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Petr Král (1941-2020), Poesie inedite dalla raccolta inedita Distanze, Un testo inedito degli anni settanta di Petr Král, con uno stralcio di una intervista a Pavel Řezníček nella quale si accenna alla nascita del movimento surrealista praghese degli anni Sessanta, Traduzioni di Antonio Parente

Antonio Parente 

Testo di Petr Král di fine anni 1970, uscito nella raccolta L’era dei vivi (1980).

 

Natura per tutti

                           Per Hélène Renon

1

Boschi al pomeriggio, a un passo e distanti dall’eterno fruscio delle banconote, boschi con un seducente ciuffo boschivo in mezzo ai boschi. E nel bel mezzo una casa bianca, inabitata. La casa solitaria custodisce il suo segreto, c’è un uomo solo sul tetto, l’ultimo giardiniere, a sorvegliarla. È in bianco, gli dona; bianco da sempre, il mare che tace discretamente sotto le lenzuola nelle soffitte vuote + il tracollo degli abbaini a fine pomeriggio. Per il sangue, si deve già andare un po’ più lontano: ai palchi macchiettati dei teatri chiusi fuori città, agli ultimi brandelli di sangue nei fumaioli desolati degli affumicatoi, e alle viscere scarlatte del viveur vestito di bianco mentre cammina pazientemente su e giù per la banchina vuota del porto, evitando accuratamente lo sguardo dei vitaioli intorno a lui. Il pomeriggio raggiunge il suo inesorabile apice. Qua e là una lingua pende ancora sul libro, qua e là dei sederi risvegliati luccicano di nuovo sulla radura; questo è il momento giusto, se mai ce ne sia uno per piantare la propria bandiera in mezzo alla gloria versata. Ora o mai più. Anche i corridori si fanno impazienti; solo dopo alcune false partenze riescono finalmente a partire in gruppo, prima che ognuno di loro si renda conto di essere di nuovo solo ad ansimare nel bosco.

E continuano anche le piccole faccende umane: il buttero arrossisce con successo e sistema una bistecca a sostegno del biliardo cigolante, i medici ridacchianti si allontanano dalla natura mansueta del parco verso il fresco delle sale operatorie. In lungo e in largo, singolarmente e in gruppo, siamo tutti una famiglia disseminata; i pallidi trionfano sugli abbronzati, e poi sono questi ultimi a prevalere, alcuni più miti e meno appariscenti di altri. Chiudete il libro, tanto è già pieno. Aprite la porta, tanto non c’è nessuno. I sorrisi dorati brillano appena a loro convenienza nell’erba esuberante; lo scoiattolo morto vola nella spazzatura, Rosaspina si fa il letto in cielo, siamo tutti ai piedi di un’unica scogliera; la casa bianca sorveglia il solitario sul tetto, che da tempo non si sente più a casa, in nessun luogo. Ognuno di noi dimentica sempre che anche il ritorno da un viaggio è solo un altro viaggio: quando ci troviamo nella radura e l’edificio familiare diventa di nuovo bianco in lontananza davanti a noi, tra gli steli del migliarino, stiamo solo navigando ancora una volta verso il porto dall’altra parte dell’oceano.

 

2

Poi ci spogliamo, un calzino, l’altro, un po’ schizzinosi e un po’ cospiratori mettiamo via i nostri straccetti dall’odore familiare, mentre il cavastivali ci guarda con la calma di chi durerà comunque fino alla prossima guerra. Sì, avete sentito bene: una folata di vento improvvisa, e nell’incogliere del crepuscolo è di nuovo impossibile sapere quando, perché e a chi si rizzino i capelli, e tanto meno su quale testa. Né alla fine ci si intende sul fatto che il sole sia solo una velatura occasionale su un mondo permanentemente grigio, o se il grigio sia, al contrario, solo un velo occasionale sull’oro di giornate sempre magnifiche. Ci vorrà ancora un po’ prima che ci si dissolva nei propri pensieri; ci saranno sempre dei resti non digeriti, se non quelli che ora discendono sull’erba lungo la pista deserta. Mentre il velodromo ci circondava con il nostro stesso silenzio, ci ergevamo qui taciturni al tempo in cui il centro del mondo avvizziva. Lenin? una semplice ombra, e poco più in là, un Casanova in un casto fremito.

Non c’è niente di peggio di quando cala la penombra, il lamento del vento nelle sue stesse viscere; quando ombreggia il crepuscolo, le teste che ricadono nel giorno sono teste inutili, cesti traboccanti di un bagliore vuoto. Chi può mai affermare che non abbiamo fatto nulla? Ognuna delle rovine di cui è imbottito il crepuscolo è opera nostra, comprese quelle che puntellano il cielo fatiscente. L’oscurità ha inghiottito i sentieri, ma l’uomo continua a disegnarne i labirinti nella notte del cervello. Rimanemmo in piedi e bagnati accanto alle gabbie degli animali fradici, circondati da ogni lato dalla pelliccia madida degli sterpeti, in attesa soltanto del fulmine globulare. Almeno questo era ieri; oggi ne parliamo soltanto, di nuovo, mentre lo stesso fulmine riverbera nelle profondità delle nostre gole. L’oggi, un pallido frammento di lampada dietro una cortina di gocce silenziose che tormentano la nuda autostrada. Il mammut dei tempi, Lenin? C’era una volta, o forse no; sussurrato. Possiamo piovere indisturbati.

 

Petr Král

Tutta la ruggine

Ma
donna tutta quella ruggine
di condutture corrotte cumuli caduti
rivelata nel terreno smosso da scavature
come forme quotidiane di seminterrati
sotto i piedi e le gambe
anche di dolce avvenenza del viandante e della viandante vivi Ma
donna e come sale qui pervade i corpi con severo crepitio
si drizza come il fruscio di foglie cadute la fiamma secca ma
donna in cui riarde
ciò che più non cova che mi riempie della tua carne
e in te stridono le mie ossa
porta a noi l’acuto brusio
del bosco antico dei suoi turbolenti rami delle venature infiammate
dei cespugli ardenti di cerve

* * *

“Ridi”, lo sollecitarono
Il cuore lo comprese
ma la bocca si irrigidì

Continuare a sparare alla cieca
o semplicemente sbandierare

* * *

Il bisogno di andare
seguire la strada
il marciapiede
Cicche e ciliegie
Nei vuoti
l’intera giornata nuova

Di notte il buio enfisema
nella sciamatura di stelle
Nella camera da letto
qua e là un fermaglio
Sotto il tavolo briciole
A volte una meteora
Un dente caduto
Una scalfittura di unghia
sulla parete
La saliva rimanente
all’angolo
Nell’occhio del paesaggio
solo una macchiolina d’albero
Subito una cicca
e poi un nocciolo
Il bicchiere che al tatto
si allontana di nuovo

* * *

Il bucato torna a noi
in uno sventolio spudoratamente candido
Il brandello di nuvole
dovrebbe ora consegnarlo qualcuno
se solo da qualche parte in Moravia
dietro l’impervia femminilità del declivio
dove continua a levarsi
e a scomparire
Le silenziose fabbriche del nulla
nuove città vuote

(dalla raccolta inedita Distanze)

Ecco uno stralcio della intervista inedita in italiano al poeta ceco Pavel Řezníček a cura di Viki Shock, pubblicata su Babylon n.7, 05., nella quale si narra un aneddoto in cui compare Petr Král circa la nascita della poesia del secondo surrealismo ceco, nella traduzione di Antonio Parente.  Continua a leggere

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Archiviato in poesia ceca

Wanda Heinrichová: In ricordo di Petr Král (1941-2020), Poesie inedite di Petr Král, versione dal ceco di Antonio Parente

Il Mangiaparole n. 9 Petr Kral

[nella banda in alto, da sx, foto di Iosif Brodskij, Giorgio Linguaglossa, Alfredo de Palchi, Czeslaw Milosz. in cover Petr Král]

.

Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941 da una famiglia di medici e muore il 17 giugno 2020. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico. È insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, nonché critico, collabora a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su “Le Monde e cinematografiche” su “L’Express”. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’”Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales” e dal ‘90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).
Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è anche autore di prosa: ricordiamo “Základní pojmy” (Praga, 2003), 123 brevi prose, tradotte in italiano da Laura Angeloni nel 2017 per Miraggi Edizioni. Attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte, Petr Král ha collaborato con la famosa rivista “Positif “e pubblicato due volumi sulle comiche mute. Antonio Parente ha tradotto di Král molte poesie in italiano pubblicate da Mimesis, Tutto sul crepusculo nel 2015.

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Petr Kral 2016 caffè Slavia, Praga

[Petr Král al caffè Slavia, Praga, 2018]

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Wanda Heinrichová: In ricordo di Petr Král

“Ma è una cosa che mi aiuta”, disse con voce alterata, quasi infantile, mentre tentavo di allontanarlo dal computer. “Vatti a riposare”, lo pregai, “altrimenti la gamba ricomincia a farti male”.

Ora mi dispiace. Mi pento delle mie parole insensibili, di non aver capito. Sono molte le cose di cui mi pento.

Fino alle ultime settimane, Petr trovava ore e minuti in cui il dolore non gli impediva di lavorare. Solo che lui non lo chiamava lavoro. La letteratura era la sua vera esistenza. Prendeva sul serio il suo servizio alla letteratura in tutta la sua giocosità, e al servizio della letteratura si dedicava come a nient’altro al mondo.

Leggo i manoscritti che ritrovo nel suo computer, ma nella bozza delle sue memorie non riesco a rinvenire l’aneddoto che mi raccontò una volta. Un tema al ginnasio: Cosa significa l’arte per me? Non so come se la cavarono i compagni di classe di Petr, ma lui rispose riempiendo l’intero quaderno. Stupito e allo stesso tempo perplesso, l’insegnante alla fine non valutò nemmeno la sua risposta. Posso immaginare come sia trasparito da quello scritto scolastico l’amore irresistibile di Petr per la pittura, il cinema, i libri, la poesia. Hanuš Schwaiger e i suoi Anabattisti forse invasero i quieti paesaggi di Kosárek, tanto Petr era pieno di immagini, fin da ragazzo. Ciò che lo colpiva non era esclusivamente la letteratura, era la poesia in sé. La poesia di luci e ombre, i movimenti delle creature, delle foglie, delle macchie, delle voci e dei rumori del mondo.

Petr percepiva nettamente la presenza della poesia, il suo rapporto con essa poteva essere paragonato solo ad una inclinazione religiosa. La venerava, l’amava, la sfidava, la cercava, la difendeva nel campo della critica. Incoraggiava instancabilmente i suoi compagni di viaggio con il suo profondo interesse per la poesia di altri artisti.

“Impariamo a guardare attraverso l’arte”, diceva, il più delle volte in relazione alla pittura.

Caratteristico di Petr considero questo suo approccio sequenziale: Lasciarsi incantare ed educare dall’arte e poi – non più con ingenuità, ma con un senso di nuova avventura – tuffarsi nella realtà.

La vita per una poesia, così Petr ha intitolato i suoi ricordi. Non è riuscito a portarli a termine, né è arrivato al racconto del tema che ho citato in precedenza. Quando i medici gli dissero che la prognosi era di pochi mesi, rifletté: “Dovrò fare diversamente, in qualche modo, a salti”. Raccoglieva tutto in appunti (scriveva sempre prima a mano), nel comporre e riscrivere il testo era arrivato alla soglia dell’adolescenza.

Durante l’agonia, Petr si tirava su nel letto, e probabilmente l’ultima cosa che ha detto è stata: “Qualcun altro dovrà finirlo al posto mio”. Non intendeva sicuramente solo le memorie, pensava anche ai saggi inediti sul cinema, che voleva fornire di note, alle traduzioni, alla poesia.

Un uomo ardente di febbre con gli occhi lucidi di stelle
incidono il soffitto con brucianti e misteriosi disegni di ornamenti turchi
o mappe di macchie sui muri dei cimiteri

solo l’ultimo sguardo frenetico di entrambi gli occhi
esala al soffitto un due punti prima dell’urlo
che già più non si avverte

:

(settembre 1957)

Questi versi Petr li ricordò un mese prima della sua morte, era ancora capace di alzarsi e andare al computer, e il computer ne registrò la data. L’intera poesia si intitola Dal sonno al risveglio, Petr la scrisse a sedici anni. E davvero è morto di febbre, bruciando.
Il mondo del ventunesimo secolo gli era già estraneo, eppure lo amava ancora, fino a esserne ossessionato, di esso amava ciò che lui chiamava i resti del mondo reale. Cosa intendeva per resti? Ricordo, ad esempio, un concerto raccolto, al Jazz Dock nel 2011, pochi spettatori, ma una musica formidabile. Il vecchio Lee Konitz suona il sassofono, non sul palco, che non c’è, è seduto proprio di fronte a noi. E poi pianoforte, contrabbasso e batteria, musicisti molto giovani, le luci del bar che si riflettono sul fiume notturno, la superficie rosa, soprattutto rosa della Moldava che luccica, Lee Konitz si alza, indica l’acqua tutt’intorno, alza lo sguardo e dice: “Queen Mary.” Non so cosa volesse dire Konitz. Il transatlantico Queen Mary non andò a picco, non fu mai affondato. Durante la guerra, fu verniciato di grigio, da cui il nome Gray Ghost. Non solca più gli oceani, le sue eliche sono state rimosse, eppure. È qui come Lee Konitz. Come te, Petr.

Petr Král

Tutta la ruggine

Ma
donna tutta quella ruggine
di condutture corrotte cumuli caduti
rivelata nel terreno smosso da scavature
come forme quotidiane di seminterrati
sotto i piedi e le gambe
anche di dolce avvenenza del viandante e della viandante vivi Ma
donna e come sale qui pervade i corpi con severo crepitio
si drizza come il fruscio di foglie cadute la fiamma secca ma
donna in cui riarde
ciò che più non cova che mi riempie della tua carne
e in te stridono le mie ossa
porta a noi l’acuto brusio
del bosco antico dei suoi turbolenti rami delle venature infiammate
dei cespugli ardenti di cerve

* * *

“Ridi”, lo sollecitarono
Il cuore lo comprese
ma la bocca si irrigidì

Continuare a sparare alla cieca
o semplicemente sbandierare

* * *

Il bisogno di andare
seguire la strada
il marciapiede
Cicche e ciliegie
Nei vuoti
l’intera giornata nuova

Di notte il buio enfisema
nella sciamatura di stelle
Nella camera da letto
qua e là un fermaglio
Sotto il tavolo briciole
A volte una meteora
Un dente caduto
Una scalfittura di unghia
sulla parete
La saliva rimanente
all’angolo
Nell’occhio del paesaggio
solo una macchiolina d’albero
Subito una cicca
e poi un nocciolo
Il bicchiere che al tatto
si allontana di nuovo

* * *

Il bucato torna a noi
in uno sventolio spudoratamente candido
Il brandello di nuvole
dovrebbe ora consegnarlo qualcuno
se solo da qualche parte in Moravia
dietro l’impervia femminilità del declivio
dove continua a levarsi
e a scomparire
Le silenziose fabbriche del nulla
nuove città vuote

(dalla raccolta inedita Distanze)

Altre poesie traduzione di Antonio Parente

Nei giorni invernali

Una mano nell’oscurità preme
l’interruttore, il neon lampeggia esitante. Il buio dormiente
soltanto da lontano striato da un’opaca apparizione: per metà un tremulo locale e per metà forse anche l‘intero paesaggio cinereo, con un mucchio fumante di abiti
– forse carne –
umidiccio di stelle e della colpa occulta. E di nuovo l’oscurità, di nuovo chiedere
soltanto: di cosa è impallidito il sangue, cosa di nuovo annega di notte
sotto la superficie delle parole. Tanto a lungo finché la luce s’impietrisce
e immota rivela
l’estensione originale di una scena cenerina, vuota.

