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IL CONTRIBUTO «NEON»-AVANGUARDISTA ALLA CONCRETIZZAZIONE DI UNA ORIGINALE ANTI-«FORMA-POESIA», la «soglia», il «chorastico», il «soggetto», l’«oggetto», la «merce»  di Ivan Pozzoni

helmut newton modelle Vogue con la moglie

helmut newton modelle Vogue con la moglie

Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’articolo di Ivan Pozzoni

     La svolta, nell’arte contemporaneissima, avviene ad inizio millennio, nel momento in cui i due nuclei teoretici della democrazia estetica («“dare voce” ai morti, ai dimenticati, ai diseredati dell’umanità e della storia») e della rivolta della nuova anti-«poesia» chorastica contro il sistema-«poesia» si combinano nell’intuizione, infra classem, del riconoscimento della sconfitta / crisi dei modelli, classici, di scrittura tradizionale: «L’io lirico moderno nasce, come “anima inquieta”, dall’Aha-erlebnis dell’hic et nunc, dalla memoria del senso individuale (autopsia) […] L’essere umano / artista, svincolato da un intenso senso di comunità, si abbandona ad un anacoretismo da estrema difesa, distante da istanze di comunicazione e di condivisione» [La sconfitta della scrittura. Ai confini tra uomo e arte, in I. POZZONI, Galata morente, Villasanta, Limina Mentis, 2010, 12 e 14].

La crisi della nozione tradizionale di comunità condanna i modelli di scrittura tradizionale all’«autismo» artistico. Come monomi dello stesso binomio cadono, insieme, regione dei monti, terra di oi barbaroi, modo dall’emotività spontanea dello thumós e regione della città, terra della civitas comunitaria, modo della razionalità organizzata del lógos: rimane, in una inesorabile «situazione-limite», la regione intermedia della chóra, terra di nessuno e di tutti, no-where zone, abitata da individui condannati a vivere su un’eterna «soglia». «L’inclusività, tratto naturale della nozione occidentale di comunità, è sostituita da un orizzonte di esclusione in cui si dibattono disorientati individui in cerca di sicurezza e di un momento di sollievo dall’ansia […] sulle tracce della nozione di esclusività Bauman arriva ad assimilare nozione di “comunità minima” (stato minimo nozickiano) del tardo-moderno e modello del reality show, […] coniando l’immagine teoretica di “comunità guardaroba”, idonea a sostituire uffici e funzioni della nozione tradizionale di comunità» [La crisi della nozione tradizionale di comunità: nuove forme di dominanza e di resistenza in I. POZZONI (a cura di), Demokratika, Villasanta, Limina Mentis, 2010, 10/11].

Milano, 11/12/1960 Nella foto: Eugenio Montale

Milano, 11/12/1960
Nella foto: Eugenio Montale

Fuoriuscendo dall’immagine baumaniana di una «centrifuga socioculturale» e dalla cartografia infernale della miseria (Onfray), le nuove élites dominanti si svincolano, come da una zavorra, dalla nozione stessa di «identità», massimo frutto del modello moderno di comunità, riscoprendosi «nomadi». Contro l’ideologia di una vita trendy difesa da una minoritaria e inafferrabile élite nomade, contro una «società dello spettacolo» irrigidita dalle norme del super-capitalismo consumista, contro ogni esaltazione estrema delle forme e della forma, le sacche «marginali» di resistenza e sovversione devono erigere barricate basate su un’etica cinica e antiformalistica, irrobustita dal ricorso all’anonimato e alla serena accettazione di esso; combattendo le élites dominanti sulla medesima dimensione del nomadismo e dell’inafferrabilità, trasformandosi in mostri anti-mostro, i centri «marginali» di resistenza e sovversione devono sostituire, a tentativi di edificare etiche tradizionali, cadute vittima della crisi della comunità occidentale, coi suoi istituti e coi suoi ordinamenti, istanze di concretizzazione, nelle assemblee dell’arte, di etiche estetiche (estetiche normative, sostenute dalla metaetica emotivista, nata con A.J. Ayer e conciliata col normativismo di Hare da C.L. Stevenson), centrate sull’incontro tra metaetica emotivista e antiformalismo artistico.

Messa al bando la nozione tradizionale di comunità dal concetto di «comunità guardaroba», non cessano, nelle aree «marginali» di resistenza e sovversione, i tentativi di costruire nuovi modelli di comunità, ricavati dall’intersezione tra etica ed arte; vivendo in simbiosi con l’universo morale, il mondo dell’arte sarà centro di irradiazione d’una innovativa weltanschauung democratica (democrazia estetica). Guerrilla metrica, combattimento artistico, rivolta sovversiva contro ogni forma moribonda di «poesia» civile e di «poesia» a-civile sono i tratti di una coerente anti-«poesia» chorastica, intesa come medium massimo di auto-determinazione individuale e di dialegesthai comunitario.

Roma, La grande bellezza fotogramma, Jep Gambardella in cammino a fianco l'acquedotto

Roma, La grande bellezza fotogramma, Jep Gambardella in cammino a fianco l’acquedotto

Cosa significa «Chorastikà», cioè i canti della «soglia»? Descriverei il significato di «chorastico» con un utilissimo termine rubato, a fini terapeutici, da Binswanger a Jaspers e, originariamente, da Jaspers a Von Gennep e Turner: «liminalità» [«[…] lo stato o la qualità di ambiguità che esiste nella fase centrale di determinati eventi o rituali (come un rito di passaggio o di una rivoluzione a livello di società), durante il quale l’individuo o gruppo partecipante non detiene più il suo status pre-rituale, ma non ha ancora raggiunto lo status che terrà quando il rituale è stato completato»]. La chóra è, nelle colonie elleniche antiche, la situazione liminale tra polis e oi barbaroi, la «situazione-limite» jaspersiana, tra città e monti, tra civiltà e barbarie, tra ragione ed emozione, tra forma e a-forma. I nostri versi chorastici, liminali, stanno, storicamente, nella crisi («situazione-limite») del moderno, nel tardo moderno, cioè sulla «soglia» tra due evi, tra due società, tra due categorie di weltanschaungeen. Cade ogni mera eventualità di «forma-poesia». Perché nel tardomoderno collassa l’entità minima di correlazione tra semiotica e mondo reale, basata sul trinomio classico «soggetto» / «verbo» / «oggetto», in un devastante corto circuito della mímesis tra semiotica e mondo. L’identità tra mondo e «grammatica» si disintegra: «soggetto» e «soggetto nominale», «azione» e «verbo», «oggetto» e «complemento oggetto» acquistano significati diversi, causati da un incontrastabile “balzo in avanti” del mondo:

San Remo 2009 Bonolis in danza

San Remo 2009 Bonolis in danza

Molte cose sono successe negli ultimi venti o trent’anni. Per cominciare, abbiamo sperimentato la “rivoluzione amministrativa fase due”, surrettiziamente condotta all’insegna del “neoliberismo”. Gli amministratori culturali sono passati dalla “regolazione normativa” alla “seduzione”, dalla sorveglianza e dal pattugliamento quotidiani alle pubbliche relazioni, e dall’imperturbabile, iperregolato e routinario modello di potere panottico, che tutto sorvegliava e tutto monitorava, al dominio esercitato gettando il dominato in uno stato di incertezza e precarietà generalizzate [Unsicherheit], e al continuo quanto casuale sconvolgimento della routine. Poi è stata smantellata gradualmente anche quella struttura, tenuta in piedi dallo Stato, entro cui generalmente venivano esercitati gli aspetti preminenti della politica della vita quotidiana individuale, e quest’ultima è passata / slittata verso l’ambito presidiato dal mercato dei consumi [Z. Bauman, L’etica in un mondo di consumatori, Roma-Bari, Laterza, 2010, 171].

Cade, ontologicamente, il concetto classico di «soggetto», inteso come costitutivo attivo dell’«azione»: il «soggetto» diviene homo eligens («L’unico “nucleo d’identità” destinato sicuramente ad emergere illeso, e forse perfino rafforzato, dal cambiamento continuo è quello dell’homo eligens – l’“uomo che sceglie”, ma non “che ha scelto”!– di un io stabilmente instabile, completamente incompleto, definitamente indefinito e autenticamente inautentico […]» [Z. Bauman, Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, 2008, 26]). L’homo eligens, nuovo «soggetto», è costituente attivo dell’azione («attore»)

Lo smembramento e la disabilitazione dei centri tradizionali, sopraindividuali, rigidamente strutturati e fortemente strutturanti, sembrano correre in parallelo con la centralità emergente dell’io reso orfano. Nel vuoto lasciato dalla ritirata di autorità sempre più evanescenti, ora è l’io che si sforza di assumere, o è costretto ad assumere, la funzione di centro di Lebenswelt […] Il compito di tenere insieme la società (qualunque cosa possa significare “società” in condizioni di modernità liquida) viene “sussidiarizzato”, “subappaltato”, o semplicemente ricade sotto l’egida della politica della vita quotidiana […] [Z. Bauman, L’etica in un mondo di consumatori, cit., 15], assumendosi la libertà dell’assunzione di ogni decisione connessa alla «[…] politica della vita quotidiana […]» come «sforzo» individuale; l’homo eligens, nuovo «soggetto», è, nello stesso «istante», costituente «non»-attivo dell’azione («vittima»):

mandel'stam foto segnaletica nel lager 1938

mandel’stam foto segnaletica nel lager 1938

Le forme tradizionali e istituzionali con cui si affrontano ansie e insicurezze nella vita familiare e di coppia, nei ruoli sessuali, nella coscienza di classe, nonché nei relativi partiti e nelle istituzioni, perdono importanza, e in misura corrispondente si attribuisce questo compito ai soggetti [U. Beck, La società del rischio, Roma, Carocci, 2013, 100] e C’è una tendenza all’emersione di forme e condizioni di esistenza individualizzate che costringono gli uomini, nell’interesse della loro sopravvivenza materiale, a fare di se stessi il centro dei propri progetti e della propria condotta di vita [ivi, cit., 113], rientrando il «compito» della decisione nella categoria della «coazione», coercizione, o costrizione. L’homo eligens, nuovo «soggetto» storico, è, nel medesimo «istante», «soggetto» e «oggetto», «attore» e «vittima», dell’«azione» sociale. Parimenti cade, ontologicamente, il concetto classico di «oggetto», come costitutivo «non»-attivo dell’«azione»: l’«oggetto» diviene homo consumens («[L’attività del consumo] è diventata, agli occhi dei cittadini delle odierne società occidentali, una sorta di modello, o di parametro di riferimento, per tutte le altre attività. Giacché […] un ambito sempre più esteso della vita sociale viene ad essere assimilato al “modello del consumatore”, non sorprende più di tanto che la “metafisica” del consumismo sia diventata, strada facendo, una specie di filosofia implicita di tutta la vita moderna» [C. Campbell, I shop therefore I know that I am, in K.M.Ekström- H.Brembeck, Elusive Consumption, Oxford, Berg, 2004, 41/42], dove un’ottima definizione del «[…] modello del consumatore […]» sia «[esso] associa l’idea di “soddisfazione” a quella di “stagnazione economica”: i bisogni non devono mai avere fine […] prevede che i bisogni di ciascuno di noi siano insaziabili, e in perenne ricerca di nuovi prodotti attraverso cui essere soddisfatti» [D. Slater, Consumer Culture and Modernity, Cambridge, Polity Press, 1997, 100]), o, secondo Gilles Lipovetsky in Le bon-heur paradoxal (2006), homo consumericus. L’homo consumens, nuovo «oggetto», è costituente «non»-attivo dell’azione («merce»)

film fotogramma Elio Petri Ursula Andress e Elsa Martinelli

film fotogramma Elio Petri Ursula Andress e Elsa Martinelli

Per farsi strada a gomitate nel denso e opaco, “deregolamentato” campo di battaglia della competitività globale, e poter conquistare l’attenzione del pubblico, beni, servizi e messaggi devono indurre desideri, e a questo fine devono sedurre i possibili clienti e battere i concorrenti proprio nella seduzione. Ma una volta che ci sono riusciti, devono fare spazio, e in fretta, per altri oggetti di desiderio, nel timore che si possa arrestare la caccia globale ai profitti, sempre maggiori (ribattezzati “crescita economica”) [Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2010, 88],

Essendo obiettivo di «seduzione» e non avendo nessuna facoltà di «[…] scelta di scegliere […]» («[…] i consumatori hanno tutti i motivi di pensare che sono loro, e loro soli, forse, a controllare il gioco. Sono i giudici, i critici, quelli che scelgono. Possono, dopo tutto, rifiutare ciascuna delle infinite scelte a disposizione. Tranne una: la scelta di scegliere tra quelle […]» [ivi, cit., 94]), come ogni altro essere “inanimato”; l’homo consumens, nuovo «oggetto», è, nello stesso «istante», costituente attivo dell’azione («evento»)

foto kate-moss-mert-marcus-playboy-60th-anniversary-09

helmut newton modelle Vogue con la moglie

Ma per la società capitalista avanzata, votata alla continua espansione della produzione, questo è un quadro psicologico estremamente limitante che alla fine cede il passo a un’“economia” psichica del tutto diversa. Il capriccio sostituisce il desiderio quale forza propulsiva del consumo [H. Ferguson, The Lure of Dreams: Sigmund Freud and the Construction of Modernity, London, Routledge, 1966, 205], dotato del carattere libertario del «capriccio». L’homo consumens, nuovo «oggetto» storico, è, nel medesimo «istante», «oggetto» e «soggetto», «merce» ed «evento», dell’«azione» sociale. Il mondo tardomoderno circonda l’«azione» di «soggetti» attivi e «non»-attivi e di «oggetti» «non»-attivi e attivi, di «autori», di «vittime», di «merci» e di «eventi»:

Nella società dei consumatori nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce, e nessuno può tenere al sicuro la propria soggettività senza riportare in vita, risuscitare e reintegrare costantemente le capacità che vengono attribuite e richieste a una merce vendibile. La “soggettività” del “soggetto” […] è imperniata su uno sforzo senza fine del soggetto stesso per essere e restare una merce vendibile. La caratteristica più spiccata della società dei consumi è la trasformazione dei consumatori in merce […] [Z. Bauman, Consumo, dunque sono, Roma-Bari, Laterza, 2010, 17], e viceversa.

cinema fotogramma di un film di Antonioni

fotogramma di un film di Antonioni

Per narrare, con i nostri inutili meta-récits grands récits» in Lyotard), la concreta implosione di «soggetto» e «oggetto» sull’«azione» è divenuto insufficiente il richiamo a una «forma-poesia» fondata, con l’«immagine» tridimensionale o con la «metafora», sul trinomio classico «soggetto nominale» / «verbo» / «complemento oggetto». La soluzione, molto complessa, allo scollamento della mímesis tra semiotica e mondo, è rinvenibile a] nella concretizzazione di una efficace anti-«forma-poesia», introdotta da un’aggiornata e combattiva «neon»-avanguardia e orientata a riformare l’intera «grammatica» novecentesca, e b] nella ri-definizione di un «predicato nominale», di una originale ontologia estetica, in grado di ridare energia o, addirittura, di novare al / il trinomio «soggetto nominale» / «verbo» / «complemento oggetto» (dilemma teoretico dell’«identità»). La stessa «critica», con massima umiltà, deve assumere coscienza del cambiamento del suo statuto metodologico:

Per quanto riguarda la “ricettività alla critica” la nostra società segue il modello del campeggio, mentre all’epoca in cui la “teoria critica” ricevette una forma definita a opera di Adorno e Horkheimer l’idea di critica era inscritta, non senza ragione, in un altro modello, quello della casa comune con le sue leggi e regole, l’assegnazione dei compiti e il controllo delle prestazioni [Z. Bauman, La società individualizzata, Bologna, Il Mulino, 2002, 130/131].

 Insomma, chi non abbia orecchio da intendere, in tenda: noi abbiamo iniziato a utilizzare la roulotte.

Ivan Pozzoni Qui gli austriaci CopSono nato a Monza (MB) il 10-06-1976, miei contributi sono stati inseriti in riviste filosofiche italiane e internazionali (Annuario Centro Studi Giovanni VailatiEpistemologiaNovecentoA&IDiogeneDialegesthaiIl ContributoInformación FilosóficaParènklisisAquinasFoedusModelli & TeorieIl ProtagoraUno/MoltiPer la FilosofiaAnnali FerraresiNotizie di PoliteiaItinerariAnnuario della filosofia italianaFilosofia oggi CarteviveOtto/Novecento Libro ApertoRivista Rosminiana); miei contributi e frammenti ametrici sono stati inseriti in riviste d’arte italiane e internazionali (UTOsservatorio LetterarioHistoricaIl foglio clandestinoArenariaFermentiForum ItalicumSìlarusSudestLa mosca di MilanoFarePoesiaIl foglio volanteParolePunto d’incontroInversoLa ClessidraPickwickProspektivaAvanguardiaIncrociIl filo rossoI fiori del maleOfferta Speciale – AeoloIl Monte AnalogoPoeti e PoesiaItalian Poetry ReviewIl fiacre n.9Il denaroNarrazioniLaMRivista Letteraria – Campi immaginabiliL’inchiostro Pomezia Notizie Universo – Peloro 2000 Fatece Largo Il salotto letterario L’immaginazione Proa Italia Π Il saggio Opera Nuova Euterpe Segreti di Pulcinella Il Segnale Il richiamo Il convivio – Il caffè – Sagarana – Kuq e Zi – PasticheLa battanaDecomporre PuntoLe voci della lunaVerdeIl lettore di ProvinciaNóemaGradivaAlla bottega).

 Ivan Pozzoni Patroclo non deve morireSono uscite mie raccolte di versi: Underground (A&B, 2007), Riserva Indiana (A&B, 2007), Versi Introversi (Limina Mentis, 2008), Androgini (Limina Mentis, 2008), Lame da rasoi (Joker, 2008), Mostri (Limina Mentis, 2009), Galata morente (Limina Mentis, 2010), Carmina non dant damen (Limina Mentis, 2012), Il Guastatore (Cleup, 2013), Patroclo non deve morire (deComporre Edizioni, 2013) e Scarti di magazzino (Limina Mentis, 2013); ho curato antologie di versi: Retroguardie (Limina Mentis, 2009), Demokratika (Limina Mentis, 2010), Triumvirati (Limina Mentis, 2010) [raccolta interattiva], Tutti tranne te! (Limina Mentis, 2010), Frammenti ossei (Limina Mentis, 2011), Labyrinthi IIIIIIIV (Limina Mentis, 2013), Generazioni ai margini, NeoN-Avanguardie, Comunità nomadi, Metrici moti, Fondamenta instabili, Homo eligens, Umane transumanze, Forme liquide e Scenari ignoti (deComporre, 2014); nel 2008 sono stato inserito nell’antologia Memorie del sogno, di A&B Editrice, nel 2009 nell’antologia Paesaggi, di Aljon Editore, nel 2010 nelle antologie Rosso e Taggo e ritraggo di Lietocolle, nel 2011 nelle antologie Insanamente, di FaraEditore, Dal tramonto all’alba, di Albus Edizioni, e Verba Agrestia 2011, di Lietocolle, nel 2013 nelle antologie Il ricatto del pane, con CFR Edizioni e Le strade della poesia, con Delta3 Edizioni, nel 2014 nell’antologia L’amore ai tempi della collera, con Lietocolle. Ho collaborato, con saggio, ai volumi collettivi Ricerche sul pensiero italiano del Novecento (Bonanno, 2007), Le maschere di Aristocle. Riflessioni sulla filosofia di Platone (Limina Mentis, 2010), Centocinquant’anni di scienza e filosofia nell’Italia unita (Limina Mentis, 2011), Scienza e linguaggio nel Novecento italiano (Limina Mentis, 2012) e Pensare la modernità (Limina Mentis, 2012); sono usciti miei volumi e volumi collettivi da me curati: Grecità marginale e nascita della cultura occidentale. I Pre-socratici (Limina Mentis, 2008), L’ontologia civica di Eraclito d’Efeso (Limina Mentis, 2009) [mon.], Il pragmatismo analitico italiano di Mario Calderoni (IF Press, 2009) [mon.], Cent’anni di Giovanni Vailati (Limina Mentis, 2009), I Milesii. Filosofia tra oriente e occidente (Limina Mentis, 2009), Voci dall’Ottocento (Limina Mentis, 2010), Benedetto Croce. Teorie e orizzonti (Limina Mentis, 2010), Voci dal Novecento (Limina Mentis, 2010), Voci dal Novecento II (Limina Mentis, 2011), Voci di filosofi italiani del Novecento (IF Press, 2011), Voci dall’Ottocento II III (Limina Mentis, 2011), La fortuna della Schola Pythagorica. Leggenda e contaminazioni (Limina Mentis, 2012), Voci dal Novecento IIIIV (Limina Mentis, 2012), Pragmata. Per una ricostruzione storiografica dei Pragmatismi (IF Press, 2012), Grecità marginale e suggestioni etico/giuridiche: i Presocratici (IF Press, 2012) [mon], Le varietà dei Pragmatismi (Limina Mentis, 2012),  Elementi eleatici (Limina Mentis, 2012), Pragmatismi. Le origini della modernità (Limina Mentis, 2012), Frammenti di filosofia contemporanea I  (Limina Mentis, 2012), Frammenti di cultura del Novecento (Gilgamesh Edizioni, 2013), Frammenti di filosofia contemporanea II (Limina Mentis, 2013), Lineamenti tardomoderni di storia della filosofia contemporanea (IF Press, 2013), Schegge di filosofia moderna I (deComporre, 2013), Voci dal Novecento V (Limina Mentis, 2013), Voci dall’Ottocento IV (Limina Mentis, 2014), Schegge di filosofia moderna IIIIIIVVVIVIIVIIIIXX (deComporre, 2014) e Libertà in frammenti. La svolta di Benedetto Croce in Etica e Politica (deComporre, 2014) [mon.]. Nel 2012 è uscito il numero unico di rivista, da me curato, Le bonhomme.

