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Poesie di Tomas Tranströmer, Giorgio Seferis, Charles Simic, Ewa Lipska, Rita Dove, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Lidia Popa, Lidia Are Caverni, – La poesia della crisi, ebbene, quella crisi si è rivelata una autentica fortuna – Commenti

 

Foto Jason Langer, Mannequins, 1993

Jason Langer, Mannequins, 1993

Gino Rago
Decima Lettera a E. L.


[il bacio]

Cara Signora Jolanda W.

Oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.
Il tram all’improvviso ferma la sua corsa,

dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka
[è in polemica con Schiele per «ll Bacio» di Klimt,

l’aria d’autunno si guasta].
Il mio amico* pensando all’altro amico [che ha lasciato Roma]**ha scritto:

«[…] due specchi si specchiano nel vuoto,
illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno […]»

Musica, pausa, parola, silenzio. Linguaggio senza lingua
o immagini sfocate dell’ “Io” sopraffatto?

Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.
Dal vaudeville in fondo alla locanda:

«un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo
è già luce dello sperma siderale»

* il mio amico è Giorgio Linguaglossa
** l’altro amico [che ha lasciato Roma] è Steven Grieco-Rathgeb

 

Lucio Mayoor Tosi

Mi collego a quanto rilevato da Rossana Levati, ai versi
“mi soffiava il maestrale attraverso / una fessura nel torace”… “ora soffiava
come un mastino aprendomi una fessura nel silenzio”; perché questi versi mi parlano di un disagio, di una malinconia, o forse peggio di una pesante tristezza sottoposta a cura:

“ora soffiava vuoto azzurro
nella stanza disadorna della mia primavera:
questa primavera gelida nei fiori bianchi (…)

Steven Grieco è tra gli autori NOE quello che maggiormente si occupa dell’aspetto ontologico di questa ricerca. Il suo frammento lungo, meditato, che si dà tutto il tempo che serve, io spero possa servire da esempio, per scongiurare il pericolo che l’uso frequente del punto possa volgere nella direzione di un passo troppo regolare… Voglio dire che le immagini, penso tutte, abbiano come un loro respiro – oh, questa poesia ne è piena – alcune passano rapide, altre si soffermano.

A me ha colpito il verso, già evidenziato da Chiara Catapano, di “quei promontori guarderebbero solo se stessi”, preceduto ma con altro significato da “Poi un giorno rompersi a pezzi. Di nuovo sarebbero altri / quei promontori che nel silenzio guardano se stessi”.
Vi ho sentito senso di estraneità, quasi un Che ci sto a fare qua. Il che mi ricollega alla ferita descritta inizialmente. E alla cura che sempre la natura sa darci, quando depositiamo le nostre domande e semplicemente stiamo.

Tomas Tranströmer

Aprile e silenzio

La primavera giace deserta.
Il fossato di velluto scuro
serpeggia al mio fianco
senza riflessi.

L’unica cosa che splende
sono fiori gialli.

Son trasportato dentro la mia ombra
come un violino
nella sua custodia nera.

L’unica cosa che voglio dire
scintilla irraggiungibile
come l’argento

[da La lugubre gondola,Rizzoli, 2011
Traduzione di Gianna Chiesa Isnardi]

Analizzando questo concentrato, denso testo di Tranströmer, che per me e per la mia ricerca di poesia è il traguardo, è [difficilissimo da toccare] il modello poetico esemplare, è facile notare che l’autore de La lugubre gondola si affida a una parola poetica essenziale, concentrata, evocativa, metafisica e con questa parola, non con altre parole, tenta l’immersione nella contemplazione del paesaggio naturale che nel poeta si fa specchio di quello dell’anima, [ecco lo specchio che in altra forma fa ritorno… ], percependo fra sé e il paesaggio stesso un nuovo ordine. Dice la Chiesa Isnardi “[…] Nella poesia di Tomas Tranströmer niente è fuori posto o in più, ogni parola ha un peso simbolico all’interno di testi che si avvicinano alla perfezione…” E poi continuando nel suo saggio, la Chiesa Isnardi usa la parola-chiave, quella che in me ha fatto scattare il guizzo dell’accostamento persuaso al nuovo corso della poesia lanciato da Giorgio Linguaglossa, proprio con Tomas Tranströmer come altissimo modello, come faro cui indirizzarci adottando il nuovo corso poetico:”[…] La poesia così diventa “meditazione attiva” in grado di destare impulsi, offrire una visione diversa, barlumi di verità. Una poesia dinamica e aperta, dove è centrale l’elemento sensoriale; una poesia in cui la lingua è spinta al limite estremo, alla ricerca della parola perfetta nel silenzio gonfio di messaggi a cui il chiacchiericcio del mondo ci ha disabituato; una poesia che non si dà mai una volta per tutte, ma continua a suscitare dubbi e incertezze, come una finestra costantemente aperta sull’ignoto…”.

Estraggo ed evidenzio:
La poesia come meditazione attiva

Charles Simic si muove magistralmente proprio in questa scia e lo stesso dicasi per Ewa Lipska. Al di fuori di questi tre per me maestri assoluti di poesia contemporanea non sento alcun risucchio, nessuna vertigine negli abissi della parola, anche se rimane il rispetto assoluto per la fatica che è sempre dentro e dietro qualunque esperienza poetica.

La poesia della NOE deve essere Poesia della meditazione attiva.
[Se i miei bronchi fossero in grado di lavorare come vorrei anziché come capricciosamente stanno facendo da qualche settimana a questa parte, mettendomi non di rado in quella pena nota come ‘fame d’aria’ come Giuseppe Talia magistralmente l’ha definita, potrei dare forse altri contributi, ma non sempre ho la forza per ora per poterlo fare ].

(Gino Rago)

Lidia Popa e altri 2018

da sx Giorgio Linguaglossa, Lidia Popa, Sabino Caronia, Roberto Piperno, Roma, 2018

Una poesia inedita di Lidia Popa

Anche a questo funerale mancherò

Ho finito di lavare i piatti in cucina.
Ho messo a posto.
Ho lucidato il lavandino.
Ora brilla come l’acciaio appena sfornato.

A pranzo ho mangiato frittata con le patate.
Ho messo tutta la poesia del frigo dentro.
Quattro uova per due porzioni, cipolla e patata lessa,
una grattugiata fresca di Grana Padano.

Ho girato e sistemato tutto
su un piatto da portata.
Apparecchiato. Servito.
Mangiato. Lavato.

Stasera a cena mi è rimasto questo verso.
Insipido.
Oggi ho saputo che è morta la zia.
Lei era un pezzo di pane.

Tante volte una madre.
No, non era come mia madre.
Mia madre è viva.
Mia zia ora è una santa.

Ha convissuto per anni con la cirrosi.
Come mio padre.
Lui è morto nove anni fa, come fosse oggi.
Era quattro luglio del duemilanove.

Era nato in un giorno significativo: undici settembre,
anniversario di morte per l’America.
Per me il quattro luglio è il giorno più triste
che ricorderò per il resto della vita.

Attraversavo la strada.
Il telefono squillava.
Era mio fratello che chiamava.
Erano le diciassette e trentatré di pomeriggio.

Mio padre stava morendo.
Io non c’ero a tenere la sua mano,
a dire che andrà tutto bene.
E bene non andò.

Finii solo per cucinare ogni giorno una poesia dal frigo.
E tanta solitudine marcia.
Volevo solo decorare la morte,
descriverla meno paurosa del vissuto,

contraddicendo chi diceva che ispiro pena,
per aver cercato una vita degna altrove.
Mio padre non ha mai saputo che sono un poeta.
La zia Teodora lo sapeva.

A lei ho letto una domenica alcune mie poesie
fresche di cucina.
Ora incontrerà mio padre e le racconterà,
come so cucinare le poesie dal frigo. Continua a leggere

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Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Gif La noia

Nota di Gino Rago

Gran parte delle ragioni che mi hanno spinto a indagare nella poesia contemporanea, e di questa [per me la più avanzata] dei poeti scelti e antologizzati, il confronto lirico-dialettico con il paradigma dello specchio è condensata nella missiva a me diretta da Giuseppe Talia, che riporto:

«Caro Gino Rago, è molto interessante questa indagine sullo specchio che stai conducendo in queste pagine. Che cosa è lo specchio se non la storia delle generazioni che si succedono nel corso del tempo. E’ impossibile esprimere – scrive Tarkovskij – la sensazione finale che questo tipo di ritratto produce su di noi. Secondo Lacan, attraverso lo specchio il bambino arriva, attraverso varie fasi, a riconoscere se stesso separato dagli altri e di conseguenza prende coscienza di sé. Ciò che si verifica davanti allo specchio è la costituzione del proprio Io. Il riflesso speculare ricopre per il bambino il ruolo che il Doppio assume per il conflitto narcisistico nell’adulto. Questo testo che ti sottopongo è interamente calato nell’odierno narcisismo, nella doppiezza in cui però la costruzione del proprio Io porta con sé una malattia: la metafora di Nietzsche sul cammello, per esempio. La passione per la libertà, la passione per la creatività, come afferma Massimo Recalcati, non è la passione fondamentale, la passione fondamentale che orienta la vita umana è la passione per le catene. Ecco che allora il set del mio testo è in una palestra, luogo di fatica, di costruzione di un corpo che non è il corpo, quanto, invece, l’idea di corpo. Un luogo di tortura medievale, almeno così io l’ho inteso, con il mio stile».Altre ragioni non meno urgenti a sostegno della idea di indagare la Poesia verso il paradigma dello specchio derivano direttamente dalla domanda che Giorgio Linguaglossa pone alla filosofia:
«C’è una differenza ontologica fra l’immagine allo specchio e l’immagine che sta nella mia testa?», partendo dalla Dialettica negativa [pag.68] di Adorno:«Lo specchio è un concetto aporetico per eccellenza, perché converte il più concreto nel più astratto, e quindi il più vero nel più falso. In ciò lo specchio è l’esatto contrario dell’essere, concetto anch’esso aporetico in sommo grado, perché quest’ultimo «trasforma il più astratto in più concreto e quindi più vero».

