
in fondo all’acqua, incerta
e lucida, il cui velo nero
nessun idrometra più
pattinerà – nessuna
libellula sorvolerà
nel deserto, intero. Continua a leggere

23 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento, Senza categoria

 Dialogo sull’essere e il nulla, il nichilismo e la poesia – Andrea Emo, Adalberto Coltelluccio, Giorgio Linguaglossa, Salvatore Martino, Antonio Sagredo, Steven Grieco Rathgeb, Gino Rago, Jean Paul Sartre, Carlo Livia, Mario Gabriele, Letizia Leone, Rossana Levati,

Fiera 8 dic 2017 2

da sx G. Linguaglossa, L. Leone, S. Grieco Rathgeb, Roma, Fiera del Libro, Convention Center, 2017

Giorgio Linguaglossa

6 gennaio 2018 alle 12:06

Perché in ogni poesia c’è qualcosa di scandaloso e di favoloso. La poesia che non fa scandalo viene subito dimenticata. La poesia che non è fabula viene anch’essa subito dimenticata.

Si ha sempre il sospetto che le parole non dette ci perseguitino… Anche le parole dette e scritte ci perseguitano con la superfluità e la vacuità con cui sono state pronunciate.

Perché le parole sono sagge, loro lo sanno di essere melliflue e superflue e di essere nate da un difetto di pronuncia del demiurgo…

Il poietès è il più grande nichilista perché porta le cose all’essere dal nulla. [citazione a memoria di una frase di Emanuele Severino]

 Salvatore Martino

6 gennaio 2018 alle 14:42

Questa volta carissimo Giorgio non posso che metaforicamente baciarti per queste pagine luminose che hai inserito nella Rivista. Tutti noi dovremmo leggerle rileggerle, farle diventare il vademecum, il libro dei libri sul nostro comodino. Una commozione profonda mi invade ad ogni passo. Emo scrive poesia dall’agolo della sua strada filosofica, con una lucidità, un Kommos,che ti trascina nell’Assoluto. Non importa di quale fede o non fede tu sia, di quali convinzioni estetiche o filosofiche tu ti abbeveri, le sue parole ti trafiggono come lama di Toledo nella carne di un El Greco, di un Goya della Quinta del Sordo. Quello che lui dice dell’Arte mi sembra uscito da un capitolo della Bibbia per un Ebreo, tanto è incontrovertibile il suo dettato.Tutta le filosofia germanica sull’estetica mi sembra cosa impenetrabilmente algida.

 Antonio Sagredo

6 gennaio 2018 alle 21:02

Ottima la scelta di Emo Andea e tutto ciò intorno, compresa la intervista. Bene ha fatto Lingualossa a pubblicare alcuni scritti del filosofo, che non ho mai approfondito abbastanza, ma alcuni suoi temi filosofici fanno parte dei miei versi come non avrei pensato mai; non mi sono certo riferito al filosofo per costruirli, ma credo che ci sia stata simpatia singolare. E allora dovrei andare in cerca di alcuni miei versi che hanno attinenza con la sua filosofia e qui pubblicarli.

 

Fiera 8 dic 2017 1

da sx G. Linguaglossa, L. Leone, S. Grieco Rathgeb, Roma, Fiera del Libro, Convention Center, 2017

Gino Rago

6 gennaio 2018 alle 21:54

La veste è orgogliosa della nudità che essa socializza”. Grande Andrea Emo e bravo Giorgio Linguaglossa che ce lo ha riproposto.

 Letizia Leone

7 gennaio 2018 alle 9:57

Una lettura entusiasmante. La proposta illuminante di Giorgio (che ringrazio vivamente), occasione di studio di un filosofo anomalo e totalmente sconosciuto in vita, confermano quanto nella modernità la questione estetica sia essenziale in un fare artistico che non può più fondarsi in una genesi ispirativa “ingenua e sentimentale” a rischio del ridicolo. Addirittura Emo considera impossibile non solo agire ma anche fare opere nella contemporaneità: “La poesia e l’arte in genere oggi purtroppo non possono essere che ridicole. Esse sono nate nel tempo in cui il lavoro, il trattamento della materia, in cui la storia (e la vita) erano condotte in maniera artigianale… Perciò il cosiddetto artista è una sopravvivenza ridicola dell’artigianato: egli si vergogna di quel glorioso passato” (Le voci delle Musescritti sulla religione e sull’arte).

