Scrive Lucio Mayoor Tosi:
«La scarpa da donna dipinta da Maria Rosa presenta un vistoso errore: dal punto di vista compositivo è decentrata a sinistra. Maria Rosa non ha tenuto conto della superficie da occupare, non la ha preventivamente organizzata, e ha certo disegnato in modo frettoloso. Pare il fotogramma di una carrellata cinematografica scelto a caso. Tuttavia a me è piaciuta proprio per questo errore: è possibile che la scarpa si trovasse alla sua sinistra, a sinistra del tavolo dove Maria Rosa stava disegnando. Anche nella scrittura a frammenti può capitare che la “cosa” si presenti nel posto sbagliato, a interrompere un pensiero, oppure per creare una situazione imperfetta, casuale.
Credo si possa dire che la casualità è una delle componenti estetiche della Nuova ontologia estetica. Ovviamente si tratta di casualità voluta, composta con elementi estranei al discorso. Parole e cose decentrate, esattamente come la scarpa di Maria Rosa, concorrono a creare quell’anarchia compositiva che è parte costitutiva della scrittura viva. Così come appare nella percezione, la realtà è autentico disordine.»
Giorgio Linguaglossa
caro Lucio,
il problema è molto semplice. Il problema è: se noi osserviamo il mondo dal punto di vista della logica dell’identità, tutti gli oggetti, tutta la variabilità del mondo ci appariranno da quel punto di vista identitario: il punto di vista dell’identità che risponde alla logica di un «soggetto» monocratico che legifera attraverso le parole e la sintassi e le regole retoriche. Il fatto molto semplice che i poeti di fede non riescono a capire che il mondo è composto da una infinita quantità di variazioni e di variabili e voler ridurre tutta questa variabilità ad un discorso monocratico è un atto di sciocchezza estrema e di arroganza illimitata (le due cose vanno insieme)… quella «anarchia compositiva» cui tu accennavi, è una autentica fortuna, infatti Maria Rosa deve ringraziare l’errore del «punto di vista» se ha fatto un dipinto interessante… un pittore più professionale non avrebbe commesso quell’errore e avrebbe raffigurato una «scarpa» che rispondesse alla logica di un soggetto monocratico e identitario…
Quello che noi stiamo cercando di spiegare in tutti i modi a chi ci legge è che anche nella poesia le cose non cambiano: se si accetta senza pensare il pregiudizio, la logica del punto di vista unico, monocratico, identitario, si finisce inevitabilmente per scrivere una poesia monocratica, forzosa, forzata a rispondere alla logica identitaria, cioè una poesia già scritta una infinità di volte…
Il poeta, il pittore, lo scultore, l’architetto etc se fanno professione di fede, se compiono un atto di fede, creeranno delle cose che fanno tutti e che saranno presto dimenticate, cose antiche, antichizzate, replicate miliardi di volte…
caro Giorgio,
ero indeciso se inviarti una mail per ringraziarti di questo tuo ulteriore intervento sulla mia poesia perché tutto rimanesse in forma privata. Poi ho ritenuto che tutto si svolgesse alla luce del sole e alla conoscenza dei lettori dell’Ombra. Devo confessarti una cosa: tu hai ricoperto il vuoto che la critica ufficiale del Secondo Novecento ha lasciato sulla mia poesia, fatta eccezione per Giuseppe Zagarrio che mi ha inserito nel suo Repertorio della poesia italiana degli anni 1970-1980. e di altri riscontri critici, svolazzanti di qua e di là. Non è, sia ben chiaro, che io li richiedessi. Non me ne sono mai interessato. L’unica cosa a cui tenevo era produrre una buona poesia per me e gli altri. Forse, alla fine, ci sono riuscito, non lo so.Certo è che mi trovo a mio agio con un postmodernismo linguistico che fa da ponte con i miei sensori psichici,con un notturno metafisico che giustamente e con grande sensibilità Carlo Livia ha messo in evidenza in un precedente post, rispetto alla poesia di Eliot. Per questo ho un grande debito con te, che mi accompagna nel corso della giornata. Sta qui l’elemento di riconoscenza che non si dissolve nel tempo e che diventa motivo in più per non dimenticare. Grazie.
Carlo Livia
Sentieri Interrotti
per Mario Gabriele
Ogni fanciulla è un rifugio dell’amore.
Ogni amore un fiore del tempo.
E il tempo è un pensiero di Dio.
Un pensiero d’amore.
Nessuno volle più abitare il silenzio.
Preferirono il nulla.
Quando nasce la musica
l’eternità lascia le rovine del sonno
Chi mi ama prende la mia forma
e siede sull’orlo del precipizio.