I quindici poeti antologizzati hanno in comune una cifra che nella scelta operata è stata per me decisiva: la tensione metafisica, se non mistica, che emerge dai loro versi. Cifra che induce questi poeti a confrontarsi con il mondo visto da uno specchio attraverso il quale scorre la vita, esprimendo o anche soltanto accennando l’indicibile, senza la pretesa di possederne le risposte. Sotto lo sciame degli aerei da bombardamento, il lettore continui a tagliare il suo cocomero.

1- Silvana Baroni

Persa e ritrovata

Semplice, più che semplice
si tratta di allontanarsi e tornare
che non è altro che attraversare – di questo si tratta.
Sul bordo dello specchio schivo il taglio
un colpo di reni e libera! carne igienica finalmente!
Così da non rispondere all’insistente centralino
e smetterla d’appassire nella solita poltrona
a dire al gatto che il filosofo è un disperato assassino
d’omicidi ininterrotti.
Oh vitreo viso! Alveo di buio da cui risorgere!
Certo che mi vedo! Ho la faccia dei miei morti
sono il sosia d’una comunità di conclusi.
Eppure esito, che il sentimento è un lusso
preferisco negarmi, farmi vedova d’oscura innocenza
tornare all’immagine sbaciucchiata, persa
e ritrovata da labbra settembrine
che nel fascio di luce dello specchio ancora son gesti
a garanzia d’accoglienza, giusto il tempo
di stringermi ad ogni loro dettaglio.
Scivolo nei bulbi, attraverso il diametro delle sfere
mi perdo nel tempo perso dalla luna, nel riflesso di lei
che ancora vuole che io sia.

 

2 – Gino Rago

il Vuoto, lo specchio

Cara Signora Jolanda W. ,

[…]
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla,
litiga di nascosto con lo specchio.

Lo fa tutti i giorni, non dategli molto credito,
dice che fa i conti con il Vuoto,

Il Vuoto che capta altro Vuoto.
Il tempo cade sotto forma di polvere, opacizza l’immagine,

sbiadisce le fotografie, scontorna il presente, il futuro e il passato,
il mio amico se la prende con il Signor K.

Una donna, la sgualdrina di Vivaldi, fa un valzer con il primo che passa,
Mario Gabriele mangia una Sacher con panna,

lo vedo attraverso la vetrata della Gebäck der Prinzessin Sissi.
Che volete, i miei amici, quelli della nuova ontologia estetica,

hanno un debole per le pasticcerie.
Adesso lo vedo allo specchio mentre si rade la barba e fischietta.

Una risata da dietro i gerani.

*[Il mio Amico [di Roma] è Giorgio Linguaglossa]

 

3 -Ghiannis Ritsos

Quarta dimesione [da Crisotemi ]

” […] In una grande stanza disabitata era appeso da anni
un antico specchio dalla cornice d’oro. In quella stanza
non entrava nessuno. Là dentro gettavano alla rinfusa
tutto il vecchiume inutile – lampade, poltrone, candelieri, tavolini,
ritratti di antenati e altri di generali deposti, di poeti, filosofi,
vasi di cristallo dalle forme strane, treppiedi, bracieri di bronzo,
grandi maschere di gesso o di metallo, e altre piccole di velluto nero,
teste imbalsamate di cervi e fiere, uccelli
multicolori impagliati, azzurri e d’oro, dai becchi adunchi-
di cui ignoravo il nome-
attaccapanni, armature, consolle e tende pesanti,
di solito color porpora o verde scuro. Quello era il mio rifugio.

C’era un odore di stoffa tarlata, di polvere e frescura. Dunque,
lo specchio, appeso in alto sul muro, concentrava tutta quanta la luce-
era l’occhio
della stanza cieca piena di anfratti.
Quell’occhio
regnava calmo e intramontabile sull’inservibilità e la desolazione,
anzi le immortalava; – memoria sacra nell’oblio profondo.
Una sera,
salii su un baule e mi guardai allo specchio; – non vidi niente –
niente, soltanto luce – una luce oscura, come fossi io stessa
tutta quanta di luce – e lo ero veramente. Compresi, allora,
(o forse ricordai) ch’ero sempre stata luce. Un ragno
passeggiava sul chiarore dello specchio e sul mio viso. Non
mi spaventai affatto” […]

 

4- Guido Galdini

Specchio

è uno specchio per le allodole
o sono allodole per lo specchio
o le allodole sono lo specchio?

Tiziano Scarpa

Pagina del nuovo libro di poesia di Tiziano Scarpa uscito da Einaudi – Ecco qui un mio commento:
parafrasando Charles Simic:
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. Gli scrittori sono gli operatori ecologici. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

5 – Giuseppe Talia Continua a leggere

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POEMETTI di Lidia Are Caverni, “Gli uomini con i cappelli di fiori” (poemetti 1991- 2012) Edizioni Orizzonti meridionali, 2016; “Prometeo”; “Il fiore”;”Gli uomini con i cappelli di fiori”; “Il gusto floreale, i personaggi del mito, i bestiari e gli erbari sono i temi ricorrenti di tutta la sua poesia, trattati con grazia, garbo e leggerezza”; “la metafora del «giardiniere» racchiuso nel suo «orto»”

foto volto giapponeseLidia Are Caverni, nata a Olbia  il 3 novembre 1941, ha trascorso infanzia e adolescenza a Livorno, da molti anni risiede a Mestre. È insegnante elementare in pensione.

Ha pubblicato tredici libri di poesia, tra cui “Un inverno e poi…” 1985; “Nautilus” 1990;  Il passo della dea 1999; Fabulae linguarum 2000; Le montagne di fuoco 2005 con la prefazione di Giorgio Linguaglossa; L’anno del lupo 2006 con la prefazione di Walter Nesti; Animali e linguaggi 2006 con la prefazione di Michele Boato; Il prezzo dell’abbandono 2009 con la prefazione di Pietro Civitareale; Fiore bianco notturno 2010 con la prefazione di Giuseppe Panella; Colori d’alba 2010 con la prefazione di Franco Manescalchi.

Di racconti: Il giorno di primavera1992; La fucina degli dei 2000; Il satiro e la bambina 2000; L’albero degli aironi 2004; I giorni del breve respiro 2007 racconti autobiografici. Romanzi per l’infanzia “Clotilde e la bicicletta” 2000; Il pesce verdino 2009. Romanzi:  I giorni dell’attesa col mio libro di Repubblica. Un breve saggio sul linguaggio nella scuola elementare: Discorso sul linguaggio.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Scrive George Steiner in Linguaggio e silenzio, Milano 1972 p. 64: «Vi sono segni diffusi, anche se per ora solo vagamente definiti, di un certo esaurimento delle risorse verbali della civiltà moderna, di un abbrutimento e una svalutazione della parola nelle culture di massa e nelle politiche di massa della nostra epoca. Che altro resta da dire? Come può ciò che è nuovo e diverso quanto basta da meritare d’esser detto, trovare ascolto in mezzo al clamore dell’inflazione verbale? La parola, particolarmente nelle sue forme tipografiche successive, può essere stata un codice imperfetto, forse transitorio. Soltanto la musica può soddisfare ai due requisiti di un sistema comunicativo o semiologico veramente rigoroso: essere unica a se stessa (intraducibile) e tuttavia immediatamente comprensibile. Così… ragiona Lévi Strauss. Egli definisce il compositore, l’inventore della melodia, un être pareil aux dieux proprio come Omero fu definito da Montaigne, Lévi Strauss vede nella musica le supreme mystère des sciences de l’Homme, celui contre lequel elles butent, et qui garde la clé de leur progrés. Nella musica, la nostra vita assordata può riacquistare in qualche modo il senso della moderazione e del moto interiore dell’esistenza individuale, e la nostra società ritrovare qualcosa di una visione perduta di armonia umana. Tramite la musica, le arti e le scienze esatte possono raggiungere una sintassi comune».

Penso che ci sia questo pensiero recondito in tutta l’opera poetica di Lidia Are Caverni: la musica come essenza della poesia, fin dagli esordi degli anni Ottanta: il segreto pensiero di ragguagliare il suo linguaggio poetico alla musica, di dargli una orchestrazione sonora intima. È la sua rispettabile utopia. Ecco perché la poetessa veneta rinuncia ai fermi immagine, agli stop della punteggiatura, alla sicurezza della sintassi e dà alle sue poesie quei larghi e quegli andanti sinfonici spesso con un linguaggio basso, popolare, appena arricchito con qualche lemma di origine culta. Il gusto floreale, i personaggi del mito, i bestiari e gli erbari sono i temi ricorrenti di tutta la sua poesia, trattati con grazia, garbo e leggerezza; e la metafora del «giardiniere» racchiuso nel suo «orto» compendia bene il simbolo base della sua poesia: il poeta con la gentilezza del giardiniere. Abbiamo scelto, questa volta, per i lettori dell’Ombra, le poesie brevi rispetto ai poemetti che abbiamo pubblicato altre volte.