Mi pare che qui siamo di fronte ad un salto quantico rispetto al neoidealismo di Croce e Gentile che ha dominato la scena italiana fino agli anni cinquanta. Emo (1918- 1983) ha condotto la sua ricerca filosofica in forma diaristica e frammentaria dal 1918 al 1981 in circa quattrocento quadernoni per un totale di quarantamila pagine! Scrive il filosofo Mario Perniola che se l’Estetica può essere paragonata all’inconscio della società, “il corpus di Emo è simile a uno specchio, posto a una profondità inarrivabile, che riflette ciò che sta alla superficie. Al tempo tirannico del mondo Emo contrappone un altro tempo speculare, ma opposto, che nessuno può vedere e che soltanto lui conosce: “L’abolizione dello scopo, della finalità, in una parola l’abolizione del futuro…è l’instaurazione di un presente eterno” ( Emo).

 Giorgio Linguaglossa

7 gennaio 2018 alle 12:37

Ecco cosa scrive Andrea Emo di Dante:

“il più consistente dei poemi in lingua italiana, quello dantesco, è il poema del mondo dell’ inconsistenza e delle ombre”. Le ombre degli uomini, del male e del bene. Di una vita “ridotta ad ombra per poter essere eterna”. La Divina Commedia diventa così – tra le mani di Emo – “la Cattedrale delle Ombre”.

Andrea Emo:

Io sono un buono a nulla, ciò posso anche confessarlo; ma sono appunto un buono a nulla, capace del nulla; capace di affrontare guardare sopportare il nulla”.

Sulla celebre mela di Cézanne.

La radice dell’ arte è l’ eternità dell’ effimero, il pervenire all’ eterno accettando, accogliendo l’ effimero come tale; senza tentare di fissare, di obbiettivare, di possedere l’ istante, accettandolo come pura negazione, come ciò che non si può affermare direttamente”.

È questo che fa la nuova ontologia estetica:

costruire una «cattedrale delle ombre» quale unica possibile rappresentazione del mondo dei cosiddetti vivi.

Se poi questo qualcuno lo chiama nichilismo, non so, non saprei, e neanche mi interessa…

Le sciocchezze e i banalismi dei luogotenenti del truismario che si affrettano a narrarci i banalismi dell’io, li trovo rivoltanti…

 

Fiera 8 dic 2017 3 nero e bianco

da sx  L. Leone, A. Sagredo, Pepito, Giuseppe Talia, Roma, Fiera del Libro, Convention Center, 2017

Giorgio Linguaglossa

7 gennaio 2018 alle 12:50

 […] La dicotomia su cui l’intera teoresi occidentale ha edificato le proprie fondamenta viene così scalzata da una speculazione diretta al superamento della logica immunitaria del principio d’identità e di non contraddizione in un oltrepassamento di fatto della stessa Grundfrage, la domanda fondamentale heideggeriana «perché l’essere e non il nulla?». Fulcro di questa operazione è la coincidenza, in seno al pensiero emiano, di essere e nulla, in quanto, come notò Romano Gasparotti, «se è vero che non si può pensare l’origine… essa necessariamente va pensata come lo stesso negarsi in quanto tale… l’originario e immediato autonegarsi» (Note sul pensiero di A. Emo, in Andrea Emo, Quaderni di metafisica 1927/1981, Bompiani, Milano 2007, p. 1388). Essere e nulla non sono allora contrapposti, bensì co-implicati, in quanto «gli enti appaiono dal nulla, da quello specifico sfondo abissale che consente loro di ex-sistere, di star-fuori dal Principio, per poi, attraverso un ulteriore atto di negazione, farvi ritorno: ogni ente manifesta il ni-ente e, nel mondo, l’eternità rinasce con gli enti come effimera» (p. 86). La potenza del negativo è l’unica forza grazie a cui è possibile concepire la purezza del positivo: il nulla è il lavacro ove tutto sorge e scompare senza mai distaccarsi completamente dallo sfondo enigmatico originario. Sotto un profilo teologico, secondo considerazioni analoghe a quelle succitate, il cristianesimo tragico di Emo si fonda sull’interpretazione di Cristo come aletheia, disvelamento, in quanto Dio è il suo stesso annichilirsi, «per esistere e farsi presenza deve necessariamente negarsi» (p. 92). Un Dio che muore e disgrega se stesso sulla Croce per tutelare l’enigma cosmico, secondo una prospettiva per certi versi non dissimile dal pensiero teologico del poeta portoghese Teixeira de Pascoaes, per il quale «l’Universo è il cadavere di Dio, la statua fredda e inerte della Speranza» (Aforismi. Scelti da Màrio Cesariny, Edizioni ETS, Pisa 2010, p. 31). Un Dio che è sacrificio, dramma, redenzione nella contemplazione della propria stessa tragedia… * Continua a leggere