(Per l’angelo, 2000)

Hotel Mercurio

Questa volta senza barba su ritratti illustrissimi
bussa qui nudo alla sua porta
forse ha in mano la chiave
e i bambini devono fare il giro fino al ponte
È autunno, i pescatori seduti sul ramo
gridammo la data odierna vendevano i biglietti di ieri
quei ragazzi però volevano vedere solo il culo della moglie del consigliere
che irradiava l’azzurro della sera dalla porta della stanza
dove pulisce il sangue

(L’era dei vivi, 1989)

Foto Lazslo Moholy Nagy 2

foto Lazslo Moholy Nagy

È qui

Buoni a nulla
e battifiacca, ah,
è qui, il giorno,
getta il suo sguardo su di noi.

Il giorno odierno, non chiede
nulla,
è qui, raccoglie il bucato,
aduna i resti delle famiglie.

Dimenticate il pudore
e le pretese, è qui,
veglia
ai piedi delle vie.

È qui il giorno,
mi conosce
quanto voi, apre in noi
gli stipiti,

scrive sulla nostra pelle
i messaggi per gli altri.
Il giorno,
è qui più di noi,

e in noi fa luce
da lontano, date pure
un’occhiata intorno,
travi, pennoni abbattuti;

alzatevi,
è giunto il giorno,
sdraiatevi,
è qui,

scarica la luce
sul marciapiede,
in piedi, lui stesso chiede
del giorno,

incede
senza vanto,
sale d’attesa, prestiti,
recessi,

capannelli vari,
grassi.
È qui il giorno,
avvicinatevi adagio,

senza lampada
e impacco,
passate
accanto agli attrezzi,

voltatevi
di spalle;
è ovunque,
ovunque gemono

i cardini, ristagnano
le acque ad alto fusto,
siete dappertutto inastati
nel giorno,

issate la bandiera, deponete
le valige,
vuoti e pervasi
dal giorno.

(Accogliere il lunedì, 2013)

Alla sconosciuta fulva del treno per Parigi, agosto

Con occhio cisposo scrivo
nel tuo
di biglia verde piena di bava e silenzio
di un mare straniero

spaccata dal rugginoso sole mentre la fai rotolare
verso il muro bianco
Fessura di bocca Zazzera arruffata contro il deserto
candore come uno scoppio e un grido

Il tempo scalpiccia qua e là
sulle assi I convogli
militari sospirando
avanzano tra i vagoni

Sollevati da un’ondata da un antico
terrore sei un animale di trasporto
Una lampada del corpo inestinto
raggiante nella casa ignuda degli anni del saccheggio

(Per l’angelo, 2000)

Giorni

Piedi nudi che continuano a vivere limpidamente
sfiorano leggermente la fresca notte
nella pietra

(Il continente rinnovato, 1997)

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Petr Král (1941-2020) Quattro poesie inedite, traduzione di Antonio Parente, Sulla poetry kitchen

Král nasce a Praga il 4 settembre 1941 da una famiglia di medici e muore il 17 giugno 2020. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico. È insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, nonché critico, collabora a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su “Le Monde e cinematografiche” su “L’Express”. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’”Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales” e dal ‘90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).

Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è anche autore di prosa: ricordiamo “Základní pojmy” (Praga, 2003), 123 brevi prose, tradotte in italiano da Laura Angeloni nel 2017 per Miraggi Edizioni. Attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte, Petr Král ha collaborato con la famosa rivista “Positif “e pubblicato due volumi sulle comiche mute. Antonio Parente ha tradotto di Král molte poesie in italiano pubblicate da Mimesis, Tutto sul crepusculo nel 2015.

petr kral

Nei giorni invernali

Una mano nell’oscurità preme
l’interruttore, il neon lampeggia esitante. Il buio dormiente
soltanto da lontano striato da un’opaca apparizione: per metà un tremulo locale e per metà forse anche l‘intero paesaggio cinereo, con un mucchio fumante di abiti
– forse carne –
umidiccio di stelle e della colpa occulta. E di nuovo l’oscurità, di nuovo chiedere
soltanto: di cosa è impallidito il sangue, cosa di nuovo annega di notte
sotto la superficie delle parole. Tanto a lungo finché la luce s’impietrisce
e immota rivela
l’estensione originale di una scena cenerina, vuota.

(Per l’angelo, 2000)

Hotel Mercurio

Questa volta senza barba su ritratti illustrissimi
bussa qui nudo alla sua porta
forse ha in mano la chiave
e i bambini devono fare il giro fino al ponte
È autunno, i pescatori seduti sul ramo
gridammo la data odierna vendevano i biglietti di ieri
quei ragazzi però volevano vedere solo il culo della moglie del consigliere
che irradiava l’azzurro della sera dalla porta della stanza
dove pulisce il sangue

(L’era dei vivi, 1989)

È qui

Buoni a nulla
e battifiacca, ah,
è qui, il giorno,
getta il suo sguardo su di noi.

Il giorno odierno, non chiede
nulla,
è qui, raccoglie il bucato,
aduna i resti delle famiglie.

Dimenticate il pudore
e le pretese, è qui,
veglia
ai piedi delle vie.

È qui il giorno,
mi conosce
quanto voi, apre in noi
gli stipiti,

scrive sulla nostra pelle
i messaggi per gli altri.
Il giorno,
è qui più di noi,

e in noi fa luce
da lontano, date pure
un’occhiata intorno,
travi, pennoni abbattuti;

alzatevi,
è giunto il giorno,
sdraiatevi,
è qui,

scarica la luce
sul marciapiede,
in piedi, lui stesso chiede
del giorno,

incede
senza vanto,
sale d’attesa, prestiti,
recessi,

capannelli vari,
grassi.
È qui il giorno,
avvicinatevi adagio,

senza lampada
e impacco,
passate
accanto agli attrezzi,

voltatevi
di spalle;
è ovunque,
ovunque gemono

i cardini, ristagnano
le acque ad alto fusto,
siete dappertutto inastati
nel giorno,

issate la bandiera, deponete
le valige,
vuoti e pervasi
dal giorno.

(Accogliere il lunedì, 2013)

Alla sconosciuta fulva del treno per Parigi, agosto

Con occhio cisposo scrivo
nel tuo
di biglia verde piena di bava e silenzio
di un mare straniero

spaccata dal rugginoso sole mentre la fai rotolare
verso il muro bianco
Fessura di bocca Zazzera arruffata contro il deserto
candore come uno scoppio e un grido

Il tempo scalpiccia qua e là
sulle assi I convogli
militari sospirando
avanzano tra i vagoni

Sollevati da un’ondata da un antico
terrore sei un animale di trasporto
Una lampada del corpo inestinto
raggiante nella casa ignuda degli anni del saccheggio

(Per l’angelo, 2000)

Giorni

Piedi nudi che continuano a vivere limpidamente
sfiorano leggermente la fresca notte
nella pietra Continua a leggere

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Poesie inedite di Anna Ventura, Sulla struttura del ritardo e della ripresa, Commenti di Lucio Mayoor Tosi e Giorgio Linguaglossa

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Anna Ventura

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores” per la  Tabula Fati di Chieti. Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo. È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV. Cinquanta poesie tradotte da Paul Bourget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin, traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

Anna Ventura

Anna Ventura

Anna Ventura

Poesie inedite

In itinere

Passeggiando per la vecchia Europa
come il bambino nella stanza dei giocattoli dovunque riconosco
cose che mi appartengono, ma il tempo potrebbe sottrarmele.
Quel tassista miopissimo
che a Parigi ci portò
in un albergo cadente
di Rue Gobelins non era
un uomo dei nostri tempi,
era appena uscito
da una novella di Maupassant;
e a quella finestra che si apre
sul pendio ripido del Castello di Praga,
e tiene appesa accanto una gabbia di canarini, certamente io mi sono affacciata.
Sono stata seduta
su una panchina delle Ramblas di Barcellona come una vecchia barbona
che da tempo ci ha fatto il nido.
E così in quel caffè di Vienna,
fumoso e polveroso al tramonto,
pieno di studenti e di signore col cappello,
certamente non entravo per la prima volta.
Forse all’ospedale dei balocchi
di Firenze potrei ritrovare
i miei bambolotti perduti, e sul Ponte Vecchio, nelle vetrine degli orefici,

Il giardino

 Sempre abbiamo bussato
a porte chiuse: dentro
poteva esserci un giardino.
Ma quelle porte non si aprivano mai; solo talvolta
si schiudeva uno spiraglio:
qualcosa verdeggiava, là dentro; ma guai
a fare un passo avanti: la porta
si chiudeva di scatto,
tornava a essere muro. Eppure c’era
un modo per superarla:
non bussare a nessuna porta,
non guardare da nessuno spiraglio;
aspettare di incontrare il giardino
che non ha porte,
ma solo un arco fiorito attraverso il quale si passa leggeri,
ci si trova dentro
senza neppure sapere di essere entrati.

Non tu,  domani

È il senso dell’addio, questa nausea leggera, quasi una spossatezza che, all’improvviso, viene.
Sai bene che non puoi farci niente: qualcosa, dentro, si è spezzato.
Non è la fine del mondo, è solo
un altro coccio rotto che si allinea tra il vasellame che stipa gli scaffali di questa lunga credenza dove
si chiudono le cose. Qualcuno – non tu – domani tenterà un restauro.

L’inferriata

Il cavaliere crociato
viaggiava nella notte, consapevole
della morte che lo seguiva.
Attraverso una finestra illuminata
gli comparve una suora che dormiva, bianca e sola,
con la testa affondata nel cuscino. L’inferriata robusta
che proteggeva la stanza,
e ancor più il luogo
in cui questa era ubicata
– un monastero massiccio nelle tenebre –
frustrarono ogni suo sogno coraggioso.
Però l’immagine rimase, e il cavaliere
la portò con sé,
negli orrori che andava ad affrontare.
Da parte sua, la monaca
– che nel vigile sonno
aveva visto il cavaliere –
tenne nel cuore il suo ricordo,
e prese a pregare per lui,
ben sapendo quali fossero
le gesta dei Crociati.
Così tra ammazzamenti e stupri,
litanie e fervide preghiere,
il cavaliere e la monaca
vissero una specie di storia d’amore, segreta e strana, tanto
da diventare leggenda.

anna ventura 1 (1)

anna ventura

Donna in nero

È un’antica donna siciliana vestita di nero, unico gioiello la fede nuziale.
Vive in una casa bianca, sepolta tra gli aranceti; chilometri di arsura
la separano dal mondo. Lei sa
che può contare
sull’orcio di acqua fresca, sull’immagine di Santa Rosalia, sulle mura possenti della casa,
sui suoi servi fidati. A sera
recita il rosario, e prima di dormire spalanca la finestra per guardare
la sua campagna sconfinata. Sa
che un colpo di fucile
può raggiungerla in qualunque momento, come la scure cade
sul vecchio tronco abbandonato.
È sola, ma resiste.
Nessuno oserà guardarla negli occhi, se lei non lo permette.

Da un paese vicino alla Maiella

Se ti affacci alla finestra che guarda il bosco, sentirai crescere i ciclamini. È un rumore sottile, come un filo,
come una nota di Sibelius. Meglio
se ti affacci di notte,
quando c’è la luna piena. Lei
sta lì, che ti bagna di luce i capelli.
Il bosco, invece, è impenetrabile e nero.
I mille fruscii che ascolti
sono le sue tante voci: bruchi
che strisciano, volpi
che si acquattano, gufi. Poi,
quando la notte avanza,
viene il silenzio, e nel silenzio
escono i ciclamini. Al mattino
li troverai tutti nati: un tappeto rosa e viola
che accarezza le asperità del bosco,
ne fa un unico manto Allora sai
che l’estate è finita
e l’autunno avanza con passo regale,
col rosso e l’oro, e la Maiella,
qui vicino,
darà le sue ultime erbe magare:
è il momento di prenderle,
sperimentarne il potere. Continua a leggere

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Anna Ventura, Quattro poesie inedite, Commenti di Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Margherita Marchiando, Diafania, La Grundstimmung della stagnazione del nuovo Potere Imperiale

 

Foto Duchamp par Man Ray

Marcel Duchamp par Man Ray

si giunge a un punto
dove si schiudono i confini
anzi dove tutto diviene confine

(T. Tranströmer, “Mari baltici”)

Anna Ventura

I pezzi cadevano per terra

Forse dovrei smettere di tornare, sempre,
al balcone dove le bambole prendevano il sole,
alla sedia minuscola stretta
tra la stufa verde
e i mattoncini delle fornacelle:
bianchi e blu, con puntini rossi in mezzo.
Quell’anno che mia madre e Detta
tagliavano la legna in cucina,
sopra a un cavalletto. I pezzi
cadevano per terra, io li raccoglievo,
li mettevo in una nicchia: ero
troppo debole per cambiare le cose. Fuori
c’era la guerra.
Gli ori, stretti in una sacchetto di tela,
stavano in petto a mamma.
Ora ho il mare e i fiori sul terrazzo,
mi debbono bastare.

Il coniglio bianco

C’è un coniglio bianco
sulla mia scrivania. Mentre,con la destra,
scrivo, con la sinistra
mi accerto
che il coniglio stia sempre al posto suo:
c’è.
Perché è di coccio,
pesante come un sasso, e nulla
lo smuoverebbe dalle cose
che tiene ferme col suo peso. Perché
questo è il suo compito:
tenere ferme le cose. Un giorno
avvenne un incantesimo:
il coniglio aveva cambiato consistenza: il pelo
era vero,
bianco, morbido e setoso, la codina
si muoveva.
Ci guardammo negli occhi,
io e il coniglio:
eravamo entrambi vivi, ma
non avevamo sconfitta la paura.

La stele di Rosetta

Ha tre lingue, la stele di Rosetta:
geroglifico, demotico, greco,
scritta in onore del Faraone Tolomeo V Epifane.
Elenco di tutte le cose giuste che fece il Faraone tredicenne:
Cose giuste per i Sacerdoti,
ma anche per la gente comune.
Cose giuste per l’acqua, per la terra,
per il fertile limo del Nilo.
Immaginiamolo per un attimo
sfuggito all’oppressione del suo ruolo:
un bambino magro, scuro,
con gli occhi sghembi
e la boccuccia larga,
uno che corre in mezzo all’erba
e si nasconde tra le canne.
Regaliamogli un aquilone.