Lidia Are Caverni volto

Lidia Are Caverni

Lidia Are Caverni

da “Gli uomini con i cappelli di fiori” (2016)

GLI UOMINI CON I CAPPELLI DI FIORI

(agosto 2007)

Venivano lungo la strada con i cappelli
di fiori le svolazzanti vesti color di luna
le mani dipinte di azzurro suonavano
musiche che struggevano il cuore
strumenti di foglie cetre percorse da dita
lievi nessuno conosceva il loro cammino
non si fermavano che per bere alle fontane
detergendosi la bocca ti avrebbero condotto
con sé gruppo che si infittiva amica era
la notte il bisbiglio del vento che muoveva
capelli sconosciuti parlavano altre lingue
sorridenti non rispondevano proseguivano
il viaggio che non aveva mai fine.
Incatenavano il cuore lasciando intravedere
spazi donando bisbigli d’amore regalavano
fiori per adornare cappelli vasi di fragranti
mieli per addolcire labbra profferivano
canzoni senza tempo né fine ognuno si ritrovava
integro come fosse creato un fanciullo uscito
dalle origini dal grembo lieto senza ricordo
di terre forse avvertite nel sonno nell’ancestrale
abbraccio senza né luna né stelle che fornisce
la notte chi li ascoltava ritrovava sorrisi
l’incurvarsi lento con cui si distendono volti
avrebbero voluto seguirli dove fino al mare
forse all’oceano.
Lasciavano leggeri percorsi cos’è
l’impronta dove non si conserva
segno di un passo che cammina
danzando malinconie uno struggimento
che cercava se stesso seppellito
negli anfratti segreti che ognuno ignora
pronto a cogliere il certo il noto viso
che si guarda allo specchio chi osava
sfiorare la veste ignota il cappello adorno
di fiori le mani azzurre curvate nell’eterna
canzone avrebbero voluto lanciare
baci un soffio che il vento cancella.
Guardavano mute le case chiuse
nel loro segreto il contenuto oscuro
di fiamma di perdizioni di focolari
custoditi con cura perché non penetrasse
nessuno chi era che percorreva le strade
che non conoscevi i volti lieti che generavano
suoni a stringere il cuore gli ignoti calici
che si porgevano nell’offerta votiva
di corpi alteri che pure segnavano carni
di infinite ferite a devastare la mente
di sogni portati da lontano dove aveva
origine l’amore il passo si tratteneva voglioso
andavano perché venissi con me.
Si erano fermati al mare ma era
quello che volevano a raccogliere murici
dagli echi infiniti suoni di onde venute
dal profondo grembo dove nasce ogni
origine alghe si intrecciavano ai capelli
nastri di meduse immersi nell’acqua
ancora cantavano rinnovato battesimo
di salso a poco a poco scomparivano
dove non li potevi trovare restava un soffio
di vento un brivido che increspava il mare.

*

IL FIORE

(gennaio 2012)
Oltre la porta era cresciuto
un fiore un esile fiore illanguidito
dal sole separava il passo di chi usciva
divideva il cuore che restava trepido
d’attesa fino a quando scendeva
la sera allora il fiore chinava il capo
raggrinzendosi tutto nella casa
tornava l’amore.
Non era rimasta che una speranza
un volo di farfalla dalle ali bianche
splendida chimera che portava il sogno
un fiore di cardo schiuso alla goccia
di rugiada intorno volava lento
un insetto inneggiava al sole un trepido
apparire all’orizzonte nel mattino
lieto al limitare del bosco faceva
intravedere freschezze l’anima ne gioiva
raccogliendo fardelli pesavano ora
di piuma si poteva partire.
Sul cuore i solchi del tempo
i pugni chiusi che non donano
carezze i cieli senza certezze
ma attorno vi ronzano le api
a deporre mieli l’ha generato
un fiore coltivato con cura nel giardino
dell’anima era nato da un seme
di tenui colori il profumo si diffonde
penetra le stanze saldo tenace
cerca la luce lo sfiorare del sole
dell’aria del vento cerca parole
per dire con me cammina quando
morirà si arresterà il mio cuore.
Leggiadro il fiore governava
lieto sul sentiero degli innumerevoli
passi nessuno lo coglieva avvezzo
al vento alla cima si ergeva fiero
soffice di piuma ognuno si fermava
a vederlo spuntato tra l’erba il sasso
a volte lo sfiorava desiderandone
il possesso ma incuteva rispetto
restava con le sue punte erette
a sfidare il tempo che per lui si arrestava.
Guardingo il fiore guardava
la sera il rapido inclinarsi del sole
presto si sarebbe svelata la luna
nel chiuso suo cuore senza ritorno
lontano lo splendore del giorno
piccolo fiore di deserto che non voleva
la pioggia neppure un insetto lo cercava
ma aveva gioito di levarsi fiero
nei suoi colori nel breve tempo che
dava lietezza.
Il fiore si apriva nel suo gelo
spandeva profumo l’inverno
ne gioiva brandelli di neve
di ghiaccio a perdersi lontano
dove si spengeva il mare nel cielo
grigio-azzurro delle smarrite nuvole
potevo anch’io perdermi sommessa
come una musica che echeggia
nelle profondità dell’anima dove
si annida il tepore quieto di passerotto
che dona pace.
L’albero custodisce le sue gemme
involucri di sogni il fiore aspetta
perché non ci sia tradimento l’oscuro
avvicendarsi dei giorni ignoti ravvolti
di gelo a uccidergli il cuore nel cielo
pallido dove il pettirosso lancia
la sua canzone il merlo scantona gonfio
di tremore e tu non sai non vedi quando
finirà il bianco candore che costella
i prati le reti l’infinito incedere senza
ritorno.
Avviluppato come fosse fiato
tra muschi e rocce di montagna
minuscolo fiore che il vento
non muove guarda le cime arrosate
dal sole sogna di avere slanci che
lo stelo impedisce per raggiungere
l’esile campanella che dondola
fanciulla a chiamare l’amore in attesa
del dito premuroso che lo sfiori
per trovarlo bello come nessun altro
al mondo il fiore guarda il prato
la sua anima lieta l’occhio che
lo cerca quieto.
Fiore gramo cresciuto al limite
di strade lo percuote il passo
lo ignora la sera immerso
di solitudine quando al tramonto
il sole si inclina lasciandolo
privo di ogni colore boccio ritorna
avvolto nei petali perché non
lo uccida la rugiada o l’incedere
lento del gatto per schiudersi
al mattino nel gelo di fulgore.
Chiuso nelle pagine di un libro
un fiore languiva era stato pegno
d’amore in un maggio lieto
di tanto tempo fa fra pagine
ingiallite dal pallido contorno
aveva smarrito colori ma il suo cuore
batteva ogni volta che il libro
si apriva non era stato
dimenticato il suo profumo né
il gesto gentile che lo conservava
era come il bacio di chi lo aveva
donato e il fiore viveva.

Aperto splendeva fiore
di primavera adornava i prati
confondeva gli sguardi
di bellezza piccole mani
si tendevano a cogliere il suo cuore
i petali fulgenti per portarli
alla bocca nell’intimo pasto
il suo profumo si spandeva fiore
bianco di castità senza veleno
né asprezza aspettando il frutto
che sarebbe nato.
Allontanato l’insetto il piccolo
fiore chiudeva il suo grembo
in attesa di procreare custodiva
il seme adornandosi di foglie
l’albero ne gioiva muovendosi
piano al vento perché i petali
restassero eppure cadevano rosata
pioggia sul prato bambini facevano
giochi intrecciando le mani
circondavano il tronco si nascondevano
l’aria risuonava di risa il piccolo
fiore attendeva colmo d’amore.

Andare verso 2012

.

.

PROMETEO (1991)

Dopo la pioggia
dalla tua mano
si sprigionano stelle
fra le dita altalene
lasciano scivolare
lucori
come di lucciole
negli inebrianti canti
d’amore
non taci nella notte
tersa
a cospargerti di lacrime
Dello scomparso nome
esauste conchiglie
raccolgono gli spenti
suoni che corni rimandano
con voce di tuono
perché non taccia
l’ultima eco
ancora ridano prati
e i curvati fiori
del potere di quel
che fosti
esile fiore a confonderti
col vento tra le perdute
rocce
Legata alla perduta roccia
ascolti smarrirsi le tue grida
non era non fu che amore
la blasfema arroganza
di conquistare il cielo
a disseminare faville
che ti scaldassero il grembo
e indicare percorsi
di smarrite capanne
dove congiunti si intrecciassero
giunchi
racchiusi destini
di cervella d’agnello
spighe raccolte
nella tua mano

Gridando non volesti
che spezzare catene
beffardi irridevano gli dei
nelle remote dimore
del cielo
dimenticata fuggendo
tra gli ingrati ripari
di foglie
a sorsi bevevi sorgenti
perché ti accogliessero onde
che si ritraevano sdegnate
della tua presenza
come non ci fosse riparo
che il tuo cavo ventre
Hanno detto che non resterà
di te che fra le rocce
le lacerate membra
per gli impavidi uccelli
niente neppure un’eco
del canto tuo di sirena
fatta di schiuma
così vollero aspri decreti
che presiedono il cielo
e non ti vale impietrire
di lacrime
solo cenere bagna il tuo volto
dello spento fuoco
con cui beffarda volevi
illuminare la notte
Fra i seni vorresti
accogliere mieli
per assaporare dolcezze
tacitare le grida
del tuo ventre squarciato
supplice ai viandanti
chiedi un’ora d’amore
per placare gli dei
che aspettano solo
il rinnovato dolore
ma spenti dalle tue labbra
non escono suoni
che restano in te
Le tue braccia di fanciulla
cercavano promesse
a cingere corone d’amore
liete si scioglievano risa
di chiare fontane
dove ti specchiavi
languida aspettando di colmare
di baci le tenere labbra
illuminare la notte
di splendori
per ancora scoprirti bella
invereconda così passavi
ignara degli immani dolori
Avresti voluto la morte
per tacitare gli adunchi
rostri
in un’eternità che mai cessava
dai polsi non si sarebbe
spezzata la catena
vasi di lacrime si sarebbero
colmati ai tuoi piedi
solo nuda roccia il letto che
sognavi di rosa
come le tue guance
dal colore di pietra
Dopo che si è dissolta
la nebbia
brutali soli t’illuminano
carni
invano chiedi che piogge
bagnino le tue labbra
percosse da invincibile arsura
ma aridi seni
più non alimentano fontane
deserti intorno spargono
gli uccelli
che ti divoreranno

L’incantevole sentiero
indicava speranze
sul prato deposti
l’ulivo e l’alloro
intrecciavano corone
per quando si sarebbe levato
il tuo canto
nella mano la fiamma ardeva
nell’estrema favilla
irriverente tendendo
al cielo l’esile collo
nel nodo che ti stringe
Al fato non chiederesti
che di giungere mani
per supplice levare
il tuo pianto
implacabili ti distendono
catene
pasto di uccelli non sazi
inesauribili fami
che ti dilaniano
invano aspetti che scendano
tenebre
per ottenere pietà.