10 commenti

Archiviato in aforismi, Crisi della poesia, filosofia, nichilismo, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Adele Desideri, romanzo: La figlia della memoria (Moretti&Vitali, 2016) Nota critica di Franco Loi , una Nota di lettura diacritica di Giorgio Linguaglossa ed ampi stralci del testo

gif-ragazze-con-palloncini

Fine della modernità

Adele Desideri, poeta, saggista e critica letteraria, vive e lavora a Milano. Ha pubblicato i libri di poesia Salomè (Il Filo, 2003), Non tocco gli ippogrifi (Campanotto, 2006), Il pudore dei gelsomini (Raffaelli, 2010), Stelle a Merzò (Moretti&Vitali, 2013. Le sue opere – presenti in mostre, volumi storici, antologie pubblicate anche all’estero, plaquettes – sono tradotte in inglese, spagnolo, francese, arabo, russo, albanese, armeno, in giapponese da Ikuko Sagiyama.

Nel 2015 è uscita la traduzione in spagnolo di Carlos Sánchez de Il pudore dei gelsomini (El pudor de los jazmines, Raffaelli), e-book. Prossima la traduzione in inglese di Stelle a Merzò.

È curatrice del volume La poesia, il sacro, il sublime (FaraEditore, 2009: atti dell’omonimo convegno svoltosi a Milano, in collaborazione con Alessandro Ramberti), del convegno Etica e bellezza e del relativo volume Etica e bellezza. Atti del Convegno. Lugano, 26 novembre 2013 (I Quaderni del P.E.N., GuaraldiLAB/EUSI 2014). Del settembre 2016 il suo primo romanzo, La figlia della memoria (Moretti&Vitali).

gif-clessidra 

Nota critica di Franco Loi a La figlia della memoria di Adele Desideri (Moretti&Vitali 2016)

 L’infanzia e l’adolescenza, risorgenti in noi durante l’intera vita come un sogno, sono la radice stessa dell’esistere. Spesso non si sa dove e come si siano nascoste, se mai ci siano state. Spesso ci richiamano, in un alternarsi di luce e buio significativi. È il tempo in cui intuiamo e pratichiamo l’essenza stessa di ogni cosa e ci nutriamo della gioia e dei più profondi dolori. È anche il tempo in cui ci si guarda e si riflette: ogni istante diventa uno specchio – nei rapporti con la natura, con le persone, col nostro corpo. Non c’è nessuno a cui riferire le nostre emozioni, le esperienze. Sentiamo che non saremo capiti. Abbiamo una precoce sensazione dell’inadeguatezza degli adulti, soprattutto nelle nostre esperienze più profonde. Scrive infatti Adele: «Come avrei potuto spiegare a mamma (…) che il mio corpo era diventato “i miei corpi”: uno sopra, come una nuvola, e uno sotto, immobilizzato?». È quello anche il tempo in cui si vedono i fantasmi, si sentono le voci, si prevede il domani.

Adele tratta il tutto con il distacco, e quindi l’ironia, di chi ha imparato a comportarsi in modo da non essere travolta da quelle prime umane vicende. Da questa sua ironia e dai rapporti infantili viene anche l’uso del toscano popolare che dà forma e colore a tanti passi del suo ricordare. Non a caso lei scrive che «La lingua toscana, forse più di altri idiomi materni, ti entra nel sangue attraverso il latte e ti segna a fondo». E, in un altro passo, conferma: «Avere radici toscane ha significato, per me, sapere e potere accorciare le distanze» con gli altri. Penso che qualcosa di simile possa accadere al lettore di questo libro.

