
Marie Laure Colasson Abstract
Francesco Paolo Intini
Dedalo, il Minotauro, Guantanamo
Percorrere la via della poesia ha senso solo se ci si mette in ascolto del nuovo che affiora dalla società di cui si è figli.
La bambina di fronte al quadro di Picasso crescerà col sospetto che qualcosa nel bel racconto di mamma e papà non funziona.
Gli occhi fuori posto evidentemente stravolgono le regole comuni e collocano l’autore tra i pazzi abitatori di questo pianeta.
La follia di gruppo però non è la stessa del singolo che pensa di essere Napoleone Bonaparte.
Come spiegare infatti, la pletora di artisti che fa squarci nella tela o allunga il collo oltre ogni misura o il ready made che annienta d’un colpo qualunque accomodamento al piacere retinico e punta invece alla mente.
La partecipazione ai fatti della mente dunque, il cui modus operandi assomiglia a quello di Dedalo. Da par suo il costruttore di labirinti non dà alcuna chance alla bestia ospite.
Che altra immagine per il linguaggio?
Quante porte apre una parola?
Tutto per intrappolare il Minotauro, figlio di una passione inconfessabile che rigetta i protagonisti nella bestialità della forza bruta.
Chernobyl e Minotauro soggiornano nel fondo dell’umanità ma le cautele della ragione sono anche le sue conquiste.
E questo poter distruggere ogni cosa non sa che farsene di Icaro che gli si oppone con un volo imprudente, troppo vicino al Sole, che rappresenta il livello altissimo delle forze in gioco.
Le stesse che bisognerà affrontare e comprendere non con le ali della fantasia ma con quelle dell’immaginazione, della misura e dell’ingegno.
Tutto ciò impone la creazione di modelli, le teorie da confermare o falsificare, il lavoro ostinato alla catena di montaggio degli specialisti del calcolo scientifico.
Lo sforzo è titanico ma probabilmente pone la mente al servizio della Natura per accelerarne il decorso e superare i limiti delle leggi del caso.
Quanto tempo è occorso per sintetizzare l’Uranio? Quanto invece per un atomo di Darmstadio?
Se la tavola periodica è il DNA dell’universo, l’ultima parte di essa rappresenta la differenza tra l’operare secondo le leggi del caso e quelle dell’immaginazione scientifica.
In questa ottica Dedalo continua a costruire i suoi labirinti.
Il poeta crea nuove possibilità, tirandole fuori dal fuoco dell’intuito, complica sempre di più il tracciato per essere all’altezza di una bestia che talvolta si fa tirannia e campi di sterminio, ma sempre più spesso utilizza le armi del mimetismo per starci addosso e persuaderci che questo è l’unico modello di società possibile.
Auschwitz e Guantanamo, campi libici e Pinochet stanno accanto alle ragioni del mercato.
Mentre Icaro vola con la sua fantasia inutilmente spiegando ali senza futuro se non per una malinconica impotenza contro il dolore o la dolcezza di un ricordo, di quando sembrava possibile commuovere le pietre scagliate per uccidere il suonatore di cetra.
Il riemergere costante della bestialità, la sua onnipresenza invasiva mette invece all’ordine del giorno il bisogno non di cera che impasta le ali ma di nuovi materiali a base di ciò che nel frattempo è entrato nell’universo.
E dunque è il livello di scontro ad imporre la ricerca dell’indicibile che nasce dagli oggetti stessi, come qualcosa che si può ascoltare a condizione che il proprio Io si faccia da parte in quanto già compromesso, già solleticato in mille modi dai processi di reificazione e dunque non pìù credibile.
Giorgio Linguaglossa
Su una poesia di Giuseppe Talìa
Vorrei dire qualcosa sulla indubbia genialità della poesia di Giuseppe Talìa, anzi, sulla lettera che il personaggio Talìa invia a tale «Germanico». Per informazione del lettore diremo che questa fa parte di un gruppo di poesie inviate da tale Talìa al generale Germanico Comandante delle legioni del Nord.
Ma qual è il punto? Di che cosa qui è questione? Si tratta di una poesia di carattere storico? Si tratta di una allegoria? Di un pastiche? O che altro diavolo non so, non saprei, ma so per certo che qui Talìa ha messo in atto in modo brillantissimo l’idea della de-soggettivazione del soggetto e dello spostamento-collisione dei piani di elocuzione. Il soggetto non c’è, o meglio, il soggetto che legifera sulla poesia e nella poesia c’è e non c’è, è, in verità si tratta di una finzione. Quel soggetto che scrive a Germanico è una finzione, un falso, ecco il punto. E preso atto di questo assunto, la composizione prosegue senza offrire al lettore alcun appiglio di sicurezza intorno a ciò di cui si dice. O meglio: ciò di cui si dice lo si dice in modo tale da smentire ciò di cui si dice, e smentire anche il modo con cui si dice. Doppio effetto di straniamento, quindi, ma trattato in modo nuovissimo, da farlo sembrare un gioco o uno scherzo.
È che tutta la composizione ha l’aria di prendere in giro il lettore, e invece si tratta di una cosa serissima, la vera questione è che ciò di cui si dice non corrisponde affatto al modo con cui si dice, si verifica qui uno scollamento, una distanza tra i due fattori del discorso poetico, e la poesia contiene in sé i due piani del discorso facendoli friggere e collidere l’uno contro l’altro, il fattore serioso e il fattore derisorio.