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POESIE INEDITE di Lidia Are Caverni “Acquamarina”  (2OOO) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

foto di Steven Grieco (India)

foto di Steven Grieco (India)

Lidia Are Caverni, nata a Olbia  il 3/11/41, ha trascorso infanzia e adolescenza a Livorno, da molti anni risiede a Mestre. E’ insegnante elementare in pensione. Scrive sin da giovanissima. Ha pubblicato quattordici libri di poesia, tra cui Un inverno e poi… 1985; Nautilus 1990;  Il passo della dea 1999; Fabulae linguarum 2000; Le montagne di fuoco 2005 con la prefazione di Giorgio Linguaglossa; L’anno del lupo 2006 con la prefazione di Walter Nesti; Animali e linguaggi 2006 con la prefazione di Michele Boato; Il prezzo dell’abbandono 2009 con la prefazione di Pietro Civitareale; Fiore bianco notturno 2010 con la prefazione di Giuseppe Panella; Colori d’alba 2010 con la prefazione di Franco Manescalchi Nova itinera 2014 con la prefazione di Franco Dionesalvi.

Di racconti: “Il giorno di primavera” 1992; La fucina degli dei”2000; Il satiro e la bambina 2000; L’albero degli aironi 2004; I giorni del breve respiro 2007 racconti autobiografici; Romanzi per l’infanzia Clotilde e la bicicletta 2000; “Il pesce verdino” 2009. Romanzi:  “I giorni dell’attesa” col ilmiolibro.kataweb.it di Repubblica. Un breve saggio sul linguaggio nella scuola elementare: Discorso sul linguaggio. Ha pubblicato con la Casa Editrice Bruno Mondadori, Passigli, Bonaccorso con distribuzione nazionale, Masso delle Fate, Raffaelli, Edizioni Orizzonti Meridionali, Istituto Italiano di Cultura di Napoli. Ha ottenuto numerosi premi, è stata tradotta in lingua anglo-americana e rumena. Collabora a varie riviste, fra cui Capoverso, Poiesis, Lo scorpione letterario, Atelier,  ClanDestino.

Commento di Giorgio Linguaglossa

Già il nome di questa gemma riporta alla mente il suo forte legame con il mare: Acquamarina significa “Acqua del mare” e deriva dalle parole latine “aqua” (acqua) e “marinus” (appartenente al mare). Questa raccolta di Lidia Are Caverni ci consegna un equivalente della nota pietra, un analogon della trasparenza e una metafora della giovinezza e della fanciullezza, quando eravamo, nostro malgrado, trasparenti, ecco perché la poesia è popolata di bambini che giocano, di animali marini, di marinai, di bagnanti, di onde marine, zefiri, insomma tutto un universo di personificazioni e di oggetti che ruotano attorno alla metafora e al simbolo  dell’acqua e, quindi, dell’acquamarina. Lidia Are ha per dono naturale il tocco leggero che sfiora le cose, una sensibilità rastremata e vibratile per le parole, per le qualità sonore e timbriche delle parole, per quei suoni di palatali e di fricativi che si intrecciano fino a formare un analogon della pietra trasparente. È una poesia trasparente, che fa della trasparenza il proprio punto di forza.

foto di Steven Grieco (India)

foto di Steven Grieco (India)

L’onda sciacqua la riva
la riva bella e pulita
rompe anche il castello
di sabbia i bambini tornano
sui propri passi il gioco
finisce la riva rimane deserta.

*

Il granchio morde la riva
la carne dei bagnanti un dolore
alto e lancinante invade
il cespuglio di mirto fa chinare
il lentisco fino all’acqua
perché il dolore è immenso
tradisce il silenzio.

*

Il pesce si culla sull’acqua
ha dentro di sé il proprio destino
ha nel suo ventre un anello
l’ha rubato a un marinaio morto
durante una tempesta ma il pesce
è libero perché non ha inghiottito
l’amo e può cullarsi sull’acqua.

*

La vela fendeva il vento sorrideva
aveva trasportato marinai il viaggio
era stato breve solo dall’altra parte
della riva c’era forse un’isola
che segnava il mare i marinai
avevano pescato nella notte e ora
era mattino l’acqua luceva e
la vela sorrideva.
*

Il gabbiano guardava l’acqua
aveva seguito un pescatore
la scia della sua barca si allungava
fendeva il mare in quel solco
il gabbiano si tuffava per pescare
il pesce il mare ora era deserto
e il gabbiano non poteva tornare.

*

L’oscuro marinaio malediva
il suo destino il mare lo teneva
prigioniero incatenato alla carena
di navi che facevano sempre
lo stesso percorso un’andata
e un ritorno che era solo una sosta
non aveva una casa solo un oblò
per guardare il cielo da dentro
di un riparo desiderava una finestra
e un vaso di fiori che l’adornasse.

*

Il viaggio non aveva mai fine
ed era vano raccontarlo ci aveva
provato la conchiglia esausta
sulla riva della sua agonia
ci aveva provato il pesce rimasto
impigliato nella rete ci aveva
provato un marinaio in una notte
di follia e il suo racconto era
rimasto in un bicchiere.

Lidia Are Caverni

Lidia Are Caverni

Sullo spiazzo tra le dune
un roccolo catturava gli uccelli
salvifico il bosco parava le sue
chiome si compensavano l’uno
nascondeva tranelli l’altro dava
la libertà la vita ma gli uccelli
non sapevano scegliere e morivano.

*

Dalle uova schiuse al sole
le tartarughine cercavano
il mare nell’isola lontana non
glielo aveva insegnato nessuno
ma fuggivano gli uccelli che
le divoravano gli operatori
riprendevano la scena dei perduti
e i salvati l’impari corsa.

*

Il mare promette incantesimi
sciacquii lievi sulla riva la danza
delle orche le alghe brune capelli
alle sirene l’abbondante pesca
e abissi marini dove cullare leggende
le verdi praterie dove crescono
coralli le acque limpide e ridenti
dove l’onda si arricciola e forma
un’altra onda quando il vento
soffia leggero e la vela sa dove
tornare.

*

Gridava il vento la sua fola
l’ascoltavano i vecchi marinai
nascosti nelle vesti cerate
volava la procellaria ribelle
che quando vede la terra si volta
e tesse inganni perché non possano
salvarsi volava mesto anche
il gabbiano che cercava il pesce
e aveva abbandonato la riva
il destino era segnato ed era
impossibile sfuggirgli.
*

Bastava sorridesse il vento
lo zefiro leggero che increspa
l’onda le fanciulle al porto
preparavano la festa arricciavano
i capelli la pentola gorgogliava
perché saltasse il pesce i marinai
sarebbero arrivati lanciando
in aria i berretti la notte non faceva
paura.

*

Le fanciulle danzavano col seno
nudo ghirlande di fiori si scostavano
mostrando i capezzoli ricoperti
di foglia d’argento i denti lucevano
di perla si preparava la festa del ritorno
i pescatori avevano recato conchiglie
e pesce solo uno mancava
all’appello aveva inseguito un sogno
e il mare l’aveva inghiottito.

lidia are caverni l'anno del lupo

Il marinaio cercava l’oblio
la sua fanciulla l’aveva abbandonato
troppo a lungo aveva atteso
il ritorno la sua nave l’aveva
inghiottita una tempesta aveva
visitato il mare con l’inutile legno
ora col volto bruciato masticava
l’erba che gli spezzava denti
ma era l’amore perduto che faceva
piangere il suo cuore.

*

Sullo scoglio battuto dall’acqua
si era ritirata la patella i bambini
avevano più volte provato
a staccarla e si era abbandonata
al mare restava il mitilo conficcato
nella roccia orgoglioso del suo riparo
che lo proteggeva.

*

Lo squalo sognava la riva odiava
il terrore che l’accompagnava
il livido improvviso sui volti
bruni amava le dolci suonate
sulla sabbia bianca irrorata
di luna i dolci frutti al morso
dei denti la natura che lo inchiodava
e restava lontano dove non lo
vedeva nessuno.

*

Opaco si stendeva il mare il deserto
infecondo che non accoglie
semenza il suo solco si apre
e si richiude dove nessun seme
può germogliare ma lo amano
i poeti che gli dedicano canzoni
a produrre l’ingegno lo amano
e lo odiano i marinai per troppa
conoscenza.

*

Il fiume entrava nel mare
depositava un fardello di sassi
ne riceveva conchiglie belle
si sciacquavano assetate di dolcezza
poi restavano sulla riva
a consumarsi di sole.

*

La nave era ferma al largo
era presto per tornare avevano
arrestato le macchine potevano
sentire la bonaccia respirare
il volo dei gabbiani che annunciava
la terra nessuno li attendeva maschere
avrebbero ricoperto volti la partenza
conteneva il ritorno che prima
del tempo sarebbe stato vano.

*

A bordo nessuno parlava gli abissi
generavano mostri erano quelli
dei pensieri parlando avrebbero
preso forma erano quelli dentati
della notte pronti a ghermire
tra le sartie deserte erano quelli
scaturiti dalle nebbie ancora
avvolti di fumo e il mare era
di trasparente cristallo che non
si poteva penetrare.

*

Merletti aspri riempiono la stiva
le murene danzano fra le cavità
sommerse dove non entra la luna
barbigli di pesce palla ruotano
sul fondo desiderando di giocare
le murene affilano denti i pesci palla
giacciono convulsi nei morsi
che li hanno colpiti al cuore
nell’immensa oscurità.

*

Sul limpido fondale l’anemone
intrattiene pesci esili ali di farfalle
si ritraggono e sfiorano ma non
recano la morte i pesci si perdono
nel labirinto dei tentacoli
ogni volta ridendo.

*

Il tempo bizzarro non dava requie
la pioggia scrosciava sulla riva
gli amanti più non avevano ripari
non s’intrecciavano danze
solo i bambini erano felici
saltavano tra le gocce e bevevano
con la lingua ciondoloni
come fanno i cani

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 POESIE INEDITE di Lidia Are Caverni da “Parvulus” (1991) con un Appunto dell’autrice 

Venere particolare Botticelli

Venere particolare Botticelli

Lidia Are Caverni, nata a Olbia  il 3 novembre 1941, ha trascorso infanzia e adolescenza a Livorno, da molti anni risiede a Mestre. È insegnante elementare in pensione.

