
Saul Steinberg
Stralci da Giorgio Agamben, Creazione e anarchia, Neri Pozza, 201
Si rifletta sulla natura paradossale dell’ente di ragione chiamato lingua (diciamo «ente di ragione», perché non è chiaro se esso esista nella mente, nei discorsi in atto o solo nei libri di grammatica e nei dizionari). Esso è stato costruito attraverso una paziente, minuziosa analisi dell’atto di parola, supponendo che parlare si possa solo sulla presupposizione di una lingua e che le cose siano sempre già nominate (anche se è impossibile spiegare – se non in modo mitologico – come e da chi) in un sistema di segni che si riferisce potenzialmente e non solo attualmente alle cose […]
Parlare si può solo sulla presupposizione di una lingua, ma dire in un discorso ciò che nella lingua è stato «chiamato» e nominato, questo è propriamente impossibile […] Tutto ciò che conosciamo della lingua, lo abbiamo appreso a partire dalla parola e tutto ciò che comprendiamo della parola lo intendiamo a partire dalla lingua. […]
A questa struttura presupponente del linguaggio corrisponde la particolarità del suo modo di essere, che consiste nel fatto che esso deve togliersi per far essere la cosa nominata. È questa natura del linguaggio che ha in mente Duns Scoto quando definisce la relazione come ens debilissimum e aggiunge che per questo essa è così difficile da conoscere. Il linguaggio è ontologicamente debolissimo, nel senso che non può che sparire nella cosa che nomina, altrimenti, invece di designarla e svelarla, farebbe ostacolo alla sua comprensione. E, tuttavia, proprio in questo risiede la sua potenza specifica – nel suo rimanere impercepito e non detto in ciò che dice… Il non poter dire sé mentre dice altro è la segnatura inconfondibile e, insieme, la macchia originale del linguaggio umano.[…]
E un essere debolissimo è non soltanto il linguaggio, ma anche il soggetto che in esso si produce e di esso deve in qualche modo venire a capo. Una soggettività nasce, infatti, ogni volta che il vivente incontra il linguaggio, ogni volta in cui dice «io». Ma proprio perché si è generato in esso e attraverso di esso, è così arduo per il soggetto afferrare il proprio aver luogo. D’altra parte il linguaggio – la lingua – non vive e si anima che se un locutore lo assume in un atto di parola. […]

Foto Bauhaus
*
Il linguaggio è nella voce, ma non è la voce: è nel luogo e in luogo di essa. Per questo Aristotele, nella Politica (1253 a 10-18), oppone esplicitamente la phoné animale, che è immediatamente segno del piacere e del dolore, al logos umano, che può manifestare il giusto e l’ingiusto, il bene e il male e sta a fondamento della comunità politica. L’antropogenesi ha coinciso con una scissione della voce animale e col situarsi del logos nel luogo stesso della phoné. Il linguaggio ha luogo nel non-luogo della voce e questa situazione aporetica è ciò che lo rende vicinissimo al vivente e, insieme, separato da questo da una incolmabile distanza. […]
*
Nell’istante dell’enunciazione il linguaggio non si riferisce a nessuna realtà lessicale né al testo dell’enunciato, ma unicamente al proprio aver luogo. Esso fa riferimento soltanto al suo aver luogo nel togliersi della voce, si tiene in relazione negativa con la voce che, secondo il mito, sparendo, gli dà luogo.