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CINQUE POESIE di Ivan Pozzoni, Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, Villasanta, Limina mentis, 2015 (10 €) con un Commento di Giorgio Linguaglossa.

patrick caulfield

patrick caulfield

dalla Prefazione di Giorgio Linguaglossa

 La sapienza tattica di Ivan Pozzoni fa uso della parola-segno, della parola-mezzo in conseguenza della presa d’atto del tramonto della Parola giudicante o della Parola simbolica per approdare ad una Parola Anti-parola, una parola conflittuale figlia del processo democratico del decadimento e della confusione di tutte le lingue e di tutti i linguaggi, nell’abisso della intermediazione di tutti i linguaggi degradati a linguaggi veicolo, linguaggi da trasporto, nastri trasportatori di linguaggi merce e di linguaggi oggetti. Questa mediatezza della lingua (prodotto dalla civiltà dei segni), l’impossibilità di comunicare immediatamente il «concreto», è l’abisso dell’astrazione, per Benjamin terza conseguenza del «peccato originale linguistico». Questo uso degli elementi astratti della lingua nella «poesia» di Pozzoni si converte nella pirotecnica virulenza derivata dall’abbandono del «nome» e della sua capacità denominante. Di qui per Pozzoni l’asservimento della lingua nella «ciarla», cui segue l’asservimento delle cose alla lingua dei segni secondari, terziari, quaternari etcetera (con buona pace della forma-poesia), fenomeno questo attiguo alla infinita intermediazione dei linguaggi dei segni: la disseminazione del linguaggio dei segni in una entropia dei linguaggi non più denominanti. Il «segno» non è più impronta divina del «Nome», ma impronta di un altro «segno» in fuga perpetua, trasformazione del comunicabile in comunicabile, cancellazione del comunicabile, cancellazione dell’oggetto, cancellazione della cancellazione in un moto vorticoso e perpetuo, carnevalizzazione della cancellazione in un moto entropico perpetuo.

Patrick Caulfield

Patrick Caulfield

Ha scritto Walter Benjamin che Baudelaire «si è reso conto per primo, e nel modo più ricco di conseguenze, che la borghesia era sul punto di ritirare la sua commissione al poeta»[1]. In Les drames et le romans honnetes[2] Baudelaire precisa che è l’intera letteratura ad esser coinvolta, non solo la poesia; infatti la borghesia, che ha soffocato la rivoluzione proletaria del febbraio del ‘48, che si è costituita in «partito dell’ordine», quell’«ordine» la cui tutela ha affidato a Luigi Bonaparte, non può che ritirare agli intellettuali la «commissione» rivoluzionaria che aveva affidato loro ai tempi dell’Enciclopedia. In cambio, gli intellettuali si vedono affidare una nuova «commissione»: produrre una letteratura fondata sul «bon sens», sulla «morale» e sull’«honnêteté», una letteratura per «notaires» e «grisettes sentimentales». Gli intellettuali sono ingaggiati per assicurare questa tutela e per procurare e controllare il «consenso spontaneo» (dizione di Gramsci) all’indirizzo culturale che corrisponde agli interessi della borghesia. Mutatis mutandis, è ovvio che, ai giorni nostri, questa problematica irrisolta (sulla «poesia onesta» di sabiana memoria è preferibile stendere un velo di silenzio) riaffiori quasi ad ogni generazione riproponendo i medesimi termini con i quali la questione era stata formulata da Baudelaire. Ed è ovvio che la poesia e la letteratura più avvertite oggi tentino una sortita «rivoluzionaria», anticonformista, trasgressiva laddove la produzione letteraria maggioritaria appare informata di bon ton e di morale, oltre che di autosedicente «onestà». L’atto di insubordinazione per un autore avvertito ed acuto come Ivan Pozzoni consiste in questo, nell’essere, o meglio nell’apparire, «miope e astigmatico», nello scrivere «hyperversi», nel rendersi irriconoscibile, camuffarsi, assumere maschere, giocare con la sua condizione di orfano, di ibrido, di parricida della poesia educata e forbita che ha fatto anticamera nelle sale d’aspetto del gusto corretto del conformismo. Per Pozzoni si tratta di una questione di sopravvivenza, di fare dell’autenticità una inautenticità, e di quest’ultima una dis-autenticità, secondo una strategia del funambolo, del buffone, dell’ibrido, dell’escreto, del saltimbanco di palazzeschiana memoria. Questo istinto del parricida (parricida delle istituzioni stilistiche), costituisce una invariante che attraversa tutti gli atti poetici finora attuati dall’autore dai suoi esordi fino a quest’ultima opera. Il parricida, l’escreto, il ribelle assoluto, colui che rifiuta la tradizione e la contemporaneità, colui che rifiuta la forma-poesia, che si vuole porre nella terra di nessuno, nel limen, nella chora non solo per non essere riconosciuto, ma anche e soprattutto per non riconoscere ad altri la legittimazione ad occupare il campo della «poesia» ormai diventata una merce satura di «bon ton», di «morale» e di «onestà». Pozzoni fa di tutto per non essere riconosciuto; vorrebbe, ma un istinto segreto gli dice che non può, e allora carica e sovraccarica di antagonismo linguistico e di escrescenze i suoi componimenti per renderli irriconoscibili ed irricevibili alla società letteraria che vale. Per Pozzoni la poesia non può essere se non attraverso l’esperienza dell’impossibilità ad esser poesia.

 [1] W. Beniamin, Parco centrale in Angelo Novus Einaudi, 1975 p. 130
[2] C. Baudelaire, Les drames et les romans honnêtes, in Oeuvres complètes, Bibliothèque de la Pleiade, Paris 1963 pp. 617-22

Ivan Pozzoni Qui gli austriaci Cop  QUI GLI AUSTRIACI SONO PIÙ SEVERI DEI BORBONI

L’austriaco, di vera stirpe ariana, è molto severo, non si incanta,
achtung kaputt kameraden, pretende massima flessibilità
in modo da rimettere l’Europa intera a quota Novanta,
bombarda le borse di Milano assolutamente gratis,
meglio di quanto fecero Radetzky o Bava Beccaris.

Potremmo tentare ancora con uno sciopero del tabacco,
mischiando hashish a marijuana con distacco,
anche se non credo che funzionerebbe lo sciopero del lotto,
siamo troppo lontani dai moti del 1848,
ora l’intera nazione tira a arrivare alla mattina,
sognando di incassare un ambo o una cinquina.

Sperando in un ritorno della dinastia Borbone
i milanesi non sono avvezzi alla rivoluzione,
scalpitano, reclamano, ti mandano a cagare,
tornando il giorno dopo in ufficio a lavorare,
non avendo l’energia dei siciliani buontemponi,
l’unica regione a statuto speciale a protestare coi forconi.

Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni,
la Merkel tuona da Bruxelles minacciando risoluzioni
del Consiglio Europeo, in cui siedono retribuiti in modo sovrannazionale
i vari prestanome dell’una o dell’altra multinazionale,
indecisi, con rigorosità scientifica tutta teutonica,
se far fallir la Grecia o un’azienda agricola della Valcamonica.

GUL MAKAI

Il tuo nome è Malala, Yousafzai,
nome impegnativo da pasionaria pashtun,
da Giovanna D’Arco afghana,
su una ragazzina di quattordici anni,
studentessa nella regione pakistana di Swat.

Il tuo nome è Malala, Yousafzai,
scoppia, rumoroso, come il proiettile
di un kalashnikov infilato nel tuo cervello,
a quattordici anni, rivendicazione,
da barbudos difensori della shari’a,
di talebani repressi (dall’invasione occidentale).

Il tuo nome è Malala, Yousafzai,
desideravi fare il medico, una vocazione,
combatterai, tra vita e non-vita, negli ospedali di tutto il mondo,
simbolo di una nuova generazione,
«Dov’è Malala?», chiese il tuo aggressore,
e, da te terrorizzato, sparò.

Il tuo nome è Malala, Yousafzai,
continuavi ad andare a scuola
contro un’interpretazione brutale della shari’a,
rinominandoti Gul Makai, sul tuo diario,
mentre talebani decapitavano, a Swat,
innocenti vittime di comportamenti anti-islamici.

Il tuo nome è Malala, Yousafzai,
fiero Fiordaliso dello Swat.

 brocca, Patrick Caulfield

brocca, Patrick Caulfield

L’OFFICINA DEI MORTI DI FAME

Ai margini dell’ex-Brianza commerciale, oramai fitta di capannoni sfitti
si erge nella sporcizia, morale e materiale, degna di una fabbrica di catrame
l’Officina dei morti di fame.

Sognando di avere creato un impero industriale degno d’un Ferrero
verrà ad accogliervi, all’entrata, in sella all’inseparabile muletto
un omino tutto nero, voncione cromatore, crapapelada col baffetto,
d’etimologia hitleriana, sdrucito maneggione finto burbero,
arricchito dai famosi anni ‘70 crestando su stipendi e tasse,
con cinque o sei operai scazzati a sbrogliare ogni tipo di sua impasse.

Voncione il cromatore è l’arroganza dei dementi
che alzano la voce con i deboli leccando i culi dei potenti,
è sintesi dell’ignoranza dell’uomo che ha sempre in tasca una soluzione
truffare il fisco, fare nero, inquinare, scampando sempre la prigione,
grazie ad appoggi comunali e a un esercito di ragionieri, dotti consulenti,
vantandosi d’un’azienda che ha come massimi clienti
vecchi collezionisti di cianfrusaglie bisognosi di cromar bulloni.

Pontifica su tutto, dalla contabilità semplificata alla calligrafia
e a scrivere un’email di tre righe, sgrammaticata, ci mette il tempo d’una serigrafia,
mischiando orografia e ortografia, voncione il cromatore,
confonde i monti con Tremonti, la valle con la torta
che si spartisce insieme al figlio Topgàn, maestro di gestione e controllo sulla carta,
la carta dei vini al ristorante, dove trascorre le giornate a non far niente.

Chi si avvicini alla Cascina adotti massima attenzione
alla famiglia milionaria di voncione il cromatore,
capostipite, in un magazzino colmo di ciarpame,
dell’Officina dei morti di fame.

PENSO CHE ALL’INFERNO SI PARLI INGLESE

L’importante è iscriversi a un corso d’inglese, conversare in un inglese impeccabile,
anche se non si ha niente da dire, soprattutto se non si ha niente da dire,
arrivare a non aver niente da dire è un must di ogni nazione civile.

L’inglese è indispensabile, è l’idioma della Lehman Brothers,
dell’alta finanza che naviga su internet, nel cyberspace,
senza inglese non si trova lavoro, non padroneggiare l’inglese è un disdoro,
il macellaio si intristisce a colloquio con la mucca Highlander,
il meccanico non comprende il senso delle Goodyear,
l’impiegato d’un’azienda galvanica, con baricentro tra Renate e Carate Brianza,
si smarrisce a far bolle in brianzolo con l’inglese che avanza.

L’importante è iscriversi a un corso d’inglese, e non sia un corso di còrso,
all’inglese l’imperatore Napoleone non avrebbe mai fatto ricorso,
english is the language of future, benché, a noi, generazione no future,
non serva l’inglese, ma serva soccorso.

Glocalizzati, novelli servi della gleba, incatenati al territorio,
coviamo la funesta sensazione che l’italiano ci accompagni all’obitorio,
senza dovere mai rimpiangere di aver sprecato denari,
in corsi, insegnanti, lezioni e dizionari,
perché, abituati a spingerci al massimo fino a Varese,
abbiam la certezza che all’inferno, almeno, si parli inglese.

Patrick Caulfield was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, 'I've only the 2

Patrick Caulfield was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the 2

MY BROTHER IS DEAD – FRATER MEUS MORTUUS EST

Non ho mai temuto di rinchiudermi in una cella francescana,
frate Leone butterato, 1.83 cm x 90 kg, colosso di porcellana,
a chiedermi come fai ad essere ancora innamorata e attratta,
me lo domando ogni volta che mi accosto un boccone al viso,
ingurgito tutto, desidero invadere il mondo, come un frastornato Narciso,
non mi muovo, disoccupato immerso nel lavoro, mi invento nomade sedentario
non rimanendomi altro da donarti che un bicchiere di Bellini misto ad un abbecedario.

Annego la mia fragilità in cocktail di alcool, Delorazepam e Paroxetina,
mi immergo nella lotta sondando Bauman, distante da una generazione allevata a cocaina,
convertendomi in menestrello – dovrei assomigliare a un elfo, non ad un troll-
canto con la sgraziata cacofonia, in un capannone industriale, di una fresatrice Bosch,
sperso auf Das Narrenschiff, sperimentati tutti i vizi, e, adesso, avanti marsch
con amore, casa, affitto, bollo, benzina, neutralizzato anarchico in dolce quarantena,
mi batto, cotidie, a disinfettare i tuoi sogni da trentenne minacciati da cancrena.

Non è che la bruttezza mi avvantaggi sul carattere, schivo come Salinger
il successo di The Catcher in the Rye, non riuscendo a trasformarmi in challenger
delle angoscianti sfide di ogni giorno, morto di fame vs. morto di fame,
mi avvicino ad essere l’anti-eroe omerico zittito da Odisseo, Tersite,
soffrendo mal di testa atroci dovuti a calci in culo e sinusite,
barcollo, senza mai mollare, ai ripetuti cali di energia:
governi corrotti, disoccupazione e riforme inutili fanno una bella sinergia.

Giano bifronte è morto nell’utero d’una vita baldracca
che non desidero affrontare coi lamenti striduli d’una checca,
resto da solo, davanti alla tastiera, condannato a smettere di battere a quattro mani,
troppo spesso, sciocco arrogante, m’arrogo d’esser Gulliver tra lillipuziani,
e non considero un disonore, ogni volta, debuttare a fianco d’un debuttante,
significa che l’arte non è morta, infettata dalla necrosi del contante.

Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976; si è laureato in diritto con una tesi sul filosofo ferrarese Mario Calderoni. Ha diffuso molti articoli dedicati a filosofi italiani dell’Ottocento e del Novecento, e diversi contributi su etica e teoria del diritto del mondo antico; collabora con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2014 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi Introversi, Androgini, Mostri, Galata morente, Carmina non dant damen e Scarti di magazzino con Limina Mentis, Lame da rasoi, con Joker, Il guastatore, con Cleup, Patroclo non deve morire, con deComporre Edizioni; tra 2009 e 2014 ha curato le antologie poetiche Retroguardie (Limina Mentis), Demokratika, (Limina Mentis), Tutti tranne te! (Limina Mentis), Frammenti ossei (Limina Mentis), Labyrinthi [I], [II], [III], [IV] (Limina Mentis), Generazione ai margini, NeoN-Avanguardie, Comunità nomadi e Metrici moti (deComporre); nel 2010 ha curato la raccolta interattiva Triumvirati (Limina Mentis). Tra 2008 e 2014 ha curato i volumi: Grecità marginale e nascita della cultura occidentale (Limina Mentis), Cent’anni di Giovanni Vailati (Limina Mentis), I Milesii (Limina Mentis), Voci dall’Ottocento I, II e III (Limina Mentis), Benedetto Croce (Limina Mentis), Voci dal Novecento I, II, III, IV e V (Limina Mentis), Voci di filosofi italiani del Novecento (IF Press), La fortuna della Schola Pythagorica (Limina Mentis), Pragmata (IF Press), Le varietà dei Pragmatismi (Limina Mentis), Elementi eleatici (Limina Mentis), Pragmatismi (Limina Mentis), Frammenti di filosofia contemporanea I e II (Limina Mentis), Frammenti di cultura del Novecento (Gilgamesh), Lineamenti post-moderni di storia della filosofia contemporanea (IF Press), Schegge di filosofia moderna I IIIIIIVV VI (deComporre); tra 2009 e 2014 sono usciti i suoi: Il pragmatismo analitico italiano di Mario Calderoni (IF Press), L’ontologia civica di Eraclito d’Efeso (Limina Mentis), Grecità marginale e suggestioni etico/giuridiche: i Presocratici (IF Press) e Libertà in frammenti. La svolta di Benedetto Croce in Etica e Politica (deComporre). È con-direttore de Il Guastatore – Quaderni «neon»-avanguardisti; è direttore esecutivo della rivista internazionale Información Filosófica; è direttore delle collane Esprit (Limina Mentis), Nidaba (Gilgamesh Edizioni) e Fuzzy (deComporre Edizioni).

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QUATTRO POESIE INEDITE di Ivan Pozzoni Carmina non dant damen, Mortacci!, Frammenti ossei, Hotel Acapulco con un Appunto di Ivan Pozzoni e un Commento di Giorgio Linguaglossa

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Ετοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco ο(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976; si è laureato in diritto con una tesi sul filosofo ferrarese Mario Calderoni. Ha diffuso molti articoli dedicati a filosofi italiani dell’Ottocento e del Novecento, e diversi contributi su etica e teoria del diritto del mondo antico; collabora con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2014 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi Introversi, Androgini, Mostri, Galata morente, Carmina non dant damen e Scarti di magazzino con Limina Mentis, Lame da rasoi, con Joker, Il guastatore, con Cleup, Patroclo non deve morire, con deComporre Edizioni; tra 2009 e 2014 ha curato le antologie poetiche Retroguardie (Limina Mentis), Demokratika, (Limina Mentis), Tutti tranne te! (Limina Mentis), Frammenti ossei (Limina Mentis), Labyrinthi [I], [II], [III], [IV] (Limina Mentis), Generazione ai margini, NeoN-Avanguardie, Comunità nomadi e Metrici moti (deComporre); nel 2010 ha curato la raccolta interattiva Triumvirati (Limina Mentis). Tra 2008 e 2014 ha curato i volumi: Grecità marginale e nascita della cultura occidentale (Limina Mentis), Cent’anni di Giovanni Vailati (Limina Mentis), I Milesii (Limina Mentis), Voci dall’Ottocento I, II e III (Limina Mentis), Benedetto Croce (Limina Mentis), Voci dal Novecento I, II, III, IV e V (Limina Mentis), Voci di filosofi italiani del Novecento (IF Press), La fortuna della Schola Pythagorica (Limina Mentis), Pragmata (IF Press), Le varietà dei Pragmatismi (Limina Mentis), Elementi eleatici (Limina Mentis), Pragmatismi (Limina Mentis), Frammenti di filosofia contemporanea I e II (Limina Mentis), Frammenti di cultura del Novecento (Gilgamesh), Lineamenti post-moderni di storia della filosofia contemporanea (IF Press), Schegge di filosofia moderna I IIIIIIVV VI (deComporre); tra 2009 e 2014 sono usciti i suoi: Il pragmatismo analitico italiano di Mario Calderoni (IF Press), L’ontologia civica di Eraclito d’Efeso (Limina Mentis), Grecità marginale e suggestioni etico/giuridiche: i Presocratici (IF Press) e Libertà in frammenti. La svolta di Benedetto Croce in Etica e Politica (deComporre). È con-direttore de Il Guastatore – Quaderni «neon»-avanguardisti; è direttore esecutivo della rivista internazionale Información Filosófica; è direttore delle collane Esprit (Limina Mentis), Nidaba (Gilgamesh Edizioni) e Fuzzy (deComporre Edizioni).

 

foto Diane Arbus

foto Diane Arbus

Mi scrive Ivan Pozzoni:

 nel lontano 2012, quando mi scopristi, scrivesti: «Ennio Abate pone il problema della continuità / discontinuità? Penso che Pozzoni non si ponga nemmeno questo problema; il problema della tradizione e dell’antitradizione? Pozzoni non se lo pone nemmeno. Vuole fare il guastatore, va con le cesoie per spezzare il filo spinato che il Novecento ha posto a difesa dei fortilizi della Tradizione e del Canone, tutte parole grosse che designano un significato preciso: i rapporti di potere che sotto stanno e sottendono i rapporti di produzione tra le istituzioni stilistiche maggioritarie. Pozzoni, a mio avviso, fa bene a buttare tutto all’aria e a carte quarantotto»”.