Fra la moltitudine dei paradisi
scegliamo sempre il più lontano.
Il mondo che mi aveva visto sparire
si coprì d’una pallida tenerezza.
Mi fermai per sempre nel cuore del mistero
e tutti gli sconosciuti mi chiesero perdono.
Un sospiro fra altre grida:
il Signore muto mi fece cenno.
Che dire, gentile Carlo Livia, del suo testo poetico? I distici risuonano di una musica verbo-iconica che si armonizza con l’uso del frammento. Lei opera con disinvoltura anche sul piano della nuova ontologia estetica, inserendo scatti esistenziali e metafisici all’interno di una scrittura poetica che si lascia leggere volentieri. Con cordialità e grazie.
Alfonso Cataldi
In un sussulto
«Lasciarsi alle spalle il bouquet
in un frangente di tiepido sole»
ammise il life coach, di ritorno
da un breve volo interno.
La curva vagabonda di lamiere e fiamme sorseggiava un drink
il maltempo fu deviato dai ritagli di giornale.
Un accumulo di ordini e contrordini
arrestò il malessere
l’attività della buca delle lettere
al culmine del dibattimento
è necessario svenire, fingere un collasso
nel covo inesplorato di corpo contundente
[…]
L’assistente si toglie il grembiule.
Esce fuori dallo story-telling
coi primi lampi del mattino
distrae il giro della morte
al Nürburgring. L’incubo d’oro è sotto controllo
tra lingue biforcute e calici serrati
si nutre dei rantoli di luce la chiaroveggenza
in un sussulto di selvaggia abnegazione.
1 e 2 ottobre 2018, Dialoghi e Commenti – Poesie di Nunzia Binetti, Gino Rago, Mauro Pierno, Alfonso Cataldi, Giuseppe Talia, Lucio Mayoor Tosi, Francesca Dono. (Lalie Lescorgot), Giorgio Linguaglossa
selfie Raymond Queneau
non c’è domanda che a un titolo o un altro non passi per i defilé del significante
[…]
l’Edipo però non potrà tenere indefinitamente il cartellone
in forme di società in cui
sempre più si perde il senso della tragedia
(Lacan)
Giorgio Linguaglossa
1 ottobre 2018 alle 13:37
Mi scrive una interlocutrice, Nunzia Binetti, in un messaggio:
Gentilissimo Giorgio, non conosco nei particolari il canone di Harold Boom, ma farò ricerca su questa teoria. Sto però ragionando… se ci sono attualmente solo epigoni, potremmo concludere che sia l’epigonismo la causa dell’allontanamento del lettore dalla poesia ed inoltre , come lei sostiene in più luoghi, che la poesia è morta. Il problema ( secondo me) è che tutto è stato detto o sperimentato ormai in poesia, pertanto sarà difficile trovare indirizzi inediti o fare innovazione nel modus poetandi. Personalmente trovo che alcuni poeti dei nostri giorni siano molto validi, anche se non propriamente innovativi ( non potendo essere innovativi !). Insomma io penso che la poesia non sia morta. Se riconoscessimo , poi, morta la poesia dovremmo riconoscere morta anche la critica letteraria relativa alla poesia e per due motivi :
1) perché la poesia è morta.
2) perché non esiste un metodo “scientifico”, quindi certo, con il quale stabilire cosa sia poesia e cosa non lo sia.
Diciamo pure che mi considero più ottimista di quanto lei mostra di essere. Condivido tuttavia – ed in blocco – il suo dire che la concorrenza tra poeti è terribilmente sleale (ne so qualcosa, per non parlare dei concorsi !!!) e che la poesia non può prescindere da una qualche filosofia che la conduca. Potrebbe essere proprio la filosofia quel tanto di scientifico necessario a legittimare la poesia ad essere tale ? La questione rimane aperta.
La ringrazio per la cortesia della sua risposta. Sempre con stima la saluto.
Secondo lei, Giorgio, esiste una poesia di genere ? Mi piacerebbe leggere il suo pensiero da qualche parte, se mai avesse affrontato questa tematica. Grazie.
Nunzia Binetti
24 settembre alle ore 01:18
Liberi dall’inerzia dell’indicibile
parlatemi di Potnia, del suo ventre
che più non feconda
e delle sue ginocchia genuflesse per usura.
Io parlerò di me
che scarto e ingoio pillole, ogni sei ore,
tentando di sanare la stortura,
la piaga ereditaria che consuma.
Dolore è il tempo
e lo chiamiamo Storia.