Se questo è vero, allora possiamo definire il compito della filosofia come il tentativo di esporre e di fare esperienza di quel factum che la metafisica e la scienza del linguaggio devono limitarsi a presupporre, di prendere, cioè, coscienza del puro fatto che si parli e che l’evento di parola accade al vivente nel luogo della voce, ma senza che nulla lo articoli a questa. Dove voce e linguaggio sono a contatto senza alcuna articolazione, là avviene un soggetto, che testimonia di questo contatto. Il pensiero che voglia rischiarsi in questa esperienza deve situarsi risolutamente non solo nello iato – nel contatto – fra lingua e parola, semiotico e semantico, ma anche in quello fra la phoné e il logos. Il pensiero, che – fra la parola e la lingua, l’esistenza e l’essenza, la potenza e l’atto – si rischia in questa esperienza deve accettare di trovarsi ogni volta senza lingua di fronte alla voce e senza voce di fronte alla lingua.[…]
*
«La crisi che l’Europa sta attraversando non è un problema economico (“economia” oggi è una parola d’ordine e non un concetto), bensì una crisi del rapporto col passato. Poiché ovviamente il solo luogo in cui il passato può vivere è il presente, e se il presente non sente più il proprio passato come vivo, le università e i musei diventano luoghi problematici. E se l’arte è diventata oggi per noi una figura – forse la figura – eminente di questo passato, allora la domanda che occorre non stancarsi di porre è qual è il luogo dell’arte nel presente?…
L’espressione “archeologia dell’opera d’arte” presuppone quindi che il rapporto con l’opera d’arte sia diventato oggi stesso un problema. E poiché io sono convinto, come Wittgenstein suggeriva, che i problemi filosofici siano in ultima analisi domande sul significato delle parole, ciò vuol dire che il sintagma “opera d’arte” è oggi opaco, se non inintellegibile, e che la sua oscurità non riguarda soltanto il termine “arte”, che due secoli di riflessione estetica ci hanno abituato a considerare problematico, ma anche e innanzitutto il termine in apparenza più semplice di “opera”. Persino da un punto di vista grammaticale il sintagma “opera d’arte”, che usiamo con tanta disinvoltura, non è facile da intendere, poiché non è affatto chiaro se si tratti di un genitivo soggettivo (l’opera è fatta dall’arte e appartiene a essa) o oggettivo (l’arte dipende dall’opera e riceve da essa il suo senso). In altre parole, se l’elemento decisivo sia l’opera o l’arte, o un loro non meglio definito miscuglio, e se i due elementi procedano in armonico accordo o siano piuttosto in una relazione conflittuale».3 […]
Sia, nel Timeo, la definizione del terzo genere dell’essere, accanto al sensibile e all’intellegibile, che Platone chiama Chora. Essa è il ricettacolo o un porta-impronte che offre un luogo a tutte le forme sensibili, senza, però, mai confondersi con queste. Essa non è né propriamente sensibile, né propriamente intellegibile, ma viene percepita come in sogno «con un ragionamento bastardo, accompagnato da assenza di sensazione». Se… consideriamo la voce come chora della lingua, essa non sarà pertanto legata grammaticalmente a questa in un rapporto di segno né di elemento: essa è, piuttosto, ciò che, nell’aver-luogo del logos, percepiamo come irriducibile ad esso, come l’inesperibile (apeiron) che incessantemente l’accompagna e che, né puro suono né discorso significante, percepiamo all’incrocio fra questi con una assenza di sensazione e con un ragionamento senza significato. Abbandonando ogni mitologia fondativa, possiamo allora dire che, in quanto chora e materia, essa è una voce che non è mai stata scritta nel linguaggio, un in-scrivibile che, nell’incessante tramandamento storico della scrittura grammaticale, resta ostinatamente tale. Tra il vivente e il parlante non vi è alcuna articolazione. La lettera – il gramma, che pretende di porsi come l’esser stata, come la traccia della voce – non è nella voce né il luogo di questa.
L’antico dissidio fra poesia e filosofia deve allora essere pensato da capo in questa prospettiva. Nel pensiero del ‘900, la separazione fra questi due discorsi – e, insieme, il tentativo di riunirli – ha raggiunto la sua tensione massima: se, da una parte, la logica ha cercato di purificare la lingua da ogni ridondanza poetica, non sono mancati, dall’altra, filosofi che hanno invocato la poesia là dove sembrava che i concetti risultassero insufficienti… poesia e filosofia rappresentano piuttosto due tensioni inseparabili e irriducibili all’interno dell’unico campo del linguaggio umano e, in questo senso, finché ci sarà linguaggio, ci saranno poesia e pensiero. La loro dualità testimonia, infatti, ancora una volta della scissione che, secondo la nostra ipotesi, si è prodotta nella voce, al momento dell’antropogenesi, tra ciò che restava del linguaggio animale e la lingua che si andava costruendo in suo luogo come organo del sapere e della conoscenza.