 In data 20 marzo 2015 alla mia notazione secondo la quale Ivan Pozzoni  era ancora in mezzo al guado tra la Anti-poesia e la Poesia, così ribadiva l’interessato:

“Finalmente hai compreso il significato di «chorastico», che caratterizza la mia attuale scrittura, cioè «tu stai ancora a mezzo del guato: tra Poesia e Anti poesia», che descriverei con un bellissimo termine rubato a fini terapeutici da Binswanger a Jaspers e da Jaspers a Von Gennep e Turner: «liminalità» [«lo stato o la qualità di ambiguità che esiste nella fase centrale di determinati eventi o rituali (come un rito di passaggio o di una rivoluzione a livello di società), durante il quale l’individuo o gruppo partecipante non detiene più il suo status pre-rituale, ma non ha ancora raggiunto lo status terrà quando il rituale è stato completato»]. La cora (chora) è, nelle colonie elleniche antiche, la situazione liminale tra polis e oi barbaroi, la «situazione-limite» jaspersiana, tra città e monti, tra civiltà e barbarie, tra ragione ed emozione, tra forma e a-forma. I miei versi chorastici, liminali, stanno «ancora a mezzo del guato (o del guano): tra Poesia e Anti poesia», come noi tutti stiamo, con la crisi («situazione-limite») del moderno, nel Trado moderno, cioè, storicamente, sulla «soglia» tra due evi, tra due società, tra due categorie di weltanschaungeen. Qui il tuo concetto di «forma-poesia», che ti chiederò sul blog di espletare meglio, rischia di cader di senso, essendo un concetto del moderno.

 Quando muoio, fatemi diventare il nuovo Lucini [Gian Pietro 1867-1914] della «forma-poesia»: adesso non lo sono, non lo sarò: Lucini stava nella civitas, nella polis, con uno status definito (senza accorgersi, ne discutevamo via email molto, che ogni status attualmente si è «liquefatto»). Io resto sulla «soglia», non in attesa di entrare o di uscire, vivo sulla «soglia», conscio che, nella mia vita, il momento della transizione, della «situazione-limite», saranno i momenti cardine. La mia è una «poesia» della «soglia», cioè una anti-«poesia» (non in senso bachtiniano, di rovesciamento). Io sto «ancora a mezzo del guato: tra Poesia e A-poesia», perché se la tua anti-«poesia» è annullamento, annichilimento, della «forma-poesia», dobbiamo chiamarla col suo nome, cioè a-«poesia», come l’a-moralità è l’annichilimento della moralità (e l’anti-moralità, o immoralità, è una devianza, una marginalizzazione, una liminanza). La mia anti-«poesia», che non è a-«poesia», è devianza, marginalizzazione, liminanza (che non è mai carnevalizzazione, in quando consolidamento della carnevalizzazione). Affiliamo i coltelli dell’analisi!”

Ferdinando Scianna foto

Ferdinando Scianna foto

Commento di Giorgio Linguaglossa

 La sapienza tattica di Ivan Pozzoni fa uso della parola-segno, della parola-mezzo in conseguenza della presa d’atto del tramonto della Parola giudicante o della Parola simbolica per approdare ad una Parola Anti-parola, una parola conflittuale figlia del processo democratico del decadimento e della confusione di tutte le lingue e di tutti i linguaggi, nell’abisso della intermediazione di tutti i linguaggi degradati a linguaggi veicolo, linguaggi da trasporto, nastri trasportatori di linguaggi merce e di linguaggi oggetti. Questa mediatezza della lingua (prodotto dalla civiltà dei segni), l’impossibilità di comunicare immediatamente il «concreto», è l’abisso dell’astrazione, per Benjamin terza conseguenza del «peccato originale linguistico». Questo uso degli elementi astratti della lingua nella «poesia» di Pozzoni si converte nella pirotecnica virulenza derivata dall’abbandono del «nome» e della sua capacità denominante. Di qui per Pozzoni l’asservimento della lingua nella «ciarla», cui segue l’asservimento delle cose alla lingua dei segni secondari, terziari, quaternari etcetera (con buona pace della forma-poesia), fenomeno questo attiguo alla infinita intermediazione dei linguaggi dei segni: la disseminazione del linguaggio dei segni in una entropia dei linguaggi non più denominanti. Il «segno» non è più impronta divina del «Nome», ma impronta di un altro «segno» in fuga perpetua, trasformazione del comunicabile in comunicabile, cancellazione del comunicabile, cancellazione dell’oggetto, cancellazione della cancellazione in un moto vorticoso e perpetuo, carnevalizzazione della cancellazione in un moto entropico perpetuo.

Carmina non dant damen

La storia di una moneta non interessa a nessuno
due facce mai tanto ardite da vedersi in faccia:
su un lato impressa l’effigie d’una regina,
austera, drappeggiata di sete e assetata di drappi,
sull’altra l’immagine di un menestrello, vestito d’un manto di terra,
circonfuso dall’aurea tristezza dei canti di guerra.

L’incanto d’amore si trasforma in moneta
due mani, sistemata con cura e artigiana,
si stringon le mani, e due visi, due occhi meteci
si sporgono dai rilievi del rame,
tenendosi vivi, abbracciati, sospesi nel vuoto,
l’uno a osservare l’amenità di un reame
dove corrono liberi i fiumi, sorridono i fiori,
rivestito di boschi e di frutti in eterno,
l’altra a guardare l’inferno.

La mia arte è impotente
a lanciare incantesimi tanto influenti
da tener senza tempo sospesi nel vuoto due volti,
mescolando in fucina i due mondi
in un unico mondo in cui menestrello
e austera regina si armonizzino a fondo.

Menestrello, continua a cantare
il tuo inutile canto col cuore spezzato,
in attesa che frammenti di lacrime
si rimettano in circolo
nel sangue d’un amore smezzato.

.
Mortacci!

Passando in auto fuor dal cimitero,
città nella città,
affitti bassi da scarso acquisto,
ci siamo accorti come non tutti i cari estinti
abbiano compreso d’esser morti.

Urla, lacrime e sussurri,
col mite borbottio dei men buzzurri,
rincorrono voli di farfalle,
simili alla monotonia costante
dello scolorir d’un vecchio scialle.

C’è il vecchio maresciallo dei carabinieri
che, non ancor abituato agli stranieri,
chiede a gran voce, sull’extracomunitario,
duri divieti di cippo funerario.

C’è la fanciulla, spirata adolescente,
che passa la giornata a non far niente,
tappezzando a foto di giornale
i muri della sua stele tombale.

C’è il maniaco, fresco di cassa,
che, non ancor arresosi alla fossa,
vaga narrando a tutti di com’è bella
l’orrenda vista della sua cappella.

C’è la ninfomane in tuta da tennis
presa a saziarsi di rigor mortis
cercando di sfruttare, con disinvoltura,
i vantaggi propri della sepoltura.

Perché – mi dite- è inverosimile che vivano i defunti,
in barba ai beccamorti,
se voi che v’ostinate a dichiararvi vivi,
vivete come foste morti?

Not Vidal Snowballs

Not Vidal Snowballs

Frammenti ossei

La scala a chiocciola, librata in mezzo ad una scia di monumenti funebri di superficie,
conduce nel cuore delle terre nere – a Occidente, direbbe il saggio Ptahhotep-
conduce all’archivio storico d’una intera città
sommersa da centinaia d’anni di corone funebri,
lento incedere di corteo, benedizioni bagnate di dolori attoniti.

Come un archivio di ministero,
debitamente incasellati: i morti.

Morti, d’ogni età, d’ogni secolo, morti stoccati in nicchie d’un metro
in corridoi senza tempo, a due dimensioni,
città nella città, città sotto città, un carosello di fiori sbiaditi
coccarde nere fine ottocento, ritratti velati di nebbia,
conditi da un’atmosfera di noia mortale,
nome dopo nome viso dopo viso
muti racconti ammantati dal sudario dell’oblio.

Vorrei (e mi ritrovo a scrivere «vorrei» in un testo dopo troppo tempo),
essere burocrate da casellario
dando un minuto di voce a ciascun concessionario:
al bimbo morto, a un anno, nel ‘43
condannato a vestire in eterno da bebè;
a un magistrato, baffi all’Umberto, costretto a vivere la morte,
di fianco all’umile, magari ladro, scafato tecnico da cassaforte;
ad una contegnosa docente di Liceo, deceduta nel ‘19,
che mai arrivò a spiegare ai suoi mille e mille alunni
come mai morirono di ferite o campi di concentramento
in un ventennio speso a risiedere in un reggimento.

Fuggito dal remoto avvenire risalendo di corsa la scala
i monumenti funebri di superficie ci richiamano all’oggi, all’istante,
o a un futuro meno distante.

Hotel Acapulco

Le mie mani, scarne, han continuato a batter testi,
trasformando in carta ogni voce di morto
che non abbia lasciato testamento,
dimenticando di curare
ciò che tutti definiscono il normale affare
d’ogni essere umano: ufficio, casa, famiglia,
l’ideale, insomma, di una vita regolare.

Abbandonata, nel lontano 2026, ogni difesa
d’un contratto a tempo indeterminato,
etichettato come squilibrato,
mi son rinchiuso nel centro di Milano,
Hotel Acapulco, albergo scalcinato,
chiamando a raccolta i sogni degli emarginati,
esaurendo i risparmi di una vita
nella pigione, in riviste e pasti risicati.

Quando i carabinieri faranno irruzione
nella stanza scrostata dell’Hotel Acapulco
e troveranno un altro morto senza testamento,
chi racconterà la storia, ordinaria,
d’un vecchio vissuto controvento?

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LA GENERAZIONE DEGLI ARRABBIATI DUE POESIE di Valerio Gaio Pedini “De bello stronzibus o memoriandum dell’ottavo nano: ovvero il monologo mai scritto di Giulio Cesare”, “Portarono dell’alcool al nativo” – UNA POESIA di Ivan Pozzoni con un Commento di Valerio Gaio Pedini

 Erich Eckel Il giorno di vetro 1913

Erich Eckel Il giorno di vetro 1913

 Valerio Gaio Pedini

Ma conchiudendo l’amarissima vicenda che ci ha tanto fatto sognare, i polli sono stati cotti e mangiati e crauti hanno adornato il tutto: così che l’idromele fosse più buona: bona, basta, stop, bona, basta, stop, finisci le tue parole e vattene dal mio cimitero:
oh se fossi dado mi tratterei-se fossi pugno la faccia ti spaccherei:
ma è mai possibile che bisogna venerar otto coglioni, che nemmeno sanno farsi il letto:
Cleopatras lussuriosa et Biancaneve che produce fiele: parole, parole, parole: basta con le parole!
Nani, nani, nani, nani: sapete che potete crescere, cavalcando muli ciarlatani!
E così fu che il vano giudizio divenne larga sentenza: i miei rivali sono stati avversari temibilissimi nello scontro armato: stronzonibus docet:
Antonioooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo! Ottavianooooooooooooo! Tu quoque Bruto fili mi!
Io sono Bruto e tu sei un pezzo di merda: ah, io non sono né un repubblicano, né un imperiale: io sono uno che ha i coglioni girati: e poi basta a dirmi figlio, mi hai solo adottato, pirla!
Cicerone dove sei finito,eh? Tutti lo sanno che volevi ammazzarlo, tutti! Cicerone, sei troppo impegnato a scrivere sulla stronzaggine per sentirmi?
Oh, audire è difficile, quando non si ha un cazzo da fare!
Ascoltate, gente, lo so che siamo tutti alla gogna!
Non è forse vero che siamo tutti ugual ipocriti a questo mondo?
Che corriamo, ci tuffiamo, varchiamo fiumi e ci facciamo padroni del mondo?
Ah, coraggio da vendere dite?
Nah,pavidità, pavidità, pavidità: stupidità, stupidità, stupidità: io le mie parole le scrivo, non le detto!
Ave Vale, ave Me, ave Vale, ave Me, ave Vale e finiscila!
Smettila pur qualche volta d’imprecare contro la storia, contro la letteratura, contro l’uomo:
deprivato di virilità:
sapete, oh uomini che Cesare era uno gnomo e che viveva in un bosco, fatto di mariuana, di cocaina, di eroina e di quattro baldracche e anche baldracchi: d’altronde amava le cose strane, amava i Galli,
anche lui era un Gallo: ricorda un po’ quell’imperatore appassionato di pollicultura, giusto, fu l’ultimo imperatore: pare che la gente sia invaghita del pollame.
La storia è un luogo strano: uno ti parla di Galli, e viene considerato un libro Antropologico: quando io parlo di uomini, pensano che faccia etologia come Konrad Lorenz, con le anitre che si muovono con sincronia,
vedeste come mi seguono!
D’altronde c’è chi tira il collo e chi spacca le reni alla Grecia!
Ma io sono un Gallo Cedrone, un Tacchino, un Pavone, guardate la mia bellezza, ah, vero che sono bello?
Guardate che corona!
Sono il re di tutti voi saltimbanchi perditempo: pirliamo tutti in giro, tanto il Duomo sta crollando, in un frammisto di Cinesine: la gente è proprio fissata con il pollame e con gli augelli, soprattutto quelli solitari!
Ah ah ah ah, Serva Italia di dolore ostello, bordello:
eh, sapessi, almeno ci fosse il bordello, ma caro Dantuccio, il bordello non c’è:
vi è solo qualche pollo, cinesino, gallo, pavone e anche qualche coniglio:
sembra di essere in una stalla più che altro.
Varcare la società, spaccarla! Distruggere! Bruciare! Invadere le farms di questo tripudio linguistico:
metterli nella fornace, e chiuderli in un bunker, proteggerli e ucciderli, ucciderli e proteggerli:
uomini, viviam nella disperazione, stiam male e siam distrutti: morirem come morirà l’universo:
scoppiato in un gemito strozzato:
tiriamo il collo a ciò che sappiamo, tanto non ne saremo certi mai:
audire, l’uomo è un animale senza senso, categoriale, non sensoriale:
vedete il mio naso grosso come quello di Cyrano? Non usma
E la mia lingua serpentina?Non sente alcun sapore?
No, qui le orecchie scoppiano e noi possiamo dissolverci in vane parole.

Ernst-Ludwig-Kirchner

Ernst-Ludwig-Kirchner

Portarono dell’alcool al nativo

Ed il nativo ringraziò-pregando Terra di rendere fede a questo generoso uomo – che era il non luogo
Del premio dello sgombero
Lo sgombero avvenne – e il nativo si trovò piazzato in un libro di De Curtis, fenomeno archeologico, nelle vestigia di Rambo, fenomeno da baraccone, indossando la tuta di Batman in uno squallido bar cantando l’ultima canzone d’amore- e tutti intorno con il fungo in mano sedevano, mugghiando la fine di qualche corvaccio e l’inizio di un paio di pavoni:
Il cinema li presenta come dei tiranni barbarici, nomadi ignoranti, che vivevano in tendine di stracci:
è proprio vero che i film storiograficamente dicono solo cazzate!
Questi dementi di Cowboys sempre a rompere i coglioni a questi dementi di Nativi: davvero non si possono vedere!
È meglio pensare allora a Cavallo Pazzo, che cerca di estinguere i coloni-o qualche apaloosa, naturalmente portato dall’occidente, che sbuchi dalla steppaglia e nitrisca prima di recalcitrare, per poi cadere fucilato dal premio divino!
Ai Crow che si fanno appendere al soffitto di una caverna buia, per illuminare la via della salvezza.
Oppure qualche Piede Nero che dissangua qualche bisonte, prima di assaporarlo, scuoiandolo per indossarlo nei giorni dell’invasione!
Gli Americanisti dicono che i Nativi non sono stati sterminati, sono stati traslati:
eppure l’ultimo nativo che vidi era un pirla che mi vendette una maglietta ed un cerchietto e quell’altro disperato cantava:

“natura morta
Disseminata dall’odio
Ti estinguerai sotto il mio piede rosso,
natura bianca
l’anima è seviziata,
il corpo non vive:
il bisonte si è estinto
e tu, come volevasi dimostrare, sei morta…
ed è colpa mia
ahiahaiaiaia
ed è colpa mia!”
Bum!

Quando tutti insieme in coro gridavano “what a jingle shit!”-Ed io dicevo loro, non ci sono più i canti di una volta, non ci sono più i canti!

Ci sono i pianti

E tutto… tutto ricominciava

“natura morta
Disseminata dall’odio
Ti estinguerai sotto il mio piede rosso…”

 

SCHMIDT-ROTTLUFF_Jahre

SCHMIDT-ROTTLUFF_Jahre

 UNA POESIA di IVAN POZZONI con un Commento di Valerio Gaio Pedini

Quando Giorgio Linguaglossa nei suoi Appunti Critici (2003; Edizioni Scettro Del Re) evidenzia che  la questione che più è corroborante nella critica vigente è la mancanza di coraggio, ovvero una cospicua diminuzione e rarefazione della critica militante, possiamo ben dedurre, che, data una mancanza di coraggio critico, fossilizzato al saggio dotto di poeti e artisti di cui hanno già detto tutto quello che si poteva dire e che le parole usate, pur edotte, sono anch’esse troppo ripetute (forse proprio perché edotte), ci sia una mancanza di coraggio poetico: una- permettetemi il termine plebeo ma attuale- deprimente fossilizzazione tematica e formale: una “gran fossa”che io ho più volte definito con il termine Nostalgia, che, ormai non produce nemmeno più letteratura elevata (Spaziani), ma si va a delineare entro un termine assai mellifluo come “posticcio”.

Ora, finito il preludio, vi chiedo, cortesemente, di rimuovere ogni parola da me scritta, poiché Pozzoni di coraggio ne ha da vendere- e come ben si può dedurre- agl’egemoni questo coraggio fa male, troppo male: ergo gli egemoni sono costretti a respingerlo, sia dal punto vista critico, sia dal punto di vista poetico: ma pare proprio che con Pozzoni la critica militante si stia rigenerando.

In poche parole: Pozzoni ha ben compreso che la posizione della poetica d’avanguardia novecentista è infattibile, inattuabile e da uno sberleffo assolutamente ingenuo del poeta marxista Ennio Abate, che lo definì “neon-avanguardista”, termine che Ivan invece adotta con non poco apprezzamento, per l’indignazione del Compagno Abate. Andando per le spicce, ha compreso cosa significa «liquidità sociale»: e in aggiunta, Linguaglossa ci va ad accostare un appellativo che agli egemoni fa accapponare la pelle: «Guastatore».

Mi sembra necessario però delineare dove si posiziona la poesia di Ivan: la poesia di Ivan è “chorastica”, non è un poeta delle strade e non vuole esserlo, ma non è nemmeno nella chiusura ermetica: potremmo collocarlo nella Linea Di Minor Resistenza- Linea però portata ad un estremo di sarcasmo, ironia, umorismo: si potrebbe, invero, dire che la poesia di Pozzoni non conosce il termine Giusto Mezzo, poiché non esiste attualmente, e anzi è impossibile che l’uomo sia nel giusto mezzo, poiché forse è del tutto inconcepibile: d’altronde in una società in cui tutto è portato all’esasperazione, all’estremo, la poesia ed ogni forma d’arte non possono fare altro che muoversi all’estremo, e ciò Pozzoni l’ha compreso. Ma per comprendere meglio la poetica di Pozzoni, aggiungo qui una sua poesia,
Marinetti non l’avrebbe mai scritto:

Brutto volto

emil nolde

emil nolde

 

 

 

 

 

 

 

(dialogo tra un manager e una studentessa universitaria in discoteca)

Ciao, come va? È tutta la sera che ti osservo
Ciao, zio! Mica sarai un Baldocci o un Babbaluga, eh?
Guardo solo te!
Perché mi lumi? Starai mica a broccolarmi?
Sei una bellissima ragazza.
Grazie, zio. Ce l’ha una geografica per una bomba?
Dobbiamo invadere l’Albania?
Non mi far sclerare, abbiamo finito la gangia, e non ci sono Majabba nei dintorni! C’hai neuri, dai? Non fare il T-rex!
Per farsi una canna, non ho money: non concepisco chi si droga.
Zio, mi perplimi. Mica sarai un robboso? Sei afef?
Al massimo Tronchetti Provera! Dai, non sono noioso.
No, non sei un asciugone, né un fonzie. Pure tu m’attizzi! Non sei un Sancarlino! Sei un aristofreak? My sister dice che scrivi libri.
Grazie, sono un ragazzo normale. Sì,sono un artista.
Bella, frate. Mi fai andare in sciambola. Sclero! Sai scapersare?
No, non suono, non scrivo musica. Scrivo versi.
Menomale ke non sei una melo checca…Sei proprio un O.G.M! Come ti citofoni?
Boh, di norma scendo in strada, suono, e ricorro in casa. Non è sempre facile ritrovarmi.
Che disease! Mi fai morire, o, se non altro, non mi fai sminchiare come i ragazzi della mia età. Preferisco i ragazzi maturi, come te.
Comunque mi chiamo Ivan.
Bello, mi piace abbestia? Hai un fazzollo?
Tieni.
Grazie. Come vivi?
Sono responsabile in un’azienda di distribuzione organizzata. Tu?
Uni, che sbatta! Sono alle pezze, sempre a studiare. Interessi: non sei un fungo!
Se fossi un fungo, sarei un Cortinarius, velenosissimo.
Bastard Inside! Ti bevi un ape?
L’ultima volta che ho bevuto un’ape mi hanno ricoverato in ospedale.
Ddddaiiii, non fare il babbo di pezza! Non sono una figa di legno.
Sei una che va subito al dunque?
Antisgamo.
Con te ci andrei al dunque.
Henk! Che bazza…Mi sa che vuoi solo bombare! Come sei messo a Caronte? Ihihih
Sono in grado di traghettare te e tutte le tue amiche…
Smettila di garlare. Non fare il grozzo!
Scusami, hai ragione.
Sempre a pensare a inzaccare, voi maschi. Camomillati, o mi tocca asfaltarti! Non è che concedo il frisby al primo che incontro.
In tutti i casi, se la concedi, te la rilanciano.
Sei troppo scemo, simpa! Non ti voglio scagliare! Ti va di ribeccarci, magari, un puntello, non, così, damblee…
Sì, ho voglia di rivederti. Magari un chinese, un cinemino?
Dobra! Ci sto dentro. Sgamiamoci domani: lasciami il numero di cella. Hey! Dove ho messo la cella? ‘spetta, non imbruttirti!
Più brutto di così, non riesco, anche impegnandomi.
Sono in chiusura, zio, non ti seguo. Oh, non mi rimbalzare, squilliamoci.
Certo: ti chiamo. Ma non sarai mica fidanzata?
Zibra! Zero al quoto! Poi che cambia?
Eh, che cambia?! Sei troppo fuori. Domani è Ferragosto, è tutto chiuso.
Fregatene: ci vediamo al bancomat, e magari ci archiviamo a letto. Cia’, zio.
Ciao, bella. Continua a leggere