Ha pubblicato tredici libri di poesia, tra cui “Un inverno e poi…” 1985; “Nautilus” 1990;  Il passo della dea 1999; Fabulae linguarum 2000; Le montagne di fuoco 2005 con la prefazione di Giorgio Linguaglossa; L’anno del lupo 2006 con la prefazione di Walter Nesti; Animali e linguaggi 2006 con la prefazione di Michele Boato; Il prezzo dell’abbandono 2009 con la prefazione di Pietro Civitareale; Fiore bianco notturno 2010 con la prefazione di Giuseppe Panella; Colori d’alba 2010 con la prefazione di Franco Manescalchi.

Di racconti: Il giorno di primavera 1992; La fucina degli dei 2000; Il satiro e la bambina 2000; L’albero degli aironi 2004; I giorni del breve respiro 2007 racconti autobiografici. Romanzi per l’infanzia “Clotilde e la bicicletta” 2000; Il pesce verdino 2009. Romanzi:  I giorni dell’attesa col mio libro di Repubblica. Un breve saggio sul linguaggio nella scuola elementare: Discorso sul linguaggio.

Une femme mariée di Jean-Luc Godard

Une femme mariée di Jean-Luc Godard

Appunto di Lidia Are Caverni

 Parvulus (è una raccolta che risale al 1991) è il niente che circonda il poeta, la solitudine densa di suoni e di musiche con cui chi scrive si pone in rapporto con l’altro. È un niente che non significa assenza, anzi il suo contrario perché esprime un mondo sommerso e nascosto invisibile a chi vi si rivolge con occhi distratti, ma invece ricco di suggestioni ed efflati per chi ne sa cogliere l’essenza.

E l’altro è un interlocutore senza volto, racchiuso nell’interiorità o che di volta in volta prende l’aspetto oggettivo dell’umano, per coglierne quel che sta dietro l’apparenza. È piccolo, non perché banale, ma perché chi scrive si assume un atteggiamento di ascolto riverenziale nei confronti di chi vede come interlocutore, siano cose o personaggi umani e più che aspettare che sia compreso vuole comprendere decifrando il mistero di ciò che costituisce il sé e l’alterità.

 (Lidia Are Caverni)

diabolik particolare di  Eva Kant R. Lichtenstein

diabolik particolare di Eva Kant R. Lichtenstein

*

Parvulus
non è che il fruscio breve
di mosca catturata
nel bicchiere
l’onda fresca della tua mano
il niente che mi bisbiglia.

 

 

*

Cosa importa
scorrerà il treno
fino all’ultimo vagone
e tu che aspetti di proseguire
l’inutile corsa
staccheresti le ruote
a navigare nel cielo
per raccontarmi il gioco
dei tetti come li vedi
immaginarmi puntino
dietro un’invisibile finestra.

*

Aspettandomi inusitati
bagliori percuotono
bersagli
punti terminali dove si fissa
ogni sguardo
e persegui magie inconsulte
di deserti
dove non bevi che sabbie
per l’amaro tuo viaggio
a raccogliere memorie
chiedere chi sei.

*

Arcaiche rive nascondono
approdi
ancorate gomene celano
chiglie
profondità di fiordi
mascherano anfratti
dove sostare nei giorni
boreali
e partire quando sopraggiunge
la notte.

fumetto volto femminile

fumetto volto femminile

*

Scrutatrice nell’urna celo
il mio voto
segreto non potresti vedere
che un foglio
segnato a croce
di analfabeta.

*

E tu non suggerire parole
faveat ancora la tua bocca
esoterici linguaggi
addensano spire di Pizie
i bacili mascherano volti
per auspici che non cogli
gli uccelli non hanno
che viscere stanche
e ali con cui avrebbero
voluto volare.

*

Virginea intatta bellezza
fustiga la tua voluttà
e tu vorresti slacciare
corpetti per appagarti
nel diverbio non ci sono
vinti
solo il tedio
de la prochaine fois.

*

Sui cipressi che amo
silenzi
mendicanti chiedono trilli
suppliche di nido
per gli inutili gridi.

*

Non ti porgerei che dolcezza
aspro basta il sorriso tuo
di melograno
a sfiorarmi la pelle
e non sei dio che giudica
simulacro che esorcizza
la paura.

bello le mani*

La differenza di quel che si produce
etichettati vitigni
non equivalgono nascosti
alambicchi di grappe
secrete gocce di evasi
monopoli
appartati tutoli
che non appagano seti
di inesprimibili arsure.

*

Per la vergogna dei nostri volti
non ci sono albe a indicare
percorsi
candidi rossori che delineano
case
e vie che non percorreremo mai.

*

Biologicamente avresti potuto
trasformarti in roggia
quieto ruscello ad alimentare
trote
e chiederti perché nascoste
esche non sazino
e devastino bocche.

*
Inenarrabile acquosità
d’intenti
vetrosi occhi fissano
nadir di cieli lontani
estrema vela all’orizzonte
inghiottita dal mare.

*

D’ora in poi non ci saranno
parole a designare nomi
ma suoni a tradurre immagini
brevi note piangeranno
e rideranno con te.

*

Per non tradire
fiaccole discendono la montagna
recando le maschere d’oro
nascosto si offre
il tuo volto di resa
agli abbacinanti ripari
del tempio
muta più non dirai parole.

Lidia Are Caverni

Lidia Are Caverni

*

Se talvolta custodisse
quest’involucro di voli
la tacita impronta
del moscerino
i lampioni rifrangono
le spente vampe
stridi echeggiano di auto
nelle convulse corse
o di ali che non coprono
il cielo
prendere la tua mano
e andare
dove non si conoscono mete.

*

Mucillaginose materie
addensano acque
per poco non dire
le ragioni del granchio
che non sa più esplorare
fondali
senza morire.

*

Se fosse ogni cosa
vincibile
sarebbe dolce la resa
come un quieto svanire
nel nulla.

*

Assentarsi
ha il non essere
il privilegio di non sapere
ignorando le proprie ferite
che fanno più male.

Paul Klee

Paul Klee

 

*

 

Dal cielo non ci attendiamo
invettive
è del solito azzurro
possiamo ancora accudire
alla scarna pesca dei giorni
e le speranze avvolte
nel cartoccio
che non osiamo svolgere.

 

*

Potrebbe essere un bersaglio
(la luna non narra
che banali fole)
la luce della mia stanza
sono io che veglio
pensando.

*

Nell’ampolla non ci sono
che perle
è evaporato il profumo
restano i palpiti
le lente pulsazioni del sangue
sotto la pelle.

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POESIE SU UN PERSONAGGIO STORICO MITICO O IMMAGINARIO – Lidia Are Caverni “Prometeo” Odisseo notturno (poemetti 1991)

Poseidone

Poseidone

Lidia Are Caverni, nata a Olbia  il 3/11/41, ha trascorso infanzia e adolescenza a Livorno, da molti anni risiede a Mestre. E’ insegnante elementare in pensione. Scrive sin da giovanissima. Ha pubblicato quattordici libri di poesia, tra cui “Un inverno e poi…” 1985; “Nautilus” 1990;  “Il passo della dea” 1999; “Fabulae linguarum” 2000; “Le montagne di fuoco” 2005 con la prefazione di Giorgio Linguaglossa; ”L’anno del lupo” 2006 con la prefazione di Walter Nesti; “Animali e linguaggi” 2006 con la prefazione di Michele Boato; “Il prezzo dell’abbandono” 2009 con la prefazione di Pietro Civitareale; “Fiore bianco notturno” 2010 con la prefazione di Giuseppe Panella; “Colori d’alba” 2010 con la prefazione di Franco Manescalchi “.Nova itinera” 2014 con la prefazione di Franco Dionesalvi. Di racconti: “Il giorno di primavera” 1992; “La fucina degli dei” 2000; “Il satiro e la bambina” 2000; “L’albero degli aironi” 2004; “I giorni del breve respiro” 2007 racconti autobiografici;

Romanzi per l’infanzia “Clotilde e la bicicletta” 2000; “Il pesce verdino” 2009. Romanzi:  “I giorni dell’attesa” col ilmiolibro.kataweb.it di Repubblica. Un breve saggio sul linguaggio nella scuola elementare: “Discorso sul linguaggio”. Ha pubblicato con la Casa Editrice Bruno Mondadori, Passigli, Bonaccorso con distribuzione nazionale, Masso delle Fate, Raffaelli, Edizioni Orizzonti Meridionali, Istituto Italiano di Cultura di Napoli. È stata tradotta in lingua anglo-americana e rumena. Collabora a varie riviste, fra cui Capoverso, Poiesis, Lo scorpione letterario, Atelier,  ClanDestino. Ha collaborato con la rivista “I viaggi di Erodoto” della Casa Editrice B. Mondadori. Sue poesie sono apparse sul blog di Antonio Spagnuolo, Fortuna Della Porta, La Recherche, José Pascal, Moltinpoesia.