Come ha scritto Wittgenstein, «la filosofia la si dovrebbe propriamente soltanto poetare», a condizione di aggiungere che la poesia la si dovrebbe propriamente soltanto filosofare. La filosofia è sempre e costitutivamente filosofia della – genitivo soggettivo – poesia e la poesia è sempre e originariamente poesia della filosofia.[…]
*
Noi parliamo sempre all’interno del linguaggio e attraverso il linguaggio e parlando di questo o di quell’argomento, predicando qualcosa di qualcosa, dimentichiamo ogni volta il semplice fatto che ne stiamo parlando. Nell’istante dell’enunciazione, tuttavia, il linguaggio non si riferisce a nessuna realtà lessicale né al testo dell’enunciato, ma unicamente al proprio aver luogo. Esso fa riferimento soltanto al suo aver luogo nel togliersi della voce, si tiene in relazione negativa con la voce che, secondo il mito, sparendo, gli dà luogo..
Se questo è vero, allora possiamo definire il compito della filosofia come il tentativo di esporre e di fare esperienza di quel factum che la metafisica e la scienza del linguaggio devono limitarsi a presupporre, di prendere, cioè, coscienza del puro fatto che si parli e che l’evento di parola accade al vivente nel luogo della voce, ma senza che nulla lo articoli a questa. Dove voce e linguaggio sono a contatto senza alcuna articolazione, là avviene un soggetto, che testimonia di questo contatto. Il pensiero che voglia rischiarsi in questa esperienza deve situarsi risolutamente non solo nello iato – nel contatto – fra lingua e parole, semiotico e semantico, ma anche in quello fra la phoné e il logos. Il pensiero, che – fra la parola e la lingua, l’esistenza e l’essenza, la potenza e l’atto – si rischia in questa esperienza deve accettare di trovarsi ogni volta senza lingua di fronte alla voce e senza voce di fronte alla lingua.[…]
*
«Contemplazione e inoperosità sono gli operatori metafisici dell’antropogenesi, che, liberando il vivente uomo da ogni destino biologico o sociale e da ogni compito predeterminato, lo rendono disponibile per quella particolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare “politica” e “arte”. Politica e arte non sono compiti né semplicemente “opere”: esse nominano, piuttosto, la dimensione in cui le operazioni linguistiche e corporee, materiali e immateriali, biologiche e sociali vengono disattivate e contemplate come tali.
Spero che a questo punto ciò che intendevo parlando di una “poetica dell’inoperosità” sia in qualche modo più chiaro. E, forse, il modello per eccellenza di questa operazione che consiste nel rendere inoperose tutte le opere umane è la stessa poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non un’operazione nel linguaggio, che ne disattiva e rende inoperose le funzioni comunicative e informative, per aprirle a un nuovo, possibile uso? O, nei termini di Spinoza, il punto in cui la lingua, che ha disattivato le sue funzioni utilitarie, riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire. In questo senso, la Commedia o i Canti o Il seme del piangere sono la contemplazione della lingua italiana, la sestina di Arnaut Daniel la contemplazione della lingua provenzale, Trilce e i poemi postumi di Vallejo la contemplazione della lingua spagnola, le Illuminazioni di Rimbaud la contemplazione della lingua francese, gli Inni di Hölderlin e le poesie di Trakl la contemplazione della lingua tedesca.
E ciò che la poesia compie per la potenza di dire, la politica e la filosofia devono compiere per la potenza di agire. Rendendo inoperose le operazioni economiche e sociali, esse mostrano che cosa può il corpo umano, lo aprono a un nuovo possibile uso».4 […]

«Anche la lingua – in particolare nella figura della lingua materna – si presenta per ciascun parlante come ciò che vi è di più intimo e proprio; e, tuttavia, parlare di una “proprietà” e di una “intimità” della lingua è certamente fuorviante, dal momento che la lingua avviene all’uomo dall’esterno, attraverso un processo di trasmissione e di apprendimento che può essere arduo e penoso ed è piuttosto imposto all’infante che da lui voluto. Mentre il corpo sembra particolare a ciascun individuo, la lingua è per definizione condivisa da altri e oggetto, come tale, di un uso comune. Come la costituzione corporea secondo gli stoici, la lingua è, cioè, qualcosa con cui il vivente deve familiarizzarsi in una più o meno lunga oikeiosis, che sembra naturale e quasi congenita; e tuttavia – come testimoniano i lapsus, i balbettamenti, le improvvise dimenticanze, le afasie – essa è e resta sempre in qualche misura estranea al parlante.