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TRE POESIE INEDITE di Ivan Pozzoni “L’alieno” “Il destino di Siface” “La fuga di Mitridate” POESIE SU PERSONAGGI STORICI MITICI O IMMAGINARI

 

Milano Quartiere Quarto Oggiaro

Milano Quartiere Quarto Oggiaro

Ivan Pozzoni è nato a Monza (MB) il 10-06-1976. Sue raccolte di versi: Underground (A&B, 2007), Riserva Indiana (A&B, 2007), Versi Introversi (Limina Mentis, 2008), Androgini (Limina Mentis, 2008), Lame da rasoi (Joker, 2008), Mostri (Limina Mentis, 2009), Galata morente (Limina Mentis, 2010), Carmina non dant damen (Limina Mentis, 2012), Il Guastatore (Cleup, 2013), Patroclo non deve morire (deComporre Edizioni, 2013) e Scarti di magazzino (Limina Mentis, 2013); ho curato antologie di versi: Retroguardie (Limina Mentis, 2009), Demokratika (Limina Mentis, 2010), Triumvirati (Limina Mentis, 2010) [raccolta interattiva], Tutti tranne te! (Limina Mentis, 2010), Frammenti ossei (Limina Mentis, 2011), Labyrinthi IIIIIIIV (Limina Mentis, 2013), Generazioni ai margini, NeoN-Avanguardie, Comunità nomadi, Metrici moti, Fondamenta instabili, Homo eligens, Umane transumanze, Forme liquide e Scenari ignoti (deComporre, 2014); nel 2008 sono stato inserito nell’antologia Memorie del sogno, di A&B Editrice, nel 2009 nell’antologia Paesaggi, di Aljon Editore, nel 2010 nelle antologie Rosso e Taggo e ritraggo di Lietocolle, nel 2011 nelle antologie Insanamente, di FaraEditore, Dal tramonto all’alba, di Albus Edizioni, e Verba Agrestia 2011, di Lietocolle, nel 2013 nelle antologie Il ricatto del pane, con CFR Edizioni e Le strade della poesia, con Delta3 Edizioni, nel 2014 nell’antologia L’amore ai tempi della collera, con Lietocolle. Ho collaborato, con saggio, ai volumi collettivi Ricerche sul pensiero italiano del Novecento (Bonanno, 2007), Le maschere di Aristocle. Riflessioni sulla filosofia di Platone (Limina Mentis, 2010), Centocinquant’anni di scienza e filosofia nell’Italia unita (Limina Mentis, 2011), Scienza e linguaggio nel Novecento italiano (Limina Mentis, 2012) e Pensare la modernità (Limina Mentis, 2012); sono usciti miei volumi e volumi collettivi da me curati: Grecità marginale e nascita della cultura occidentale. I Pre-socratici (Limina Mentis, 2008), L’ontologia civica di Eraclito d’Efeso (Limina Mentis, 2009) [mon.], Il pragmatismo analitico italiano di Mario Calderoni (IF Press, 2009) [mon.], Cent’anni di Giovanni Vailati (Limina Mentis, 2009), I Milesii. Filosofia tra oriente e occidente (Limina Mentis, 2009), Voci dall’Ottocento (Limina Mentis, 2010), Benedetto Croce. Teorie e orizzonti (Limina Mentis, 2010), Voci dal Novecento (Limina Mentis, 2010), Voci dal Novecento II (Limina Mentis, 2011), Voci di filosofi italiani del Novecento (IF Press, 2011), Voci dall’Ottocento II III (Limina Mentis, 2011), La fortuna della Schola Pythagorica. Leggenda e contaminazioni (Limina Mentis, 2012), Voci dal Novecento IIIIV (Limina Mentis, 2012), Pragmata. Per una ricostruzione storiografica dei Pragmatismi (IF Press, 2012), Grecità marginale e suggestioni etico/giuridiche: i Presocratici (IF Press, 2012) [mon], Le varietà dei Pragmatismi (Limina Mentis, 2012),  Elementi eleatici (Limina Mentis, 2012), Pragmatismi. Le origini della modernità (Limina Mentis, 2012), Frammenti di filosofia contemporanea I  (Limina Mentis, 2012), Frammenti di cultura del Novecento (Gilgamesh Edizioni, 2013), Frammenti di filosofia contemporanea II (Limina Mentis, 2013), Lineamenti tardomoderni di storia della filosofia contemporanea (IF Press, 2013), Schegge di filosofia moderna I (deComporre, 2013), Voci dal Novecento V (Limina Mentis, 2013), Voci dall’Ottocento IV (Limina Mentis, 2014), Schegge di filosofia moderna IIIIIIVVVIVIIVIIIIXX (deComporre, 2014) e Libertà in frammenti. La svolta di Benedetto Croce in Etica e Politica (deComporre, 2014) [mon.]. Nel 2012 è uscito il numero unico di rivista, da me curato, Le bonhomme. Dal 2007 al 2013 ho assunto il ruolo di direttore culturale della casa editrice solidale Liminamentis Editore.

Milano Periferia, scorcio

Milano Periferia, scorcio

“… mi sembra che si tratti di una questione molto semplice: la scomparsa della poesia così come l’abbiamo conosciuta e praticata nel Novecento: l’affondamento del Titanic. Ivan Pozzoni trae tutte le conseguenze dal fatto che il locutore ha cessato di essere fondatore, e che il linguaggio ha cessato di essere la dimora dell’essere; che, insomma, l’essere, l’io e il linguaggio stanno tutti in una dimensione di galleggiamento dove presente e passato collimano con il futuro-passato. Una dimensione a-dimensionale. Ivan Pozzoni  liquida la poesia così come liquida la filosofia del Novecento; tutto è affondato sotto i colpi di quel machete che è stato l’affondamento della Fondazione. Pozzoni risolve (a modo suo e con pieno diritto), la questione della «Poesia» facendo una «cosa» che, molto semplicemente, è fuori-della-poesia. La presa di distanze da ogni ipotesi di «retroguardia» come di ogni «avanguardia» è chiarissima nella nomenclatura che ne dà Pozzoni quando parla di «non-poesia» e di «neon-avanguardia», quell’avanguardia che è andata a farsi friggere non desta più alcun interesse al poeta di Monza, così come la «poesia» vista come istituzione stilistica è un concetto che non dice più nulla a Pozzoni.

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

Pozzoni prende dunque atto che la poesia contemporanea è rimasta priva di referente, priva di un pubblico mandato sociale, priva di fondazione, priva di un tegumento stilistico, figlia legittima del tempo della stagnazione e della susseguente recessione economica, politica e spirituale, essa non può che girare a vuoto nel vuoto valoriale ed esistenziale. Ergo, il «poeta» diventa «non-poeta», la «poesia» diventa «non-poesia», è una quiddità non esistente, galleggia su di una materia non-materia, liquida, è parerga, fronzolo ricciuto e fronzuto, «neon». Direi che questo azzeramento mi sembra una operazione che ha i suoi risvolti positivi: una iconoclastia radicale, una dissacrante e arrembante distruzione di tutto ciò che pretenda di ergersi a mondo valoriale riconosciuto e riconoscibile, tanto è vero che Pozzoni riesce convincente quando abbandona la griglia formale in rime che nel suo corpo testuale diventa qualcosa molto simile alla non-rima, che riesce appunto telefonata in quanto prevista in anticipo, in quanto è già programmata nel software del Dopo il Moderno anche la sua mancanza. In quanto posti nel magazzino dei bagagli smarriti in anticipo, Pozzoni si sbarazza con funesta allegria di tutto il conglomerato delle retorizzazioni novecentesche. È l’affondamento della forma-poesia che qui ha luogo, senza nessun frastuono immersi come siamo nel rumore di fondo di una omologizzazione pervasiva e onnilaterale.
A questo proposito ritengo interessante per i lettori riportare una riflessione di Ivan Pozzoni apparso su un blog”
(Giorgio Linguaglossa da prefazione a Patroclo non deve morire, 2012)

Ivan Pozzoni Patroclo non deve morire“I miei frammenti, come frammenti ametrici, rifiutano ogni categorizzazione tradizionale, caratterizzandosi come «non-poesia» dove, con «poesia», si intenda una scrittura in versi eccessivamente attenta a modelli e strutture formali. La mia è una «vocazione», interessata a richiamare alla mente l’assurdo della quotidianità e a chiamare a raccolta chi, contro tale assurdo, desideri architettare forme di resistenza, benché io non sia certo che, nel tardo-moderno, sia ancora significativo il concetto, molto solido, molto orientativo, di «via»”.

(Ivan Pozzoni)

ivan pozzoni l'alieno

48. L’alieno

Dei fari si accendono allo sbocco della tangenziale di Milano
stride un rumore di impatto al suolo, brucia il terreno
non è l’inondazione del solito Seveso a creare rumor d’uragano
è sbarcato un alieno.

Arrivano in loco ambulanze e carabinieri richiamati dalla confusione,
l’attracco di un Unidentified Flying Object non è un consueto risvolto;
dalla torre di Cologno Monzese arrivano celeri i fanti della televisione
l’intervista esclusiva su Mediaset Premium amputerebbe ogni indice d’ascolto.

«Dottor Alieno» – sgomita il giornalista pubblicista- «ha intenti di belligeranza?»,
nella speranza di strappare all’alieno una firma gratis sulla liberatoria;
«Somaro mio» – risponde l’alieno- «secondo te sarei sbarcato in Brianza
se avessi avuto intenzione di conseguire anche una mezza vittoria?».

«Sono un alieno, e vorrei lanciare un messaggio alla vostra nazione,
che, insieme a Grecia, Portogallo e Spagna è terrona dell’Unione Europea,
la Bca (Banca centrale aliena) è disponibile a favorire stock option
– come dite voi- in modo che ogni banca d’Italia, attuata una ricapitalizzazione,
abbassi i tassi di interesse ai conti correnti, irritando i colon
dei milioni di risparmiatori italiani fino a crear loro una recessiva diarrea».

La giornalista trentenne, in minigonna e scollatura di rappresentanza
tenta di interrompere l’alieno con una domanda d’ordinanza:
costui, puntando col medio, le manda un fulmine, sparita, via,
com’era abituata, di tanto in tanto, a sparir sotto qualche scrivania.

«Punto due della Bca – continua l’alieno- dovrete incrementare ogni forma di flessibilità,
cioè usate un flex o una mola Bosch sui sorrisi di chi spaccia disoccupazione
sotto la falsa retorica dell’opportunità: dall’era Craxi hanno esaurito ogni credibilità.
Se volevate mandare l’Italia a troie tanto valeva tenersi in Camera Ilona Staller
e smettere di votare, come ciucci, i microcefali epigoni sinistra-centro-destra della Merkel
affrontando sul Transatlantico, MonteTitanic, la punta dell’iceberg della recessione».

«Punto tre della Bca – conclude l’alieno-, se da Arcore arriva Berlusca neanche inizio
non vorrei, tra le varie nipoti di Mubarak, incappare in un’odissea nell’ospizio
(di Cesano Boscone) o se da Firenzi mi arriva il Fonzie con la faccia da cassamortaro
non vorrei spendere milioni di alien-dollari in detersivi a cercar di smacchiare un giaguaro,
dovrete vendere le Alpi alla Svizzera, il Tirreno alla Corsica e l’Adriatico all’Albania
e svuotare l’oceano di un debito pubblico col cucchiaio della gerontocrazia».

All’improvviso a sirene spiegate arriva un’autolettiga della Croce Verde Pavese
due nerboruti infermieri, attenti a schivare medio e media, incamiciano l’alieno genovese
che, divenuto immediatamente alienato, interrompe il discorso e si incammina tranquillo.
Come cazzo hanno fatto a confondere messaggi d’alieno con un comizio di Beppe Grillo?

 

Sofonisba, la consorte di Siface

Sofonisba, la consorte di Siface

49. Il destino di Siface

Tito Livio, contro Polibio, si compiace
di spiegarci il destino di Siface.

La cronaca: raccontiamo i meri fatti
come farebbe Govoni coi suoi fiori soddisfatti.

Gli antefatti: Scipione attiva Massinissa e Lelio
contro un Siface costretto a dare er mejo.

Per Siface, in Magnos campos, è amarissimo il boccone
d’essere sconfitto al Bagrada insieme ad Asdrubale Giscone:
Postero die Scipio cum omni Romano et Numidico equitatu Masinissamque Laelium
expeditisque ad persequendos Syphacem atque Hasdrubalem mittit militum.

Catturato Siface la resa di Cirta è certa
i cavalieri di Lelio stravincono in trasferta
la disfatta è colpa di Siface: nisba!
ci finisce in mezzo Sofonisba
costretta a ingurgitare una tazza di veleno
come nel Critone fece Socrate senza esserle da meno.

Scipio C. Laelio cum Syphace aliisque captivis Romam misso, cum quibus et Masinissae
legati profecti sunt, ad Tyneta rursus castra refert ipse.
Siface è imbarcato verso Roma, caput mundi
incarcerato da una catena di gerundi,
a Zama c’erano Mazetullo e Ticheo e Siface stava a Tivoli
Annibale ebbe volatili da diabetici, cioè cazzi amari, e a Cartagine furono davvero cavoli.
Morte spectaculo magis hominum quam triumphantis gloriae Syphax est subtractus,
Tiburi haud ita multo ante mortuus, quo ab Alba fuerat traductus.

Dove stanno bene i fiori? In un vaso:
non servivano ventisei versi a distruggere il Parnaso.

Mitridate

Mitridate

 

 

 

 

 

 

 

La fuga di Mitridate

Questi momenti oscuri da instabile mondo terziario
ci inducono ad una sottile costante mitridatizzazione,
versandoci in versatori versatili di veleni metrici
nelle arterie d’una società tossicomane,
in crisi d’astensione.

Fondo un mondo dove rari eroi eroinomani,
ed eroine, inoculino, alternando, dosi d’antidoto e dosi di veleno
nelle loro stanche vene artistiche,
assicurando esiti incerti ai tests d’immunodeficenza,
battendo soglie di tolleranza.

Mitridate, assuefatto a Roma,
indossò un’armatura di scaglie di vento,
e non fuggì.

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POESIE SU PERSONAGGI STORICI, MITICI O IMMAGINARI – POESIE di Flavio Almerighi, Giuseppe Panetta, Ivan Pozzoni, Sandra Evangelisti

escher Labirinto

Escher Labirinto

Flavio Almerighi

Tecniche di paludamento

Teste in disordine, braccia più piccole, incontrano soltanto propri simili. Allora si rimedia un fucile da ficcare in fondo alla gola, e così fecero Otto Weininger nel 1903, Vladimir Majakowski nel ’30, Ernest Hemingway nel ’61, Guido Morselli nel ’73, Guy Debord nel ’94.
Preferirono l’acqua Alfonsina Storni nel ’38, Virginia Woolf nel ’41, Paul Celan e Jean Amery nel ’70, Lucio Mastronardi nel ’79.
Ai gas chiesero conforto Sylvia Plath nel ’63, Anne Sexton nel ’74.
Pierre Drieu La Rochelle diventò leggenda col gas e un forte quantitativo di farmaci nel ’45. Yukio Mishima iniziò a decomporsi sul filo di una katana in diretta tv nel ’70.
Emilio Salgari, nonostante la tigre malese in giardino, si aprì ventre e gola con un rasoio nell’11.
Sergej Esenin, ottima tecnica di paludamento, s’impiccò dopo essersi tagliato le vene nel ’25,
Marina Cvetaeva nel ’41 appese una corda al soffitto, salì su uno sgabello e tirò un calcio.
Hart Crane nel ’32, John Berryman nel ’72 e Amelia Rosselli nel ’96 si gettarono da un ponte; George Trackl morì per overdose di cocaina nel ’14, Beppe Salvia sparì in uno sperpero di luce nell’85, Claudia Ruggeri aspettò l’autunno del ’96.
Cesare Pavese si uccise in una camera d’albergo a Torino nel ’50, sempre con i sonniferi nel dicembre del ’38 la giovane poetessa Antonia Pozzi attese la morte distesa sulla neve immacolata di Chiaravalle. Eros Alesi non volle scrivere troppo e se ne andò nel ’74, Remo Pagnanelli nell’87.
Primo Levi si tolse la vita gettandosi nella tromba delle scale del suo appartamento torinese anche lui nell’87; così come fece 15 anni dopo Franco Lucentini. Simone Cattaneo non si sopportò più a partire dal 2009
scrivere può preparare una vecchiaia perbene?

flavio almerighi

flavio almerighi

Arturo Nicolodi

Arturo Nicolodi è cronaca
di tralci d’umore e frantumi
dispersi senza tetto a morire
abbandonati al buon cuore
del destino, pigro
come il samaritano

quando serve
la cavalleria non si vede
nemmeno la polvere di lontano
sollevata dagli zoccoli,
generalmente sbaglia strada
come faceva il mio tenente

com’è tutta la voglia
di origliare milioni di notizie,
tante storie
nessuna informazione
a questo basterebbe mia madre
prima di dormire,

quanto mi sento piccolo
grandemente frustrato,
niente è andato né tornerà
fermo come questo paese
dove mia figlia non ha futuro
e noi a cenare con il nemico

flavio almerighi

flavio almerighi

Stazzema dodici agosto

Pardini Anna giorni venti,
settanta anniversari,
niente compleanni
nemmeno uno vissuto
in questo cazzo d’infinito,
gettata in strada, la stessa
ripristinata alla vigilia del freddo.

Durante i lavori di sterro
ritrovavano ossa e carcasse
le interravano di nuovo
in fretta e per paura
che uno zelota fermasse i lavori,
dopo l’oscurità nuova oscurità
accumularsi senza respiro.

L’armadio ha le ante
girate verso il muro,
sì che il vento non risollevi
le cartacce di Stazzema,
dormano pure tranquille
sul finire di questo dopoguerra

con tutte le sorelle in attesa
che quelle incinte
partoriscano solitudini bastarde
da mettere subito a dormire
appese al soffitto,
giusto angeli in cielo,
e fine di ogni formalità civile.

Un barlume,
appena appena ritrovato,
sta sul ciglio della strada riaperta,
come il paese tutto intento
a esportare democrazia.

Giuseppe Panetta

Giuseppe Panetta

 

Giuseppe Panetta

Meta-Mito

Mio nonno mi diceva sempre:
ricordati di salutare la stella del mattino
e di controllare che la tua ombra
sia attaccata ai piedi appena sveglio
altrimenti sei morto.

Guardo le pale d’Eolo sulla collina
il tritacarne dell’aria, i pannelli solari
che friggono insetti e formiche
che accendono la Titanomachia
e l’adamantina focaia del Sol invictus.

Il Pecus cuce energie a balletti
di bollette, con i Ciclopi dell’elettronica
omaggia l’onorata società della biacca
ed i galloni d’oro di Crono
il Titano di cromo. I Giganti del bisturi
e dei distributori tossici.
La madre che si congiunge col figlio
dal nickname Urano
in un video-poker di Caos.

Favolisti del consumo.
Riciclo di Apollonio Rodio in spray;
condizionamento di Callimaco in crema;
estorsione di Esiodo 2000 diesel.

Ricordati di salutare il satellite artificiale
che ti informa e ti deforma
e di controllare che la tua ombra
sia sopravvisuta ai cocktails di veleni
che non hanno nome.

(Inedito)

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

La fuga di Mitridate

Questi momenti oscuri da instabile mondo terziario
ci inducono ad una sottile costante mitridatizzazione,
versandoci in versatori versatili di veleni metrici
nelle arterie d’una società tossicomane,
in crisi d’astensione.

Fondo un mondo dove rari eroi eroinomani,
ed eroine, inoculino, alternando, dosi d’antidoto e dosi di veleno
nelle loro stanche vene artistiche,
assicurando esiti incerti ai tests d’immunodeficenza,
battendo soglie di tolleranza.