Cogito figura 1

Lidia Are Caverni

“Prometeo”

Odisseo notturno (poemetti 1991)

Dopo la pioggia
dalla tua mano
si sprigionano stelle
fra le dita altalene
lasciano scivolare
lucori
come di lucciole
negli inebrianti canti
d’amore
non taci nella notte
tersa
a cospargerti di lacrime

*

Dello scomparso nome
esauste conchiglie
raccolgono gli spenti
suoni che corni rimandano
con voce di tuono
perché non taccia
l’ultima eco
ancora ridano prati
e i curvati fiori
del potere di quel
che fosti
esile fiore a confonderti
col vento tra le perdute
rocce

testa di Esculapio Epoca imperiale

testa di Esculapio Epoca imperiale

Legata alla perduta roccia
ascolti smarrirsi le tue grida
non era non fu che amore
la blasfema arroganza
di conquistare il cielo
a disseminare faville
che ti scaldassero il grembo
e indicare percorsi
di smarrite capanne
dove congiunti si intrecciassero
giunchi
racchiusi destini
di cervella d’agnello
spighe raccolte
nella tua mano

*

Gridando non volesti
che spezzare catene
beffardi irridevano gli dei
nelle remote dimore
del cielo
dimenticata fuggendo
tra gli ingrati ripari
di foglie
a sorsi bevevi sorgenti
perché ti accogliessero onde
che si ritraevano sdegnate
della tua presenza
come non ci fosse riparo
che il tuo cavo ventre

Lidia Are Caverni

Lidia Are Caverni

lidia are caverni l'anno del lupo

Hanno detto che non resterà
di te che fra le rocce
le lacerate membra
per gli impavidi uccelli
niente neppure un’eco
del canto tuo di sirena
fatta di schiuma
così vollero aspri decreti
che presiedono il cielo
e non ti vale impietrire
di lacrime
solo cenere bagna il tuo volto
dello spento fuoco
con cui beffarda volevi
illuminare la notte

*

Fra i seni vorresti
accogliere mieli
per assaporare dolcezze
tacitare le grida
del tuo ventre squarciato
supplice ai viandanti
chiedi un’ora d’amore
per placare gli dei
che aspettano solo
il rinnovato dolore
ma spenti dalle tue labbra
non escono suoni
che restano in te
Le tue braccia di fanciulla
cercavano promesse
a cingere corone d’amore
liete si scioglievano risa
di chiare fontane
dove ti specchiavi
languida aspettando di colmare
di baci le tenere labbra
illuminare la notte
di splendori
per ancora scoprirti bella
invereconda così passavi
ignara degli immani dolori

sesterzio  romano

sesterzio romano

Avresti voluto la morte
per tacitare gli adunchi
rostri
in un’eternità che mai cessava
dai polsi non si sarebbe
spezzata la catena
vasi di lacrime si sarebbero
colmati ai tuoi piedi
solo nuda roccia il letto che
sognavi di rosa
come le tue guance
dal colore di pietra

*

Dopo che si è dissolta
la nebbia
brutali soli t’illuminano
carni
invano chiedi che piogge
bagnino le tue labbra
percosse da invincibile arsura
ma aridi seni
più non alimentano fontane
deserti intorno spargono
gli uccelli
che ti divoreranno
L’incantevole sentiero
indicava speranze
sul prato deposti
l’ulivo e l’alloro
intrecciavano corone
per quando si sarebbe levato
il tuo canto
nella mano la fiamma ardeva
nell’estrema favilla
irriverente tendendo
al cielo l’esile collo
nel nodo che ti stringe

Sileno copia romana di Lisippo

Sileno copia romana di Lisippo

Al fato non chiederesti
che di giungere mani
per supplice levare
il tuo pianto
implacabili ti distendono
catene
pasto di uccelli non sazi
inesauribili fami
che ti dilaniano
invano aspetti che scendano
tenebre
per ottenere pietà.

(Prometeo è stato pubblicato da Walter Nesti su “Pietra Serena” nel 1993)

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELL’ADDIO (Parte IV) Sabino Caronia, Gabriella Sica,Paolo Polvani, Lidia Are Caverni, Marzia Spinelli, Cristina Sparagana, Stelvio Di Spigno

Albrecht Durer ex-libris 1516

Albrecht Durer ex-libris 1516

«Il tema dell’addio. L’addio è una piccola morte. Ogni addio ci avvicina alla morte, si lascia dietro la vita e ci accorcia la vita che ci sta davanti. Forse il senso della vita è una sommatoria di addii. E forse il senso ultimo dell’esistenza è un grande, lungo, interminabile addio».

 

sabino caronia

 

 

 

 

 

 

Sabino Caronia

Adieu

Altera ti ricordo, altera e bella
passare, così passano le stelle.
Sì, ti ricordo, lo ricordo ancora
quel tuo strano, dolcissimo sorriso.

Ma a che serve un ricordo, a cosa giova
la lontana memoria di un sorriso?
Anche i ricordi non sono che mani
che non si toccano, e ogni cosa muore.

 

a Luca Canali

E se pure di noi resta qualcosa,
oltre un nome ed un’ombra senza peso,
tu Catullo, dottissimo poeta,
d’edera cinto il giovinetto crine,
nella valle d’Eliso sorridente
vienigli incontro e tendigli la mano.

 

Gabriella Sica

Gabriella Sica

gabriella sica Le lacrime delle cose

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gabriella Sica

2
Non altro che il tuo lento sparire
alla mia mente, polvere d’amore
al volgere pacificato delle stagioni
come verso l’Ade scivola il tempo
e al prato degli asfodeli quieti
al soffrire dei morti per la morte.

3
Separarsi è l’aprirsi di una crepa
nel terribile sentiero dei morti
è lo spirito che sporca i bei giorni
e rompe come ascia il cielo vasto
è spiluccare i dolci chicchi rubini
dischiusi nel lungo solco nero.

aprile 2004

Da Le lacrime delle cose (2009)

 

Paolo Polvani, 2013 Murge

Paolo Polvani, 2013 Murge

Patrizio Dimitri 3

 

 

 

 

 

Paolo Polvani

Assaggiare il vuoto

Accade che un giorno spalanchi la finestra e senza
consultare l’orizzonte, decidi
di assaggiare il vuoto, di sperimentare
le conseguenze delle leggi gravitazionali.

E io che cosa avrei dovuto più inventare, non basta
saper sorridere, ascoltare non è una condizione sufficiente.
Ci sono congiunture e adesso la cosa mi appare nella sua evidenza.

Spalancare la finestra e dire sì al vuoto, alla sua bocca aperta,
alla fame di te che manifesta. Erano già in riserva le lacrime
e il muro bianco d’ospedale esaurita ogni possibilità.

La bellezza non è un lasciapassare. Volevi essere accolta
hai scelto il vuoto di un cortile, lo spazio
bianco di un lenzuolo.

.

A Pino che se ne va

Così sei morto. Sul pavimento il cacciavite
aspetta le tue mani sporche di grasso e i colpi di tosse
del motore.

E’ nella stanza accanto, dice qualcuno.

Se fosse vero ci daresti un segno: una pinza
che cade, uno sportello che si chiude, una valvola
col minimo rotolio che l’accompagna.
Un colpo sulla scocca.

Ma tu sei morto e tutti ti voltano le spalle, anche i tuoi figli
non ti riconoscono, non riconoscono il tuo silenzio.

Tu continui a guardarli rigirando un sorriso
stranito tra le mani, impacciato
davanti a tanta incomprensione.

La vita ti ha condotto fin qui e adesso
non sta bene che continuiamo a parlarti

sei sceso senza domandare
sei sceso con la faccia buona
quasi chiedendo scusa

e non c’è niente da ridere
niente da ridere.

 

lidia are caverni l'anno del lupo

lidia are caverni

lidia are caverni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lidia Are Caverni

Avresti voluto un bacile per detergere
mani dopo l’abbandono si era consumato
il sacrificio del sole la spada tratta che toglie
via la luce del giorno aprendosi alla sera
al fresco bagliore che confonde voli il lieto
sconfinare della finestra dove non penetri
ombra proveniente dai sogni dall’esalazione
incerta di notti chine per i miei respiri
lo snodarsi lento delle attese a dipanare
gli intrighi dei capelli meduse ormai relitte
sulle spiagge di mari dove i corpi si confondono
persi di ebbrezza.

*

Per non smarrire il pezzetto di cielo
vuoto ormai di voli andranno presto
altrove i rondoni nella continua ricerca
nel mirto ti confondi nascosto nell’ultimo
fiore il cuore si stringe che non vedi
gabbiano altero che cacci pulcini fra
le tegole del tetto come fossi aquila
roteante sulle cime che tutte attendono
a sovrastare il mare il guizzare lieto
dei pesci nei fondali trasparenti dove
le ghiaie si consumano per non tacere
le parole masticate a metà già colorate
d’ombra dove non mi trovi.

(inediti, da Brividi di tempo 2007)

 

 

Marzia Spinelli

Marzia Spinelli

marzia spinelli cop

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Marzia Spinelli

Come addii

Non hanno fine le parole degli addii,
le vorremmo perfette come sembravano le cose.
Parlavano ai giorni,
sapendo quanto imperfetto l’avvenire.
Parlano ancora
sciupate in un via vai frenetico,
teso l’orecchio all’oblio. Continua a leggere

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DEL VIAGGIO E DELL’ESTRANEITA’ di Paolo Ruffilli, Valentino Campo, Anna Ventura, Lidia Are Caverni, Luisa Colnaghi, Giuseppina Di Leo, Leopoldo Attolico

buenos aires

I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia tra Atene e Gerusalemme, tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione. «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone – metaxy: essere “tra”, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione».

Paolo Ruffilli

Paolo Ruffilli

Paolo Ruffilli

Andante

Nel porsi in viaggio,
prendendo prima
le distanze e tutte le
misure che si può,
considerato l’angolo di fuga
e quello di deriva andante
dentro il vuoto…
la curva sghemba
della deiezione,
lo scarto imprecisato
del destino.
All’imprevisto che è
legato al moto,
la ragione ha imposto
antidoto di linee rette:
orari, termini, binari.
Contro i rischi dell’ignoto.

In viaggio

Nel gioco mobile
di specchi
sogno e realtà,
moltiplicandosi
nell’effetto miscuglio
– cocktail o frullato,
intruglio o elisir –
hanno inventato
ed, ecco, rivelato
l’universo della vita
in una sfida stravagante,
facendo eterno andare
di ogni istante,
oceano del poco mare
attraversato
e transatlantico
del piccolo natante
che vi si è sopra
avventurato.

 Valentino Campo

Valentino Campo

 

Valentino Campo

Domenica delle Palme

Vidi, lo vidi
il nero della seppia
nel nero che recide
l’ombra dal suo doppio.
Persi la rotta nel timpano
del fiume,
gettai alla riva
all’ansa la mia voce,
al luccio chiesi
l’aria dei suoi bronchi
il filamento nel pantano;
all’onda resi
il sale dei miei anni.