Ciò è tanto più evidente in coloro, i poeti il cui mestiere è appunto quello di padroneggiare e far propria la lingua. Essi devono, per questo, innanzitutto abbandonare le convenzioni e l’uso comune e rendersi, per così dire, straniera la lingua che devono dominare, iscrivendola in un sistema di regole arbitrarie quanto inesorabili – straniera a tal punto che, secondo una tenace tradizione, non sono essi a parlare, ma un principio altro e divino, la musa, che preferisce il poema a cui il poeta si limita a prestare la voce. L’appropriazione della lingua che essi perseguono è, quindi, nella stessa misura un’espropriazione, in modo che l’atto poetico si presenta come un gesto bipolare, che si rende ogni volta estraneo ciò che deve essere puntualmente appropriato.
Possiamo chiamare “stile” e “maniera” i modi in cui questo duplice gesto si segna nella lingua. Occorre qui abbandonare le consuete rappresentazioni gerarchiche, per cui la maniera sarebbe una perversione e una decadenza dello stile, che le resterebbe per definizione superiore. Stile e maniera nominano piuttosto i due poli irriducibili del gesto poetico: se lo stile ne segna il tratto più proprio, la maniera registra un’inversa esigenza di espropriazione e in appartenenza. Appropriazione e disappropriazione vanno qui prese alla lettera, come un processo che investe e trasforma la lingua in tutti i suoi aspetti.
[…]
Negli ambiti in cui il concetto di maniera è stato definito con più rigore (la storia dell’arte e la psichiatria) esso designa un processo bipolare: è insieme, eccessiva adesione adesione a un uso o a un modello (stereotipia, ripetizione) e impossibilità di identificarsi veramente con esso (stravaganza, unicità). Così, nella storia dell’arte, il manierismo presuppone la conoscenza di uno stile a cui si vuole a ogni costo aderire e che si cerca, invece, più o meno inconsciamente di evitare attraverso la sua esagerazione».4
*
«Vorrei ora concludere la mia breve archeologia dell’opera d’arte suggerendo di abbandonare la macchina artistica al suo destino. E, con essa, di abbandonare anche l’idea che vi sia qualcosa come una suprema attività umana che, tramite un soggetto, si realizza in un’opera o in un’energeia che traggono da essa il loro incomparabile valore. Ciò implica che si disegni da capo la mappa dello spazio in cui la modernità ha situato il soggetto e le sue facoltà.
Artista o poeta non è colui che ha la potenza o facoltà di creare, che un bel giorno, attraverso un atto di volontà o obbedendo a un’ingiunzione divina (la volontà è, nella cultura occidentale, il dispositivo che permette di attribuire le azioni e le tecniche in proprietà a un soggetto), decide, come il Dio dei teologi, non si sa come e perché, di mettere in opera. E, come il poeta e il pittore, così il falegname, il calzolaio, il flautista e, infine, ogni uomo, non sono i titolari trascendenti di una capacità di agire o di produrre opere: sono, piuttosto, dei viventi che, nell’uso e soltanto nell’uso delle loro membra come del mondo che li circonda, fanno esperienza di sé e costituiscono sé come forme di vita.
L’arte non è che il modo in cui l’anonimo artista, mantenendosi costantemente in relazione con una pratica, cerca di costituire la sua vita come una forma di vita: la vita del pittore, del falegname, dell’architetto, del contrabbassista, in cui, come in ogni forma-di-vita, è in questione nulla di meno che la sua felicità.»5
3 G. Agamben, Creazione e anarchia, Neri Pozza, 2017 p. 10,11
4 Ibidem, pp. 50, 51
5 Ibidem, pp. 27, 28
Gino Rago
La poesia, la caccia, la parola-preda
Caro Signor G. R.
sono Jolanda W., di nuovo irrompo nella Sua vita
senza preavviso.
La Signora Lipska è sempre in giro
ma ha lasciato un biglietto.
Mi prendo la libertà di spedirlo
all’indirizzo riservato che è qui, sulla sua scrivania.