La composizione assume la forma di una lettera ad un destinatario. Facciamo un passo indietro. È accaduto questo, che nel corso di questi ultimi decenni le «forme» sono scomparse, inabissate, frantumate, e chi voglia scrivere una poesia deve fare i conti con questo semplice problema: quale «forma» adottare con la mia poesia se tutte le «forme» sono inutilizzabili e sono state fatte affondare? È ovvio che per dire qualcosa di nuovo in poesia si deve individuare una «forma» con la quale dirla, una «forma» superstite, una sopravvissuta, magari un fantasma di «forma» o una finzione di «forma». Avviene così che Talìa, in mancanza di meglio, è costretto a rivolgersi alla forma più antica da quando esiste la scrittura: le forma-missiva. In tal modo risolve il problema della «forma».
Ma c’è anche un secondo problema che Talìa deve affrontare, e non piccolo: in quale stile si deve scrivere? Ecco. Un poeta meno dotato adotterebbe la forma-non-forma narrativa del raccontino con gli a-capo, e farebbe quello che tutti hanno fatto e fanno in queste ultime decadi, cioè scriverebbe una prosetta con degli a-capo. Talìa no, adotta il distico, che gli impone però una gabbia abbastanza stretta. Alla fine di ogni distico ha solo due possibilità: mettere il punto o rinviare al distico successivo la prosecuzione del discorso poetico. Non è affatto un elemento secondario, anzi, si tratta di una costrizione che il distico impone all’autore. E allora chiediamoci: come fa Talìa a risolvere il rebus? Leggiamo la poesia:
Giuseppe Talia
Caro Germanico,
oggi il sicomoro ha fatto frutti: cachi belli e rotondi.
Teofrasto, stupito, ne ha salvato l’immagine
in uno screenshot da pubblicare su facebook.
“Una simile piantaccia polverosa ha fatto frutti?”
Immediatamente la cia, la cei, il cicap
hanno rilasciato tutti un’agenzia.
Per la cia il fenomeno è probabilmente dovuto
alla velocità dei dati delle reti 5G, all’efficienza spettrale
della velocità di trasmissione della banda larga per cui
tra la radice del sicomoro, i rami in fibra convergente
si è creato un cloud e quindi Parmenide aveva ragione:
“una che “è” e che non è possibile che non sia…”
La cei ci va cauta. Per caso i frutti sanguinano?
Qualche cachi, in verità, presenta una maturazione
precoce: gli acidi, gli zuccheri e gli aromi rilasciano
una poltiglia dall’esocarpo crepato.
Non si registrano volti wanted dell’iconografia globale
se non per quel cachi in alto a destra che pare
assomigliare a San Carpoforo.
Comunque, nel dubbio, i fedeli hanno acceso alcune candele
sotto l’albero e l’industria dei gadget è già in opera.
Il cicap sguazza nella melma scivolosa della polpa.
Ne acquisisce campioni. Il Diospyros kaki desta sospetti.
Teofrasto continua a dire: “una simile piantaccia polverosa?”
Talìa adotta il tropo dell’iperbole, cioè rilancia ad ogni distico il discorso su un piano sempre più assurdo ed estremo, seppur mantenendo inalterato il tono serioso di un discorso verosimile o para razionale. L’apparenza di voler mantenere un discorso razionale e verosimile cozza e si scontra con l’assurdità di tutta una serie di nuove condizioni nelle quali il discorso serioso e razionale va ad impantanarsi. È qui il salto di fantasy decisivo. Talìa mostra che il senso e il non-senso del nostro mondo e anche della poesia sono entrambi destituiti di contenuto veritativo, il senso equivale al non-senso del tutto, poiché il Tutto è un Totem e il Totem è falso, posticcio. Non c’è alcun senso (così come non c’è alcun Totem) che la poesia possa mostrare perché il senso non c’è. La mondità del mondo non contiene alcun senso e che anche la parola «senso» è sbagliata, un inganno, una parola truffaldina che è stata foriera di conseguenze nefaste.
Giorgio Stella
[…]
L’altra parte dell’alveare è a schema la riga è fatta per gli aspiranti
dello scudo universale – problema da dilettanti -, burle da sommarsi ai [capitelli della capitaneria di porto, l’orto [non urto]
[…]
d’attrito splendente le capsule in fiore il coccio del loto ma chi ha frodato
la banchina con la conchiglia della fondazione? chi per primo ha richiesto [doppia razione di campi di cotone?
[…]
‘d’altra parte Signor […] non si riprese mai del tutto dalle percosse subite, sanguinava pure quando era curata la ferita…’ -.
– “Egregio Lei […] le solennità delle belle parate non portano santi nei calendari tantomeno quei faretti accesi quando si risale dagl’abissi con termometri di scorta contando le uova di riserva…” – […].
[…]
Per arrivare alla spiaggia ci vogliono cinque minuti a piedi dall’Hotel, senza macchina! Certo per chi cammina di meno ce ne vorranno dieci.
I nostri posteri risaliranno alla nostra epoca dai cavalli fermi a Piazza di Spagna; li hanno fotografati Dolce & Gabbana, sul Duomo di Milano una [volta ci salirono i Beatles. Continua a leggere