Gif Soldi donna

Giorgio Linguaglossa
La Grundstimmung della stagnazione del nuovo Potere Imperiale

Non è per caso quello che avviene in Occidente, il fenomeno della stagnazione economica e della stagnazione delle forme estetiche. C’è una corrispondenza speculare tra le due stagnazioni. E poi c’è una terza stagnazione, quella spirituale. Togliete da questa parola tutti i significati annessi e connessi che due millenni di cristianesimo vi hanno depositati, e avrete chiaro e servito il menu.
Accludo il link di un articolo di un intellettuale certo non acclimatato al clima di restaurazione e di stagnazione che si respira in Occidente ed in Italia, Noam Chomsky. Potremmo definirla la Grundstimmung della stagnazione questa che viviamo:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/08/11/noam-chomsky-il-capitale-speculativo-la-nuova-eta-imperiale-e-lisolamento-tecnocratico-la-stagnazione-basato-su-dibattiti-tenuti-in-illinois-new-jerseymassachusetts-new-york/
Nel «nuovo» mondo di oggi «i maestri» delle generazioni dei Pasolini, dei Bigongiari, dei Fortini, dei Bertolucci, dei Montale sono scomparsi irrimediabilmente e la poesia è diventata una questione «privata», una questione privatistica da regolare con il codice degli appalti e da perorare con un linguaggio polifrastico, un linguaggio «interno» che ammicca ad un «metalinguaggio» o «superlingua» qual è diventata la poesia che va di moda oggi. La questione «tradizione» oggi non fa più questione. I linguaggi poetici sono metalinguaggi prodotto di proliferazione di altri linguaggi polifrastici. Oggi un critico di qualche serietà non avrebbe nulla da dire di questi linguaggi polifrastici o polinomici. Rispetto a tali linguaggi la poesia ad esempio di Anna Ventura spicca per la sua «nudità», per la sua «antichità», per la sua «non esposizione» ai linguaggi mediatici. Quello della Ventura è un linguaggio «nudo» in quanto indifeso, non è un metalinguaggio, è un linguaggio ordinario, cosa geneticamente allotria rispetto ai linguaggi poetico-giornalistici e narrativi messi con rime, rime al mezzo, anti rime come va di moda oggidì.

Utopia (inedito)

Utopia è il luogo
in cui vorremmo essere nati,
ma siamo nati altrove.
Utopia è il luogo
in cui avremmo voluto crescere,
e scoprire il mondo,
ma siamo vissuti altrove,
e il mondo ci si è rivelato da solo,
spietato e inevitabile,
pericoloso.
Utopia è il luogo in cui, forse,
non ci sarà nemmeno concesso di morire:
perché anche questo sarebbe un privilegio.
Lungo il percorso
tanto ci siamo compromessi,
con la durezza del mondo reale,
da perdere le ali necessarie
a volare tanto in alto.
Ma abbiamo imparato a camminare.

Anna Ventura scrive in un modo talmente «normale» che nessuno degli autori giovani di oggi potrebbe mai sospettare, nella «normalità» del suo dettato poetico c’è tutta la abnorme anormalità del nostro mondo. È che la Ventura proviene da una lunghissima traversata nel deserto di ghiaccio del tardo novecento, lei non ha mai azionato il «riduttore» inaugurato da Satura di Montale, si è tenuta a debita distanza da quella operazione di marketing che qui da noi ha avuto tanto successo di critica, ma si trattava di un «riduttore», di alta classe sì, ma di un «riduttore». E una tradizione poetica alla distanza non può sopravvivere a lungo sull’onda lunga di un «riduttore», la Ventura è stata la prima poetessa che non ci ha creduto, sospettando che quella fosse una falsa strada (Irrweg), e che occorresse ripristinare il modello di una poesia ragionamento. E qui siamo negli antecedenti della «nuova poesia» della «nuova ontologia estetica», senza l’esperienza stilistica di poetesse come Anna Ventura, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna oggi noi saremmo più poveri, saremmo stilisticamente meno ferrati.
Mi viene il dubbio che la poesia degli autori giovani che hanno meno di sessanta anni sia qualcosa di geneticamente diverso da quella delle generazioni dei poeti dianzi nominati. Temo che la tradizione del novecento si sia allontanata irrimediabilmente, le parole nel frattempo si sono raffreddate, svuotate… come abbiamo ripetuto tante volte su queste colonne, e allora un giovane non può fare a meno che tentare di trovare delle scorciatoie, dei bypass, dei trucchi, come quello di adoperare il linguaggio dei linguaggi, il linguaggio mediatico e fare con quello qualcosa in poesia.

Io penso che accettare inconsapevolmente il «riduttore» di Montale, come fanno i giovani, sia una illusione e una trappola, e lo dico agli autori di oggi che scrivono poesia e che hanno meno di sessanta anni, illusione perché la loro operazione si mantiene sulla superficie dei linguaggi, perché loro pensano ancora in termini di manutenzione e maneggiabilità dei linguaggi, pensano al linguaggio poetico come ad un articolo di giornale senza pensare che le parole, tutte le parole, abitano in una patria linguistica e che non si possono staccare da essa come fa il dentista quando estrae un dente dalla bocca di un malcapitato; ogni parola è conficcata in una patria linguistica e di lì non si smuove neanche con la bomba atomica.
E allora, mi direte voi, che fare? E rispondo: fare tesoro dell’esperienza stilistica della poesia di Anna Ventura.

«Le vie verso la verità sono sentieri interrotti». La famosa frase di Nietzsche ha goduto di una fortuna straripante nel linguaggio filosofico occidentale di questi ultimi due secoli. Non solo la verità conosce i «sentieri interrotti» ma anche la soggettività è un sentiero interrotto. Anche la via verso l’oggetto è un sentiero interrotto. A chi pensa di poter accedere ad una quale che sia verità come ad un deposito bancario delle sostanze, non possiamo che augurargli buona «ventura». L’usucapione della verità fa la verità. Chi oggi pensa di avere con la verità una frequentazione assidua, non si rende conto di andare dritto verso la chincaglieria dello spirito.
Il postino della verità non passa né due volte né una volta, non passa mai. Non c’è alcuna verità nella soggettività, non c’è alcuna verità nel canto degli uccelli nel bosco che tanto piaceva all’estetica kantiana. Oggi, in pieno vigore del Covid19, con l’implosione calorifera del pianeta e l’erosione dei ghiacciai del polo Nord, parlare del canto degli uccelli come fa la poesia agrituristica del tardo Zanzotto invalsa oggi in Europa è un atto non solo di consolazione ma anche di barbarie e di falsa coscienza. Leggiamo questi versi terribilmente semplici di Anna Ventura:

Siete nella tazza di caffè
vuota sul tavolo,
nelle carte sparse, nel cerchio
di luce della lampada

che sono un antidoto alle migliaia di versi che si fabbricano oggi e che ci ragguagliano delle virtù del canto degli uccelli, magari appollaiati in un bosco ceduo, con tanto di margheritine bianche a far da corona all’evento. Quella frase: «Siete nella tazza del caffè» è semplicemente terribile, vale da sola un intero poema agrituristico.
La Ventura sa, in quanto lo ha compreso sulla propria pelle, quanto dolore, disinganno, disillusione, quanta dolcezza ci sia in quella frase, la dolcezza che nessuno può capire se non si pone dinanzi a quel verso con semplicità e ingenuità. È che noi oggi viviamo in mezzo al kitsch, ed è difficile anche per un poeta di livello trovare le parole giuste, le parole della sua personalissima «patria metafisica».
Tempo fa scrivevo intorno alla poesia che prende spunto dal concetto di «diafania»:

Adotto la parola «diafania» per indicare una procedura compositiva «nuova» propria di alcuni poeti della nuova ontologia estetica. La parola è composta dal prefisso «dia» che significava originariamente «fra», «attraverso», cioè l’azione che si stabilisce tra due attanti, tra due o più soggetti, che passa attraverso di loro, e Phanes o Fanes, (in greco antico Φανης Phanês, “luce”), chiamato anche Protogonos (“il primo nato”) e Erikepaios (“donatore di vita”), era una divinità primigenia della procreazione e dell’origine della vita nella cosmogonia orfica.
Il termine «diafania» mi è venuto in mente rileggendo alcune poesie. Ho ripescato questo termine dalla significazione teologica che ne ha dato Teilhard de Charden e l’ho riproposto in chiave secolarizzata attribuendogli una nuova significazione, nuova in quanto suggerita dalla lettura di alcune poesie dei poeti dianzi citati. Sappiamo che una nuova poesia deve essere letta e interpretata con l’ausilio di un nuovo apparato concettuale, in quanto le vecchie cartografie euristiche non sono più adatte alla comprensione del «nuovo».
Avevo dimenticato di indicare la prima poetessa che ha inaugurato la procedura diafanica: Anna Ventura. Per scrivere in modo «diafanico», bisogna innanzitutto rinunciare alla predicazione di un soggetto che legifera; il soggetto, se c’è, viene spostato di lato, o messo sotto traccia, derubricato. Ciò che appare è una costruzione nominale priva o quasi di verbi dove le «cose» emergono in primo piano. Continua a leggere

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Vito Taverna,Tre poesie da Le poesie di novembre, Commenti di Gino Rago e di Giorgio Linguaglossa

Gif pioggia sul finestrino

Lo so che rideresti di gusto, / solo a dirtelo, ma, imperterrito, / aggiungerò il tuo nome

Vito Taverna, toscano, da tempo si dedica con passione alla poesia ed organizza importanti eventi ad essa dedicati. Nella città di Monterchi, dove vive, ha fondato vent’anni or sono l’Archivio Nazionale della Poesia inedita di Monterchi e ogni anno organizza la giornata della Poesia nel Cassetto, alla quale partecipano poeti di ogni parte d’Italia. Poeta sensibile, amico di artisti ed intellettuali, Vito dedica la giornata del 29 gennaio a Villa Bardini a Venturino Venturi, di cui è stato grande amico sin dagli anni della giovinezza trascorsi nella Firenze dei poeti dell’ermetismo.
È stato vicino a Mario Luzi, ad Alessandro Parronchi, a Mario Bergomi e a coloro che riconobbero nell’espressione artistica dello scultore profonde consonanze con la propria sensibilità poetica. Con Venere e Narciso Taverna ha dato alle stampe, e l’ha voluto fare in occasione della mostra dedicata a Venturino, una raccolta di ampio respiro, che  ha trovato occasione di espressione nel ritratto che Venturino aveva modellato per lui nel lontano 1953, e sul quale egli non ha mai cessato di meditare, riconoscendo in quei sembianti la parte più intima di se medesimo.

Gif snow

simboli della livida disumanità, della “malvagità arcana” del tristo iddio Arimane

Commento di Gino Rago

Vito Taverna mostra d’essere consapevole di stare nelle macerie del linguaggio. Macerie, frammenti, schegge che gli fanno correre il rischio di mandare in frantumi anche l’anima.

Che fare quando crolla il ponte del linguaggio fra l’io e gli altri, fra l’io e il mondo, per non tornare inermi allo sfarinamento della nostra carne elementare?

Occorre costruirsi come Noè un’Arca di salvezza. Questa “arca nascosta” (“Zavorra”) Vito Taverna la possiede: è la lingua della sua poesia. E’ la sua parola poetica contro un nuovo “diluvio travolgente bestie e cose”.

Con una Parola, personalissima e inimitabile, il poeta, a onta “della zavorra degli anni” e dei fatti accaduti, può approdare al monte di Ararat, ma affidando all’impeto dell’acqua del diluvio tutto ciò che – pur salvato – il poeta scopre non esser necessario: l’approdo all’Ararat è alla sua portata soltanto salvando la parola, la parola necessaria alla sua poesia. Una poesia, questa di Vito Taverna, che aspira a farsi “poesia totale” nella sua tridimensionalità metaforica e nella sua abilità a generare immagini di luce quasi a volere in ogni verso ri-fecondare la materia per farne un “suo” giardino di fiori-simboli, un eden di “crochi e crochi a mazzi” su cui aliti, incontaminato, il maggio nel candore del “sussurro di rose e di lavande”:

Le ricordassi almeno una per una
e come, a poco a poco, m’immergevo
in quel rigoglio che mi ancorava alla terra e al suo fulgore.
Placide sere d’ombre trasparenti
e d’aria tanto fina
da parere una trina di profumi,
quasi parlasse tutto il mondo agreste:
un sussurro di rose e di lavande,
così, di primo maggio, appena deste,

e crochi e crochi a mazzi.

Alle spalle, la casa, che m’incombe

con il suo silenzio.

Una materia inerte fecondata da un’aura elegiaco-crepuscolare cui poter attingere il prodigio di “un verso eterno” da fare alitare sulle perdite, sui distacchi, sulle lotte, sui viaggi senza ritorni di tanti cuori amati.

E’ una poesia questa di Vito Taverna, com’è nel Canzoniere di Saba, che va interpretata, per coglierne tutto il profumo e il misterioso respiro interno, penetrando le parole nella loro dinamica implicazione tra esiti formali e sviluppi dell’anima poetica, tra implicazioni etiche legate alla natura contemplata e temi di ispirazione vitale. Una poesia tridimensionale per il fitto intreccio che Vito Taverna riesce a compiere saldando intimamente le tre componenti fondamentali della sua ars poetica: la biografia, la psicologia e l’estetica; ovvero, la tridimensionalità storica, psicologica ed estetica. Altri aspetti importanti della poesia taverniana sono stati colti e svelati da Giorgio Linguaglossa, con vastità di dottrina e severa competenza.

Ne derivano le colonne perìptere del tempio poetico di Vito Taverna. Un tempio di poesia nel quale, secondo i canoni della grecità, fluttuano di bellezza e armonia di forme, la carne viva e il cuore incorrotto del poeta, in una intatta “rugiada che vibra di gocce arcobaleno”. Ove la rugiada nei versi taverniani è correlativo oggettivo di purezza e levità originarie, come le sue parole, icastiche, dirette, necessarie, che il poeta pronuncia senza balbettìi, quasi a riaffermare la forza ri-generatrice della autentica parola di poesia quando cadendo nella zolla la feconda: qui, nella sua grecità contemporanea, Vito Taverna ci riporta agli sfarzi della lirica greca, come quella del Ritsos che scrive: “Scrivo un verso. Scrivo il mondo./ Esisto, esiste il mondo…”. Sicché anche in Parole, come già successe nelle sue Poesie di novembre, dalla estremità del mignolo di Vito Taverna sembra che d’un tratto da ogni verso scorra un fiume gonfio d’acqua, d’una verde acqua profonda.