André Breton e Paul Eluard
Giorgio Linguaglossa
1 ottobre 2018 alle 17:44
cara Nunzia Binetti,
io direi di lasciare per il momento da parte il Canone occidentale di Bloom, quel canone appartiene alla storia. Noi oggi siamo usciti dalla Storia e siamo entrati nella post-storia, anzi, siamo nella post-istoria. Siamo nella storialità. Che significa? Detto così, siamo entrati in un mondo dove tutto il passato si allontana alla velocità dell’espansione dell’universo e il futuro sembra così vicino che possiamo toccarlo con mano. In questo spazio-tempo compresso noi non possiamo che abitare che le nostre «Stanze interiori», dal titolo di un prossimo libro di poesia di Tiziana Antonilli, queste «stanze», simili a piccole fortezze costruite con gli stuzzicadenti e gli zolfanelli. Non abbiamo più una religio che ci tenga tutti uniti, né una ideologia entro la quale riconoscerci, anche le «Forme» sono scomparse, affondate, dipartite… siamo rimasti soli con il nostro foro interiore…
«Si tratta − spiegava Adorno nel 1947, concludendo i suoi Minima moralia − di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica». Tuttavia, pur prediligendo il frammento, non lo si riduce a esercizio di stile, disinteressato o impropriamente assolutizzato e chiuso, a «fortezza costruita con gli stuzzicadenti», diceva Leonardo Sinisgalli, il poeta delle ‘due culture’ (quella scientifica e quella umanistica, ovviamente)».
In questa situazione di estraneità reciproca alla quale ci ha condotti l’età della dimenticanza dell’essere, quella epoca che ha visto il dissolversi dell’essere nel «valore», dell’essere «che non ne è più nulla» diceva il tardo Heidegger invitandoci a «lasciar perdere l’essere». Drammatico, no? Viviamo sotto l’egida di Sua Maestà il valore di scambio, esso è il Regolo che regola e dirige le nostre esistenze, a noi la nostra epoca non ha dato altro che una stanza interiore fatta con gli stuzzicadenti e gli zolfanelli, ci ha lasciato in eredità miliardi di «frammenti» che galleggiano sul mare della datità. Tutto quello che noi possiamo fare è aggrapparci a questi «frammenti» e tenerci a galla per un po’, in attesa di tempi migliori…
Gino Rago
1 ottobre 2018 alle 18:13
In tutti i commenti, come nei versi, della pagina odierna, ricca e colta, che Giorgio Linguaglossa raccoglie e propone oggi su L’ombra serpeggia anche se non esplicitato il rapporto poesia-potere, poeta-linguaggio poetico-lingua del potere… Vorrei dare un contributo con i miei versi magnificamente commentati da Rossana Levati.
Gino Rago
Piazza dei Martiri
Piazza dei Martiri. Il sole pigro non vuole tramontare.
A destra il popolo in festa urla: «Dio salvi il Re…».
A sinistra si leva un grido di guerra:
«Dio salvi la Regina…».
Il centro della piazza oscilla.
Un urlo: «Dio salvi il Re e la Regina…»
Mentre il boia lucida i legni dell’impianto
Con la palla di grasso ottenuto dai cani morti.
La corda con il cappio pende luccicante,
Al sole del crepuscolo sembra più splendente.
Un urlo unisce la piazza da destra a sinistra
Passando per il centro: «Muoia il Re. E muoia la Regina».
Passano cesti con pane bianco.
La botte con il vino che zampilla.
Il cappio in lontananza risplende più di prima.
«Dio salvi il Re… Viva la Regina».
Il poeta lascia Piazza dei Martiri.
Non desidera il pane d’altri, rifiuta anche il vino.
Non vuole il Re. Non vuole la Regina.
Cento usignoli nel suo petto si destano. Si destano.
[In questa poesia, Piazza dei Martiri di Gino Rago] ogni distico rappresenta un momento a sé senza alcun riferimento storico preciso, il movimento di una rivoluzione. Può essere avvenuta in ogni tempo, potrebbe ripetersi oggi, tra il potere che preme con le sue esibizioni di forza e la repressione del pensiero e dell’indipendenza di giudizio. Nulla sappiamo sul tempo, solo il luogo è evocato con precisione, col riferimento a quella “Piazza dei Martiri” dove si allestisce il cappio sul patibolo del sacrificio.
La festa del primo distico allude a qualcosa di sinistro, diventa rapidamente grido di guerra al quale si adeguano gli urli di una folla che può tranquillamente augurare salvezza o morte, e che con indifferenza passa da questo a quel campo di forze politiche, ora unite, ora disgiunte, come mostra l’associazione e la dissociazione di Re e Regina nelle frasi.