(Franco Loi, Milano, 10 febbraio 2013)

Nota di lettura diacritica di Giorgio Linguaglossa

Non è un caso che oggidì assistiamo al proliferare dello stile floreale da supermercato dei romanzi mediatizzati. Il romanzo autobiografico (?) di iniziazione al mondo di Adele Desideri è anche il racconto di una compromissione con il mondo, la narrazione della avvenuta dis-autenticità. È questo aspetto che ha destato il mio interesse verso il romanzo, di qui il mio plauso per quella capacità che hanno i «poeti» quando scrivono romanzi di andare al centro delle cose con uno stile asciutto, privo di orpelli, scritto per «frammenti» e per flash, per rammemorazioni e ricordi precisi, nitidi, icastici. Ed è nello stile e nella sobrietà della narrazione, sempre tesa su un filo, che Adele Desideri ci dà un’opera di rara maturità espressiva: la storia degli adulti visti dagli anni Sessanta in giù, attraverso lo sguardo curioso e analitico di una bambina. La «ricostruzione» del passato è fatta con un sguardo analitico, il voler comprendere come e perché quel mondo sia scomparso, che cosa c’era in quel mondo che lo avrebbe determinato alla scomparsa, è questa la domanda fondamentale che muove il romanzo di ricostruzione psicologica dell’io narrante.

Non c’è luogo della rappresentazione letteraria del secondo Novecento che non tenda, in qualche modo, al verosimile e, al contempo, non additi la propria «maschera». La poesia e il romanzo dello sperimentalismo, rispetto alla poesia e al romanzo del post-ermetismo e dell’ermetismo, ha una sofisticata coscienza del carattere di «finzione» dell’opera letteraria, ha coscienza della propria «maschera», anzi, c’è in essa una vera e propria ossessione della «maschera». Hilarotragoedia  e Letteratura come menzogna di Giorgio Manganelli, entrambe le opere scritte negli anni Sessanta, sono l’espressione di un modo di intendere la narrazione come «maschera», «finzione». Scrive Manganelli che lui ha «proposto una nuova, e a nostro avviso, pratica e maneggevole classificazione delle angosce». La narrativa di Manganelli, Italo Calvino, di Antonio Pizzuto  invece mette in scena la «maschera», allude alla propria «maschera», alla «angoscia» di fronte alla maschera, racconta l’inverosimile, e la scrittura occupa il posto di avanscena. È la «cattiva» coscienza del narratore post-moderno nei riguardi del romanzo: che esso non serva che a se stesso, per un discorso autoreferenziale che ammicca alla citazione e al rimando testuale. Per lo sperimentalismo, la «poesia» e il «romanzo» sono una convenzione e, in quanto tale, l’autore deve trasgredire tale convenzione, il patto formalistico tra l’autore e il lettore che legittima l’opera. Lo sperimentalismo impiega tutte le proprie forze nella sostituzione della prima persona del discorso poetico con la terza, lavora per lo svuotamento e la spersonalizzazione dell’«io» poetico. La convenzione borghese del romanzo e della poesia dell’Ottocento riserva alla terza persona un posto d’onore, essa fornisce la garanzia di qualità e la certificazione della sua verosimiglianza al «reale».

adele-desideri-cover-la-figlia-della-memoriaCon il modernismo diventa manifesto che la poesia e il romanzo sono privi di una certificazione di origine controllata. Tra la terza persona del discorso narrativo e la prima persona del discorso poetico si insinua una segreta e dissimulata concorrenza, il passato remoto del romanzo borghese si oppone al passato remoto della lirica del romanticismo per scalzarla del tutto agli occhi del pubblico, il romanzo diventa più rassicurante, più verosimile, e quindi verificabile, certificabile, controllabile. Inoltre, il romanzo offre la garanzia di una narrazione verosimile per  un pubblico di consumatori ai quali la borghesia, e nel Novecento la piccola borghesia, offre una certificazione di veridicità.

Alla ambiguità dell’«egli» del discorso narrativo del primo Novecento, si oppone il racconto della  autenticità dell’«io» del discorso narrativo di Adele Desideri. Se il liberty e lo stile floreale rappresentano l’ultimo stile omogeneo in Europa, in questo romanzo di Adele Desideri abbiamo uno stile non più rammemorante, una scrittura fatta di brevi spezzoni sintattici con una miriade di metafore fulminanti.