Forse la Signora desidera dare a Lei
il suo manifesto poetico.
Lo conosco da tempo, glielo anticipo.
Per la Signora
la poesia è andare a caccia,
un’orma dopo l’altra
con i battitori dietro i latrati delle parole.
[…]
So che Lei e il Suo amico di Istanbul
seguite nei versi
la rapace fonetica del bosco,
ma con il colpo in canna.
[…]
Tenete nel mirino del fucile la parola-preda,
inseguite la lingua
ma mai nel sottobosco romano o milanese.
Riconosciuta la parola prendete la mira,
sparate, la preda mirata è là,
ridotta in polvere
(le parole non tenute sotto mira si disperdono)
.
Mario M. Gabriele (inedito di prossima pubblicazione)
Il tempo riannodò i fili della memoria.
Uscimmo per andare ai magazzini Spandau.
Negli scaffali trovammo mostrine delle Schutzstaffel
e l’ultima edizione del Die Tageszeitung.
Un giovane livoriano lasciò i Tamburi nella notte.
Non fu facile tornare a casa.
Il triciclo portava fiori a Shiva
per una grazia a Geltrude Bisleri.
Oh mammy, ora puoi salire sul Machu Picchu
e parlare con le colombe!
La ragazza sul treno adescava il Quinto Evangelio.
Al Savoia tornarono i ballerini di Grease.
Si sta in attesa di Hamm e Clov.
Beltrand si agita. Chiama un rom.
Gli dice di tenere tranquilla la notte.
Un puma fuggì dalla gabbia.
Questa volta non lo prenderemo. Ci sono alberi e querce
lupi e trappole nel bosco, dissero i guardiani.
La linea della vita
è rimasta nella mano come una cicatrice.
Cara Dolin ricordarti è stato sfogliare un album
con il rottweiler a guardia dei tuoi piercing.
Giorgio Linguaglossa
62 compresse di lipofil
… il sombrero verde brillante con nastri blu
qualcuno lo aveva mandato via posta
alla sorella di Cogito, Tatiana, in un pacco decorato
con foglie di acanto ed iris…
lo vidi poi sui capelli di Madame Hanska
mentre suonava il pianoforte nel boudoir, intorno le case
bruciavano tra i lampi… «Sua Altezza può provarlo»,
disse il maggiordomo, lo ripetè in tedesco
«Durchlaucht können anprobieren!»…
l’ampia vetrata ricamata dava sul giardino in fiamme.
«Fumo soltanto le Astor con filtro», replicò il tenente
mentre piegava il biglietto tra le dita,
«tutto è perduto, tranne l’onore,
o forse anche quello…»; «chiudi la porta, Hans»,
«non so, non saprei, ciò che resta lo fondano i poeti.
chiudi sempre la porta alle spalle,
c’è sempre una porta, da qualche parte
che rimane aperta, chiudila, sempre…».
[…]
Uno sparato bianco fa ingresso dalla vetrata aperta
sul giardino. È il Signor K., una camelia sul petto:
«un tempo si cadeva verticalmente,
adesso invece si cade da tutte le parti, con predilezione
per la parte orizzontale, egregio Herr Cogito,
il secchio dell’immondizia è la mia poetica»; detto ciò
il Signor K., come era venuto, sparì dietro lo stipite
della porta in una nuvola di coriandoli.
[…]
… l’ultima volta che lo vidi fu a Marsiglia,
all’hotel “Bella vista” in compagnia di H.; mi domandò:
«se tutto va storto, hai qualcosa da perdere?».
In quei giorni noi tutti avevamo qualcosa da prendere…
gli mostrai le tasche: «sì, ho 62 compresse di lipofil,
possono bastare?»;
il giorno prima della mia partenza, lo salutai alla stazione
«non dimenticare di prenderle»,
gli sussurrai all’orecchio…
.
Lucio Mayoor Tosi
Cézanne
Dentro spazi regolari, Cézanne inizia
la scansione del tempo.
Le parole suore avanzano serie. Quei colori
cosa vorrebbero dire?
L’incubo di una ricerca senza scampo.
Siamo alla fine di una storia. Ma non la conosco.
Mi chiamano Cézanne perché mi vogliono bene.