Mitridate, assuefatto a Roma,
indossò un’armatura di scaglie di vento,
e non fuggì.

sandra evangelisti

sandra evangelisti

Sandra Evangelisti

L’Imperatrice

Teodora dagli occhi di ghiaccio, l’imperatrice
nido di vespe e dono di dei
troneggia al tuo fianco.
Dalla sua mente discende il principio
ed il tempo di ogni legge.
L’imperatore, il “padre di tutti”,
trova rifugio ed il senno in un ventre di donna.
Boccoli scuri, altezza dogmatica, pelle dorata.
Taglio di lepre gli occhi e le labbra
zigomi alti e il mento sottile,
lei dura e veglia nei secoli.
Immagine fissa nella cupola eccelsa
e mosaico perenne.
Mentre il diritto rimane.
Scritto e tradotto passa il millennio,
fino all’inizio della nuova età.
“Piuttosto che bruciare arsi dalla passione,
è meglio unirsi in nozze.”
Ventiduesima delle Novelle trascritte.
“Melius est nubere quam uri”
La pelle di ambra della sposa arde per sempre nel tuo viso. Continua a leggere

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POESIE SCELTE di Simone Cattaneo(1974-2009) Il maledettismo del poeta nella società affluente, a cura di Flavio Almerighi con un commento di Flavio Santi

Simone Cattaneo al Pascià club 2008

 Pascià club 2008

 

Simone Cattaneo (1974-2009). Sue poesie sono state pubblicate su “Atelier”, “La clessidra”, “Hebenon”, “Poesia”, “Letture”, “Graphie”, “Tratti”, “Clandestino”,  ”La Mosca di Milano”, “Il primo amore” e “Ore piccole”.  Ha pubblicato due libri: Nome e soprannome ( Edizioni Atelier, 2001 ) e Made in Italy ( Atelier, 2008 ). E’ uscito postumo invece Peace&Love, raccolta delle prime due pubblicazioni più brani inediti (Il ponte del sale, 2011)

Indubbiamente, Simone Cattaneo coi suoi versi non versi, la terminologia diretta che ricorda autori come Bukowski e Armitage – ha lanciato un sasso nello stagno di molta poesia italiana cercando di non nascondere la mano. Riuscendo ad amputarsela. Ho memoria di un’edizione di parco Poesia a Riccione, mi sembra nel 2006, in cui per un intero pomeriggio il dibattito, più inutile delle zanzare tigre che ci tormentavano, verteva sull’esistenza o meno nella poesia italiana di una linea adriatica in risposta alla linea lombarda, già da lungo tempo reclusa in Milano a risciacquare versi meticolosi sugli amori di un battito di ciglia consumati nel diaframma di un finestrino d’autobus, o sulla botteguccia di Lorenzo il Meccanico che era in quell’angolo del quartiere negli anni Cinquanta e ora non c’è più. Cattaneo non credo sia stato un autore in perenne scontro frontale col sistema o un aedo degli ultimi. Semplicemente ha preso atto di realtà viste o intraviste trascrivendole. In questo è stato molto più utile di tanta poesia da bottega.

Simone Cattaneo  Pascià club 2008

 Pascià club 2008

Provo a immaginarlo durante un reading, magari in un salotto bene durante il tè della Cinque attaccare con “Non mi importa niente dei bambini del Burchina Faso che muoiono di fame,/non ne voglio sapere delle mine antiuomo,/se si scannassero tutti a vicenda sarei contento./Voglio solo salute,soldi e belle fighe. Giovani belle fighe, è chiaro.” In presenza magari di una Contessa Mazzanti Serbelloni Vien dal Mare o dell’illustre critico redattore capo di una rivista di poesia talmente illustre, ma diffusa in quattro copie, che prima che iniziasse a leggere se lo mangiavano con gli occhi. Pare fosse oltretutto un bel ragazzo. Ha rotto molti schemi, se ne è lasciato travolgere. Come ha osservato giustamente Ivan Pozzoni, non ha scritto roba memorabile, ma ha scritto quel che serviva a rompere per un po’ gli schemi. Magari qualcuno leggendolo gli avrà dato dello scemo, qualcun altro si sarà scandalizzato in nome della poesia, qualcun altro ancora, forse, l’avrà letto davvero. Poi dopo la morte si finisce più o meno tutti sotto formalina e sugli altari, e anche i più analfabeti diventano Letterati.

(Flavio Almerighi)

Strana la carriera del poeta. Strana soprattutto in Italia. Prendete ad es. uno come Simone Cattaneo. In Inghilterra o in America sarebbe una star, un poeta conteso da reading e salotti buoni, programmi tivù e seminari universitari. Che è quello che succede ai suoi colleghi Armitage – con cui condivide fra l’altro lo stesso nome – , Paul Muldoon e soci. Quello che voglio dire è che Cattaneo fa una poesia al vetriolo, tra il sociale e il vuoto per dirla con i Baustelle, amatissima all’estero. Cattaneo è il nostro Armitage (per dimostrare questa tesi una volta ho fatto uno scherzo tremendo a un critico: gli ho passato un gruzzolo di poesie di Cattaneo spacciandole per primizie di Armitage. Non vi dico l’entusiasmo dell’illustre studioso per quegli “inediti”…).
C’è un piccolo problema (tale in Italia, no di certo all’estero): Cattaneo è come la sua poesia, franco e schietto, non fa la corte a nessun potente di turno, critico e poeta, lui pensa a vivere e a scrivere. Ma nel nostro bel paese questo significa una sola cosa: isolarsi. Per questo Cattaneo non è ancora valutato come merita. Lo vedete nelle antologie che contano? Ai festival di tendenza? No. No, perché – sembrerebbe un paradosso, ma è così – Cattaneo pensa a scrivere, e non a – prendo in prestito la brutalità del suo linguaggio – leccare il culo. Si fa presto a esibirsi in impeccabili analisi testuali, retoriche e stilistiche – chi non ne è capace? –, quando invece il problema è a monte, ed è di natura morale (e dunque molto più arduo): come essere in grado di compiere scelte di qualità e non di interesse. Non dico sempre (siamo esseri umani, suvvia, peccatori ed esposti al richiamo delle sirene), ma almeno nella maggior parte dei casi. Per fare un esempio: se Thomas Pynchon vivesse in Italia, con lo stile di vita che conduce, sarebbe inedito e dimenticato.

Simone Cattaneo presente al Pascià club 2008

 Qua in Italia per avere un minimo di riscontro bisogna pensare al come, non al cosa. Crearsi una rete di rapporti, costruirsi una figura pubblica, e poi su quelle basi innestare tutto il resto – che in una concezione normale di arte sarebbe invece il dato primario. Bisogna ripensare i modi di fruizione dell’arte: il marchio, il brand sta diventando una presenza troppo ingombrante anche in questo campo. Così facendo il rischio principale è di oscurare autori di indubbio valore ma dalla vita sociale “normale” e non compromessa a qualcuno o qualcosa. In cambio, si sa, abbiamo autori deboli ma presenzialisti (l’elenco è chilometrico, per non fare torto a nessuno applico il teorema di Sturgeon: il 90% di tutto è spazzatura. Funziona benissimo anche in letteratura italiana).
Del resto l’Italia che emerge dalle poesie di Cattaneo è proprio un’Italia di questo tipo: meschina, approfittatrice, paracula, senza dignità, votata al più bieco compromesso. Ma Cattaneo non odia quest’Italia; a suo modo la ama. Di un amore struggente e autodistruttivo, poco lenitivo e molto disperante. Come scrive Pasolini: “Questa è l’Italia, e / non è questa l’Italia: insieme / la preistoria e la storia che / in essa sono convivano, se / la luce è frutto di un buio seme”. Cattaneo racconta la storia di un paese perso e smarrito. Al tracollo morale e culturale.

(Flavio Santi pubblicato sul quotidiano “Il Riformista”)

(testi tratti da Peace&Love, 2011) 

A fine agosto il tuono morde i lampi prima che piova e
il cielo sembra sempre avere bisogno di un’autopsia,
cammino sulla strada crivellata di buche come fosse
un costoso tappeto cinese, la neve gialla è ancora lontana,
la luce pare un caleidoscopio difettoso ed io vado
dove i ragazzi hanno denti d’oro larghi come gonne a fiori
e nessuno mi potrà più servire da bere vino tagliato con il solfato di rame.
Ormai è un furto ogni prospettiva di fuga.

*

Appesa per le caviglie ad un albero del viale
ho incontrato per la prima volta l’unica donna che ho mai amato,
avrei voluto proseguire ma mi ha chiesto uno sguardo
mi ha domandato di guadare un fiume inesistente fra le stelle,
quindi mi sono arrampicato fino all’orlo del suo viso ma
non si è scomposto, nulla del mio corpo mi ha nascosto.
Immersa nel suo odore mi ha aperto il petto così che
potessi sentire il suono del colore,
colmo di paura ho promesso che avrei imparato ad aspettare,
ho fatto un giro intorno all’albero e
la mia donna era svanita, rapita dalla frutta candita di
un’isola caraibica. Mi sono legato per le caviglie ad un lampione
per capire la sua prospettiva e riallineare la mira,
ammassati intono a me sbavavano dei cani, con le mascelle di vetro
in fiamme ma la terra si è asciugata e la festa è finita.
Non ho più incontrato una donna così bella, forse sì,
è la carne che tutte le notti mi dorme accanto
persuasiva nelle cosce, elegante nelle mani, luce morale nei fianchi
ripiegata e indistinta come uno scheletro di pesce.
Sono certo, siamo l’uno la proposta dell’altra.

*

 Le ragazze più belle ballano nel centro della discoteca
con un crocefisso appeso nell’elastico alto delle mutandine, a riprova
del loro amore acceso verso dio e il cazzo, sicure di non
precipitare dal montacarichi di un palazzo e di non dovere
mai lavare vestiti in consunti pneumatici trasformati in tinozze.
Bramano un uomo che sappia muovere bene il bacino a ritmo di
R&B, indossare un cappello con nonchalance e sfilare in un
ristorante con un completo di Armani. Ormai l’alba crolla e il cielo si
dissangua in feroci miraggi.

*

Arrivano stranieri bramosi di niente dagli altri continenti,
mi auguro non si integrino ma sgozzino i nostri ragazzi,
violentino le nostre donne chiuse in chiese, palestre e discoteche,
mi ammazzino per primo sarà un piacere, basta sorrisi avvizziti
al gin, sconfinamenti nei campi magnetici, non mi interessa se
la statica si equivalga alla dinamica, è giunta l’ora che i
rottami privi di sesso dai dialetti strani: albanesi, criminali o
calabresi brucino questa nuova Milano di Averna e cambiali, nessuna
visione metaprospettica, vivono in macchine abbandonate in balìa
del gelo, torce di immondizia, corpi vivi ma già in avanzato stato
di decomposizione. Milano ti amo dalla ’ndrangheta al Cenacolo Vinciano
ma sentire una vecchia canzone alla radio e poi ringiovanire
di dieci anni non serve a nulla, è un saldo di fine stagione
dieci Tavor da un ml e due litri di vino bianco non fanno più la
differenza è solo un vapore che ti assale alle spalle:
è un verde chiaro lo sfondo di questo giorno.

Simone Cattaneo Discoteca Circo Rosso Brescia

Discoteca Circo Rosso Brescia

 

Incontro su un treno diretto a Napoli un uomo di mezza età
con addosso una catena d’acciaio che odora di olio bruciato,
mi dice che in gioventù aveva un gancio sinistro capace di
trasportare una palma in cima ad una montagna e che non
permetterà mai a qualche cinquantenne abbronzato del nord
che corre sulla spiaggia con il suo cane pezzato di trovare
i resti del suo corpo in Calabria tra i rifiuti portati dalla marea.
Anche la luna è solo un cristallo da spazzare questa notte.

Simone Cattaneo

Simone Cattaneo

 

Non mi importa niente dei bambini del Burchina Faso che muoiono di fame,
non ne voglio sapere delle mine antiuomo,
se si scannassero tutti a vicenda sarei contento.
Voglio solo salute,soldi e belle fighe. Giovani belle fighe, è chiaro.
Che gli appestati restino appestati, i malati siano malati e
i bastardi che vivono in un polmone d’acciaio
fondano come formaggio in un forno a microonde. Voglio bei vestiti,
una bella casa e tanta bella figa. Buttiamo gli spastici giù dalle rupi,
strappiamo fegato e reni ai figli della strada
ma datemi una Mercedes nera con i vetri affumicati.
Niente piani per la salvaguardia delle risorse energetiche planetarie
vorrei solo scopare quelle belle liceali che sfilano tutti i sabato pomeriggio
con la bandiera della pace. Non ho soldi e la botta è finita.
Ma sono un uomo rapace, per le vacanze pasquali
quindici milioni di italiani andranno in ferie lasciando
le loro comode case vuote.
Alla fine non sono razzista. Bianchi, neri, gialli e rossi
non mi interessano un granché.

Troppo bello per essere un pugile,
troppo brutto per fare il magnaccia
camminavo nel centro di Buccinasco
senza lavoro e inzuppato di grano
aspettando l’ora dell’aperitivo
quando mi sale la voglia di farmi fare le carte dalla vecchia strega del quartiere.
In realtà i suoi tarocchi non sono altro che
pezzi di bibite strappati a dentate ma alla fine ci si arrangia con quel che si può.
Rifilato un carico da venti alla vecchia le chiedo brutale
quando morirò, lei mi sorride e risponde presto a ventisette compiuti.
La informo dei miei ventinove e la mia anziana strega di Buccinasco mi
conforta dicendomi, vedi allora sei un uomo fortunato.
I soldi migliori spesi negli ultimi dieci anni.

 

La prima parola di latino che ho imparato è “silentium”.
Stava scritta su un pezzo di cartone giallo attaccato al muro del bar in cui
servivo da bere in estate. “Silentium” ossia “silenzio” in un luogo dove
grida, schiamazzi, scommesse e intrallazzi erano come luce all’alba,
suonava un po’ strano per un bimbo con i piedi sulle spalle come me.
Quando il bar chiuse decisi di portarmi a casa quel cartello ma
non lo volevo rubare, il proprietario era un amico che stava in piedi
per grazia ricevuta così gli feci la mia offerta, un’offerta più che
generosa per un pezzo di cartone logoro e sporco.
Almeno una ventina di persone prima di me avevano fatto lo stesso e
con cifre ben più consistenti. Perdigiorno, ubriachi, zingari e ladri
ad un’asta abusiva per un po’ di latino. Alla fine se lo aggiudicò
uno zingaro friulano in cambio di mezzo milione di lire in contanti.
La vigilia di natale incontro questo ragazzo nel bar sottocasa dove
festeggio sempre le feste comandate che mi tira fuori quel logoro cartello
avvolto in una busta da supermercato. È per te mi dice, ci tenevi tanto.
Non capivo se mi pigliasse in giro o volesse chissà cosa.
Mi sono girato e sono tornato a brindare con gli amici.
La cosa per me era finita lì. “Silentium”.

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELL’ADDIO (Parte II) Mark Strand, Marco Onofrio, Anna Ventura, Adam Vaccaro, Ivan Pozzoni, Antonio Spagnuolo, Antonio Coppola, Alberto Figliolia

Ravenna chiesa di San Vitale Teodora- e la corte di Costantinopoli mosaicos-bizantinos-muestran-emperatriz

«Il tema dell’addio. L’addio è una piccola morte. Ogni addio ci avvicina alla morte, si lascia dietro la vita e ci accorcia la vita che ci sta davanti. Forse il senso della vita è una sommatoria di addii. E forse il senso ultimo dell’esistenza è un grande, lungo, interminabile addio».

Mark Strand april 1992

Mark Strand april 1992

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mark Strand

From the long sad party

Someone was saying
something about shadows covering the field, about
how things pass, how one sleeps toward morning
and the morning goes.

Someone was saying
how the wind dies down but come back,
how shells are the coffins of wind
but the weather continues.

It was a long night
and someone said something about the moon shedding its white
on the cold field, that there was nothing ahead
but more of the same.

Someone mentioned
a city she had been in before the war, a room with two candles
against a wall, someone dancing, someone watching.
We began to believe

the night would not end.
Someone was saying the music was over and no one had noticed.
Then someone said something about the planets, about the stars,
how small they were, how far away.

Mark_Strand

Mark_Strand

Dalla lunga festa triste

Qualcuno diceva
qualcosa sulle ombre che coprivano il campo, su
come le cose passano, come ci si addormenta verso il mattino
e il mattino se ne va.

Qualcuno diceva
di come il vento si spegne ma poi torna,
di come le conchiglie sono le bare del vento
ma le intemperie continuano.

Era una lunga serata
e qualcuno diceva qualcosa sulla luna che cosparge di bianco
i campi gelidi, e che non c’era niente da aspettarsi
se non sempre le stesse cose.

Non so chi parlò
di una città in cui era stata prima della guerra, una stanza e due candele
al muro, qualcuno che ballava, qualcuno che guardava.
Cominciammo a credere

che la sera non sarebbe mai terminata.
Qualcuno diceva che la musica era finita e non se n’era accorto nessuno.
Poi qualcuno disse qualcosa sui pianeti, sulle stelle,
di quant’erano minuscoli, quant’erano lontani.

marco onofrio

marco onofrio

marco onofrio emporium

 

 

 

 

 

 

 

Marco Onofrio

Un grande addio

La vita è l’arte dell’addio:
è lunga l’arte dell’addio
per imparare ad accettarlo
che la vita è tutto un addio
interminatamente
inesorabilmente
istante dopo istante
un grande addio.

 

Anna Ventura

Anna Ventura

 anna_venturaAnna Ventura

Non tu, domani

È il senso dell’addio,
questa nausea leggera,
quasi una spossatezza che,
all’improvviso, viene.
Sai bene che non puoi farci niente:
qualcosa, dentro, si è spezzato.
Non è la fine del mondo, è solo
un altro coccio rotto che si allinea
tra il vasellame che stipa gli scaffali
di questa lunga credenza dove
si chiudono le cose.
Qualcuno – non tu – domani
tenterà un restauro.

.

In un cesto di paglia

Qui c’è un topo di panno rosso,
lungo pochi centimetri
dono di una magica signora
che abitava sopra di noi, al mare:
l’aveva fatto lei, con le sue mani fatate
per regalarmelo
il ventisei luglio del millenovecentoquarantotto,
giorno di Sant’Andrea e mio onomastico.
C’è il vestito di organza verde,
a pallini bianchi, per i grandi balli del Liceo. C’è
Giuseppe De Robertis,
l’iride blu sotto il basco dello stesso colore,
quando mi strizzava l’occhio, a Firenze,
perché lui era la Letteratura e io
una conversa decisa a farsi suora.
Ci sono anche la menta, il farro,
l’olio di frantoio, il pepe e il sale,
gli ingredienti della cucina povera, tutti
in un cesto di paglia:
che non sia solo una metafora.

da Tu quoque Antologia, (Poesie 1978-2013) Edilet, 2014

adam vaccaro

adam vaccaro

 adam vaccaro Fronte SeedsAdam Vaccaro

Presente passato

E mi trascino dietro tante cose
povere cose
orgogliose
inaridite e dense di vita
facce e case
onde sonore profumi
che sogno sempre
di lasciare per sempre
e poi ritrovo
in un angolo inventato
di pensieri e ricordi
di ombre col loro
presente passato.

(1976)

La lingua tra i denti

La luna girando non berrà questo piombo
che la lingua curerà girando tra i denti
quasi un segno d’appuntamenti in un sogno
di tutte le notti (dove) chiacchierando privo
di questa stupida penna che la carta bucherebbe

Mi verrai incontro col tuo viso generoso e
quello scempio di corpo insanguinato abbandonato
all’ignobile richiamo che t’ha lasciato là
carponi sull’asfalto

Chiacchierando mi dirai finalmente
che solo oltre oltre
ci ospiterà la verità

Ah verità verità che hai sempre
così paura d mostrarti e vivi
rintanata
come fossi una ladra ma non sai
che qui ormai è tutto uno show
un bellissimo show dove i ladri
sono lustri e belli come il sole

(E) chiacchierando forando il tuo sguardo
di padre capace con un bacio
d’affogare i miei occhi ti dirò che stupido
stupido destino a non darti mai
di rubare neppure una patata (*)

Tu col viso rosso mi farai
e non fare il fesso
guarda come volo
come volo leggero
senz’ombra di piombo

(aprile 1989)

(*) Il riferimento è al campo di prigionia in Germania, in cui mio padre venne tenuto tra il ‘43 e il ‘45 a raccogliere patate, con la proibizione assoluta di rubarne qualcuna.

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

 Ivan Pozzoni Patroclo non deve morireIvan Pozzoni

My brother is dead – frater meus mortuus est

Non ho mai temuto di rinchiudermi in una cella francescana,
frate Leone butterato, 1.83 cm x 90 kg, colosso di porcellana,
a chiedermi come fai ad essere ancora innamorata e attratta,
me lo domando ogni volta che mi accosto un boccone al viso,
ingurgito tutto, desidero invadere il mondo, come un frastornato Narciso,
non mi muovo, disoccupato immerso nel lavoro, mi invento nomade sedentario
non rimanendomi altro da donarti che un bicchiere di Bellini misto ad un abbecedario.

Annego la mia fragilità in cocktail di alcool, Delorazepam e Paroxetina,
mi immergo nella lotta sondando Bauman, distante da una generazione allevata a cocaina,
convertendomi in menestrello – dovrei assomigliare a un elfo, non ad un troll-
canto con la sgraziata cacofonia, in un capannone industriale, di una fresatrice Bosch,
sperso auf Das Narrenschiff, sperimentati tutti i vizi, e, adesso, avanti marsch
con amore, casa, affitto, bollo, benzina, neutralizzato anarchico in dolce quarantena,
mi batto, cotidie, a disinfettare i tuoi sogni da trentenne minacciati da cancrena.