 

adele-desideri-image

adele-desideri

La figlia della memoria di Adele Desideri (Moretti&Vitali 2016),

Stralcio dal primo capitolo, Odore di Naftalina

Mamma era, di continuo, inquietamente malata, e io mi affidavo sempre di più all’affetto del prozio Zeno, che però chiamavo zio.

Zio, con la zeta aspra toscana. Bell’uomo, elegante. Paltò scuro al polpaccio. Cappello a falda. Pantaloni e giacca cuciti dal miglior sarto della città.

Era sospettoso e sordo. Un po’ cleptomane, esibizionista – gli piaceva girare nudo, sia pure solo in casa – ostico perciò.

Aveva due grandi amori: la sorella Teresa e la pronipote Andreina.

Mi chiamava con la voce un po’ arrugginita, con un maldestro miagolio: «Andreiiiina…», come se compisse un atto sacro e allo stesso tempo ignobile. Con una confidenza senza limiti e un nascondimento colpevole.

(…)

Noi due eravamo legatissimi: lui un padre, io sua figlia.

Al mattino ci incamminavamo insieme verso la scuola. A volte scordavo di mettere le mutande: i calzettoni, le gambe nude e il freddo lì.

«Zio, ho freddo!».

«Nini, hai il cappotto!».

«Zio, ho freddo lì… Mi sono dimenticata le mutande».

«Ora, se si torna indietro, ci sgridano». E mi tirava lungo la strada.

Trascorrevo, imbarazzata, l’intera giornata col freddo lì.

Alle quattro del pomeriggio la campanella suonava libertà. Il portale scuro s’apriva nell’immenso giardino del triste convento. Vicino alla vecchia quercia le mamme, i sorrisi, i volti graziosi. A rubare i miei occhi, sgomenti di desiderio.

Nel mezzo, zio.

Era lui che si occupava di me. Mi accompagnava al collegio e, finite le lezioni, mi riconduceva a casa. Per il resto del tempo se ne stava nella stanzetta che mamma gli aveva riservato. Quando nonna Teresa è morta, il suo comodino è diventato un altare alla memoria, addobbato con fotografie, candele e fiori sempre freschi, di fronte al quale lui pregava l’adorata defunta come fosse una divinità.

Le scriveva lettere infinite che lasciava in mostra, a guisa di biglietti votivi, insieme con altri oggetti per lui sacri, appartenuti, in vita, alla sorella.

Forse perché era sordo, non percepiva la punteggiatura.

Siccome le lettere per nonna zio le faceva leggere solo a me e mi chiedeva di correggerle, per amor suo ho imparato l’arte dei punti, delle virgole, degli esclamativi e degli interrogativi. Mi è rimasta una certa acribia nel virgolettare e punteggio ancora volentieri, forse troppo.

Un mattino, per strada, ho visto un pannolino rosso di sangue, che probabilmente a zio deve avere rammentato i vizi notturni delle donne di facili costumi.

«Zio, cos’è?».

«Vieni via, vieni via, ’un guardare, è robaccia!».

E ci siamo precipitati verso il marciapiede opposto. Lui protettivo, io incredula.

Di rado avevamo il permesso di andare ai giardini. Io giocavo solo con lui: con i miei coetanei non mi trovavo a mio agio.

Era sordo, non muto.

Urlavo. Lui provava ad ascoltare, ma non sentiva. Allora lo tiravo per un braccio, lo inducevo a guardarmi il viso, poi parlavo adagio, sillabando con le labbra, lentamente. Mi sorrideva, mentre scrutava la mia bocca come fosse un testo ispirato da Dio.

Mi offriva quel che poteva.

Ci sentivamo morbosi, non amati, perversi, delicati: eravamo uniti dalle ingiurie altrui, congiunti nella malinconia.

Geltrude, che io chiamavo Tude, era robusta di corporatura e molto in carne, sana come un pesce, volitiva e aggressiva. Era una strega.

Tesseva ragnatele di odio e spargeva polvere velenosa per tutta la casa.

Quando entravo, in cerca di un po’ di compagnia, nel salotto dove studiava, mi riceveva con i suoi soliti modi sprezzanti.

«Vai via, mi fai pena: sei sempre appiccicata a zio Zeno!».