Le poesie di novembre, di cui queste tre poesie fanno parte, vogliono essere questo: un canto elegiaco sulla fine dell’autunno della vita, una meditazione sul tramonto delle «cose».

Il mistero dell’esistenza si cela e si svela nel dettaglio di quell’oggetto che credevamo di conoscere e che davamo per scontato… Il mistero si presenta nella forma del frammento; anche il frammento si dà nella veste del dettaglio. Quello che ci si presenta all’improvviso è un mistero che fa ingresso nel nostro quotidiano, che so, un ricordo che non volevamo ricordare, un lapsus, un errore di dizione, un refuso di una parola che non volevamo scrivere, in una parola, il mistero delle cose semplici che si rivelano in un attimo è l’Altro per l’altro, uno scambio di «persone», di «cose», una metonimia, una sineddoche, «maschere» di un «teatro degli Artigianelli» dove si recita sempre la solita «scena», il solito canovaccio dello stupore e della meraviglia di fronte al mistero dell’esistenza.

Gif pioggia nel parco

A volte ho pena/ dei nomi scritti nei libri di storia/ della loro esecrabile memoria,

da uno scritto di Giorgio Linguaglossa

Forse è difficile apprezzare appieno l’icasticità, la leggera effusione del dettato poetico della poesia di Vito Taverna, «un poeta lirico sopravvissuto alla crisi della lirica» come è stato felicemente definito da Donatella Costantina Giancaspero, sospeso tra attenzione e ritenzione, interrogazione e meditazione. Nella poesia di Taverna assistiamo alla poesia delle «cose», dove sono le «cose» le protagoniste che ci parlano tramite la loro distanza; è all’allestimento della «distanza» che qui ha luogo, di un luogo dove sia possibile l’incontro tra la voce parlante e l’occhio di chi legge […]
La parola è ora lieve ora tragica ora soffusa di melancholia. La voce che parla, anch’essa è mormorata sotto voce, scrive le proprie sentenze sulle foglie degli alberi, abita la superficie della materia, cambia umore, e così cambia anche i suoi responsi. La musa di Vito Taverna è povera, dimessa, predilige le «cose» dimenticate, usuali, consunte: «le bollette» da pagare, un «gallo», il «mare», la «chiave», l’«agenda», «il muro bianco», delle «sfere di vetro», il «Bar Giamaica»; oppure le città intraviste: Milano, Firenze, Roma, Venezia; i luoghi magici: «Il dio Arimane», il «teatro degli Artigianelli»; addirittura le semplici «parole»; infatti, «muoiono le parole» scrive il poeta con tono dimesso, ciò che resta è un «castello di carte» che un alito di vento può scompigliare e cancellare per sempre. Poesia intima e ermeneutica perché nasce dalla meditazione sopra le «cose», siano esse «Padri e figli», o dei semplici «nascondigli» dove andavano i fanciulli a giocare.
Leggiamo l’incipit di questa poesia titolata «Vecchia canonica»:

Questo vecchio soffitto di quadrelle,
che tanti occhi guardarono prima di me
di preti poveri che confidavano
in Dio e nelle sue stelle,
mi sovrasta leggero, arioso e bianco
d’intonaco rifatto… Continua a leggere

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Luigina Bigon POESIE INEDITE – Notturno londinese e altre poesie – Traduzioni e un Appunto cura di Adeodato Piazza Nicolai

Gif Sfera iridescente

Luigina Bigon è nata a Padova, dove risiede. La sua professione si è svolta nell’ambito dell’Alta Moda. Sue creazioni sono esposte nella Saletta Egizia del Museo della calzatura femminile ROSSIMODA di Stra (VE) vedi Europena a Collections e Luigina Bigon – Google Arts & Culture. Dal 1980 fa parte del Gruppo letterario Formica Nera partecipando alle molteplici antologie e quaderni di poesia del Gruppo. Nel 1989 è stata cofondatrice del Gruppo poeti Ucai di Padova e curatrice delle Antologie poetiche del Gruppo. Ha ideato e curato la collana di aa.vv. “… in versi” realizzando le antologie Camminando… in versi; Gelato… in versi e Occhiali… in versi. Ha pubblicato le sillogi: Barattare Sogni; Lucenèra; i poemetti Cercando ‘O’ e Diacronicità, con traduzione in inglese di Adeodato Piazza Nicolai. Promotrice e curatrice di Vajont – Padova e i suoi artisti, tradotta da A. P. Nicolai. Sue liriche sono state tradotte e pubblicate nelle riviste newyorkesi “Chelsea”, “Gradiva”, Foro “Italicum” e altre italiane tra cui “Scorpione Letterario” voluta da Alfredo De Palchi e curato da Antonia Arslan. In cantiere la stampa di Ologrammi londinesi e altri paesi e Poesie scelte (titolo provvisorio).

Gif ballerina

Un Appunto di Adeodato Piazza Nicolai

Fin dal primo volume di poesie, Barattare Sogni (1989), Luigina Bigon aveva dato inizio alle sue sperimentazioni linguistiche in accordo con la tradizione del secondo novecento per trovare in questi ultimi anni una evoluzione significativa verso una dizione icastica ed essenziale. Nei volumi più recenti – Cercando “O” (2001) e Diacronicità (2009)- alcuni critici hanno trovato delle “influenze” presenti nella poesia statunitense, anche se la poetessa aveva visitato gli Stati Uniti anni dopo la scrittura di quei testi. Per la Bigon l’oggettivo correlativo di T.S. Eliot ha lasciato spazio a una poesia del concreto vissuto. Attualmente, mostra interesse per le poetiche della «nuova ontologia estetica», con tutte le sue complessità e possibilità stilistiche. Però, Notturno londinese è un chiaro esempio di poesia olistica, mentre le poesie più recenti spaziano altre e nuove tematiche ed orizzonti, in una prospettiva che lascia il lettore pieno di interrogativi sull’esistenza.
Ci sono diversi livelli di percezione, ai quali un poeta può attingere per descrivere qualunque soggetto, ivi compresi i luoghi fisici. Ma una capacità tutta particolare che con questa lirica Luigina Bigon dimostra di avere e padroneggiare, è quella di far emergere dal luogo scelto, grazie alla propria sensibilità e al proprio mestiere, immagini stranianti impiegando un registro basso e colloquiale. È una capacità non comune, una di quelle che fanno la differenza tra chi è poeta e chi “semplicemente scrive per esprimere se stesso” e che ha bisogno, per essere efficace di venir dosata con equilibrio all’interno del testo; qualità che, in Notturno londinese, Luigina Bigon dimostra di possedere e saper usare a modo.
La Londra che Luigina Bigon ci descrive (o ci ricostruisce), dunque, è allora in sintonia con il degrado della società che la abita; ed entra talmente in collisione con la sua sensibilità da costringerla a ripiegarsi, alla fine, in se stessa. E se la poesia – come ogni forma d’arte – si crea per contrasti, questo scontro di “normali” istantanee e di versi in qualche modo surreali crea una lirica a suo modo perfettamente calibrata.

luigina bigon

Luigina Bigon

Notturno londinese

Questa notte Londra è più lugubre del solito
con quei suoi angeli neri,
li ho visti volare dappertutto
poi scendere con il paracadute.
Le sirene gridano lungo le corsie di sinistra
le auto saltano sui corpi morti degli sbirri,
un ton-ton che sferra l’asfalto
e lo ingrigisce più delle catene.
È un labbro opaco che si sporge
una carezza di corvo l’ala
un gracchio di rana il canto.
Le auto roteano incurvandosi
insieme alle bow windows vittoriane
un barocco quasi quasi cimiteriale
con i giardinetti pieni di sterpi
e cose vecchie. Londra dei gentelmen
riposa sontuosa intorno a Piccadilly Circus
là dove tutto è massimo fulgore, ma qui
in questo quartiere riposa il terzo mondo
che ancora sorride e fa pena.
Chissà dov’è la verità, forse a Brixton
insieme agli afro così poveri, ricchi di dignità.
Anche la mano si è fatta nera, fa paura.
La testa si sgretola come un vaso di cotto
il corpo si ritrae istintivamente.
La notte è lunga.

London by night

London this night is darker than usual
with its black angels,
I saw them fly everywhere
then come down with parachutes.
Sirens scream along the left sides of the streets
autos run on the bodies of cops.
A tom-tom shattering the asphalt
turning it far more grey than chains.
It is a dakened lip hanging out
a blackbird’s caress, a wing,
a frog crying its song.
Cars run around infolding on themselves
like Victorian bow windows
a baroque almost like a cemetery
with gardens full of twisted grasses
and discarded stuff. The London of gentlemen
sumptuously hanging about Piccadilly Circus
where all is at maximum splendour, but here
in this part of the city sleeps the third world
that still smiles, causing pain.
Who knows where the truth lies, maybe in Brixton
together with Afros so poor, enriched by their dignity.
Even the hand turns to black, causing fear.
The head breaks into pieces like a ceramic vase
the body withdrawing by instinct.
The night is long. Continua a leggere

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Paolo Valesio STORIE DEL TESTIMONE E DELL’IDIOTA (poesie inedite) con una interpretazione di Giorgio Linguaglossa

 

foto Le biglie [Paolo Valesio nasce nel 1939 a Bologna. É Giuseppe Ungaretti Professor Emeritus in Italian Literature all’Università di Columbia a New York e presidente del “Centro Studi Sara Valesio” a Bologna. Oltre a libri di critica letteraria e di critica narrativa, a numerosi saggi in riviste e volume collettivi, e a vari articoli in periodici, ha pubblicato: Prose in poesia, 1979, La rosa verde, 1987, Dialogo del falco e dell’avvoltoio, 1987, Le isole del lago, 1990, La campagna dell’Ottantasette, 1990, Analogia del mondo, 1992, Nightchant, 1995, Sonetos profanos y sacros, 1996, Avventure dell’Uomo e del Figlio, 1996, Anniversari, 1999, Piazza delle preghiere massacrate, 1999, Dardi 2000, Every Afternoon Can Make the World Stand Still /Ogni meriggio può arrestare il mondo, 2002, Volano in cento, 2002, Il cuore del girasole, 2006, Il volto quasi umano, 2009 e La mezzanotte di Spoleto, 2013. È autore di due romanzi: L’ospedale di Manhattan, 1978, e Il regno doloroso, 1983; di racconti: S’incontrano gli amanti, 1993; di una novella, Tradimenti, 1994, e di un poema drammatico, Figlio dell’Uomo a Corcovado, rappresentato a San Miniato nel 1993 e a Salerno nel 1997]

Premessa di  Paolo Valesio

  Approfitto della generosa ospitalità per presentare una breve sequenza di poesie tratte da una delle mie raccolte inedite (quella più vicina al completamento), il cui titolo per il momento è Esploratrici solitarie. Non è certo insolito il fenomeno per cui uno scrittore evoca l’apparizione improvvisa, fuori di ogni sua volontà e calcolo, di uno o più personaggi già essenzialmente formati. (È vero che queste apparizioni hanno luogo prevalentemente nei momenti genetici di opere narrative e teatrali —ma forse ciò accade perché l’idea del personaggio ha senso soprattutto in quei generi letterari; d’altra parte, per me come per altri poeti, una raccolta di versi comincia a prendere forma accettabile solo quando si struttura come un vero e proprio libro, cioè quando emerge in essa qualche cosa di affine al dramma o alla narrazione: dei personaggi dunque, e una trama; o anche solo l’uno o l’altro di questi elementi.)

 I due personaggi di questo libro non s’incontrano mai. (Se questo significhi che l’uno sia il “doppio” dell’altro, non so; ma so che questa idea mi ispira un sottile senso di paura.) I due sono apparsi lentamente (emergendo da una sorta di nebbia in cui è immersa la poesia che apre la serie, e il cui sottotitolo inglese non è gratuito: la sintassi di “dream poem” lascia ambiguo il legame fra i due sostantivi — sogno/poesia, poesia sorta in sogno, sogno di una poesia?). I personaggi sono venuti fuori da quella nebbia così lentamente e timidamente, che all’inizio sono stati respinti; ma essi hanno insistito, con parole sempre più chiaramente udibili, con caratteristiche sempre più riconoscibili nelle loro differenze, fino a rendere abituale, e in effetti indispensabile, la loro presenza.

 Per quel che posso giudicare, il Testimone è dei due il più austero e intenso, mentre l‘Idiota è più indifeso, poroso — più portato a esaltarsi in modo quasi ingenuo. Un paio di lettori del manoscritto in corso mi avevano esortato a lasciar perdere questo appellativo di “Idiota”, che troppo facilmente avrebbe potuto ritorcersi contro l’autore. Risposi che effettivamente all’inizio avevo sentito un certo disagio; ma con questo nome lui sì era presentato, e non mi sentivo di cambiarglielo per forza. Forse l’Idiota si aspettava che io riconoscessi in lui una genealogia letteraria — il personaggio che dà il titolo al grande romanzo di Dostoevskij (letto nell’adolescenza, esso influì sulla mia visione della vita, ma non lo rilessi più); dubito comunque, dato il suo temperamento, che egli abbia voluto coinvolgermi in qualche gioco letterario. Un altro lettore preliminare ha opinato che Idiota si riferisca piuttosto al suo etimo greco: l’uomo “privato”, singolo, semplice in opposizione all’uomo socialmente rilevante e agguerrito. E potrebbe anche darsi; ma tali speculazioni hanno senso solo fino a un certo punto. Il fatto è che queste due persone si chiamano così come si sono presentate, sono quello che sono, e si muovono a loro imprevedibile piacimento fra (per il momento) New Haven, New York e Bologna — le città del mio destino.

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 Interpretazione di Giorgio Linguaglossa

  Nell’aforisma 30 del 1954, Andrea Emo scrive:

«Nessun principio è definibile e oggettivabile»1.

Il pensiero non può cogliere il principio, pena porlo come non-posto, dissolto nell’infinita catena delle mediazioni. L’Inizio è l’immediato. La dialettica paradossale e aporetica di Emo mostra l’inconcepibilità dell’Assoluto tramite le categorie logico-ontologiche non-contraddittorie, ma è anche una «chiave» che consente l’accesso ad un pensiero metafisico in grado di cogliere l’Assoluto attraverso il paradosso. L’Assoluto non è ponibile perché qualsiasi posizione di esso lo capovolge istantaneamente in altro, secondo una dialettica contraddittoria che può avere un antecedente significativo nella peritropè («capovolgimento» o «inversione») damasciana.2 Nel Principio, che Emo denomina anche «atto», o «attualità», tutto è identico perché tutto è Nulla: «nell’attualità l’essere e il nulla coincidono assolutamente»,3 nel senso che sono non soltanto simultaneamente uno, ma anche simultaneamente non-uno; si identificano, sono uno e non-uno, e,  in questo stesso atto, si distinguono e si oppongono.

Nel Nulla è il principio in quanto il principio è il Nulla che appare e si fa figura.

Il mondo per Emo «non è che il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto»;4 il quale, poi, a considerarlo più profondamente, si scopre anch’esso come un auto-negarsi nel suo stesso porsi, e come un porsi nel suo stesso negarsi.