Non è che la bruttezza mi avvantaggi sul carattere, schivo come Salinger
il successo di The Catcher in the Rye, non riuscendo a trasformarmi in challenger
delle angoscianti sfide di ogni giorno, morto di fame vs. morto di fame,
mi avvicino ad essere l’anti-eroe omerico zittito da Odisseo, Tersite,
soffrendo mal di testa atroci dovuti a calci in culo e sinusite,
barcollo, senza mai mollare, ai ripetuti cali di energia:
governi corrotti, disoccupazione e riforme inutili fanno una bella sinergia.

Giano bifronte è morto nell’utero d’una vita baldracca
che non desidero affrontare coi lamenti striduli d’una checca,
resto da solo, davanti alla tastiera, condannato a smettere di battere a quattro mani,
troppo spesso, sciocco arrogante, m’arrogo d’esser Gulliver tra lillipuziani,
e non considero un disonore, ogni volta, debuttare a fianco d’un debuttante,
significa che l’arte non è morta, infettata dalla necrosi del contante. Continua a leggere

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DEL VIAGGIO E DELL’ESTRANEITA’ (Parte VI) Giuseppina Di Leo,  Annamaria De Pietro, Giorgio Linguaglossa, Ivan Pozzoni, Franco Fresi, Furio Detti

Roma antica, plastico

Roma antica, plastico

 I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia «tra Atene e Gerusalemme», «tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione». «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone – metaxy: essere “tra”, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione».

 

Lisbona

Lisbona

Giuseppina di leo quadro2

Giuseppina Di Leo

Un colpo di vento improvviso ferma la lettura.
È un avviso: è l’inizio del viaggio,
inviti a cogliere i frammenti, gli sprazzi di luce;
sono le 18,30 di un pomeriggio di agosto.
Il capitano è indaffarato e nervoso,
passa incarichi agli ufficiali mentre il cuoco
di bordo mette in caldo il pane per noi;
le sue mani sono dure come la corteccia di un albero.
Siamo qui
estranei a quanto sta accadendo
fuori
quasi e soprattutto il vento.

*

All’inizio del viaggio è andata così:
Odisseo torna ad Itaca,
la terra ed il mare finalmente riuniti.
Saremo amanti in terra e in cielo
non c’è scampo al bisogno di cercarsi.
Circe ti insegue, vuole la tua mano
è impaziente del tuo coraggio.
Troppe mani ti cercano, tienile in ultimo
per me sola, sposo, le tue mani.
Se non mi adotti resterò senza patria:
la mia patria sei tu:
Je renirais ma patrie, si tu me le demandais…
Così.
– Quando ci vediamo?
Nulla! È lontano.

*

E il male nacque sul mare delle parole radicandosi
senza un discorso. Se lui tornava, la solita storia
eleggeva a racconto ogni volta.
Le sue imprese furono rena senza limiti
e una buona dose di volontà studiata.
Come oggi, ogni sera, Odisseo torna ad Itaca
con il silenzio chiuso nel cuore rispondendo
silenzioso al mare. La speranza, parlando gli aveva detto:
dovrai difenderti dalle sue arroganze e dalle tue
presunzioni, così rispondendo ad un urlato:
Non posso adottarti!
Ci sono parole peggiori? Certo ingiuste
furono le parole per un’estate calda come questa.

(inedito)

 

Lisbona

Lisbona

 annamaria de pietro

annamaria de pietro

Annamaria De Pietro

Passaggio con viola – Interno
(profezia viola)

La cronistoria ha fine.
la cronistoria ha storia.
La cronistoria ha inizio
Dentro la cronistoria suona una viola.
Una viola squisita suona a sé sola.
Una viola da inizio
suona in furto una storia
chiede furto alla fine.
Lei ruba dall’uscio lei ascolta la viola.
Dal vuoto per l’uscio lei e lei ruba sola.
Ruba solo la fine
perché uccide la storia
perché acceca l’inizio.
Lei ha i polsi la donna lei ha i lacci la viola.
Lametta gelida lunga arcata sola.
Carica sangue e inizio
gronda indecenza o storia
presa ai solchi, alla fine.
Tace ora costante la triste viola.
Non più voce è di lei che partì sola.
Rubò solo la fine
lei, che zittì la storia
per varcare all’inizio.

(da Magdeburgo in Ratisbona, 2012)

 

giorgio linguaglossa

giorgio linguaglossa

Shakespeare

Shakespeare 

Giorgio Linguaglossa

Il poeta morto

«La notte è la tomba di Dio e il giorno la cicatrice del dolore».
V’erano scritte queste parole in alto sopra la prima porta a destra.
Una voce risuonò nell’androne: «Benvenuto nella galleria del dolore!».
Fu così che mi decisi… Ed entrai.
………………………………………..
C’è un bosco pieno di foglie parlanti che gridano:
«Il presente è il passato e il passato è il presente».
C’è un chiasso del diavolo. Tante parole quante
sono le foglie. Una quercia mi parla:
«Apri la prima porta a destra – mi dice – e segui la via della mano destra
che porta a sinistra».
………………………………………
Apro quella porta.
Ci sono tre vascelli a vele spiegate
che un vento fuori cornice gonfia tumultuosamente.
Ma restano immobili. Anche il mare crestato
è immobile. Ogni dettaglio è nitido e percettibile
come seppellito nell’ambra da un milione di anni millimetri.
Apro la seconda porta a destra.
C’è una colluttazione di ombre che entrano
dentro altre ombre e ne escono; lottano furiosamente
per il palcoscenico della mia anima;
«Ma non c’è nulla per cui lottare, sono già morto!»,
pronuncio con un filo di voce;
“farsesca costipazione di ombre”, penso con tristezza
che anche loro sono morte e non possono udire le mie parole.
…………………………………….
Attraverso come a nuoto la stanza; apro una finestra.
C’è una statua sulla piazza deserta
portici risucchiati dal vuoto
pontili su un mare di basalto
città di cristallo…
A tentoni nel buio della stanza apro un’altra finestra.
C’è una torre in un cortile deserto che
puoi udire il tonfo di una farfalla che cade dall’alto
e il lucore fosforescente di una luna gialla
che si posa sulla toga di un imperatore triste…
Mi precipito alla cieca in avanti, apro una terza finestra.
C’è un calendario dal quale si staccano i fogli, un orologio,
una lapide sulla quale v’è inciso il mio nome e cognome
e la mia data di nascita…
una scrittura annerita che gratto con l’unghia:
«Benvenuto nella cicatrice chiamata Terra»
……………………………………
«È tutto qui? – mi chiedo – non c’è nient’altro?».
L’angelo della nebbia piange in un angolo in ginocchio.
La notte profuma di tomba. Anche la rugiada profuma di tomba.
La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi.

(inedito da Girone dei morti assiderati)

 

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

Post-moderno

Ivan Pozzoni

Ballata dell’amore respinto

Per una volta, vorrei evitar di celebrare i vanti d’Antéros,
cantato in ogni salsa, dando notizia, coi miei versi rancidi,
d’un amor respinto senza onore di rivalsa.

Dall’unione adulterina, consumata in un talamo appartato
d’un motel lontano dalle reti d’Efesto, sotto forma di sveltina
nacque Antéros, secondo erede d’una coppia clandestina,
che, tra sex outdoor e scambi, amava vivere senz’ethos.

Per capriccio d’un fratello autistico Antéros venne al mondo
incatenato al ruolo di siamese, restando vittima dell’utile domestico,
lui, neonato, concepito, come molti, ai fini di risolver beghe terrene,
come i bambini della durata d’un minuto, inventati in Cina o India, su mandato,
ove al turista occidentale occorra un rene.

Educato in un mix d’aggressività e bellezza, avendo come metro Ares e Afrodite,
miti nel mito d’un adolescente conscio di dover crescer senza debolezza,
all’ombra di una madre attenta ad ogni ruga con un marito assente e molti amanti,
schiavo d’un fratellastro fragile, Antéros si diede in fuga.

Genti d’ogni era, condizione, genere razziale
bramando di stanare Antéros non vi rendete affatto conto
come non sia normale che un amore ricambiato
abbia confitte le sue radici in un ambiente tanto incasinato? Continua a leggere

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SEI POETI DELLA NUOVISSIMA GENERAZIONE “GLI ARRABBIATI” (bsa), Leonardo Catagnoli, Mattia Macchiavelli, Mariano Menna, Valerio Gaio Pedini, Ivan Pozzoni -Con uno scritto di Ivan Pozzoni: La crisi della nozione tradizionale di comunità: hôtellerie e «nomadismo»

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Bsa

Bsa

Galappa Losa [grappa rosa, la notte al bar cinese]

(bsa)

Limpido il bancone mandarino,
saracinesche mai del tutto abbassate
nonostante la legge l’imponga. Giambellino
offre vaste gamme di osterie di nuova
generazione. Disperati arabi mai educati al bere
vomitano lame contro lo sguardo che li coglie.
Tranquilli i sudati sudaca con fiato di fuoco
chiacchierano sul caro Caribe. Pochi
gl’italiani superstiti, vivi forse, sicuro
poco vegeti. Agitati dalla calce che le nari
farcisce. La chiaman droga, poco pura azzera
i neuroni, ma non è buona.
Tintinna ininterrotto lo stillicidio colorato del videopoker che ritma la vita
dell’omino del sol levante.

Un meltin’pot della devastazione, nuova
la forma, sempre uguale la sostanza, da Bukowski in poi,
dei bar delle periferie babilonesi.

 

 

escher

escher

 

Leonardo Catagnoli

Leonardo Catagnoli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Leonardo Catagnoli

L’OSTERIA

Cumuli di grida
sussurri e fiati sfiorano
dimenticati ed essiccati
gli antichi buchi
del legno notturno

evaporano i padri
mentre inciampa nel buio
l’afa alcolica dell’infinito
un vociare di donna
gronda sudicia libertà

il godimento s’estenua
in attimi di nulla
le urla arrugginite
donano alle fatiche
l’insensatezza dello spirito.

la grande bellezza gambe-e-tacchi-a-spillo

Mattia Macchiavelli

Mattia Macchiavelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mattia Macchiavelli
OSTERIA COLOMBINA

Non v’è riparo per i raminghi del nord
sono folle volo le sinapsi di Atena
eterni gli appetiti su esauste rovine,
Wotan ha bruciato anche i corvi
smarriti i sillogismi nel buio selvatico
nessuno conosce la parola degli universi
sono tutti muti i pellegrini di Earthsea;

è oasi di sangue e sperma l’Osteria Colombina
porte di marzapane per lo sparuto avventore
la mia bisaccia culla nebbie di princisbecco,
regna la Venere dai sette difetti
un sorriso mirandolino in trenta denari d’argento
del fumo non sa che farsene,
nel malchiuso portone indovino il panettiere
autotrofe le certezze del braccio bianco
pingue e atroce il verbo dell’assenza:
la Luisona ha natura altamente metafisica;

un’orgia festosa nella sala dirimpetto
ebbra è la Luna che esilia Saturno
siamo tutti figli del serpente
m’offre Dioniso un cantaro d’edera:
– fatti bere dagli occhi della maschera
tuo è il tacco della Menade
sogno di cocaina la libido del satiro
mordi con me il pomo di Eris- ;

Ugo siede solo al bancone di cipresso
l’Ultima Dea tarda a tornare
mi bisbigliano profezie immortali le sue urne:
è canto dell’upupa l’abisso di memoria
sottrazione primordiale la lezione della mandorla
misura alchemica il segreto del papavero;

ho scelto la pillola rossa
splende un sole senza ritorno al di là dello specchio
Ananke culla il fuso con mani di caos e latte
nelle epifanie di Dublino sono la nuova Locandiera:
sa di vergine il gusto del Lete

bello

mariano menna

mariano menna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mariano Menna
OSTERIA

Brindiamo alla gente di questa osteria
che vi entra per caso e mai più va via,
che rifiuta illusioni e vana speranza,
che disdegna prestigio e fatua eleganza.
Brindiamo agli ubriachi tornati lucidi
perché, più di prima, saranno trucidi;
perché giureranno di smetter di bere,
per poi tornare a innalzare il bicchiere.
Brindiamo ai politici che sono corrotti,
ai falsi ribelli e ai loro finti complotti;
ai preti bigotti e ai maniaci brutali
che troppo spesso hanno abiti uguali.
Brindiamo alla crisi che regna perpetua,
alle tasse infinite che non danno tregua,
a chi si lamenta ed è pieno di soldi,
a chi non si veste nemmeno coi saldi…
Brindiamo a chi ancora sa credere in Dio,
a chi, alla sua fede , ha già detto addio;
a chi ama un altro del suo stesso sesso,
vuole sposarlo, ma non gli è permesso.
Brindiamo alle donne uccise per gioco,
perché debbano pianger ancora per poco;
all’eterno razzismo e ad un paese diviso,
a chi è stato abortito e non l’ha deciso.
Brindiamo alla morte sempre in agguato,
brindiamo alla notte e al tempo andato,
urliamo al silenzio che risveglia i pensieri:
non c’è più passato, solo vino e bicchieri.
Brindiamo al brindare che ci rende felici,
che ci unisce tutti, amici e nemici.
Brindiamo a chi legge le nostre parole:
potrà venirle a cantar quando vuole!

MAJAKOVSKIJ ILLUSTRAZIONE

MAJAKOVSKIJ ILLUSTRAZIONE

 

valerio gaio pedini

valerio gaio pedini

 

 

 

 

 

 

 

Valerio Gaio Pedini

TOSSICA OSTERIA

M’impermei di sconfitte radicali,
disarcionandomi da ciò che vale,
f-attualmente niente di cui si può parlare
niente di ciò che esiste
nella terra delle terrazze meningitiche moral-mortali:
una sconfitta di suoni obesi
e di pensieri anoressici:
non si può andare avanti, se non sai cosa significhi “indietro”:
vai solo indietro, ti picconi, e poi ti fermi, liquidandoti in una società da poco:
in una diarrea primordiale
che di avveniristico ha solo il funerale.
Mi si torcono le budella, lo sfintere, il colon ed i coglioni
Soffrendo l’ammontare dei coglioni che mi fa male:
è un’eutanasia:
una lobotomia frontale, dove il fatto è una cacosissima denigratoria apatia emozionale:
è la mediazione dei calabroni che ti pungono di fiele
seppellendoti in inferno,
perché tu lo vuoi.
Io non so far altro che recitar questa disposizione dispotica
Di una terra caotica
Che sarcasticamente mi stimola
Uno svisceramento potente:
una scoreggia
che spero soffochi qualcuno,
al più presto.
Che spero soffochi me così che il buon senso dei finti buoni non trafigga la disposizione astrale dei miei coglioni,
che si sa sono polvere di stelle:
un’esplosione.

Buhm!

Morte!

Fine del divertimento,
del dipartimento,
della nazionale,
della nazione,
della latrina,
dell’obesità,
dell’anoressia,
del mio mal di stomaco,
dell’ansia spasmodica,
del lirismo apocalittico,
del sadismo e del crepuscolarismo,
del neo-capitalismo e del populismo,
del postmoderno e del classicismo:
fine di tutto:
fine di niente:
fine di me!

Picasso Jacqueline Roque

Picasso Jacqueline Roque

 

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

 

 

 

 

 

 

 

 

Ivan Pozzoni

ALL’OSTERIA DELL’AMORE SOLIDO

Piccolo amore mio, solido, tu, oggi, cadevi
e io non c’ero, a sostenerti, coi miei bicipiti aggressivi
di barbaro delle foreste del Nord, la faccia dipinta di azzurro,
distesi nello spasmodico berserksgangr del bere dal cranio dei vinti,
inizia tutto con un tremolio, il battere dei denti e una sensazione di freddo,
rabbia immensa e desiderio di assalire il nemico.

Piccolo amore mio, fragile, tu, oggi, cadevi,
e c’è un’osteria dietro casa nostra, tutta brianzola, il tuo nuovo mondo,
c’è un’osteria che serve cento e cento tipi di risotti
da spalmare sulle tue ferite e sulle tue ginocchia sbucciate,
dove io, uomo tassativo, riesco ancora ad interpretare ogni oscurità ambrata
nei tuoi occhi da bimba saggia, a manipolare il caleidoscopio delle tue iridi,
scoprendo, volontariamente, il fianco alla daga della tua artica lucidità.

Se non è un’osteria, il nostro amore, ci assomiglia: mangiamo e viviamo,
retribuendoci, a vicenda, vittorie e sconfitte, hôtellerie, viavaiamo e mangiamo,
finché l’oste Godan, il dio dei «poeti» ostinati, sbattendo un boccale di idromele sul tavolo
non ci inviti a danzare al Walhalla, Mocambo a contrario, danzare lontani, alla fine dei mondi,
tu tornerai alla freschezza semplice del tuo mare, ondivaga Sirena caetana di sabbia,
e a me non graverà sullo zinco la terra umida di nebbia della valle senza salite o discese.

Nelle antiche osterie dell’amore solido continuano a mescere nebbia e acqua-di-mare,
fuori temporaleggia, fulmini e tuoni, liquefatto dal nubifragio tutto si stinge,
e noi, mangiamo e viviamo, viavaiamo e mangiamo, al riparo, nella nostra riserva di felicità,
consapevoli che, restando sospesi nell’aria, a lungo andare,
i cristalli di ghiaccio brumosi confluiranno nel mare. Continua a leggere

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LA NUOVISSIMA GENERAZIONE DEGLI ARRABBIATI – Ivan Pozzoni, Mariano Menna, Valerio Pedini, con un preambolo diseducativo di Ivan Pozzoni su “La tentazione di esistere”

valerio pedini 

valerio pedini

valerio pedini

 

 

 

 

 

 

 

 

Valerio Pedini

LA TENTAZIONE DI ESISTERE
(a Mariano Menna)

Accartocciato in una vita lapidica
Mi vergogno un poco
-e quindi molto-
Di cacare su prati sconfinati
-autostrade-

Ma bisogna avere coraggio,
un po’ di sangue amaro
che sai quanto sai che la merda la devi fare per forza
giusto per inquinare un po’ le prove di una pulizia
estranea al linguaggio di una quanto mai scontata quintessenza,
estranea a qualsiasi linguaggio.

Ciò che mi blocca
È ciò che mi spinge,
ciò che mi atterra
è ciò che mi solleva:
come una morsa gelida che ti distrugge l’esistenza
tu apri gli occhi e sai

che vivi in un mondo di nailon e plastica
lubrificato dalla vaselina delle tue parole

e quindi ti alzi e ti chiedi:
“Ma che cazzo di tentazione è?”

mariano menna

 

mariano menna

mariano menna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mariano Menna

LA TENTAZIONE DI ESISTERE
(a Valerio Pedini)

Il rumore dei passi nella mia mente
è come una nebbia che non si dirada:
la gente corre ed io passo le ore
a vederla imprecare con rabbia per strada.
Questa gabbia ha le sbarre di tempo
e una chiave non è mai esistita.
Una salma ha più seguaci di un vivo,
ma è più invidia che venerazione;
alla mia tentazione di esistere
danno il valore di un morto in guerra,
ma io suderò per non farla finita!
La vita è una malattia grave
che porta per certo alla morte;
la sua morfina è una tragica corsa:
vince chi giunge per primo alla fine,
ma sarà un risultato beffardo
poiché non c’è premio oltre il traguardo.

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

  Ivan Pozzoni Patroclo non deve morire

 

 

 

 

 

 

Ivan Pozzoni

LA TENTAZIONE DI ESISTERE
(a Mariano Menna e Valerio Pedini)

La tentazione di esistere della vostra generazione,
si trasforma, nella mia, in esistenza tentata ad equazione:
19 + 19 = 38 + x, resta sempre un’incognita,
nella speranza che invertendo il numero dei fattori
la fattoria non fallisca, lasciando, in cambio, una generazione attonita
a contarsi le ferite, ipocondriaca, in balia di accademici e dottori.

Questo toccherà alla vostra generazione:
la nuova nobiltà cafona, nata nelle culle d’oro della necrofinanza da córsa,
risponderà abbassandovi i calzoni e mostrando il sedere
all’idiota dito medio (art marketing), ubicato, a Milano, fuori dalla sede della borsa,
e ai milanesi, in fila Caritas, a chieder l’elemosina alla neo-invasione dei tedeschi,
abituati, ormai, a sostituire il finale della Nona Sinfonia con la marcia di Radetzky.

Questo toccherà alla vostra generazione:
i concerti di Ligabue davanti a 50.000 somari in branco,
Mussolini, almeno, riusciva a far ballare 80.000 idioti alla volta,
magari sarà stato un indifendibile, discreto, saltimbanco
dichiarare guerra all’Etiopia coll’esclusivo uso di lubrificatori,
senza aver l’opportunità di servirsi di chitarre elettriche e amplificatori.

Questo toccherà alla vostra generazione:
i nuovi cantautori defilippisiani alla Marco Carta,
-“Carta canta e (François) Villon dorma” –
vi condurranno, cojon cojoni, alla scoperta
di vivere di notizie date in mondovisione,
schiavi di una verità farneticante fatta d’indecisione.

Mariano e Valerio, due ventenni in cerca di evasione
due inammortizzate, mortacci vostri!, vittime della televisione,
olocausti alla rincorsa della fame di fama, dei vostri cinque minuti di celebrità,
trascorsi a rilasciare interviste a Paola Perego in tutta automaticità,
o, tardomoderni arditi, discepoli d’un impresentabile sprezzante «guastatore»,
in conflitto inimmediabile e mortale col «potere»?