Sbattevo la porta, raggelata, e mi rincantucciavo nel mio nido, in camera di zio. Lui, per consolarmi, mi abbracciava e, mormorandomi parole dolcissime, mi accarezzava con le sue mani ruvide e pelose.

(…)

E tu, mamma, dov’eri?

Stralcio dal diciassettesimo capitolo, Dubito, ergo sum

 Don Bernardo, seduto nel confessionale, ha ascoltato in silenzio tutta la vicenda. Le braccia incrociate, il volto abbassato, a tratti qualche sospiro. Mi ha preso le mani, ancora dolenti per le ferite, e mi ha guardato fisso negli occhi.

Un lungo momento di trepidante attesa.

L’assoluzione non me la merito. Spero, però, che non mi rimproveri con durezza. Sono troppo fragile. Basta una parola sbagliata e crollo, come le foglie secche, in autunno, dal ramo.

«Andreina, il tuo nome è Andreina, vero? Ti narro un’altra storia. Te la leggo, per la precisione».

Ha aperto La Bibbia. Fuori c’era gente che aspettava il turno per confessarsi. Ma lui non sembrava avere premura. Io mi sentivo il cuore in gola, temevo il suo giudizio. I suoi gesti rallentati mi rendevano sempre più timorosa.

Eppure percepivo aleggiare, attorno al corpo di don Bernardo, una presenza-assenza tacita, soave, potente.

Si espandeva, lo avvolgeva, pareva quasi illuminare, con frammenti purissimi di luce, l’oscurità che riempiva lo spazio tra la sua persona e le pareti lignee alle sue spalle.

«Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”».

Don Bernardo ha indugiato nel proseguire – la testa reclinata – fissando il libro, con uno sguardo assorto.

Sbatteva le palpebre, muoveva impercettibilmente le labbra, senza emettere, tuttavia, alcun suono. Era difficile intuire cosa stesse pensando.

La sua voce, poi, mi è giunta nuovamente, in un baritonale mormorio: «Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi».

Un’altra pausa. Si è tolto gli occhiali, li ha puliti con un panno e ha ripreso, con vigore, scandendo lentamente ogni parola: «Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Allora Gesù, alzatosi, le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”».

Tacevo. Lui pure. Tacevo e singhiozzavo.

Ha preso il mio volto tra le sue mani. Mi ha stretto forte, aspettando… rispettoso, mite, commosso.

Intanto, i frammenti di luce si erano fatti più tenui, tremolavano, sembravano non avere requie.

«Don Bernardo… io… mi sento troppo colpevole».

«Cara ragazza, rifletti su quanto ti ho narrato. Rifletti e prega. Vedrai, Gesù ti sarà accanto! Troverai in te stessa la via maestra che hai perduto. Però, ricorda: sei assolta! Vai in pace. Ti libero da tutti i tuoi peccati».

Ho compreso che non dovevo aggiungere altro. Ero congedata.

«Grazie, don Bernardo. Rifletterò. Pregherò. E tornerò, se lei vuole. Per ora grazie, davvero!».

Mi stavo girando per andare via. Ma, mentre mi sollevavo dall’inginocchiatoio, mi è venuta spontanea l’ultima domanda:

«E… la penitenza?».

«Quella ce l’hai già nel corpo. E nel cuore».

Una filigrana di ricordi. Un oceano di sensazioni. Una cascata d’acqua impura. Avvoltoi sul capo. Moscerini nelle orecchie. Letame alle narici. Vergogna.

Nauseante realismo. Spudoratezza. Insinuante violenza. Contraffazioni emotive. Debolezze striscianti. Giochi di ruolo.

Asse capovolta.

Demenza e voracità. Carosello di stupidità. Messa funebre.

Ecco cosa sei stata, Andreina. Una meschina figura. Uno spettro che smaniava di notte e si dileguava al mattino. E, al mattino, una povera ragazza, delusa, rassegnata.

Ma gli occhi di don Bernardo, la sua pacata benevolenza, ti hanno graffiato l’anima. Ti sei vista riflessa nella sua espressione mortificata.

E poi, quei frammenti di luce… Ti sei smarrita in quei frammenti di luce.

Forse, c’è un riscatto. E, dopo l’abisso, la rinascita.

Ora, però, metti un velo. Un velo, tra te stessa e i tuoi misfatti.

Ritirati.