Lunedì Santo

Ti so, ti sento,
ombra, mia presenza,
nel cavo dell’iride che sgrossa
il dalmata a nuoto nel trifoglio,
palla e fanciulla saldi al chiostro
stillano il miele dell’astro.
E tu ti celi nel cono
dei suoi dardi, nel midollo
delle cose, la schiena devo darti
se voglio il tuo perdono.
Martedì Santo

Mi servi i petali bianchi del loto,
è il dono che mi fai.
Tutto è ormai compiuto,
il gallo a oriente è muto
e io so ogni canto
ogni foro nel costato dell’uomo.
I tetti stridono sotto l’unghia
degli obici e gli uccelli
si destano nel tepore dei nidi.
Vidi un ragazzo gracile
stringere il suo fucile,
aveva la patta schiusa
mentre si strofinava,
il caricatore beveva
la sua rugiada.
In nome dell’uomo
non dirmi poeta,
in nome dei santi
non farti più uomo.
Mercoledì Santo

Ero solo, solo sul binario,
solo sulla lama della scure
che affetta il tempo
con la bava di un beccaio.
Aspettavo il treno da Cirene
con il naso al cielo
ed ero solo, solo con la mia croce.
E giunsero le sirene
a baciarmi di sputi,
uomini in divisa con la bocca
cucita presero le misure,
mi diedero in pasto ai cani.
Poi giunse il treno come un sudario
nessuno scese, non ci fu parola,
e fui di nuovo solo
con una fetta di sperma e pane.

(da L’arte di scavare pozzi, LietoColle 2010)

cornelius escher

cornelius escher

 Anna Ventura

Anna Ventura

Anna Ventura

Santiago

Un pellegrino partì
alla volta di Santiago.Veniva
dalle Fiandre. Di notte
dormiva nel mantello,
di giorno camminava.
All’autunno sopraggiunse l’inverno;
il pellegrino, svegliandosi al mattino,
vide che il suo corpo era coperto di neve.
Si sentì stremato, e temette
che Santiago non esistesse nemmeno,
che fosse un sogno della sua mente esaltata.
Ma un altro pellegrino sbucò dagli alberi,
lo aiutò a rimettersi in piedi,
e insieme arrivarono al santuario.
Quando entrarono, il secondo pellegrino
se ne andò dritto per conto suo
dentro la basilica, dove troneggia
il busto di Santiago. Busto
che ha due buchi al posto delle braccia, per cui
chi sta dietro l’altare
può metterci dentro le proprie,
per avvincersi al Santo.
Il pellegrino delle Fiandre
si mise in fila con gli altri .
Quando fu la sua volta
mise le braccia nei buchi
e nel volto del Santo
riconobbe il pellegrino
che lo aveva aiutato.
Commosso, gli sussurrò all’orecchio:
“Amico mio,
ti riconosco.”
Ma Santiago rimase d’argento.

cornelius escher la colomba

cornelius escher la colomba

 lidia are caverni

Lidia Are Caverni

Il Viaggio

Dall’infinita distanza
la mano raggiunge la fronte
l’assenza della corporeità
perduta nel sonno tentativo
estremo dell’essere di riconquistare
il proprio conscio
un lasciarsi andare
inerte che prende e vuol
vincere il rifiuto della mente
per il cadere che avvolge
a smarrirsi di oblio.

*

Verrebbe da dire dilaniato
corpo di fauno nelle nascoste
cortine pelle di Marsia mutata
in tamburo eco di boschi
dove non risuonano canti
parole del divino sdegno
o l’umano prostrato eterno
rituale e il sole si perde
lanciato.

* Continua a leggere

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELLA MUSICA O SUGLI STRUMENTI MUSICALI di Antonella Zagaroli, Paolo Polvani, Giuseppina Di Leo, Lucia Gaddo Zanovello, Lidia Are Caverni, Eugenio Lucrezi, Loris Maria Marchetti, Annamaria De Pietro, Leopoldo Attolico, Ambra Simeone

picasso astratto musica

picasso astratto musica

 

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonella Zagaroli

“Potrei entrare nel labirinto
in quel vortice dove tutto si confonde
e il bianco accoglie ogni senso,
forse mi scoprirei come sono

nuda vertigine profumata.

Per rivelare la cadenza al ritmo
ti incontrerei sugli scogli, vergine madre mia”.

(1998)

 

“canto e brindo
con chi sa ascoltare nomi in risonanza,
all’orecchio strumento m’inchino.”

Fra tenerezza e turbamento
madre e suo nutrimento,
dai pori della terra semente aria

la maschera ritrova il suo senso,
nella corda d’altalena
nell’occhio della memoria, a schegge:

“Arresa al mondo possibile
dischiudo il crocicchio claustrale
per te, elisir accoccolato entro ogni cunicolo.”
Da Primo alfabeto 2002
È l’ora rosa
rintoccano le foglie
sui dorsi dei cavalli
su pietre che evaporano
vita solitaria,
nella dimora a bocciolo
avanza il centro che accoglie,
lascia inermi.

Dopo gli scrosci al buio
rrurr rrurr rrurr rrurr
la tortora si risveglia alla pienezza.
La riconducono primitive dee
danzando
in mezzo a parole senza pelle.

Dal flauto l’alito cresce alto
sfiora il confine al cielo
ridiscende
lentamente
in ogni organo,
torna a terra in continuità.

Da Venere Minima 2010

 

violino_Barroco

violino_Barroco

Paolo Polvani

La violoncellista

La violoncellista estrae dal pozzo della notte
un alveare volante, le rotaie
della metropolitana, un tonfo,
un garrulo stuolo di cornacchie,
il vento che gonfia le lenzuola, il vento
che fa di marzo un maestro di nitidezze.

L’archetto si profuma di laghi.

La violoncellista ci abitua ad ogni sorta di miracolo marino
la testa gonfia di singhiozzi
percorre le incongruenze delle periferie
i sussulti dei treni inghiottiti dalla nebbia
i tornanti scoscesi dell’amore.

La violoncellista esibisce a volte un sorriso che non è di questo mondo
ricorda le beatitudini del bosco
siepi di rosmarino spalancate sulle palpebre.

Ma io voglio vedere le sue gambe voglio vedere
se l’alba le disegna una città di mare sulla fronte.

Paolo Polvani, Murge 2013

Paolo Polvani, Murge 2013

L’ultima dimora di Tchiajkovski

Di Tchiajkovski abbiamo visto l’ultima dimora
passando in pullman di sfuggita
e ora è qui che ci abbaglia
ci fa lacrimare seduti
e dimenticare che ci ospita la pancia luccicante di un teatro.

Le passeggiate lungo i viali della Neva.
Le bocche che si cercano sono finestre sigillate
che scoprono i denti in un ghigno obliquo.
Queste sono le carezze che distribuisce il violino.

Le pozzanghere riflettono il cielo
di una profonda estate
cielo di velluto e smalto col fiato di uccelli fiduciosi.
Questi sono i vibranti schiaffi dei timpani.

I fulmini che scaglia il flauto si nutrono dei brividi
che costeggiano la vita come un mare perenne,
grigio e tormentato e austero Baltico,
solcato da battelli e dalle barbe dei loro capitani.

I caldi abbracci degli ottoni convergono all’ombra dei palazzi
interrogandosi sulla direzione della notte,
sui messaggi del vento,
sul moto ondoso delle morti e sul brulicante
prato delle rinascite.
Il maestro cavalca l’onda del fiume scintillante
ne conosce le anse fruscianti d’erba, i segreti anfratti,
conosce le carezze dei salici fulgenti.

Ma è il sole che si agita e che ci fa tremare.
L’orchestra invita il sole a splendere più forte.

 

musica tra gli egiziani

 

 

 

 

 

Giuseppina Di Leo

Quaresimale
(pausa)

Chiasmo stupore e sogno.
La lingua balbetta precisi rigori
parole di fiele da stille di miele
suoni d’inverno in converse primavere.

Per due soldi e un rancio di pane
sul punto solleva a gola d’organo
il basso la nota del pianto cattedrale.

(da Slowfeet, Gelsorosso 2010)

giuseppina di leo

giuseppina di leo

Il silenzio, silenzio non è. Se in questo silenzio
si ferma il giorno. Nell’ora della compieta
le parole fanno parentesi graffe
senza testa né coda;
tra riquadri luminosi evidenzia la pietra
i solitari profili umanoidi restano assorti in posa.
Dicono che tutto viene rimandato, pazientemente
separano note taciturne da porre al fondo dell’io
da chissà quale piano virtuale racchiuso dentro.
Ora, che un acuto bizzarro scaccia via anche il sole.

(2010 / 18 giugno 2014)

Stradivari 1681

Stradivari 1681

Lucia Gaddo Zanovello

Volúmine

Tiene cosí alto il tono
questa verità
che assorda
vibrando
tutte le stelle dei sentimenti
che trapungono
di malinconica meraviglia
il cobalto della notte.

Erma salì
profetica e perfetta
èmato enfiando nelle vene
igneo sguardo
a contemplare
l’errante errare
di quest’isola nel mare
che ha radice qui nel centro
dell’abisso che non vedi.

Canta ora con un’eco di risacca
a squarcia fiordo dentro il cuore
della musica interiore

la ridico come posso,
ma è una rana dentro il fosso
che una luna ha tinto in rosso.

(da Memodia, 2003) Continua a leggere

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POESIE INEDITE SUL TEMA DELLA NATURA MORTA di Anna Ventura, Lidia Are Caverni, Paolo Polvani, Eugenio Lucrezi, Franco Fresi, Fortuna Della Porta, Giuseppe Panetta, Corrado Bagnoli, Antonio Spagnuolo, Raffaele Urraro

Magritte elective affinities 1933

Magritte elective affinities 1933

 anna_ventura

Ut pictura poesis. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Ogni natura morta ci parla, parla di noi, che siamo fuori quadro. Essa è assenza che attende la presenza umana, o meglio, è una presenza umana che è scomparsa, ed è rimasta l’assenza. E l’assenza ci parla con il proprio apparire, il proprio essere là.