Ecco un tratto nichilistico di Andrea Emo:

«Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere?».5

  Per la visione teologica cristiana invece il mondo

 è il risultato di un inverarsi dell’Assoluto, e la storia ha un senso, pur se occulto e nascosto, che si dispiega nel tempo lineare. Ed è qui che si situa la sorprendente interrogazione della poesia valesiana.

Per Paolo Valesio, un evento accade all’improvviso: un «testimone» e un «idiota» dialogano ciascuno sepolto nella propria solitudine. Una manifestazione che sorprende, che scuote, che appare «altra»; un evento oscuro, che fa subito luce. Ciò che fa intensamente pensare all’azione di una «potenza», di un «numinoso» . Ognuno di noi ne ha fatto esperienza e ne fa continuamente nell’ambito della vita quotidiana, ognuno di noi può testimoniarlo.

 Il Dio cristiano ha sostituito la tyche-dèa dei pagani, intesa come evento che rimanda sempre ad «altro». Il Dio cristiano è un evento che rimanda a sé. Nella concezione cristiana l’evento non è nudo ma ha il vestito che Dio gli ha consegnato. Scopo del poeta è quello di scoprire il vestito di Dio per il tramite del linguaggio umano. Particolarità e contingenza sono inscritte nell’evento per eccellenza che ha dato la svolta alla storia degli uomini: la crocifissione del Cristo e la sua resurrezione.

 Con il che il tempo ciclico si è aperto per introdurre l’uomo nella prospettiva escatologica e messianica dell’avvento del regno di Dio. Direi che entro questa cornice soteriologica si svolge il pensiero poetico di Paolo Valesio.  

Luigi Fontanella, Paolo Valesio Adriano Spatola

Primo piano, da sx, Adriano Spatola, Paolo Valesio, Luigi Fontanella anni Settanta

 Nel pensiero poetico di Valesio

 la facoltà discorsiva della poesia celebra il suo rito stilistico: nuda scarnificazione della frase e della parola e sfiducia nelle qualità estetiche della retorica.

L’unico modo per sfuggire a questa pesante ipoteca che inficia il pensiero discorsivo è che esso si faccia portavoce del mistero e del supplizio degli uomini, l’esistenza dei quali si inscrive tra la nascita, la morte e la resurrezione, dove la morte è bandita dal decreto individuale della fede.

 È entro questo quadro teologico-salvifico che si situa la poesia di Valesio. Il viaggio dell’uomo contemporaneo dunque non può essere altro che quello del «testimone e dell’idiota», con la «e» disgiunzione e congiunzione, «anello» debole della creazione tra il Tutto e il Nulla, il Nulla e il Tutto, essendo il nulla nient’altro che una labile intercapedine del Tutto. Continua a leggere

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Alfonso Cataldi SETTE POESIE INEDITE – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

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Strilli Tranströmer2Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Scrive poesie dalla fine degli anni 90; nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.

 Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa, Il mondo visto dal di dentro

Il problema della poesia di oggi è che abbiamo a disposizione, gratis e disponibile a tutti, un medio linguaggio poetico che è diventato un linguaggio artificiale, conformistico, clericale, creato da clerici per altri clerici, non idoneo ad esprimere i grandi conflitti del nostro tempo; ci si accontenta di translitterare le piccole tematiche, i tematismi, i trucioli, i reumatismi dell’io, le tematiche edulcorate del cuore, il paesaggismo trito e triviale, il quotidiano più becero, la corporalità. E a tutto ciò si dà il nome di «poesia».

S’intende, questa «poesia chiacchiera» non richiede una forma, una struttura significante. L’uomo è un ente «instabilissimum atque variabilissimum», scriveva Dante Alighieri, che utilizza un linguaggio relazionale che mai come oggi viaggia ad una velocità in continua accelerazione. L’instabilità dei linguaggi è diventata la legge universale delle comunità linguistiche ad economia globale, questo fenomeno ha segnato il tramonto definitivo delle «forme di organizzazione linguistica» sia nel romanzo che nella poesia; sono tramontate anche le petizioni di poetica ottimistiche e acritiche come lo sperimentalismo personalistico del tardo novecento, il topologismo, il micrologismo dell’io… oggi quello che rimane di tutto ciò che un tempo faceva capo alla «tradizione», è un linguaggio «corporale», un linguaggio «emotivo», «istantaneo», che fa capo ad un presente ablativo. Ne è risultato che il linguaggio poetico è pensato nella sua funzione strumentale di «comunicazione».

Strilli Gabriele2Credo che un autore intellettualmente curioso come Alfonso Cataldi non possa non porsi questo problema, è dalla risposta che si dà a questa problematica che deriverà un certo tipo di poesia e non un’altra. Questo, Cataldi, lo sa bene, e infatti ha rivolto la sua attenzione alla «nuova ontologia estetica» per cercare una soluzione ai suoi dubbi. Nei componimenti che presentiamo è visibile la lezione di essenzialità stilistica della «nuova ontologia estetica». Continua a leggere

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Villa Dominica Balbinot, POESIE INEDITE – Un Appunto intorno alla mia visione poetica e un Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa

Gif the limit

Villa Dominica Balbinot di ascendenze emiliano-venete, ha vissuto gli anni fondamentali in Lombardia (provincia Milano) ora vive in duro ambiente rurale, in Emilia.
Maturità classica e Corso di studi universitari in lettere. Ha incominciato a scrivere dal 2006 [un “esordio” da persona matura e improvviso, diciamo ex-abrupto) e cimentandosi inizialmente sui gruppi di scrittura presenti sul web (it.arti.poesia, it.arti.scrivere) e subito dopo creando i propri blog personali, uno di poesia (inconcretifurori.wordpress.com) il secondo di prosa e racconti (dell’idrairacconti), cercando poi di raccogliere il complesso delle proprie produzioni in quello che mano mano dovrà essere sempre più il blog https://villadominicabalbinot.wordpress.com
Sin dal suo primo numero – e fino alla sua chiusura – ha collaborato al lit-blog viadelledonne.wordpress.com. Febbre lessicale è la raccolta d’esordio.
(autoedita attraverso sito ilmiolibro.kataweb.it) e il secondo: Quel luogo delle sabbie.

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foto di Gunnar Smolianski, Stoccolma, 1958

Accenni intorno alla mia visione poetica

Intendo dare espressione a quella che sono arrivata a considerare la assoluta tragicità perenne della condizione umana, di cui azzardo una rappresentazione espressiva, una fredda visione (forse in alcuni punti disagevole, respingente perfino senza sconti comunque per nessuno-compresa me stessa beninteso), divisi come sono – e dalla notte dei tempi – gli esseri umani tra vittime e carnefici in un mondo che davvero può essere desolato.

Mentre scrivo queste puntualizzazioni e mi vado rileggendo mi rendo conto una volta di più che la tematica che mi sono azzardata a voler rappresentare è senz’altro obiettivamente ostica incandescente urticante, magari pure scandalosa, addirittura probabilmente “impoetica” per eccellenza, anche se a mio parere volendo mettersi a parlare della condizione umana, della vita e della morte insomma nulla dovrebbe a priori essere tematicamente escluso e questo anche per non finire a dare una visione falsamente idilliaca [cosa quest’ultima per cui mi dichiaro apertamente “non adatta”, intellettualmente e “midollarmente” non adatta]. Quella che vado espressivamente rappresentando è quella che secondo me è la condizione umana “perenne” al di là del cambio generazionale e al di là dei cambiamenti storici che pur tuttavia gradualmente esistono (e meno male se no ancora peggio direi), io parlando della vita e della morte che sempre si ripete nella sostanza non posso essere contemporanea nel senso più tradizionalistico e forse riduttivistico del termine (come contingente) ma forse forse contemporanea perenne, perennemente attuale in un certo senso.
Io – complessivamente e riassuntivamente mi presenterei così: «astorica» (ma nel senso che ahimè vedo nella storia ripetersi stesse dinamiche di base), perturbante, ontologicamente ribelle,Villa DOMINICA BALBINOT assorta medita sulla “terribilezza”. Ossessionata dalla mortalità che cerca in qualche modo di raggelare per poterne almeno parlare visto la sua tremenda ustionatezza al limite dell’indicibile”.

(V.D.B.)

Villa Dominica Balbinot

Villa Dominica Balbinot

Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa

L’io (moi) non è il soggetto (Je). Il primo, infatti, afferisce alla dimensione immaginaria, il secondo pertiene al piano del simbolico e concerne ciò che Lacan chiama «soggetto dell’inconscio». E l’inconscio è il discorso dell’Altro. L’Altro come Anti-Ego che si oppone all’io. È questo il teatro nel quale avviene l’ipotiposi immaginaria e simbolica della rappresentazione di Villa Dominica Balbinot. Tra io e soggetto si insinua una ostilità, una nemicizia, una lotta; il significante non è più ciò che rappresenta, saussurianamente, una «immagine acustica» del significato, quanto una immagine acustica deformata, infirmata, ferita, una immagine acustica che agisce, di ritorno, sull’io insinuandovi una scissura, una ferita, una diplopia.

Il tempo dell’inconscio, la sua struttura non è altro che la traccia nel soggetto dell’intervento del significante, e dunque dell’Altro come luogo della parola. Un simile intervento, strutturale, ineludibile se non nei termini della psicosi, rappresenta quel dato di evanescenza su cui poggia il desiderio umano, la facoltà desiderante segue lo scivolamento della catena differenziale del significante lungo un pendio senza fine.

«Non sono sicuro, dubito». È per Freud la frase che accende l’attenzione dell’analista allorquando il paziente parla, racconta ad esempio un sogno. E questo perché il dubbio, ci dice Freud, rappresenta una «resistenza»,1] è «il segno della resistenza». Bisogna fare riferimento al capitolo 6) de L’interpretazione dei sogni,2] in particolare al problema dell’«elaborazione secondaria». Quando possiamo pensare di avere accesso all’inconscio, di carpirne almeno in parte la sua presenza, la sua traccia nel discorso, per così dire, cosciente? Quando il soggetto dubita, quando non sa – risponde Freud – quando il soggetto mostra «incertezza» circa quello che ci racconta o ricostruisce, è allora che veniamo a sapere che c’è «resistenza», che qualcosa impedisce, mostra l’accesso a un contenuto diverso da quello manifesto, espresso.

È in quel momento che apprendiamo la via che porta all’inconscio, che qualcosa cioè nel celare mostra quanto cela in base alla dialettica del velo e della traccia, un discorso che possiede i tratti dell’alétheia. Nel sogno, infatti, l’io è ovunque, spezzettato, dissolto, disseminato accanto ad altri personaggi, disperso fra tutti i pensieri che vi sciamano. L’elaborazione diurna, il cosiddetto sogno ad occhi aperti, il sogno in stato di coscienza vigile, ha portato Freud a trovarsi di fronte al «vacillamento», all’impasse; quei buchi di memoria punteggiati di «non so, forse, non sono sicuro», sono tutte forme dubitative, in cui sovente colui che racconta si ritrova, e si perde. In ciò Freud ha visto il tratto saliente del soggetto dell’inconscio, le sue «resistenze» a quanto nel sogno si è manifestato attraverso e oltre la censura. «La via regia» verso l’inconscio non è altro, lo vediamo, che l’intoppo, il blocco, la sincope nel racconto che svela una resistenza, non intenzionale, certo, ma attuale con cui l’io si oppone al manifestarsi di pulsioni inconsce. Si tratta di un vacillamento contemporaneo dello stesso svuotamento del soggetto Ego che ha condotto dal dubbio alla certezza e dalla certezza di nuovo al dubbio; all’enunciato dell’io penso subentra l’io dubito; rimane comunque in questa sospensione della certezza che Freud reperisce il soggetto dell’inconscio, ovvero, l’Altro dell’Io.

Evtusenko Foto di Vladimir Mishukov

foto di Vladimir Mishukov

Ed ecco che il soggetto Ego «puntiforme ed evanescente», come lo chiama Lacan, prende possesso del teatro delle parole: «Incateno allora le parole / al canone impuro di febbre lessicale»; «convoco i miei morti». È la dimensione della «terribilità» dell’inconscio che apre voragini «nel» senso. Ed ecco le entità astratte che si fanno avanti: il «predatorio», l’«insaziabile», il «furor condannatorio», il «convalescenziario», le «ustionanti alleanze», le «scintillanti assolute», la «terribilezza», la «sfrontata sventatezza»; ecco il capovolgimento degli attori dell’inconscio: l’horror vacui delle «denominazioni» del «mondo bluastro», della «substantia vitrea». I fantasmi interni diventano esterni. Ma la débacle del soggetto Ego è sempre dietro la porta; ad ogni angolo, ad ogni svolta dell’esistenza subentra l’incertezza, il dubbio, il timore, tutti apprestamenti difensivi che si capovolgono in aggressione lessicale e imaginale. E di nuovo ha inizio la sempre eguale ipotiposi: «In un corridoio di luce dura»; «tutto tutto era poi un qualcosa di / tormentosamente reale / – di cruentemente esatto».

In questa poesia vediamo chiaramente all’opera la duplice azione della Verdichtung (condensazione) e della Verschiebung (spostamento), istanze che agiscono sotto l’imperio della censura, una vera e propria rappresentazione di un sogno ad occhi aperti. Scrive Lacan:

«L’Entstellung, tradotta trasposizione, in cui Freud mostra la precondizione generale della funzione del sogno, è ciò che sopra abbiamo designato con Sassure come lo scivolamento del significato sotto il significante, sempre in azione (da notare: inconscia) nel discorso.
La Verdichtung, o condensazione: cioè la struttura di sovrapposizione dei significanti in cui prende campo la metafora, e il cui nome, condensando in sé la Dichtung, indica la naturalità di questo meccanismo con la poesia, fino al punto di includere la funzione propriamente tradizionale di quest’ultima.
La Verschiebung, o spostamento: cioè, più vicino al termine tedesco, il viraggio della significazione dimostrato dalla metonimia e che, fin dalla sua apparizione in Freud, è presentato come il mezzo dell’inconscio più adatto a eludere la censura ».3]

1] Cfr. J. Lacan La scienza e la verità, in Scritti II, trad. it. Einaudi, p. 860

2] Cfr. S. Freud, Interpretazione dei sogni, cit., p. 297
3] J. Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio freudiano, in Scritti I, p. 506.

Ashraf Fayadh 4febbre lessicale Continua a leggere

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Il discorso poetico post-surreale e ultroneo di Carlo Livia – POESIE INEDITE – Sette pause del silenzio in un tempio vuoto. L’eclissi del sacro, l’obsolescenza dello scenario metafisico – con Aforismi filosofici di Giorgio Linguaglossa

Gif Machinerie

Gif, machinerie dell’illusorio

Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel ’53 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 ( premio Montale); La cerimonia  Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori ); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010.