E nella riservatezza, nella rinuncia, nella modestia, lascia che quei frammenti di luce ti lambiscano, ti inondino.

Nella preghiera ritrova te stessa, perdona e lasciati perdonare.

Stralcio dal quarto capitolo pag. 51

 Avevo una bambola: si chiamava Poldina. Era di pannolenci. La testa, le gambe, le braccia di gomma.

Lavavo Poldina e le cambiavo il pannolino tutte le mattine, poi alle quattro e mezza, dopo la merenda, e alla sera, dopo Carosello. Le davo la pappa, le facevo fare il ruttino e la sistemavo nel lettuccio. Se piangeva mentre facevo i compiti, la dondolavo un poco. Quando non potevo accudirla, se ne occupava zio Zeno, l’unico di cui mi fidassi.

Poldina era Ombretta.

Ombretta, il nome che la mamma voleva darmi alla nascita. Ma nonna Teresa si è imposta e mi hanno chiamato Andreina.

Poldina era la bambina che avrei voluto essere. era l’innocenza, l’istinto della maternità, il latte buono, il sonno tranquillo, il vestito giusto, il tepore, il calore, il fiocco rosa, l’ordine delle cose, l’intelligenza della realtà.

Poldina era un sogno. Poldina era il candore, la quiete, la pace.

Poldina era Poldina.

e io ero sempre io: bislacca, disorientata, sbagliata.

Nei lunghi inverni piemontesi giocavo in casa, nella stanza degli armadi. Vasta, rivestita – appunto – di armadi, nei quali si riponevano gli abiti fuori stagione, e piena di giocattoli. Spegnevo la luce, accendevo una lampadina, mi sedevo al tavolo, prendevo alcool e cotone. e giocavo. il divertimento consisteva nel pulire accuratamente e ossessivamente tutti i miei bambolotti, togliendo polvere e ombre dai più reconditi angolini.

Stralcio da pag 55

A notte fon da, quando babbo e mamma dormivano da un pezzo, dopo che finivano gli strani sospiri che ogni sera, sul tardi, giungevano dalla loro camera, finalmente mi assopivo, esausta. E la mattina mi svegliavo stropicciata, molle.

Un ricordo nebuloso: sono nella cameretta, nel letto che alla sera mamma estrae dall’apposita scatola affissa alla parete e che di giorno scompare, quasi misteriosamente. Questo meccanismo, questo mio letto che c’è e non c’è, non mi è mai piaciuto.

In quello di Tude è sdraiata una ragazzina più grande di me. Mi invita a dormire sotto le sue lenzuola. ho freddo, ma la raggiungo e mi ci infilo. Le sue mani sono leste, morbide, gentili. Si insinuano, sottili e delicate. Sfiorano, titillano, accarezzano. Accendono un’arcana fiammella invisibile, intangibile. In questo dolce abbraccio mi addormento secca, senza il tormento dell’insonnia funestata da visioni inquiete.

Non so chi sia quella bimba, nemmeno voglio saperlo.

È stata il viatico della mia prima esperienza erotica. Non mi ha turbato. Le sono grata.

[…]

Nonna è pallidissima: un cadavere.

Il volto arcigno, gli occhi aperti, fissi, vitrei. non parla, si muove con rigidità, a scatti: è sul marciapiede, cerca di aprire la porta a vetri, quella che sta all’ingresso del palazzo di corso Vittorio Emanuele. Mi vuole prendere, minacciosa. Io sono al di qua, nell’interno.

Scappo, salendo affamata i gradini che mi separano dall’ascensore. Me la sento alle spalle. Schiaccio il tasto di chiamata; aspetto, terrorizzata. Ma non arriva! Non arriva. L’ascensore non arriva.

Nonna ha varcato la soglia, sale i gradini, è dietro di me, le sue mani di ghiaccio mi cingono il collo. Urlo senza un filo di voce, l’ascensore non arriva, aiuto, aiuto…

Poi il maledetto montacarichi appare e so che devo risalire sette piani prima di essere a casa, al sicuro.

Ora lei è lì, dentro l’abitacolo. Allunga le braccia gelide, nude. Silente, la bocca socchiusa, le labbra violacee. Mi stringe ancora il collo. Soffoco, soffoco.

6 commenti

Archiviato in narrativa, romanzo