Anna Ventura

Anna Ventura

Anna Ventura

Il coniglio bianco

C’è un coniglio bianco
sulla mia scrivania. Mentre,con la destra,
scrivo, con la sinistra
mi accerto
che il coniglio stia sempre al posto suo:
c’è.
Perché è di coccio,
pesante come un sasso, e nulla
lo smuoverebbe dalle cose
che tiene ferme col suo peso. Perché
questo è il suo compito:
tenere ferme le cose. Un giorno
avvenne un incantesimo:
il coniglio aveva cambiato consistenza:il pelo
era vero,
bianco, morbido e setoso, la codina
si muoveva.
Ci guardammo negli occhi,
io e il coniglio:
eravamo entrambi vivi,ma
non avevamo sconfitta la paura.

Frida

Quando ti hanno estratta dal forno,
Frida,
intatta come se stessi dormendo,
tutte le tue scimmiette
si sono messe a ridere.
Perché è questo,
il loro modo di piangere.

lidia are caverni l'anno del lupo

lidia are caverni

lidia are caverni

 

Lidia Are Caverni “L’albero di pietra”

(febbraio 2010)

L’albero di pietra non germogliava
foglie né fiori lungo il viale solo
le radici vivevano abbarbicate al suolo
linfa che penetrava il cuore dilatava
le vene da troppo tempo spente arrossava
le guance ridando giovinezza come in una nuova
emozione potevano le mani protendersi rami
d’improvviso ricoperti di verde l’osmosi
era compiuta mancavano gli uccelli
il tenero levarsi del nido.

*

L’albero di pietra recava ferite
le rughe del tempo troppo aveva
vissuto al margine del bosco
sfidato il vento la pioggia folte chiome
fiorite in primavera ambito dagli insetti
colmo di frutti in estate cercato dagli uccelli
era sceso l’oblio la calcificazione del cuore
si era arrestata la linfa che lo rendeva
leggiadro dure cortecce custodivano
il tronco restavano radici il lento ingravidarsi
di terra.

*

L’albero di pietra sfidava il tempo
tacevano gli umori dei rami i nodi che
generavano germogli protendendolo al cielo
non aveva più occhi per guardare
lo svolgere dei giorni le notti fredde
irrorate di stelle gli insetti andavano
altrove il becchettio degli uccelli o nidi
per teneri scoiattoli denti che foravano
boscaglie macchine calpestavano radici
ignorando il suo vivere lo spento fluire di vita.

*

Sull’albero di pietra erano stati
tracciati nomi che il tempo non
cancellava piccoli cuori trafitti
ricordo di antichi amori gelosamente
li custodiva come fosse teca che nel ventre
ospita il frutto da lasciar cadere in estate
perché il suo essere restasse a guardare
radici il timido affiorare del germoglio
che gli avrebbe donato vita silenzioso
scorrendo nel suolo lucido serpente che
la sua preda cerca.

Wallace Stevens Coffee Oranges 

Paolo Polvani

Paolo Polvani

Paolo Polvani

Mela e bottiglia negli occhi di un gatto

Certi giorni la casa approda a un’immobilità perfetta.
Sul tavolo il gatto naufragato nel sonno dischiude
l’incandescenza dello sguardo e nelle pupille nasce
la mela addormentata nel rosso; affoga
dentro un vuoto di parole, un velluto di quiete;
divampa un verde di bottiglia ormeggiato sopra la tovaglia
in un porto privo di suono, muto di onde,
che affonda in una tranquilla polvere.
La casa si nutre del suo silenzio. Angelo
custode è un gatto.

Cosa accade alla casa
quando esco sbattendo la porta

Ci sono parole che ancora volteggiano nell’aria
prima che i loro vuoti involucri si adagino
in un residuo di polvere lungo le pareti.

Piccoli insetti diventano padroni del silenzio.
La poltrona trattiene il vuoto della forma, i quadri
mantengono un rigido riserbo.
Sul pavimento lucido un filo parla la lingua dell’esilio.
La finestra registra il profilo delle nuvole.
Il frigorifero senza preavviso si mette a borbottare.

Si assiste alla declinazione degli oggetti
durante la parabola del sole. Nella luce
si affaccia una pantofola, cerbiatta
timida prossima alla consunzione.

Il suono del postino irrompe nel vuoto della casa,
lo riempie di uno splendido interrogativo.
Il clamore del traffico accarezza le sedie in cucina.

Nei bagni le tubature se ne infischiano delle voci
dei vicini ed emettono brevi gorgoglii, guaiti
appena pronunciati, sospiri, soffi.

Forse risuonano dei passi, forse una vecchia paura
ancora aleggia nelle stanze.
Le tovaglie conservano i loro vividi colori.
Ci sono dita che si attorcigliano all’attesa.

 

Eugenio Lucrezi

Turner alla Tate Britain

In un punto centrale del tragitto
tra il molle autoritratto a ventiquattro
anni e la maschera secca che lo ferma
morto anni dopo e dopo molti venti,
nebbie e tempeste, un acquarello
ritrae due tinche, un persico e una trota
composte in lieto stile e in armonia
di cose morte che sono state vive.
Chiaroscuro aggraziato, quasi non
reminds the gap che esiste tra i due stati.

Ofelia (campanula)

Théodore Agrippa D’Aubrigné, Que de douceurs d’une douleur!

Dopo la brina, dentro la rugiada,
fai capolino, timida campanula,
spunti, reclini il capo e muori, cadi
vivida ancora e vai nella corrente,
povero San Giovanni decollato,
povera Ofelia senza la corona,
non sei bella da morta, né decente,
nessun pittore ravviva la tua grazia,
nessun serto di spine sul tuo capo,
povero fiore, povera campanula!

wallace stevens harmonium 1

Franco Fresi

Franco Fresi

Franco Fresi

Dopo la tempesta.

…e come contraltare
allo scampato pericolo,
il piccolo equipaggio della Roma
80 un freddo sorseggia
torbatino algherese al bar del porto.

Borbotta il mare scampoli di risacca
contro la banchina di ponente.
Non è buono il mare. Né cattivo.
Non pensa. Ci si può innamorare
perdutamente, ma non fidarsene.
Anima ermafrodita lo fa instabile.
Calmo,
può essere felice e generoso,
ma nell’ira il mare è solitario.
Non vuole testimoni alla sua lotta
con il vento, nemico e cantastorie.
Non sopporta
che uomo o elemento
turbi la sua regale indifferenza.

Efisio di Villacidro
li ha dipinti sulla vela
quella paura livida e quel tuono
d’onda. Ne ho colto
di trascorse bonacce il pentimento
e d’altri tùrbini furibonda minaccia.

L’anima vegetale dei colori

Nel ricordo di un’ora di tramonto
il sole rosso come la tua bocca
t’insanguina il sorriso mentre stacchi
dal ramo spoglio l’ultima albicocca. Continua a leggere

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Lidia Are Caverni da “REFOLI DI VENTO” (Poesie inedite, 2014)

 cinese paesaggioLidia Are Caverni, nata a Olbia  il 3/11/41, ha trascorso infanzia e adolescenza a Livorno, da molti anni risiede a Mestre. È insegnante elementare in pensione. Ha pubblicato tredici libri di poesia, tra cui “Un inverno e poi…” 1985; “Nautilus” 1990;  Il passo della dea 1999; Fabulae linguarum 2000; Le montagne di fuoco 2005 con la prefazione di Giorgio Linguaglossa; L’anno del lupo 2006 con la prefazione di Walter Nesti; Animali e linguaggi 2006 con la prefazione di Michele Boato; Il prezzo dell’abbandono 2009 con la prefazione di Pietro Civitareale; Fiore bianco notturno 2010 con la prefazione di Giuseppe Panella; Colori d’alba 2010 con la prefazione di Franco Manescalchi. Racconti: Il giorno di primavera1992; La fucina degli dei 2000; Il satiro e la bambina 2000; L’albero degli aironi 2004; I giorni del breve respiro 2007 racconti autobiografici. Romanzi per l’infanzia: “Clotilde e la bicicletta” 2000; Il pesce verdino 2009. Romanzi:  I giorni dell’attesa col mio libro di Repubblica. Un breve saggio sul linguaggio nella scuola elementare: Discorso sul linguaggio.

 lidia are caverni l'anno del lupo

 

 

 

 

 

 

 

da Refoli di vento

(gennaio-febbraio 2014)

 

Afferra se puoi il refolo di vento
che sul tetto si muove a tormentare
i gatti assetati d’amore voleranno
gli aquiloni là sulla laguna che guarda
Venezia ne approfitteranno i voli
alti di uccelli i cigni che placidi
planano non li degnano neppure
il cormorano che nell’acqua si tuffa
a catturare pesci o la garzetta quieta
solo gabbiani e la tua anima stanca.

Continua a leggere

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ANTOLOGIA V PER IL PARNASO. Antonio Sagredo, Umberto Simone, Gianni Iasimone, Ambra Simeone, Roberto Mosi, Marco Furia, Eugenio Lucrezi, Giorgina Busca Gernetti, Alfredo Rienzi, Lidia Are Caverni

Parnaso 1

 

Antonio Sagredo3

Antonio Sagredo

cinematografo

Al banchetto della sacra mortalità tu volgevi altrove il suo sguardo basedowico.
Avevi nelle mani il cerebro di Dio sezionato allegramente da occhiceruli teologi.
Ricordavi che la giostra del pensiero illumina gli orrori della teofania ultraterrena,
ma con gli occhi di una chiavica tu miri la bellezza delle pellicole impiccate ad una corda.

Ad ogni passo una stazione che rideva… 12 stazioni di applausi, battimani straniati e
3 cadute come esche ad una sarabanda di dèmoni: non c’è sabbia né palme nei deserti!
Il parallelo s’impone, come nei massicci le creste, ai trionfi del rogo dei santi eretici:
stazioni di carbone sono le ossa… la fine è che gli occhi cercano orbite cave! Continua a leggere

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