Evtusenko Foto di Vladimir Mishukov

Foto di Vladimir Mishukov

Lettera di Carlo Livia alla redazione dell’Ombra

Caro Giorgio, mi chiedi notizie sulla mia vita e sul mio percorso poetico, e lumi sul mistero che sovente  lo pervade.

Potrei  riferire eventi esteriori, l’ormai remota nascita a Pachino, sulle rive dello Jonio, luogo propizio a incanti e trasalimenti, dove le brezze marine paiono trasfigurare in luci e profumi  il canto ineffabile d’inesperibili sirene, o l’incauto e precoce trapianto a Roma, luogo di antica  venustà, degradato in grigio nodo di loschi traffici automobilistici e finanziari, dove sono miracolosamente sopravvissuto per molti decenni a disincanti e deprivazioni emozionali, soprattutto grazie all’intregazione di eros (lo splendore delle fanciulle in fiore) con melos (poesia e musica) per contrastare tanatos, almeno temporaneamente.

Ma forse è meglio ripercorrere percorsi e sviamenti interiori, che meglio descrivono la necessità di produrre elaborazioni verbali come quelle alla cui lettura ti sei gentilmente offerto.

Comincerò descrivendo l’originario abisso epistemologico da cui promana la vertigine metafisica che suscita inattese reazioni psico-verbali, servendomi delle parole del crociato protagonista del “Settimo sigillo” di Bergman:  “ Perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi? Perché devo aver fede nella fede degli altri?” (cioè in mitologie e rivelazioni). Che tradotto in fonemi nicciani risuona di echi ancora più inquietanti e nichilistici: “Dio è morto, noi siamo i suoi assassini! Ma come abbiamo potuto prosciugare tutto il mare, cancellare l’orizzonte, staccare la terra dal sole? E non sentite ora questo gelo che cresce?”

Questa sorgente d’angoscia e nostalgia  mi ha indotto ad inebriarmi di tanti distillati alchemici secreti da fratelli spirituali (Dickinson, Dostojeskij, Kafka,Celan, Rosselli,ecc., fino ai sortilegi e alle blasfemie di Antonio Sagredo, scoperto proprio grazie alla tua mediazione) che se non hanno guarito il morbo hanno almeno lenito tormenti e algie, e confortato nella necessità di trovare dimora, senza gelare di solitudine,  in quel trafficato confine fra ragione e infinito, metafora e sogno, definito come “Abendland”,

la terra del tramonto, dove “gli Dei del passato sono fuggiti e si attendono quelli che verranno” (Hölderlin).

L’eclissi del sacro, l’obsolescenza dello scenario metafisico, che per millenni ha radicato le strutture logiche, assiologiche e morali di pensiero e scrittura, può essere esperito come deriva nichilistica, oppure come ineludibile necessità di analizzare e riformulare strumenti e percorsi cognitivi ed espressivi.

Hai scritto: “ Il problema fondamentale è comprendere la relazione tra linguaggio ed essere”. Perfetto! Tutto il pensiero speculativo e poetico del ‘900 vortica intorno a questo vespaio. “ Fra il gesto e l’atto/ fra il segno e il significato/ fra la parola  e la realtà/ cade l’ombra./ Perché Tuo è il regno…”  (Eliot). Le riflessioni di De Saussure, Humbolt, Nietzsche, Wittgenstein e Heidegger, si alleano nell’evidenziare l’abisso ontologico che separa la parola, cioè la struttura che materia e articola il pensiero, dalla realtà. Come il ponte del racconto di Kafka, che precipita nel volgersi per guardare la persona che lo sta percorrendo, il linguaggio vede vanificare la propria efficacia quando scopre la propria origine verbale, umana; è solo un “sentiero interrotto”, “parlato” dalla lingua;  cioè tutto ciò che pensiamo non nasce per partenogenesi, ma è frutto di codici, strutture e pratiche linguistiche.

Nel pensiero contemporaneo la tragica acquisizione che non può esistere nessuna verità estrinseca al linguaggio, cerca di  assumere anche  una funzione terapeutica e soteriologica: è come se abitassimo in una stanza che, anziché vetri, ha alle finestre degli specchi; crediamo di scorgere l’infinito, Dio, l’eterno, ma in realtà vediamo solo noi stessi. Il dio che abbiamo ucciso era quello che avevamo creato, a nostra immagine e utilità.  “Voi, saggi fra i saggi, non avete mai avuto sete di verità, la vostra è sempre stata solo volontà di potenza” (Nietzsche, citato a memoria). Il nostro pensiero analitico, concettuale, è intrinsecamente inadatto a conoscere la Verità, ma solo a codificare, incasellare, dominare e asservire la realtà alle proprie esigenze.

Come può ancora salvarci l’arte, la poesia? Siamo ancora in grado di ascoltare “l’incessante mormorio della bocca d’ombra” (Breton), cioè le istanze dell’inconscio, o accogliere la lingua dell’Assoluto, il “dire originario”  (Heidegger), l’intreccio di pensiero e musica da cui scaturisce la poesia? Convertire e rigenerare linguaggio e pensiero, creare una nuova cultura autenticamente, e non ideologicamente, aperta al sacro, relazionale, post-bellica, libera dal monoteismo del capitale e del consumo?  Naturalmente non possiamo contrapporre scienza e tecnica ad umanesimo, né rinunciare al linguaggio verbale, alla scrittura o alla realtà virtuale, ogni mutazione è irreversibile. Possiamo però reintegrare nel linguaggio e nel pensiero ciò da cui esso si genera e tende a dimenticare nella sua volontà di dominio e sfruttamento: la sfera emozionale, affettiva, ridando respiro e alimento alla dimensione inconscia da cui nascono sogni, visioni , miti e simboli.

Ecco perché sono stato ineluttabilmente sedotto dal surrealismo, che per me non è solo il movimento capeggiato da Breton, di cui riconosco limiti ed errori, ma una dimensione eterna ed universale dell’animo umano   (l’Apocalisse, Blake, Carroll, kafka, Strand, ecc.). Anche per questo non posso spiegare o illuminare i miei testi, come gli altrui: la poesia non è un gioco enigmistico, dissolverne il mistero significa annientarla. Pierre Reverdy, guida e alleato dei surrealisti, ha scritto: “Tanto più gli elementi che compongono la metafora sono lontani (cioè costituiti da parti semanticamente incompatibili), tanto maggiore è la sua risultanza poetica.” Come nel sogno e nella visione mistica, l’immagine poetica ricompone quelle divisioni che non appartengono originariamente alla struttura dell’essere, ma solo alla nostra limitata e alienata capacità rappresentativa. Per spiegare la poesia bisognerebbe ricorrere alla componente analitica, concettuale, desacralizzante del linguaggio, che è proprio ciò che l’atto poetico cerca di trascendere.

Aforismi di Giorgio Linguaglossa

L’essere, ed è questo l’enorme problema della metafisica,
sfugge alla predicazione, non risponde al predicato, non rientra nel linguaggio
nel quale sembra, tuttavia, in qualche modo, anche risiedere come all’interno di una dimensione illusoria (come un palazzo fatto di specchi che si riflettono l’un l’altro), nella quale l’io pensa di esserci; ma, allora questo è il luogo di un grande abbaglio se l’io della percezione immediata crede ingenuamente in ciò che vede e sente. Ed è appunto questo ciò che fa il linguaggio della poesia: far credere in quel grande abbaglio. Ma è, per l’appunto, un abbaglio, una illusione. Per questo la poesia ha a che fare più con l’illusione e l’abbaglio piuttosto che con le categorie della certezza e della verità, che filosofi come Platone ed Eraclito non potevano accettare perché avrebbe messo in dubbio ciò su cui si edifica il mondo dell’edificabile, il mondo dei concreti e delle certezze, del nomos e del logos, parole altisonanti che all’orecchio della Musa invece suonano false e posticce.

L’io, per quanto manifesto,
reperisce altrove il suo statuto ontologico,
nella sua mancanza costitutiva, che lo costituisce
come impalcatura del soggetto.

l’io mento, è la vera dimensione dell’io penso.

L’abbaglio, l’illusione, l’illusorietà delle illusioni, lo specchio,
il riflesso dello specchio, il vuoto che si nasconde dentro lo specchio,
il vuoto che sta fuori dello specchio, che è in noi e in tutte le cose,
che è al di là delle cose, che è in se stesso e oltre se stesso,
che dialoga con se stesso…

Gif espressionismo nosferatu

Poesie di Carlo Livia
Sette pause del silenzio in un tempio vuoto

 

La bambola pazza sferza a sangue la stella che medita.
Il signore scomparso è un grido d’amore che penetra nel sesso della notte.
Fra queste dogane di nuvole quale tempesta di luna immortala l’universo?
Nella follia degli angeli c’è un incesto di musica
nel peccato del cielo un pianto senza dolore e senza bambini
nel sogno della folgore un guanto di nebbia uccide l’universo.
La nostalgia ammira i suoi gioielli e pensa: il prossimo addio sarà il mio vero amore.
L’ombra del vero si specchia nelle parole e tace a perdifiato.
In piedi sulla grande altalena del paradiso il mio amore mi chiama, si allontana, mi                                                                                                                                                       chiama…

Simulacri

Era una musica segreta e aveva per cuore un cielo malato che era il sogno d’una dea velata.
Poi il sogno svanì e venne la pioggia, una pioggia di dolore che coprì l’universo.
E un uomo depose le armi e tolse dall’universo il dolore, come una parola sbagliata.
Resuscitarono i cuori feriti, le lacrime e le croci, e la musica salì sempre più in alto dove nessuno poteva seguirla; così qualcuno si perse nel traffico, altri nelle paludi della nostalgia, altri nei boschi di fumo, popolate di santi e ferite, finché non furono tramutati in cristallo, il purissimo cristallo dell’addio.

16
Abbandonare Dio

La moltitudine dei bambini non ancora nati attende; uno alla volta si avvicinano alla Dea in lacrime, che li bacia a lungo e gli chiede di non dimenticarla; poi scelgono il colore della veste da indossare, che è il loro destino, e si allontanano per sentieri scoscesi e ventosi in cui devono scegliere tutto ciò che accade.
Oppure i morti lottano contro l’ultimo pensiero, che ha gli occhi vuoti, rinchiusi nella feritoia di tenebra che dà sull’immutabile.

17
Nei luoghi estremi

Oltre l’ultimo istante vidi un salone di specchi a perdifiato, un’alba nuda in un giardino di ciechi in delirio, mille cieli feriti dal sogno d’una vergine, una vita gettata accanto a un piedistallo vuoto, un lavacro di nuvole felici, una dogana di nostalgie d’arcangeli.

Preghiere e peccati salivano alla luna.
Una voce che amavo disse “Torniamo!”
Caddero le ultime statue e il dolore si mutò in ricordo.
Le anime che avevo ferito nascendo mi riconobbero e scomparvero.

18
Mantra per la rinascita

Il presente è lontano, sprofondato in un’assenza definitiva, inesorabile.
Il pensiero corre lungo un corridoio interminabile, su cui si aprono molte porte e davanti ad ognuna è di guardia un angelo di luce che vedendomi pronuncia le parole che custodiscono il cuore dell’universo e mi mostrano come non posso scomparire.
Son un fossile di luce o la parete del sogno o la moltitudine di pozzi della terra degli antenati.
Chi mi genera in sogno mi ha assassinato in un altro paradiso.
E’ per sempre troppo presto per esistere e devo ancora leccare tutte le ferite di questa notte.
Dall’altalena di cenere spargo le mie iniziali celesti.

19
Infine

C’era un silenzio come una nostalgia di violini del Paradiso e un’assenza d’angeli che era una frangia di notte strappata da un sospiro.
Tacevano le creature del sogno, fissando le anime del vento, immobili come uccelli prigionieri in un labirinto di promesse svanite.
Ombre si nascondevano fra cespugli di spiriti e tutta la collera dei morti le inseguiva.
Volevano scomparire nelle fredde luci d’una città lontana, ma non potevano; c’era ancora tanto da scoprire:
vergini senza tempo che cavalcavano venti e nubi, ordinavano mari e terre, scuotevano le porte tempestose.
Per una strada lastricata d’oro ti conducevano nel sotterraneo delle parole, dei cieli finti, della morte.
Volevano finirti lì, ma fuggisti, per altari e sogni, lontano dagli specchi cattivi, dall’eco del tuo dolore.
Apparve infine la tua dimora, fra le terre estreme, senza vita né morte. Era ciò che sempre scompare, eternamente stretta al suo addio.

20
Sogni

Vagavo, cercandola, in una città sconfinata, spettrale, sconosciuta, fra alti edifici di metallo, sotto un cielo crepuscolare. Tutti i volti che incontravo sembravano conoscere il mio segreto tormento – la sua assenza – e ripetere silenziosamente: “ Lei è molto lontana, irraggiungibile, per sempre! “
D’improvviso, mentre attraversavo una piazza gremita di traffico, la vidi: quasi infantile, con in mano un cerchio per esercizi ginnici, vestita d’azzurro, i lunghi capelli sciolti, era proprio lei, come l’avevo sempre immaginata, confusa nella folla che gremiva un piccolo giardino pubblico: cercai di raggiungerla, ma era scomparsa. Guardandomi intorno la scorsi poco lontano, mentre svoltava l’angolo d’una via, e corsi in quella direzione, ma la persi di vista di nuovo, per poi ritrovarla in un altro luogo, e così di seguito, infinite volte: ogni volta che riappariva era come se la luce intorno a lei subisse una improvvisa intensificazione.
Mentre passavo davanti ad un palazzo diverso dagli altri – di marmo bianco con grandi finestre ad arco incorniciate d’oro – sentii qualcuno afferrarmi e trascinarmi all’interno.
Mi ritrovai in una specie di tempio, alto e profondo, immerso nella luce tremolante delle candele. Al mio ingresso una doppia file di ragazze seminude si inchinò salutandomi e gettandomi manciate di petali. L’uomo che mi guidava – il volto scuro dai tratti orientali – mi condusse in fondo alla sala, dove su un trono circondato d’oro e di luce sedeva lei.

21
Si alzò e mi venne vicino. Mi prese per mano e mi condusse in fondo al salone. Udii sospiri di ragazze al nostro passare, o erano statue che si muovevano e prendevano vita. Percorremmo un corridoio di specchi dove udìi una voce che avevo già sentito – ma non ricordavo quando – ripetere le parole “sempre” e “mai più”.
Entrammo in una stanza quasi buia, angusta, misteriosamente familiare; era una camera da letto dove tutto pareva immobilizzato in un lontano passato. La ragazza era scomparsa, poi riapparve inaspettatamente davanti ad uno specchio; era nuda, e stringendosi a me come per avvilupparmi con il suo corpo mi disse: “ Ora voglio la tua anima! “
Sentìi che qualcosa dentro di me si dissolveva e – mutato in aria e luce – si liberava dal mio corpo e volava via. Era una feritoia dell’essere che avevo attraversato e mi conduceva in un’altra esistenza.
Un bambino piangeva e una donna cantava.
Un ragno immenso lacerò la notte. Entrò la luce. Due fanciulle-nubi raccolsero la nostalgia divina che era stata la mia vita e la deposero ai piedi dell’Assenza.