In realtà io dipingo solo mattonelle
frammenti di giudizio universale. Non conosco
l’imputato. A volte sono foglie, marine, fichi
di una pianta di mimose. Percezioni, lampi
di comprensione. Il mondo si attorciglia
selvatico nell’equilibrio. Il tempo cambia colore
quando passa da una dimensione all’altra.
…
A cento metri da dove mi trovo adesso
una muraglia di nero infinito.
Il locale resterà aperto “fino alle ventuno”.
Uno, due al bar. Poi se ne parte una motocicletta.
Scintilla il traffico in lontananza. Resta
una foresta di rumori acquatici.
Singhiozzi di una poesia scritta in rosso:
Ricordo le scale, il ballatoio.
Te non ti si vede.
C’è dell’acqua. Oltre il bicchiere un filare
di alberi in controluce.
Disegno l’abbozzo di uno sguardo tra le guance.
Mi portano un vassoio con prese della corrente.
Città sospesa. Navi nell’ombra.
Il quarto fiammifero. La buia notte dei mutanti.
(may – gen 2019)
Eugenio Lucrezi, Tre poesie da Bamboo Blues, nottetempo Milano, 2018 pp. 92 € 10 con Poesie di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Dialoghi e commenti degli interlocutori, Mario M. Gabriele, Alfonso Cataldi, Giorgio Linguaglossa
Leggendo questo libro di Eugenio Lucrezi, mi è venuto in mente che avevo dimenticato di dire qualcosa, che avrei voluto dire qualcosa di importante… ma forse non era così importante come credevo; in fin dei conti a chi si rivolge questo libro di Eugenio Lucrezi che ha per titolo Bamboo Blues? Credo a nessuno. E questa è forse la posizione privilegiata per un libro di poesia: non dover accordare nulla a nessuno, non dover venire a patti con nessuno, non dare credito a nessuno, essere liberi come un uccello. Le parole che utilizza il poeta napoletano sono per lo più parole desuete e povere con l’accompagno del timbro sonoro di una antica tradizione che si è dissolta.
Ho dimenticato di dire che una «patria metafisica delle parole» la può costruire soltanto una tribù. Non sta al poeta, seppur di rango, costruire una patria metafisica, questi non può che accostumarsi ad impiegare le parole che trova già pronte, quelle della barbarie, le parole che un poeta non dovrebbe mai accettare di dover pronunciare.
Ma mi chiedo se, nell’epoca della seconda barbarie, la nostra, sia ancora possibile costruire una patria metafisica delle parole. Con le parole di Marcuse:
«È possibile che la seconda epoca di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».
Non so se Eugenio Lucrezi abbia tenuto in mente questa massima di Marcuse dei primi anni Sessanta ma credo che in qualche modo si riconoscerà in quelle parole del filosofo tedesco.
La pagina finale di Dialettica negativa di Adorno (Verlag, 1966, trad it. Einaudi, 1970, p. 369) recita così:
«Ciò che recede diventa sempre più piccolo… diventa sempre più impercettibile; per questo motivo di critica della conoscenza e di filosofia della storia la metafisica trapassa in micrologia. Questo è il luogo della metafisica come riparo dal totale. Nessun assoluto è esprimibile se non in materiali e categorie dell’immanenza, mentre tuttavia né questa nella sua contingenza né la sua essenza totale devono essere idolatrati. Secondo il suo stesso concetto la metafisica non è possibile come connessione deduttiva dei giudizi sull’essente. Altrettanto poco può essere pensata in base al modello di un assolutamente diverso, che irriderebbe terribilmente al pensiero. Quindi essa sarebbe possibile solo come costellazione decifrabile dell’essente, da questo riceverebbe il suo materiale, senza il quale non sarebbe, non trasfigurando però l’esistenza dei suoi lamenti, ma conducendoli invece ad una configurazione, in cui essi si comporterebbero in scrittura. A questo fine la metafisica deve intendersi del desiderare. Che il desiderio sia un cattivo padre del pensiero è fin da Senofane una delle tesi centrali dell’illuminismo europeo, ed essa vale ancora senza restrizioni di fronte ai tentativi di restaurazione ontologica. Ma il pensare, esso stesso un comportamento, contiene in sé il bisogno – e in primo luogo l’affanno. Si pensa a partire dal bisogno, anche quando si rifiuta lo wishful thinking. Il motore del bisogno è quello dello sforzarsi, che implica il pensare come fare. Oggetto della critica è quindi non il bisogno nel pensare, ma il rapporto tra i due. Il bisogno nel pensare esige però che si pensi. Esige la sua negazione per mezzo del pensare, deve scomparirvi, se vuole realmente soddisfarsi, e in questa negazione gli sopravvive, rappresenta nella più intima cellula del pensiero ciò che non gli è simile. I minimi tratti intramondani sarebbero rilevanti per l’assoluto, perché lo sguardo micrologico frantuma il guscio dell’impotentemente isolato in base al concetto superiore, che lo sussume, e fa saltare la sua identità, l’inganno che esso sia meramente esemplare. Tale pensiero è solidale con la metafisica nell’attimo della sua caduta.»