Non a caso, dopo l’urlo della folla, tre distici collocati al centro della poesia alludono all’imminente esecuzione: un boia, l’allusione macabra al grasso ricavato dai cani morti, preludio ad altri morti –umani – di cui in anni successivi tutto si è depredato.
Il luccichio della corda, al centro della scena, emblema di morte e di servitù, ha qualcosa di sinistro, nel bagliore del crepuscolo che non illumina né annuncia alcunché di positivo. I segni dell’abbondanza, pane e vino (probabile allusione a un’abbondanza che è al tempo stesso sacrificio, come quello dell’Ultima Cena), rappresentano anche un banchetto umano, troppo umano, offerto in cambio della connivenza al male, qualcosa che sarebbe conveniente e decoroso accettare, pur di voltarsi dall’altra parte per non vedere il prezzo di quell’abbondanza così spudoratamente offerta a buon mercato.
Ancora una volta il poeta attira il nostro sguardo su quel cappio che splende, trappola che facilmente si annoda e attende le sue vittime. Solo uno nella piazza si oppone ai canti di gloria, a quelli di morte, al pubblico abbeveratoio offerto troppo a buon mercato, quel poeta che abbandona il luogo della folla, della contaminazione politica, conservando dentro di se’ il canto di cento usignoli, più che mai desti nel generale sonno della ragione.
Proprio la leggerezza è, come esprimevano i poeti classici o ellenistici, l’unica virtù del poeta, talora vecchio nel corpo ma giovane e leggero nella mente e nell’anima, associato a quei volatili esili come usignoli, api o cicale che nella loro leggerezza e insignificanza ben rappresentano la poesia che sa porsi alla giusta distanza dalla pesantezza della materia.
1 ottobre 2018 alle 21:32
Ho riscritto in distici la medesima poesia che pubblicai nell’Ombra del 2014. Mi sembra che la struttura in distici metta in risalto la dialettica delle forze interne. Che ve ne pare?
Giorgio Linguaglossa
Diramazioni incorniciate dalle torrette blindate si diradavano nel buio
Diramazioni incorniciate dalle torrette blindate si diradavano nel buio.
E noi di qua dalle cancellate di filo spinato: i fortificati,
gli indigenti, i premorienti della cicatrice chiamata terra;
fitti e assiepati gli uni agli altri, guadagnammo infine gli stabilimenti dei dormienti.
(Erano costoro immersi in un sonno plumbeo).
I gendarmi li chiamavano «i copulatori del sonno».
I morienti furono sospinti con il calcio dei fucili,
assiepati e addossati gli uni agli altri.
Li chiamarono, ad uno ad uno, in correità, verificarono i loro documenti,
distinguevano i vivi dai morti, i morienti dai morituri,
i premorienti, gli irridenti, i plagiari,
proclamarono i responsi ai condannati e li divelsero dalla vita ultima,
dai falsi reggimenti, dalle ultime fondamenta,
dagli ultimi tentati stabilimenti.
Dai fondali lutei del fiume emersero le statue bianche
venute dalla cicatrice chiamata terra,
dichiararono che erano stati prigionieri del sonno,
che nulla era più come prima,
e che dopo il prima non ci sarebbe stato un dopo.
Una schiera di comandati a gettone si faceva avanti nella ressa.
Un gendarme guidava la dissoluzione dei lapidati dal sonno.
Chiesi al gendarme: «È un inizio o una fine?», ma non ottenni risposta;
intanto i maledetti cantavano alleluia e si battevano il petto
come appestati che chiedessero la grazia mentre si assiepavano
nel refettorio del dolore eterno…
ma erano anime ormai, nient’altro che anime.
«La risposta se c’è – dissero – è nei ripostigli della memoria».
All’improvviso, il ronzio d’un motore d’elicottero giunse dall’alto:
un tip tap incontinente, un bip, un tric insistente…
dall’alto, dagli altoparlanti una voce ci chiamava per nome ad uno ad uno.
I defraudati dal dolore, gli analgesici del sonno si fecero avanti
tra la schiera dei malnati e dei malvissuti;
una folla di cimiteriali malviventi vennero a noi portandoci
vivande borotalco… «mangiatene – dissero – e diventerete eterni»,
ma noi svoltammo nell’aria vetrosa del mattino dietro l’angolo del muro perimetrale.
C’era il sole eterno, accecante. Luce, luce.
I gendarmi officiarono il rito dell’iniziazione, ma era già tardi,
le statue bianche stavano con le spalle al muro, gli occhi bendati;
i malvissuti fuggivano in direzioni molteplici, dicevano
parole distanti, parlavano dei respingimenti,
degli accorgimenti, dei trucchi… ed apparivano
spaesati, inquieti… Continua a leggere →
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