Avevo dimenticato qualcosa e la cercavo angosciosamente in una foresta di spiriti di cristallo, perché sapevo che se non l’avessi trovata un dolore immenso mi avrebbe raggiunto. Forme senza vita mi circondavano impedendomi di muovermi. Non c’era più nessuna lingua.
Il dolore si avvicinava.

22
Tutto fu diviso in due: una parte scomparve in alto, l’altra precipitò nell’abisso. Una campana suonò. Qualcuno si svegliò dopo un lungo sonno.
Un cancello si aprì: era l’Eternità dorata, ma una vergine triste lo negava.
Ero sopravvissuto solo io, o ero in un sogno troppo lontano per ritornare.

Una dolce follia mi sfiorò e scomparve.
La bambina di luce mi donò un petalo dell’Enigma.
La mia anima era scomparsa nel lavatoio celeste.
Le voci di corallo corteggiavano sempre la stessa ferita.
Esistevo in un angolo di luce che imprigionava antiche preghiere o tutto ciò che cresceva entrava nella mia malattia.

Desiderio di luce o spoglie del tempo.

23
Nessuno venne a donarci la luce.
Senza ragione, la donna scomparve nel gelo e l’anima affamata sognò il luogo del riposa.
Vennero a cercarmi nel giardino, dove mi nascondevo fra le creature senza legge. La fonte sigillata nel pensiero confuse i nomi del peccato, della speranza e dell’orizzonte cieco da cui sorgeva il dolore.
La voce insanguinata che aveva ucciso il cielo mi perseguitava. Mi gettai dalla balaustra stellata nel baratro dove precipita il tempo.
Ora vivo nella casa di vetro e respiro, aspettando che ritorni la memoria.
Pachidermi dementi si aggirano intorno, cercando frutti inesistenti.

24
Il cielo era un’immensa coppa di gelsomino.
L’amore ribelle faceva tremare la notte.
Ragazze si affacciavano dalle cabine, stringendo pugnali di sogno.
Nelle grandi strade della città i desideri si affacciavano dai lucernai, gli sguardi erano tempeste d’angeli, i corpi musiche celestiali, gli amplessi sogni senza padrone.

Mille universi inseguivano lo stesso palpito, scoprivano lo stesso corpo, dileguavano in                                                                                                                           un solo golfo di respiro.

Nel cuore di sogno o di sesso dell’universo la madrina del tempo distribuiva petali                                                                                                                       d’eterno e maschere dell’esilio.

Era un dipinto o un film dell’aldilà, chi vi entrava si fermava per qualche eternità e poi ripartiva da uno dei molti abbaini di sogno.

Si attendeva la Sua comparsa coltivando costellazioni di silenzio. Nell’infinita sala d’attesa le ancelle spogliavano le anime dei loro abiti gravi di dolore e di nostalgia e li immergevano in un bagno di lacrime felici e antiche armonie dimenticate.

25
Le nuvole si annoieranno se mi avesse dimenticato
la bambina che sorveglia quegli immensi massi di dolore mi fa cenno di avvicinarmi
tutti i feriti lasciano il giardino delle delizie morte
le statue si spogliano piangendo di nostalgia
il sogno dell’angelo sterminatore scompare nel sesso della notte o è la follia dei defunti che riempie la pausa di senso
è il mio pensiero il sipario che si chiude, ma

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Meditazione n.13

Accade in quella finestra cieca da cui si crede di vedere l’infinito, e invece si vedono solo parole, riflesse nello specchio falso del pensiero.
Dietro dura il lungo solstizio dell’anima, esilio di corpi e fantasmi, che si uniscono in un                                                                                                                             nodo di sete e sudore.
La tavole apparecchiata per gli ospiti è coperta di stelle morte.
La schiera delle maschere, esiliate dall’io, arranca verso una piazza senza cielo, dall’orizzonte vuoto, trascinando nomi pesanti come macigni o incubi.

Sulla riva del mare prosciugato l’estasi delle sagrestie scuote i coralli della notte.
Un pendolo folle sogna la sorgente dell’addio.

27
Nei sogni estremi

La vedo nuotare da millenni in un corridoio di sogni dove l’eterno si decompone in forme da accarezzare.

E’ un’estasi di voci di sagrestia, un cielo capovolto dai dolcissimi piedi di ostia.

Per tutta la notte modelliamo corpi, uccidiamo statue e paradisi.

All’alba l’addio è una danza di ombre e di nubi, un binario di miele turchino, un                                                                                                                       amplesso di cieli che sorridono.

Le macchine sospirano quando rinasce.

Nel sogno della morta s’incontrano la sposa e l’assassino, e lui scompare.

Ha occhi terribili la risorta, come pugnali d’abisso violato, che costringono ad inchinarsi                                                                                                                                     anche al peccato.

“ Qui riposano gli angeli “ dice: è un cassetto bianchissimo, un istante senza spazio dove                                                                                                           tutto è già compiuto, immobile.

“ Non capisci che sei nato davvero? “ e ride, la pazza, felice, aperta, come un grido o un                                                                                                                                                   miracolo.
28
E ora che tutto il suicidio si compie, il suo terrore sta fermo in un angolo del cielo, e mi fissa come un angelo malato.

29

Per comprendere l’eternità di un bacio
le moltitudini si affollano intorno ai sogni delle bambine.
Per misurare la distanza dei morti
costruiscono cieli con le spoglie dell’uragano.

L’infinito d’un’anima pallida si perde
nel labirinto dell’ebbrezza delle sagrestie.
Nel ciborio dell’enigma gli ultimi istanti
sospirano la casa delle madonne silenziose.

Nel terrore dell’amplesso universale
fuggono le eternità verginali
l’ultima ha una ferita da cui cadono donne scarlatte.

30
Meritare il ritorno

Vidi tre angeli al confine della notte. Stavano abbracciati e tremavano.
“ Perché tremate? – chiesi.
“ Abbiamo paura. Dobbiamo attraversare la notte e ci siamo persi “

Passai oltre. Vidi una donna che teneva in mano un’ampolla vuota. Diceva che aveva contenuto la sua anima, ma che per disgrazia le era fuggita via; piangendo implorava che qualcuno le versasse dentro un po’ della propria anima.

Vidi due bambini pazzi che insultavano ridendo lo sguardo di una santa dipinta. E la                                                                                                                         santa piangeva per loro.

Vidi un frammento di cielo fatto di miriadi di voci che dicevano “per sempre” e “mai                                                                                                                                                                più”.

Scorsi la sorgente della nostalgia, in un esilio d’arpe celesti, e le bambine imprigionate                                                                                                                                                       nel blu.

Raggiunsi un davanzale di specchi a perdifiato sull’ultimo sogno: una dogana di lune                                                                                                   serene attraversata solo dal dolore.

Fra grandi curve di violino la morte raccoglieva pensieri e universi.

 

31
Fra alte muraglie di cieli spiritati la Sposa celeste apparve-disparve divaricando le                                                                                                                                                      vertigini.

Ecco l’angelo funesto: il silenzio che governa le luci.

Il dolore avverte: la morte non sopporta la ferita dell’amore.

Il cielo è una promessa morta. Allora tutti i santi sono malati, tutti i mattini impossibili,                                                                                                               tutti i sogni tombe e prigioni.

Col favore del sogno i desideri prendono il largo nell’oceano del mistero, i più grandi sorridono alle brezze che profumano degli Dei scomparsi.

32
Nell’inguine dell’angelo devastato s’incontrano le estasi perdute del paradiso.

Solca il cielo della speranza un sole dimenticato nel sogno di Dio.

Bestie dementi si nutrono del pallore frantumato che lascia il passaggio dei grandi                                                                                                                                                   peccati mortali.

Il rosso della Dea ti perseguita: è la disgiunzione astrale, chi non indossa le forme dell’addio deve vagare cieco nei labirinti degli attimi insensati.
La folla rompe le finestre, la cella sprofonda nel miele celeste.

33
L’addio interminabile

Un addio di musica s’intrecciò a tutti i sogni del mattino e diventò un paradiso dimenticato che lasciò un profumo di violino in tutti i cuori turbati, che si estinsero in un bosco di desidèri.
Poi tornò la primavera e nel bosco sorsero i rossori e i sospiri d’amore e tornò la musica estinta e fece danzare nuvole e brezze marine negli occhi e nei cuori che furono confusi e sconvolti dalla follia e si torturarono e sanguinarono e infine tornarono a cercare la pace nel bosco incantato dai desidèri dell’addio.

34
Senza pietà

Le luci si svegliano quando il confine trema.

Statue sorridenti migrano nel bianco dell’orfanotrofio, ma il cielo finge un’eterna                                                                                                                                                            primavera.

Nel sogno della macchina i serpenti escono dall’acquasantiera e penetrano nel cielo                                                                                                                                   livido degli scomparsi.

L’amore vende per strada le sue ferite di corallo, il Signore scomparso indossa la musica                                                                             più triste, l’istante eterno ritorna nello specchio.

Due spettri terminali hanno passato la dogana per deporre la croce, ma la mendicante                                                                                                  celeste ripete che gli Dei ubbidiscono.

Se questo sogno fosse eterno…

35
Un giorno, sul finire dell’state, un i stante colmo di tristezza s’innalzò in cielo e crebbe a dismisura, fino ad occupare tutto il tempo e lo spazio, e quell’infinito era la mia anima, perduta in un oceano di malinconia, perché la vita era trascorsa e non avevo fatto nulla di ciò che volevo; così riflettevo passeggiando in un crepuscolo immobile, sulla riva del mare, e una donna mi venne incontro e mi abbracciò, e stringendoci e baciandoci ci sciogliemmo in lacrime felici perché sapevo che era lei che avevo cercato da sempre invano, ed era la sua assenza che aveva sempre prodotto tutto il mio dolore, e volevo dirle quanto vuota e triste fosse stata la mia vita senza di lei, prigioniera di una tenebra insensata ed umiliante, ma lei mi diceva di tacere perché sapeva già tutto, non c’era più bisogno di parlare, e io non vedevo il suo viso, ma vedevo solo quanto fosse snello e armonioso il suo corpo, e dolce la sua voce e delizioso il suo amore; ma infine scorsi il suo volto e capii che era lei la donna che amavo, con cui avevo vissuto per molti anni, ma ora era lontana, come imprigionata in un altro universo che avevo incrociato solo per un momento, e ora si allontanava inesorabilmente per sempre, e lei mi salutò con un sorriso in cui scorsi tanta solitudine e malinconia, e d’improvviso capii che era ciò che avevo causato con la mia vita, con la mia incapacità di capire che tutto ciò che desideravo l’avevo avuto, da sempre, senza riconoscerlo.

36
Il bacio dell’enigma

Era il nome della rosa crepuscolare che santifica il silenzio del binario morto

No, era la mia anima e il terrore dell’angelo pietrificato

Voleva svelare la follia dell’addio, ma quando giunse la stazione era piena di lacrime

Per amarlo molte donne migrarono nel gelo senza ragione
perché l’occhio del ciclone divinizzava la sua assenza

Intrecciava i confini della notte con le sue tre note di violino

Era così lontano e quando ti toccava in cielo fiorivano sessi di vaniglia

Sì, era eterno e quando moriva le statue sonnolente lo inseguivano cantando

37
Ontogenesi dell’addio

Il seme della tragedia sotto l’albero della vita; e il tumulto del cielo fece nascere i nomi.

Nell’infuriare della tenebra mi inchiodarono al pensiero; e naufragai in un respiro di                                                                                                                                                            donna.

L’annegarono in uno stagno di desideri, la seppellirono nel vento dell’est; la sua voce era un fremito d’ombra, il suo sguardo una folgore prigioniera.

In un vorticare di baratri celesti un gemito di donna perduta mi implorava di ritornare.

Un sogno ferito a morte attraversò la sala in cui l’essere e il nulla si univano in                                                                                                                                                              matrimonio.

Giunsi in un luogo di istanti sospesi in cui erano esposti tutti i miei peccati; le voci che mi chiamavano erano specchi e il corpo che desideravo un sogno di cieli lontani.

38
Sarà facile come amare, sarà come distrarsi dalla terra per una vertigine celeste, sciogliersi dal nodo del tempo, specchiarsi in un vuoto di senso, cadere nel vortice d’un altro sogno.

Devoti a lune insensate, si avviano verso la corte marziale, con gli occhi bendati dall’ultimo brandello di cielo materno.

Devoti alla terra cieca, s’inginocchiano alla forma d’argilla divina, a cui hanno insegnato a mentire come loro. Ma giunge l’invocazione d’amore, trascinandosi dietro il manto di tenebra che racchiude l’universo, e chiede di inchinarsi a un silenzio più vasto.

39
Oscillazioni della fede

Il pendolo celeste fa oscillare un filo d’anima

e le dolci eternità sorridono in forma di fanciulle in fiore

la scomparsa dell’universo è consacrata da una curva di violino rosa

ma non è l’addio che attende quell’immenso piedistallo vuoto

la selva degli angeli si perde in congetture

al di sopra l’Essere

40
Ostaggio della nostalgia

Cielo di chitarre infelici
esilio di luci femmine nel nodo dei sette desideri
nel silenzio della corte marziale il rosario dei sospiri unisce nascita e morte
un flauto di brezze bionde si libera dai peccati, viola il mistero, seppellisce la nostalgia fra i suoi gioielli, reclude la passione nel mistero: è la follia dei teatri di posa, le maschere contagiano l’eterna eclissi
ripetono: è nato per miracolo, ha ucciso morte e confini, ci ha donato stelle e infinito, ma l’hanno voluto credere vero

41
Incertezza delle cime
Quando il cielo strangola troppe anime e un flauto perseguita i sogni dei migranti, letti miracolosi salpano nel tripudio di nubi disfatte.

Regna la follia dei templi, perché le macchine contagiose circondano la ferita d’amore.

L’eclissi senza veli muta l’aria in menzogna, perché il tuo cuore finge il pudore delle morti improvvise.

E’ un grande appartamento pieno di attimi arrugginiti e il suo corpo nudo si muove come una chitarra in gabbia.

Alle tre di notte entra nel mio letto, mi percuote il pensiero con un flagello di musica, danza con l’estasi sciolta, incendia col suo orgasmo le alcove celesti.

A volte si sbaglia di tristezza e di universo, diventa una piccola casa grigia dove il mio signore è un lucernaio di nebbia e d’abnegazione.

In fondo al suo cielo non ci sono ricordi, lei invece è malata di brezze e scompare nella canzone senza pensare al gelo.

Il mio vicino, minatore in cielo, conosce queste distanze, sa sciogliere i nodi dei peccati, donare la luce a chi vive all’ombra delle favole.

Eternità, fai ancora la padrona.
Un canto verde si scioglie dall’esilio, muta la città in vento d’anime prigioniere, uccide l’addio cresciuto nel buio dei templi.