Qui c’è in evidenza l’aporia del pensiero nell’atto che si pensa, che pensa il suo oggetto, che esige la sua negazione, ovvero, il suo annullamento, il suo obnubilarsi, il suo inabissarsi per rinascere in un nuovo pensiero… Ecco, credo che la poesia debba pensare il suo oggetto, debba cercarlo con tutte le forze, altrimenti rischia di essere mera esternazione soggettiva del non-pensiero, del wishful thinking. Perché, sia chiaro, la poesia è pensiero, pensiero pensante, pensiero, come si dice oggi, poetante.
una «patria metafisica delle parole» la può costruire soltanto un uomo della tribù
Tre poesie di Eugenio Lucrezi
Angelo del Pontormo
Nube. Nubesco. Potenza delle ali.
Testa rivolta ai venti della volta.
Un gran soffione d’aria nel vestito.
Sono nube di guerra. Non sorrido.
Vento che ti schiaffeggia. Non mi vedi.
Arrivo nel gran peso delle ossa.
Non c’è buco che tenga la caduta.
Angelo dell’intonaco, sono orma
della grazia sul ponte, sono inchino
di veleggi rigonfi al paradiso
chiuso nella navata.
Bamboo Blues
Non credo a quel che vedo, la fotografia
scattata quasi a caso, di pomeriggio,
a te che prendi il vento negli ariosi
capelli, e ad Agropoli muovi un impercettibile
passo di danza, torcendo
appena un poco il busto mentre alzi
le braccia all’altezza del viso che si profila
di spalle nel cielo caricato
di sole e di calante azzurrità commossa
e respirante fiati e fiati di vite
diffuse e riposanti nei filacci
d’estate, ad occhi chiusi a fresco,
in memoria del mare,
con le ascelle che bevono luce
moderata alla fine, che accoglie
la grazia del tuo passo, e di tuo figlio
che ti guarda da presso,
dice l’amore incredulo che piangi
a Pina in un istante, e sei tutta
abbraccio intorno al nulla, concentrata.
Angelo
Essere un angelo ha un costo, le ali,
con l’esistenza che pesa e non vuole
saperne di levarsi, fanno solo
rumore, un fastidioso
frullare con affanno inconcludente.
Fare l’angelo costa, a te hanno dato
l’intera paga, il soldo del soldato
celeste. Raramente
ti sei mossa da terra, la tua grazia
cozzava sul soffitto della stanza.
Il soldo lo hai tenuto in un cassetto,
la luce che emanavi rifletteva
raggi infiniti contro la parete
trasparente della finestra.
Frullare d’ali nella cameretta.
Sorella lieve raggiungi la tua schiera.
Eugenio Lucrezi, di famiglia leccese, è nato nel 1952, vive a Napoli. Ha pubblicato cinque libri di poesia:
– Arboraria, Altri termini, Napoli 1989;
– L’air, Anterem, Verona 2001;
– Freak & Boecklin (con Marzio Pieri), Morra-Socrate, Napoli 2006;
– Cantacaruso : Lenonosong (con Marzio Pieri), libro + CD musicale, La finestra, Lavis, Trento 2008;
– Mimetiche, Oedipus, Salerno-Milano 2013.
Ha pubblicato il romanzo Quel dì finiva in due, Manni, Lecce 2000.