Questo toccherà alla vostra generazione:
schierarvi, col coltello tra i denti, oltre il Brillo Box
o, come Roberto da Crema, vendere batterie d’acciaio inox,
ahrarara, spacciare Delorazepam in versi che ci faccia ardere
o vendere appartamenti in centro con servizi in periferia, non ideale per famiglia che non ami correre. Continua a leggere

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELLA NATURA MORTA di Anna Ventura, Francesca Diano, Giorgio Linguaglossa, Annalisa Comes, Antonio Sagredo, Laura Cantelmo, Giuseppina Di Leo, Ivan Pozzoni, Ambra Simeone, 

rene magritte les deux mysteres 1966

rene magritte les deux mysteres 1966

Ut pictura poesis. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Ogni natura morta ci parla, parla di noi, che siamo fuori quadro. Essa è assenza che attende la presenza umana, o meglio, è una presenza umana che è scomparsa, ed è rimasta l’assenza. E l’assenza ci parla con il proprio apparire, il proprio essere là.

Magritte elective affinities 1933

Magritte elective affinities 1933

Anna Ventura

Natura morta con insetto

Dalla vetrata aperta, una mosca entrò, perentoria,
quando la signora appese al muro
della sala da pranzo
il quadro appena acquistato
in un’asta di Montecatini. Quel quadro
era un simbolo di gioia,
per lei, donna fortunata
e consapevole di esserlo.
Sulla felicità delle sue scelte
nessuno avrebbe osato dubitare Eppure
in quel quadro
c’era qualcosa che stonava:
forse l’opulenza eccessiva
delle uve, l’arancione forte
di una fetta di melone, il rosso acceso
di una granata aperta. La mosca
ronzava intorno al quadro. La padrona di casa
volle scacciarla, agitando un panno
inumidito, ma quella
era più tenace di lei:
all’improvviso entrò nel quadro,
si attaccò a un acino d’uva,
e lì rimase. Non ci fu verso
di allontanarla. Ma la signora
non poteva- ne andava della sua reputazione-
farsi beffare da un insetto. Chiamò un pittore
di buona fama e gli fece dipingere una mosca
proprio lì, su quell’acino d’uva
dove l’intrusa giocava a rimpiattino.
Il giorno dopo,
l’insetto dipinto era scomparso.
L’acino d’uva, liscio, tondo, viola,
l’aveva nascosto
nel folto delle foglie di vite che,
maestose,l’assediavano dal basso.
La mosca viva ronzava per la stanza.

Anna Ventura

Anna Ventura

 

 

 

 

 

 

 

Club

Un sospetto di neoclassico fascista
sfiora le squallide rotondità
di poltrone, angoli, tende
senza colore.
Passa il cameriere basso,
con tre tazze fumanti sul vassoio.
La sala di lettura: deserta,
un uomo solo, nascosto dal giornale.
Corridoi lunghi, pavimento screziato,
archi.
Ripassa il cameriere,
con le tre tazze vuote.
La stanza del bridge è piccola,
colorata di verde e rosso-i tavoli-,
tenue fumo ristagna
tra gli occhi fissi.
“Siamo noi. Siamo arrivati.”
Morti?
No, vivi di una propria vita.
Rossa è la tentazione socialista,
azzurro
il fascino discreto della monarchia.
Ripassa il cameriere, ossequioso,
con quattro tazze colme.
La stanza proibita
È all’angolo,
dopo l’ultimo corridoio.
Bordello?
No, si gioca d’azzardo.
La porta è chiusa, peccato!
E il vetro ha un’ombra di liberty.
Il cameriere è vivo:
fa parte del copione,
e ci crede.

(da Tu quoque” Antologia Poesie (1974-2013) EdiLet 2014

De Chirico la metafisica

De Chirico la metafisica

Francesca Diano

Natura morta veronese

Otto pesche ed un vaso –
Di ceramica azzurra
Opaca ed all’interno traslucida
Di biancore cinereo –
Otto pesche sparse sul tavolo
Privo di gambe e confini
Soltanto un piano che linea
Ombrosa ha come sua fine.
Trasmutante il colore
Avvolge la forma nella sua eternità.
Invisibili due bambine
Nascoste dall’ombra
Sottratte alla visione

francesca diano

 

 

 

 

 

 

 

 

Donna nuda con fiore

La Madre siede
Composta nell’azzurro
Velato di fili
Il corpo solido di materia
Scolpisce lo spazio
Lo colma di peso
Pesanti le cosce il ventre
Nudo che è cupola sciamana
Seni robusti venati di marmoree
Correnti promettono mondi
Sommersi da un fiore
Che la mano porge.
Congela in sé il flusso
Di particelle raccolte
In atomi e molecole
E morule e organi
Infinitamente diversi
Nella ripetizione del modello
Eidetico utero cosmico
Matrice d’universi fecondati.

opera di Giuseppe Pedota

pianeta bianco di Giuseppe Pedota anni Novanta

 

 

 

 

 

 

 

 

Giorgio Linguaglossa

Atropo

Colei che non si volge è qui:
Atropo. Indossa un vestito nero
che le fascia il corpo come un guanto.
Suoi attributi sono gomitoli e forbici
con le quali taglia il filo della vita.
Osserva una sfera di cristallo
e legge su un rotolo misteriosi geroglifici:
il destino degli umani.
È la più vecchia delle sorelle Cloto e Lachesi.
Guarda sempre in avanti, così ha decretato Zeus.
Ha una gorgiera di ferro che le impedisce il respiro
e non può voltarsi né a destra né a sinistra né indietro.
È sempre in affanno.
Ruota in eterno tra le sue mani la sfera di cristallo
legge il rotolo di pergamena
e col gomitolo avvolge la sfera
che ruota attorno al proprio asse magnificamente.
Ma lei, la megera, non sa
né quando né come né perché
taglierà il filo del gomitolo.
La vecchia pazza gioca con le forbici
e il gomitolo. E ride, ride.

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Apro la prima porta a sinistra

… Apro la prima porta a sinistra:
ci sono tre donne sedute intorno ad un tavolo:
stanno per parlare ma non parlano
sembrano in ascolto ma non ascoltano,
indossano vestiti bianchi, hanno il plettro
e una chitarra azzurra,
ciascuna guarda davanti a sé ma ognuna
in direzione diversa,
ogni direzione è una dimensione;
il loro volto non ha volto, e guardano
con un solo occhio; «che cosa guardano
– ci chiediamo noi – se non il vuoto?»;
non possono uscire dal solco tracciato dal fonografo
non possono uscire dalla foto scattata dal fotografo:
traducono la traccia magnetica in onda sonora,
possono cantare soltanto ripetendo il medesimo ritornello
come gli uccelli sugli alberi:
«ciò che noi siamo voi mai sarete
e ciò che siete noi mai saremo».
La prima, Lachesi, canta le cose che furono,
la seconda, Cloto, canta le cose presenti
e la terza, Atropo, canta le cose che saranno;
cantano le tre signore un coro discorde
che neanche Zeus, loro padre, può appianare.
Cantano? È questo il destino del canto?
sì, è questo, e il loro canto è nemico della morte.
Ogni canto è nemico della morte?
Ogni canto è amico della morte.
Lachesi ha il volto rivolto al passato
Cloto ha il volto rivolto al presente
soltanto Atropo ha il volto rivolto al futuro
ma Atropo, la terza tra le donne, è cieca
e non può vedere ciò che taglia
e taglia con robuste cesoie il filo della vita
che non vuole cessare. E canta.

 

acrilico su tela, anni Sessanta, di Giuseppe Pedota

acrilico su tela, anni Sessanta, di Giuseppe Pedota

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Annalisa Comes

Natura morta e partenze

Parte di questo mondo se ne va.
Se n’è già andata una manciata d’anni,
una famiglia con quattro rampe di scale e una torre
a via Mantova.
Se ne sono già andati lontano lontano,
senza che faccia la minima differenza,
un gatto e un padre.
Se ne sono andate via brezze invernali, estive e piogge
in gocce leggere.

Un vestito blu troppo stretto, il cappello di paglia, il vaso di violette
ch’era ai piedi del nostro letto.

 

annalisa comes

annalisa comes

 

 

 

 

 

 

 

Ringraziamento in domestica natura morta

Foglie di vite e
grappoli di uccelli.
Sull’orlo delle pagine :
l’orlo della tovaglia,
le posate,
beccano senza sosta mani
e unghie.

Allora, ecco, posso ringraziare questi lavori domestici,
per il sapone che lava piume e
scaglie,
e il vino che arrossa il fondo dei bicchieri,
brocche da impugnare e tazze e tazzine.

E per le storie che ho detto e per quelle che ho ascoltato,
– grembiule e alfabeto dei miei giorni-.
E per la pelle liscia delle patate
che fanno il nido, qui,
dopo vetri e ringhiere,
qui,
docilmente.

ardengo soffici donna seduta con finestra

ardengo soffici donna seduta con finestra

Antonio Sagredo

I ricordi beati dei poeti

sulla Montagna dei Passeri
dove mai sono stato
né mai ho pestato un’ala
io vidi le vostre dita
intrecciarsi come fiocchi invernali,
carezze crollavano come chicchi di sinistre stelle!

Se ne andavano in slitta i due poeti
sapevano le destinazioni egiziane:
il riposo in un’algida fossa mozartiana,
la Marina sul molo dei Nodi scorsoi.

Cantavano con avanzi di grida e parole la propria epoca,
conteggiavano dal passato il martirio dei loro giorni luciferi.

La corda e la trave smaniavano per un collo
che non soffriva ancora – che ancora non si offriva!
L’esilio dantesco come un deterrente sognava
un requiem, un trionfo d’ossa, una fine comune.

Una nera carrozza notturna brillava di neri stivali,
non più cortese si fermò sotto un fanale d’orange
in Via della Mortalità dell’Arte:
c’era posto soltanto per milioni di poeti…

il primo – ucciso per asfissia ovvero mancanza d’aria – il cigno
il secondo – ucciso dagli stenti – il prigioniero d’assonanze
il terzo….
ecc. ecc.

ma il Tempo si ritrasse come un verme….

oggi Basquiat Jean-Michel è evirato dai colori

non c’è scampo
per i suoni, e la parola!

Roma, 25 maggio 2014 Continua a leggere

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Ivan Pozzoni da “Patroclo non deve morire” (2013) POESIE SCELTE – “Rubrica: La poesia della nuova generazione” con nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976; si è laureato in diritto con una tesi sul filosofo ferrarese Mario Calderoni. Ha dedicato molti articoli a filosofi italiani dell’Ottocento e del Novecento e diversi contributi su etica e teoria del diritto del mondo antico; collabora con numerose riviste. Tra 2008 e 2012 ha curato i volumi: Grecità marginale e nascita della cultura occidentale (Limina Mentis), Cent’anni di Giovanni Vailati (Limina Mentis), I Milesii (Limina Mentis), Voci dall’Ottocento I II e III (Limina Mentis), Benedetto Croce (Limina Mentis), Voci dal Novecento I, II e III (Limina Mentis), Voci di filosofi italiani del Novecento (IF Press), La fortuna della Schola Pythagorica (Limina Mentis) e Pragmata. Per una ricostruzione storiografica dei Pragmatismi (IF Press); nel 2009 sono usciti i suoi: Il pragmatismo analitico italiano di Mario Calderoni (IF Press) e L’ontologia civica di Eraclito d’Efeso (Liminamentis); Carmina non dant damen, Villasanta, Limina Mentis Editrice, 2012 e Patroclo non deve morire (2013) È direttore culturale della Limina Mentis Editore; è direttore de L’arrivista – Quaderni democratici. In un’azienda della D. O. è logistico.

Patroclo non deve morire (def)

COCKTAIL MOLOTOV

«Riempire una bottiglia di benzina»
[Mi nutro di vita]
«Avvolgere uno straccio attorno al collo della bottiglia»
[Penso ad una soluzione]
«Bagnare di benzina lo straccio»
[Chiamo: nessuna risposta]
«Accendere l’innesco»
[L’animo indignato si infiamma]
«Spaccare la bottiglia tra le mani»
[La morte dell’artigianato]

Le istruzioni, viviamo ormai senza cartine, sono impresse a sangue
negli ostraka ateniesi, o su vasi dozzinali etruschi,
sui muri dei bordelli di Pompei, o negli intonaci delle celle di esicasti bizantini,
sulle lettere di cambio dei mercanti veneziani, o nelle trincee della Grande Guerra,
tramandandosi / tramandandoci di era in era, di millennio in millennio,
dai cantastorie aedici ai contastorie cibernetici,
e continuano a ustionar l’(in)umano, comburente e combustibile allo stesso tempo,
consumandolo nelle fiamme dell’incendio, inesauribile, dell’arte,
che brucia, spegnendoti, senza mai spegnersi.

le gambe in fila

 

 

 

 

 

RADIOBÀN

Siam caduti entrambi nella crisi, crisi doppiamente,
crisi del mondo occidentale e crisi del mondo occipitale,
messi sotto stress mortale da due transizioni transeunti
l’una dall’esterno verso il nostro schiacciamento, soffocamento,
e l’altra dall’interno, incontro alla nostra implosione,
minuscole schegge di acciaio, detritate, sbuffate via dai venti dell’est.

La tua voglia smisurata di sparire misura la mia ansia d’abbandono del posto fisso,
batti i chiodi nelle mie mani, messe a croce, con i tuoi scontri,
crash-test dei tuoi sogni da ragazza, contro il muro di una vita
che cammina troppo avanti, rottamandoti, rott-amandoci,
lo stesso muro, anche mio, visto dall’altro lato dell’oblò di un aereo che decolla,
che mi chiama ad essere, barone rosso, solo e senza paracadute.

Caos totale, sbalzi d’umore, attacchi di panico, angoscia, speranze improvvise,
ricadute, rialzate, ricadute, rialzate, ricadute, casino totale, baby, casino totale, tilt.
Non uccidiamoci, davvero, non uccidiamoci a vicenda:
io ho ancora la mia forza di sognare, riafferrandoti dal disincanto,
e tu di slanciare una mano alta, nel cielo, facendomi credere di riuscire
a tenermi in sospeso su un aereo in fiamme.
Non uccidiamoci: la vita è breve, e le ferite che non ci uccideranno,
ci faranno sopravvivere, e morire a stento.

C’è il cruccio tardo-moderno del rischio di innamorarsi o non innamorarsi?
A te rimarrà una strada dimenticata da tutti, su cui consumare i tacchi
delle scarpe che ti facevano male; a me resterà la bella storia da raccontare ai figli,
ai nipotini che non avrò mai, che sarà valsa la pena annientarli,
pur di cercare di averti al mio fianco.

[fine delle comunicazioni serali]

le gambe

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I MIEI VERSI HANNO TITOLI DIFFICILI

La dimensione narcisistica dell’ego
spiazza ogni tentativo di scendere in piazza
schizza ogni abbozzo di mistico schizzo
condannando l’artista all’impiego,
salario fisso, a far da torcia, lungo la via Salaria
votandosi a mendicare voti, di casa editrice
in rivista, insinua la mania di esaurire un’inusitata collezione
di bollini di presenza da incollare a una tessera annonaria.

Il maestro A consiglia maggiore stringatezza,
il maestro B non teme vincoli d’estensione
il maestro C inneggia a maggior levigatezza
il maestro D chiede abrasione,
e, in mezzo, l’autore junior a barattare illibatezza
contro un warholiano quarto d’ora d’attenzione.

Scrivi sulle città in fiamme,
no, canta della società annacquata,
oh, infiamma di sesso i versi,
ehi, versati acqua nelle mutande,
metti su fogli bianchi A4
il contrario di ciò che ti chiedono i critici
o una critica di ciò che ti chiedono i contrari,
accetta l’omaggio di tutti, tutti sono maestri di tutto.

Tu resta, a vita, l’allievo d’un sogno distrutto.

le gambe ok
PENSIERI D’ARTISTA

Perché continuiamo a scrivere,
travolti dal rischio di non esser chiari
ai nostri vicini di casa, all’amico,
alla merciaia dell’angolo,
mai sazi di vergar lettere
controcorrente, come arabi,
lontani dalla linearità delle bollette
della luce, dello scontrino del barbiere,
d’un conto del solito ristorante cinese?

L’arte non resuscita i morti
dalle camere ardenti, o forse sì,
non sottrae i malati dalle celle
delle cliniche, o forse sì,
non ci sottrae dai risultati in ribasso
delle borse, o forse sì,
non ci trova collocazione stabile
nel mondo del lavoro, o forse sì.

L’arte è memoria, viscida sfera di contatto
con morti, malati, borse, lavoro,
con essa versano inchiostro e affanni
intere generazioni d’homo sapiens
in cerca di un capro espiatorio,
nell’intenzione, tutta artistica, di dar fastidio ai vivi,
non lasciandoli dormire.

Scrivere è sonnifero a doppio taglio,
con cui radere al suolo chi vuol vendersi al dettaglio.

gambe-delle-donne-indossano-i-tacchi-alti

SOGNO UN MONDO ALL’INCONTRARIO: LA LADRA D’ANTAN

Nonna Angela, classe 1936,
nata sotto l’auspicio del Frente Popular spagnolo, della dichiarazione dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana,
dell’impresa razzista di Jesse Owens alle Olimpiadi hitleriane, della sottoscrizione dell’Asse Roma – Berlino,
costretta a scartabellare cartellini prezzi ai supermercati Pam, salumi, no, mozzarella, no, aria, no, Continua a leggere

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SUL TEMA DELL’ISOLA DEI MORTI  di Böcklin (Stige o Acheronte) – Poesie di Giuliana Lucchini, Salvatore Martino, Silvana Baroni, Gian Piero Stefanoni, Ivan Pozzoni, Ambra Simeone

arnold bocklin Toteninsel (L'isola dei morti)

arnold bocklin Toteninsel (L’isola dei morti)

La spiaggia di Levrechio sull’isola di Paxos si trova di fronte alla foce dell’Acheronte fiume che attraversa l’Epiro, regione nord-occidentale della Grecia, e si congiunge col mare nei pressi della cittadina di Parga. L’Acheronte è un affluente del lago Acherusia e nelle sue vicinanze sorgono le rovine del Necromanteio, l’unico oracolo della morte conosciuto in Grecia. Ma Acheronte (in greco Ἂχέρων, -οντος, in latino Ăchĕrōn, -ontis) è anche il nome di alcuni fiumi della mitologia greca, spesso associati al mondo degli Inferi. Secondo il mito sarebbe proprio un ramo del fiume Stige che scorre nel mondo sotterraneo dell’oltretomba, attraverso il quale Caronte traghettava nell’Ade le anime dei morti; suoi affluenti sarebbero i fiumi Piriflegetonte e Cocito. Il suo nome significa “fiume del dolore”. (nota di Francesco Aronne)

 

Isola dei morti, quarta versione

Isola dei morti, quarta versione

giuliana lucchini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuliana Lucchini

Ashes in the Museum

(a mia sorella Ilva)

 

Portammo
ceneri al museo, in una cripta d’argento,
raccolte dentro il cuore di una tela,

ceneri dalle rive d’Acheronte.

Nella trasparenza della luce
il velo sulla forma, il velo
che si stampò della bellezza

nella sua bara :

la tua creatura di cenere, Alma-Tadema*,
che si sbriciola tra le dita
appena implode al solco dello Stige.

Via della Croce sopra le spume,
struggente raffinatezza del deperibile
che la mano dell’artista eterna :

abbandona il peso, esce dal chiostro,
brilla di tutte le stagioni,
cammina da sola verso l’immateriale.
* (mostra al Chiostro del Bramante)
** “Sei nell’anima
e lì ti lascio per sempre ..” (canta Gianna Nannini)

 

opera di Dalì

opera di Dalì

 

 

 

 

 

 

 

 

salvatore martino col sigaro

Salvatore Martino

Sopra un quadro di Böcklin

Ritornato dal caotico inferno
e dalla solitudine
l’immagine appare
schiacciata contro il muro
affatto rettilineo il tracciato del cuore
privo di ossigeno il cervello

Dopo quaranta giorni nel deserto
a combattere l’assenza di me stesso
muta discende una preghiera

– Angelo atterrito
che abiti le caverne del mio fiato
tieni lontana
dall’orma del mio piede dall’approdo
la bianca figura dell’Isola dei morti
riportala nel gorgo della sua tela
con l’alito atroce della tua parola- Continua a leggere

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Antologia L’amore ai tempi della collera a cura di Roberto Raieli letto da Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Antologia L’amore ai tempi della collera a cura di Roberto Raieli Lietocolle, pp. 239 € 15

Ha scritto Salvatore Martino in un recentissimo commento nel blog lombradelleparole.wordpress.com a proposito di una Antologia della poesia contemporanea proposta dal blog : “Dai libri che ricevo molto spesso, dalle infinite presentazioni, dal fiume che naviga su internet sono arrivato alla conclusione quasi imbarazzante e forse pericolosa che il discorso poetico sia diventato un prodotto di massa. Chissà! In un tempo quasi per me archeologico pensavo che la poesia fosse una rara avis, un gioiello posseduto da una elite, tanto difficile, impervio, angoscioso mi pareva il percorso per arrivare ad un risultato di livello frutto del talento innato e della techné, della lettura, dello studio, della bottega dove frequentare uno o più maestri. Arrivato ad una età dove chiamarsi vecchio è obbligatorio mi avverto spiazzato, incapace di comprendere questa nuova realtà. Una cosa so di certo: rarissimamente leggo poesie fatte di immagini, in qualche modo emozionanti, di musica e di pensiero. Molta approssimazione e il più delle volte un andare a capo fatto solo per dissimulare una scadente prosa. Ma allora perché questo prodotto fluviale di massa non diventa anche una fruizione di massa”.