Suoi testi sono presenti in libri collettivi e antologie:
– Poeti degli anno ’80, a cura di Renzo Chiapperini, Levante, Bari 1993;
– Poesia in Campania, a cura di Ciro Vitiello, in Novilunio, anno 3°-4°, Zurigo 1993-1994;
– Attraversamenti, a cura e con fotografie di Donatella Saccani, Di Salvo, Napoli 2002:
– Le strade della poesia, a cura di Ugo Piscopo, Guardia dei Lombardi, 2004; e poi a cura di Domenico Cipriano, edizioni delta3, Grottaminarda 2011, 2012 e 2013;
– Il racconto napoletano, a cura di Ciro Vitiello, Oèdipus, Salerno-Milano, 2005;
– Portfolio Lo stormo bianco, a cura di Nietta Caridei, Giancarlo Alfano, Gabriele Frasca, d’if, Napoli 2005;
– Una piazza per la poesia, Il portico, Napoli 2008;
– Mundus, a cura di Ariele D’Ambrosio e Mimmo Grasso, Valtrend, Napoli 2008;
– Registro di poesia n°2, a cura di Gabriele Frasca, d’if, Napoli, 2009;
– A ritmo di jazz, a cura di Fabio G. Manganaro, edizioni blu, Torino 2009;
– Accenti, a cura di Enrico Fagnano, edizioni del comitato Dante Alighieri, Napoli 2010;
– Frammenti imprevisti, a cura di Antonio Spagnuolo, Kairos edizioni, Napoli 2011;
– ALTEREGO poeti al MANN, a cura di Marco De Gemmis e Ferdinando Tricarico, Arte’m, Napoli 2012;
– L’evoluzione delle forme poetiche, a cura di N. Di Stefano Busà e di A. Spagnuolo, Kairos, Napoli 2013;
– In forma di scritture, a cura di Carlo Bugli, Pasquale Della Ragione, Giorgio Moio, Riccardi, Quarto, 2013;
– Una piuma per Alda, Il laboratorio di Nola, Nola 2013;
– Virtual Mercury House, di Caterina Davinio, Polimata, Roma 2013;
– La memoria, primo quaderno del Premio Alessandro Tassoni, a cura di Nadia Cavalera, e-book Calameo, Modena 2013.
Giorgio Linguaglossa
31 luglio 2018 alle 12:35
Ricevo da Gino Rago questa 16ma lettera a Ewa Lipska
Sedicesima Lettera a Ewa Lipska
[la vita nelle torte]
Cara M.me Hanska,
i poeti hanno dato scacco matto al tedio di Dio,
uno di loro ha scritto in un suo verso:
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra…»
Al Quirinale, l’orologio ad acqua,
sul Tevere la voce dei cesari.
Non dia retta a chi ha scritto:
«chi penetra il mistero della lingua trova la sua patria»,
a Cracovia i poeti non sono barometri.
[…]
Due donne. Rossetto e trucco. Aspettano l’alba
nello specchietto retrovisore.
Caffè di Graz, fette di Wiener apfelstrudel.
La megera vive accanto al Blumenstrasse,
in un appartamento al secondo piano.
Dice di essere Madame Hanska, quella de Il tedio di Dio.
Sono vittime del blues:«Lasceremo Vienna,
andremo a Linz, o forse a Salisburgo».
Dallo specchio, una voce: «Mangerete
una Linzetorte o una Mozartkugel?».
«Tutte e due, lo sa, il segreto della vita
è nelle torte». Continua a leggere →
17 commenti
Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, Senza categoria
Con tag Adorno, Alfonso Cataldi, Dialettica negativa, Dialoghi e commenti, Enrico Castelli Gattinara, Eugenio Lucrezi, giorgio linguaglossa, Joseph Roth, Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami giù nel profondo dove l’Atlantico è nero, Lucio Mayoor Tosi, Marcuse, Mario M. Gabriele, Mauro Pierno, nuova ontologia estetica, Pensare l’impensato nella nuova forma-poesia, POESIE di Gino Rago, Sedicesima Lettera a Ewa Lipska, Tomas Tranströmer, Tre poesie da Bamboo Blues, vincenzo mascolo