OLYMPUS DIGITAL CAMERASempre sul blog,  ho replicato: “Rispetto la posizione di Salvatore Martino, che coglie alcuni aspetti emblematici come quello dell’a capo… ma non mi sento di condividerla… oggi la poesia contemporanea sembra aver smarrito qualsiasi regola certa dell’a capo, è vero, ma questo, secondo me, invece di essere un difetto, rischia di diventare un elemento positivo; voglio dire che la poesia contemporanea sembra essersi liberata di questo problema, voglio dire che il problema sembra essersi dissolto come neve al sole… Per la verità anche ai tempi di Leopardi e nel Settecento in piena arcadia si contavano migliaia e decine di migliaia di poetanti, e così anche ai tempi di Catullo, certo oggi il fenomeno si è diffuso, è diventato un fenomeno di massa, ma non può certo dirsi che poeti di lunghissima esperienza e cultura come Renato Minore o Laura Canciani (tanto per fare due nomi a caso) non sappiano come e quando andare a capo… il fatto è che presso altri più giovani autori è mutato il concetto di poesia, Ivan Pozzoni dichiara di fare anti-poesia, di voler mettere della dinamite nella poesia, quindi rimproverargli di non avere una regola aurea per la sua versificazione è un rimprovero che non centra il bersaglio, perché quel bersaglio Pozzoni non lo vuole proprio colpire, lui cerca un altro bersaglio: quello della poesia che fa finta di dire qualcosa, che si affida alle aure, alle atmosfere sentimentali, alle dorature, alle stuccature pseudo sperimentali di tanta altra poesia. E poi, se si legge con attenzione e senza pregiudizi, mi sembra che gli autori di questa puntata dell’Antologia abbiano delle qualità.
Contrariamente al mio pessimismo degli ultimi anni, forse mai come oggi la poesia contemporanea è viva, vitale, effervescente… forse manca il Leopardi, ma, in fin dei conti, chi lo può dire con matematica certezza?”. Continua a leggere

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ANTOLOGIA DI POESIA CONTEMPORANEA (VIII) – Renato Minore, Laura Canciani, Antonella Antonelli, Gino Rago, Ivan Pozzoni, Francesco De Napoli, Carla Guidi, Roberto Piperno, Luciano Troisio, Mariano Menna, Rossella Seller, Domenico Alvino, Ivano Mugnaini, Claudia Zironi, Danilo Mandolini

renato_minore 3Parnaso 1  Renato Minore

Non esistere
sarà forse impossibile.
Nel multiuniverso-patchwork,
a pochi millimetri
dal nostro presepe,
un altro lo replica
con lane di pastori,
scintillio di stagnola,
verde muschiato,
neniette a ricarica.
La luce batte e rimbalza

come in gabbia.
Mai lo vedremo,
mai sapremo
se ancora nella santa notte
le streghe alzino la selce
per fare malie
se chi nasce vince
l’esitare del vuoto.

2Laura Canciani

da L’aquila svolata (1982)
Canciano Canciani

Sono tanto stanco sotto questo sole
e le braccia dei dodici figli
lo adagiarono piano. Sentì il
letto odoroso oltre il bosco
oltre la stalla, sentì il cuore
scoagulare, calma dei colori
senza vento…
Intorno al suo letto di ferro battuto
– uccello intarsiato dalle piume di fuoco –
i dodici figli, anche quelli lontani
i morti i bambini, le femmine in fondo
le figlie in convento, colombe
arruffate straziate…
Disse a qualcuno: ti dono
il mio lungo patire – e pianse
abbandonato il volto ancora bello
bianco scarnificato. La notte insonne
bruciava senza vento la
fronte ghiacciata, il varco del respiro
un crescere affogato, quando
le ali intarsiate si levarono
con sfarzo sulle membra martoriate:
gli alberi il cielo la luna ghiacciata
il vuoto paiolo la madre la terra
bambino sperduto che vaga nel buio
nelle voci chiamanti – additate –
dei vivi e dei morti…
(l’alba nasceva a ustionare la vita)
giunse le mani: chiamate la mamma. Il volto
percosso da quell’unico buio
i capelli raccolti di vergine antica
la sposa avanzò, i passi accecati.
«Come sapevi tacere tu» – e – per l’ultima volta
aprì la mano:
si udì il lamento della madre
succhiata – madre impotente a succhiare la vita –
Allora si mosse la prima campana
compagna sgomenta e smarrita
disse: «vi sento ma non vi vedo più»
e giacque più abbandonato
dormiente o come fosse morto
più bianco e scarnificato.
Appeso al muro un orologio antico
batteva testardo, pareva impazzito…
Il primo dei figli – Daniele –
che lo regolava quando era bambino
«fermatelo» – disse –
il vecchio fu un’onda urlante, spiegata
«guai fermarlo!»
e si ruppe sulla roccia destinata
la giovinezza ha forse solo
questo dono della sorte

essere così lontana così
disgiunta dal pensiero della morte Continua a leggere

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ANTOLOGIA PER IL PARNASO VI – Antonella Antonelli, Nazario Pardini, Stefanie Golisch, Adriano Accattino, Ivan Pozzoni, Ambra Simeone, Tiziana Antonilli, Maria Pia Quintavalla, Roberto Maggiani, Carmelo Pistillo, Faraòn Meteoses

Antonella Antonelli in orangeAntonella Antonelli

Un’altra fuga

“E’ mia la dipendenza?”
Ti chiedo smarrita.

“E quali catene ti ho dato io?
Nessuna. Sei libera di andare,
scegliere, volermi e non volermi.
Non smetterò mai di cercarti
lasciandoti andare”

“E come faccio io senza catene?
Passa dunque da qui, la mia indipendenza?”

Togli gli occhiali,
mi fissi negli occhi
con gli occhi stanchi,
come fosse faticoso,
ancora una volta,
spiegarmi:

“elemosini amori incatenanti
per non perderti, e poi scappi
senza mai liberarti.

Una semplice evasione
la tua fuga.”
Resta appena socchiusa
la tua bocca, come volessi aggiungere
qualcosa.

“Come faccio ad amarti
se non mi tieni?”

“A catena amore, come un cane fedele?
Io non ti tengo, no.
Sei libera di andare oppure di restare.”

Ti abbraccio di slancio, stupita.
Metto la testa sulle tue gambe,
mi sfiori i ricci, li sento
aggrovigliarsi tra le tue dita.
Vorrei fossi un gigante
e io nella tua mano, ballerina,
girare sul palmo fino a cadervi.

Mi tiri su.
Metti gli occhiali
ti rimetti a leggere
metti mille libri a sommergerti.
Mille capelli sulla tua testa ferma.
E’ notte e di notte i pensieri
ruzzolano come palloni su scale popolari.
Odore di refettorio dalle porte aperte.
Il caldo si mescola, vorrei andare
una gamba piegata, l’altra pronta,
ma non mi dici niente
ti chiedo “posso restare?”
“decidi tu, amore”.

Sposti gli occhiali, mi guardi
e i tuoi occhi si muovono rapidi
sulle mie labbra incerte
“no, meglio che vada” dico
e mi sento piangere,
in silenzio, senza lacrime o scosse
dentro, come un innaffiatoio bucato.
“Peccato” dici “è già così buio.”

Ti rimetti a leggere
“allora resto” ti dico fiduciosa.
“No. Ora va.”
“S’insegna così la libertà?”
Ti chiedo altera e delusa.
Continui a leggere.
Ognuno in questo gioco ha la sua parte.
“Mi lanci un’altra sfida?”
Non mi rispondi.
Vedo gli occhiali, fili bianchi e una poltrona.
Me ne vado con il tuo silenzio.
E questa, è solo un’altra fuga.

Foto Nazario ii

Nazario Pardini

Contro le lune
Ho sempre fissa, padre, la tua immagine;
i nostri sogni, il cielo: prevedere
dure gelate a divorare pane,
piogge future ad annullare semi;
e brezze, e folate affilate
a recidere illusioni mai appagate.
Eppure si aspettava primavera
immaginando anche il suo profumo
nel suono nemico dell’urlo invernale.
È sempre fissa, sì!, la tua visione:
tronco scheggiato da lame
forgiate dal tempo;
fronda sfrascata da inverni ribelli;
idea appesantita
da troppe lune piene. Sì!, ti rivedo
ancora qui con me, padre immolato,
a regalarmi odori d’erbe offerte
alle frullane lucide di sole.

Sai, padre!
Qui non ci sono più terre feraci
disposte a dare vita
a mèssi generose;
fronde feconde
ad ospitare nidi da allevare.
Sulla tue terre crescono le case
abbracciate fra loro
come pietre di cava sopra storie
destinate a finire. Chiedo solo
– al cielo, a qualcuno, non so a chi –
che mi mantenga in seno la tua voce,
che mi mantenga in cuore il tuo sorriso,
il tuo sagrato profumato d’erba,
e la tua voglia, maledetta voglia,
di seminare sogni anche nei giorni
più neri della notte.
Contro le lune.

13/05/2013 h. 11 (inedito)

stefanie-golisch-190

Stefanie Golisch

Fly and Fall

.
Piano il giorno apre gli occhi
per salutare la mattina di fine agosto.
Ecco ciò che sta per accadere oggi:

Un uomo troverà l’amore e un altro lo perderà.
Qualcuno arriverà alla stazione giusto in tempo,
mentre un altro attenderà invano.
Un merlo sussurra nell’orecchio di un altro, che bello volare e cadere.
Qualcuno inaugurerà il giorno con una bottiglia di birra,
e un altro ascolterà a lungo l’eco dei sogni complessi.
Qualcuno scriverà una lettera scarlatta,
mentre nel cuore ferito del suo vicino non è rimasta una sola parola.
Una bambina si sveglierà dai suoi sogni notturni
stringendo il suo orsacchiotto, e una donna si sveglierà
soltanto per morire a metà mattina poiché il giorno
richiede tutto questo. Lottando scivolerà via davanti agli occhi
dei vivi nello stesso momento in cui
un pittore finalmente trova il suo blu.
Oggi sarà il mio giorno pensa il giovane,
mentre si allena, impaziente di gettarsi nella mischia.
Nella cantina di una casa abbandonata,
una gatta tigre gioca con un topo soltanto
per intrattenere la piccola cosa

Quel che il pittore non sa
è che quel blu non esiste,
ma soltanto una voce lontana,
quasi non udibile nel brusio di tutto questo fare all’amore,
morire, chiacchierare con gli amici, mangiare, bere,
spaventarsi e gioire,
impaziente di placare l’insaziabile
oggi

Adriano Accattino

Adriano Accattino

Può significare una svolta del respiro… non è più
parola, ma toglie la capacità di parlare

Forse qui, affrancatosi qui e in quale modo..
forse si libera ancora qualcos’altro

A partire da questo punto… ora può percorrere
le proprie strade… più volte

Tra le speranze vi sia quella di parlare per conto
di un Altro. Forse è concepibile un incontro..

Su questo indugia, s’azzarda… mette in rapporto
con la creatura

Nessuno può dire quanto… la pausa del respiro
duri ancora

*

Cerco la stessa cosa, la figura, in vista del luogo,
del farsi libera, del passo in avanti

Oppure tenta di percepire la figura nella direzione
che le è propria, fugge innanzi

Ben sappiamo dove vada la sua vita, dove sia
per andare: così era andata la sua vita

Gli risultava talvolta sgradito il fatto
di non poter camminare sulla destra

Ecco l’oscurità che muove da una distanza
che essa stessa, forse, ha tentato di progettare

Noi professiamo l’oscurità*

* da Poesie rubate Mimesis, 2013

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

PENE D’ARTISTA

Non conosco chi è Ninnj Di Stefano Busà,
– c’aggia fa!- non appena Kairos Editore
mi chiederà ancora 200€, così da essere inserito,
con tre testi, ne L’evoluzione delle forme poetiche
La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio,
nun me resta che accettà, in modo da essere anche io migliore,
migliore di come sono, 200€ migliorano la mia scrittura,
è la vittoria dell’economia, sul conflitto tra natura e cultura.

Chi cazzo è Ninnj Di Stefano Busà?
Forse un’emula di De Signorinibus, o De Signorinibus
un emulo ermetico der medico de li mortacci,
non funziona, quando bustrofedo alle due di notte,
dopo succo d’uva e Sangria, un Bellini, Porto,
divento incoerente, una sorta di Don Chisciotte,
meglio dei vari Don Abbondio che bazzicano l’orto
dell’irta arte italiana, disponibili a versare,
non nel senso di fare versi, 1500€ a Carabba,
con lo scopo recondito di farsi pubblicare,
facendo sermoni sulla gratuità dell’arte
quando vai a chiedere 30€ di quota solidale
per sconfiggere i cartelli dell’industria editoriale.

M’inchino a Ninnj Di Stefano Busà
– c’aggia fa!- senza aver capito se è una donna, un uomo, un trans,
se è un uomo, o un trans, non m’inchino,
minchia, mi sento troppo brillo per continuare,
e non sono abituato a brillare, mi toccherà tornar da Ambra,
a letto, come un’ombra, senza far rumore,
lei mette i tappi nelle orecchie per non sentirmi battere,
io, quando batte lei, nel senso di battere al Pc,
mi metto un tappo in bocca, è meraviglioso spiarla scrivere,
di lei sono sicuro che non è un uomo, o un trans,
– svelando queste cose rischio di ritrovarmi cadavere-,
o un emulo imperterrito di Oronzo Canà
davanti alla fama imperitura di Ninnj Di Stefano Busà.

(inedito)

Ambra Simeone

Ambra Simeone

Ambra Simeone

mi prendo la libertà di quel che scrivo

e poi questa storia della libertà io davvero me la sono sempre chiesta,
che ti dicono che molte persone della tv, politici, soubrette, giornalisti, attori
e che persino molti scrittori famosi, non sono liberi come quelli che non li conosce nessuno,
perché a loro manca di fare certe cose normali, come andare a fare una passeggiata da soli,
farsi fotografare solo quando vogliono loro, fare l’amore senza dire niente a nessuno,
e che allora la notorietà non è più una questione di libertà, se dicono, che più sei noto
e più perdi la libertà di fare certe cose, come le fanno tutti gli altri sconosciuti,
ma a molti sembrerebbe una bufala, e allora non conviene essere famosi? lo dicono tutti?
io quindi me la sono sempre chiesta questa cosa qua, che forse uno è libero se non è riconosciuto
è libero se nessuno sa chi è, cosa fa e come vive, uno è libero se diventa invisibile,
e forse è proprio una bella scusa, una bella invenzione ideata da chissà quale creatore,
mah, sarà, proprio un bell’affare la libertà, che uno però non è libero di diventare famoso,
ma di essere uno come tanti, uno in una massa indistinta di sconosciuti, così ti dicono,
dunque secondo me la libertà l’ha inventata un bravissimo scrittore.

tiziana antonilli

tiziana antonilli

Tiziana Antonilli

Come si chiamava
Lei che inavvertita folgorava l’occhiaia
scomponendone il viola
si accapigliava con l’inerzia
sbranandola
ridisegnandoci
ombretto rosso sole
inanellava il blu
inarreso dello sguardo.
Sopravvive
ma solo quando l’inverno cede
e la prima rondine
posa stanchezza

allora sembra di nuovo possibile
che uno schiocco di dita
ci inabissi all’istante
ma quella sfrontatezza quanto
insegue
sanguina
esige
se è ancora?

Quintavalla

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Maria Pia Quintavalla
Qui, che ridiventa nido

I)

Se mi mettessi fuori a testimone,
del tempo e del mercato,
che la stessa scena ogni giorno
r i c o n c r e a

ma per meglio cogliere nel flusso
che si libera, io lenta
navigante che non sporge più
non rema a braccia a nuoto,
nuove luci arricchiscono disegnano
i suoi i fianchi flessi come l’iride.

Se testimone fossi dell’intero,
nel verso io potrei smorta
carpire un suono madido che afferra,
piega a lato in frescura,
la bocca benedice non sente più
pianti nolenti ma bambini
lesti nel correre,
che ricambiano il suo v o l o.
II)

Rivivi la tua infanzia, mentre ricrei
a Itaca, col padre
nel nome tuo familia nova che
come l’altra, drammatica insoluta

perché per crescere occorreva
essere amati, io adulta genitrice
della vita che si fa futura,
non mentore soltanto di occasione – infanzia
che si genera rifà mi pianta
intorno a un’ostrica mi incolla
alla matrice unita al male
con il bene, un arco soddisfatto
in sincronia f u t u r a.

Roberto Maggiani.

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Roberto Maggiani

da “La bellezza non si somma” (Italic, 2013)

Dio

Ho imparato ad evocarti
dai colori e dalle forme delle cose.

Per riconoscere la tua presenza
mi bastano la soglia di una porta
sempre aperta su un patio
e una tenda
che nella brezza sappia danzare
lentamente.

Sei come un albero
che nella sua totale presenza
si assenta nell’abitudine
dello sguardo

Io invece sono come il mio gatto
che parla ai corvi lontani:
vedendoli piccoli
vorrebbe farne un boccone –
li prega di scendere
con versi inconsulti
non sapendo della loro grandezza.

Ti cerco instancabilmente
ed è solo per la nostalgia che ho di te
che scrivo poesie.

Carmelo Pistillo aprile 2012_

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Carmelo Pistillo

LEI È QUI, DENTRO DI ME…

Lei è qui, dentro di me,
mi offre i sensi, torce
il suo orizzonte.

E’ in ginocchio e grida
vivi, ma io piango,
e non so quanto
il mio seme cerchi
luminescenze nella sua bocca
o quanto le sue trecce
siano già corda spezzata.

Tutto è stato così lento,
la mia testa fra le sue gambe,
le mie labbra sulle sue.

Siamo saliti e scesi
su ogni errore.

Come acrobati nell’elegia,
come acrobati nell’elegia.

Stefano Amorese

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Faraòn Meteoses (pseud Stefano Amorese)

Inghiottitoio
(estratto)

1
Mi macera dentro per la malora
una congettura contraddittoria,
per di più di un’idea dannata
dapprincipio premeditata sotto una pensilina…
mal sopportata assai
da quel pregiudizio altrui dissuaso mai
dalla supremazia degli Àrcadi e degli aedi:
una tara ereditaria intrinseca
che sempre di più mi estranea dalle virtù degli Avi…
un’interferenza, che mi elide acidula
una vocale atona…
un sapore amaro che mi sgocciola
nell’ingestione di una Sostanza càustica…
una Bestia onnivora che mi guaisce in petto:
un autoritratto a tempera, se lo si preferisce…
una frenesia che si perpetua assidua
che mi adùltera e mi deteriora
per questo testo d’inconsistenza,
che da un incubo si è ingenerato
e che m’ingerisce…
in un buco nero divaricato.

2
In una foiba
che m’affascina fabulosa,
che non mi dice nulla
e che non ha favella…
che sia in quell’avello disseppellito
dall’unghia ippocratica del terapeuta,
che con beneficio di inventario e di bioenergetica,
mi strizzò il cervello nel sotterraneo,
cagionandomi intimamente
un malumore putrido di morfina:
una magodìa, che anche ad oggi, mi sopisce appena…
ossia il dialogo di me stesso con il mio sosia,
una messa in scena di un ricordo nitido di ciò che sono:
una comparsa anonima entro una proiezione
per chi desidera esserne l’autore.
In una simbiosi insolita, in un torbido malinteso
con il mio congenito parassito
e con l’ospite, che mi molesta e che mi fu inatteso:
un pretestuoso… un presunto me,
che non si attenua né si rasserena
nemmeno per una semicroma suonata dall’aulète
ubicata all’imboccatura…
in cui sprofondo in un tonfo sordo,
in un grido acuto…
che ormai mi ha asfissiato esausto
e compiuto nel mistero,
così come mi fu esposto
dal mio viatore muto,
col quale ho convissuto,
in cui sono compreso
e tutto ho condiviso.

 

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ANTOLOGIA III PER IL PARNASO – Francesca Diano, Antonio Sagredo, Alberto Figliolia, Maria Grazia Insinga, Francesca Tuscano, Ivan Pozzoni, Antonio Coppola, Marisa Papa Ruggiero, Francesco Tarantino

Parnaso-Apollo-Venere-Mercurio-e-le-Muse-di-Andrea-Mantegna

Francesca Diano

Congedi.FOTO FRANCESCA 2
Viatico in undici stazioni

I
L’ESCLUSA

Andavo per strade coperte di polvere
L’orlo della mia gonna sfilacciato
Non si curava di fango o sterco
I piedi scalzi – segnati dal rifiuto persino della terra.
Signori o plebei – non facevo alcuna differenza
Nessuna presenza era presenza
Ed ogni assenza – assenza.
Mi dolevano le ossa – ero una casa diroccata
Disabitata persino da me stessa
Preda di predatori e depredata di me. Continua a leggere

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