Lei chiama dal roseto degli Dei, ma è un altro sogno.

Come spostare questi enormi macigni di pensiero.

Lei profuma di nuvole e giuramenti, frammenti d’aurora splendono fra i suoi capelli, sorgenti di nostalgia bagnano i suoi piedi.

Ma è il bacio d’uno specchio vuoto, il sogno d’un violino di cenere, una veglia di fulmini intorno ad un attimo sigillato.

La sua tristezza indossa pallidi guanti di musica e scompare in un sospiro di voluttà. Un polline d’arcangelo si sparge intorno.

Lei entra in un desiderio più alto e nasconde la salvezza fra le sue porcellane.

Il suo ultimo pensiero fa traboccare il cuore dell’universo: “ Ti amerò
per sempre nella casa del silenzio”.

Carlo Livia Aleph, Roma, 2017

Carlo Livia Roma, Aleph, 2017, presentazione di “Capricci” di Antonio Sagredo

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Dissi il mio nome ad un astro di cenere furiosa che scavava nomi nelle colpe degli uomini: mi condannò a morte.

Ma io ero perduto nella folla di una stazione rosa, aspettando l’ora della partenza.

La donna dell’amore era fulva e luminosa; il suo sguardo mi lasciò nell’anima una ferita vacillante.

Intorno all’alcova del sovrano c’era una fila di pensieri sanguinanti; erano le fanciulle votate al blu che trasportavano misteriosi bagagli d’amore.

La donna che aveva ucciso Dio era rinchiusa in una gabbia, con la luna dei folli e il pianto delle chitarre; dalle sue ferite entravano ed uscivano ombre del paradiso.

Nel sogno della macchina s’incontravano le forme dell’esilio: il sotterraneo dell’addio, l’amplesso dei crepuscoli universali, le nozze della morte rosa con l’azzurro inaccessibile.

La nudità del cielo scioglieva i nodi del dolore.

44

Come vinse il mistero

Definiti i limiti della luce, l’Anima si frantumò in infinite assenze. Senza ragione.

Io, che contemplavo le bionde malinconie del cielo, fui rinchiuso nell’ossario militare. Senza tempo.

Ma non ero più io. Era Lei. Mentre il Paradiso bruciava, scambiava sorrisi con i crocifissi in transito. Abitava in un tempio di musica viola e apprendeva l’arte di scomparire nella grande ferita di senso. La sua vita restava lontana, un piedistallo vuoto.

L’oscillazione del parto fu il suo destino: mutò gli orfani in assassini, e convinse il cielo ad adottare i suoi sogni.

45
Crudeltà del glicine

In quanti universi, per quanti millenni è stato sparpagliato quel seme di luce che in un istante si muta in ferita…e sanguina parole?

Eppure…ti abbraccia per avvicinarsi al cielo, si nasconde in un profumo che ricorda la madre celeste, naufraga nel sogno quando tutto è morte e terrore.

Tu non sei come lui; desideri, ricordi, ma non puoi comprendere, abbracciare.

Lo insegui nelle stanze di Mozart, distruggi senza saperlo riflessi e porcellane, le cristalliere da cui è appena fuggita la morte.
Lui raccoglie il dolore divino e lo muta in rugiada di fanciulla, inventa nuove verande da cui la malattia del cielo si dirama in mille nudi di crepuscolo.

Si abbevera alla luna dei folli, si svena fra portali di sonno che sono tombe di passioni immortali.

Oppure capovolge il cielo, scompiglia l’aria di rose insaziabili e riempie di vergini impure i corridoi del Paradiso.

La sua follia è questa verità che ferisce il pensiero, uno stuolo di addii in vesti di flauto, una statua di vento e di peccato che atterrisce la casa delle madonne silenziose.

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Lucio Mayoor Tosi – Tra frammento, fotogramma e colore. Undici Poesie inedite per una Nuova Ontologia Estetica. Lettura di Letizia Leone, con una Dichiarazione di intenti dell’Autore.

Lucio Mayoor Tosi Frammenti_1

Lucio Mayoor Tosi, Composition

Lucio Mayoor Tosi, poeta a tuttoggi inedito, nasce in un piccolo paese circondato da vigneti, nei dintorni di Brescia. Ha studiato arte alla scuola di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano.  E’ pittore, grafico, pubblicista, artista digitale e poeta. È da molti anni discepolo di Osho, Maestro spirituale indiano, scomparso nel 1990 – da qui il nome Mayoor, Swami Anand –. Trascorre anni facendo pratica di meditazione, si sottopone ed estenuanti terapie psicanalitiche; si interessa di Zen, lo pratica in pittura e, anche grazie all’esercizio dei Koan, inizia seriamente a scrivere poesia. Presente in varie antologie, tra queste: Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016), i Quaderni Erato, Limina mentis. Sue poesie sono state pubblicate su blog letterari, oltre a L’Ombra delle parole, La presenza di Erato e Poliscritture e sulla rivista telematica http://mariomgabriele.altervista.org/

Lucio Mayoor Tosi Composition acrilic

Lucio Mayoor Tosi, Composition

Dichiarazione di intenti di Lucio Mayoor Tosi

Queste mie poesie vorrebbero essere il modesto contributo di un autore inedito a quanto si sta dicendo in merito alla Nuova Ontologia Estetica (NOE).

Frammenti e composizioni di un mondo che è sempre stato in guerra. Quel che si può fare con pochi legnetti, piegando un filo di ferro, spianando un fazzoletto di terra per farci una valle. Nel deserto. Una formica in cerca di salvezza.

L’universo della mia poesia comincia qui, da composizioni di mattoncini Lego; tante finestre, messaggini con emoji e trasmissioni Londra-Stazione V (Venere) dove una signora, bontà sua, durante la pausa del pavimento traspirante si concede per una trasmissione dati, come si direbbe oggi. Così il tempo si ferma per entrambi e facciamo conversazione.

Si direbbe una fantasia sfrenata, e invece è vita in ricostruzione. A demolire ci pensa la guerra, quando c’è e quando non si vede. Se non la si vede è perché è domenica: i Cattolici vanno alla messa, i Buddisti fan ruotare le preghiere, i Muezzin salutano Allah e alle 8:30 aprono i supermercati. Macerie. Ben illuminate e con le scale mobili, ma sempre macerie sono. E anche la poesia sonetto non sonetto, come darsi appuntamento – oh «Ma non c’è più nessuno! Dove se ne sono andati tutti?».

Scrivo frammenti perché ho la mente scomposta. Non mi sono preso la briga di scoprire quale sia il disturbo perché ho capito presto che il problema non sta dentro di me. Per i fortunati come me, quelli a cui non sono bastate le gite domenicali per illudersi che possa esistere la felicità – tantomeno direi salendo su un barcone mare-azzurro e terra di salvezza oltre l’orizzonte. Ma almeno non c’è merda umana sui marciapiedi e ci sarà pure una casa, lì dove ce n’è tante – l’unica soluzione è cominciare da zero.

Ecco che la signora, nel suo quartiere blu, trasalendo e sospirando manda carezze. « Noi per arrivare in ufficio facciamo la strada più lunga, perché è la più bella. Non ce ne sono altre». Del resto, mi spiega, la vera novità dell’epoca dove vivo io che sto scrivendo, non sta nell’informatica ma nell’aver inventato la televisione a colori!  L’informatica sarebbe tecnologia auto reggente, utile, sì, ma non bella abbastanza da perderci il sonno.

Ci sono altri poeti nella NOE, come Giorgio Linguaglossa e Gino Rago, che viaggiano nel tempo, ma si vede che loro hanno fatto il Classico e l’Università a Lettere e Filosofia. Hanno confidenza con il passato, Giorgio addirittura pare che s’inventi i nomi. Io no, sono pittore, ho studiato a Brera e a questo punto posso dire che la maggior parte della vita, o la più importante, l’ho trascorsa facendomi trapassare la mente e il cuore in estenuanti terapie psicoanalitiche; non perché pensavo di essere pazzo ma perché sapevo di essere a rischio. Come tutti ma io no. Basta entrare in un grill sull’autostrada durante il periodo estivo per rendersi conto di come stanno le cose. E perché i terroristi, oggi islamici, son come le zecche all’ora del dessert. Comunque via, basta dire che sono rimasti in pochi ad avere ancora il senso del denaro.

Gino Rago, Ubaldo de Robertis

A me fa piacere leggere le storie di Odisseo come le scrive e racconta Gino Rago ma,  come volevo dare a intendere poc’anzi, io mi sento come arrivassi dal futuro. Ho trovato armonia stando nel mezzo, tra Tranströmer e Philip Dick. Il mio frammento l’ho trovato scrivendo versi in giustezza d’immagine, come se sopra ogni verso ci fosse un’immagine, un riquadro. La base del riquadro corrisponde alla misura del verso. Può sembrare una soluzione macchinosa, ma serve principalmente per la verifica, che si può fare leggendo la poesia dalla sua fine andando all’inizio. Però non sono tanto scrupoloso, so che il mio labor limae non è perfetto. In pittura si tiene in gran conto l’errore, nella pittura zen è perfino indispensabile… come se bisognasse lasciar respirare l’erba, la natura. Ma si risolverà.

In questo periodo sto imparando molto dalle poesie di Mario M. Gabriele. Mi convince la compattezza, la mancanza di fronzoli (corsivi, punti di sospensione, spaziature). D’altra parte, ho in mente Tranströmer e certe solitudini del verso le sento ancora necessarie. Poi devo stare attento alle elencazioni, perché questo è il pericolo che si nasconde nell’uso frequente del punto. L’elenco, il nudo accadimento, non dà tempo all’immagine per formarsi. E talvolta, mi sembra, Giorgio Linguaglossa ci cade. Però, mi dico, lui ha una mente, diversa dalla mia, ha un’altra velocità. Nelle poesie che potete leggere qui sotto se ne trovano un po’ di questi passaggi; infatti non ne sono del tutto contento perché mi sembra che non tutti i riquadri sopra il verso sono stati riempiti a dovere. Alcuni di questi riquadri non hanno immagine; questo accade perché sono parole soltanto, ma son quelli che mi sono più cari… dove l’immagine sottostà alla poesia. Ma ne scrivo pochi, penso infatti che nella composizione di poesia ce ne dovrebbe essere poca. Altrimenti non la si ricorda.

Vi ringrazio e vi voglio bene. Non siate troppo severi, non è sempre facile inventarsi.

Giuseppe Talia, Mario Gabriele

Lettura di Letizia Leone

Lucio Mayoor Tosi tra frammento, fotogramma e colore. Undici poesie inedite per una Nuova Ontologia Estetica.

“Il mio frammento l’ho trovato scrivendo versi in giustezza d’immagine, come se sopra ogni verso ci fosse un’immagine, un riquadro. La base del riquadro corrisponde alla misura del verso”: così Lucio Mayoor Tosi colloca la propria ricerca poetica sotto lo statuto della visibilità chiarendo i modi dell’organizzazione spaziale del suo verso, un verso che inevitabilmente prende la misura del “frame” o fotogramma se incornicia l’avvenimento catturato dall’immagine dentro i limiti lineari e metrici di un “riquadro”. Una sorta di forma-icona.

Un modo di procedere sperimentale sul contrappunto ritmico di sequenze-frammento che come speciali inquadrature cinematografiche traggono forza enunciativa dall’immagine. O per meglio dire: la scrittura di Tosi si muove nell’ambito della visione, del colore, della resa iconica, una speciale “grammatica del vedere” e ciò in coerenza con la sua ricerca formale di artista figurativo che ha grande familiarità con la forma, lo spazio e la sostanza del colore.

In questa scrittura che sembra seguire la logica compositiva di un modello cinematografico entra in gioco anche la dimensione pittorica quando visione e percezione coagulano la potenza espressiva del dire sul puro valore cromatico.

Il tempo della pittura irrompe con le coordinate del colore, con la fissità apodittica di un pigmento, ad esempio un blu, anticipato da grandi circonferenze di nero nell’esempio seguente:

Lei volse altrove
gli occhi grandi suoi neri.
E io fui accanto a mia madre.
Una signora blu.

In quest’ultimo verso l’effetto di spaesamento è assicurato come in una freddura. Mettere il punto all’inquadratura con un episodio cromatico (qui il blu) significa aprire la strada alle possibilità della rappresentazione informale. O perlomeno è lo sbilanciamento verso una dimensione ulteriore. Il lapsus o l’“errore” (elemento importante della composizione come ci informa Tosi) dove il “puro accadimento” entra in corto-circuito con l’indicibile, si fa portatore di una “contra-dizione”.

E non era Yves Klein, artista del tema monocromo del blu, che parlava di “estasi ipnotica del blu”? “Il blu è la verità, la saggezza, la pace, la contemplazione, l’unificazione di cielo e mare, il colore dello spazio infinito, che essendo vasto può contenere tutto. Il blu è l’invisibile che diventa visibile.”  Il blu è investito “di una pluralità semantica che si esalta nel colore puro”.

Una notte blu. – Decisamente fuori commercio.

Oltre la notte misurata del tempo cronologico, qui il senso epifanico del blu, colore freddo che precede il nero evoca un non-tempo, espressione altresì dell’idea del vuoto. L’impianto formale dei testi ha spossessato il poeta di ogni cedimento enfatico o sentimentale cosicché, là dove l’obiettivo cattura atmosfere asettiche, il colore si fa portatore neutro e trasversale di pathos. Sembra aleggiare la lezione di   Kandinskij sulla “Prospettiva patica” del colore. Oppure come non rievocare il Wittgenstein delle “Osservazioni sui colori” quando parla di “osservazione percettiva” là dove i “colori stimolano alla filosofia”?

Ma analizziamo come una poesia di Lucio Mayoor Tosi crei un effetto destabilizzante sul lettore:

Nel vuoto con gli occhiali.
Guardando con sospetto
il giaccone appeso di fronte
giorni andati a male.
Come scendere in cantina
tra i sepolti vivi.

T. Tranströmer e I. Brodskij

Qui troviamo quell’arte della concentrazione tanto cara a Tomas Trantstömer, eppure così vicina all’antica poesia giapponese dello haiku, dove concisione e rivelazione vanno di pari passo. Apparentemente il poeta non crea la profondità della prospettiva, si muove in superficie, accavalla una serie di azioni “in presa diretta”, senza filtri e/o montaggio, il set non è costruito, le scene spoglie. Eppure il vortice di un buco nero potrebbe risucchiare ad ogni passo l’ignaro lettore. Eventi normali intessono una trama illusoria sulla vertigine del vuoto. Oppure l’esperienza del trascendente, i massimi sistemi, gli altari filosofici come Tempo, Spazio, Vuoto vengono disinnescati da un geniale cortocircuito epistemologico: “Nel vuoto con gli occhiali”.
I dettagli tranquillizzanti (il giaccone appeso, lo scendere in cantina, gli occhiali, i giorni) innescano l’assurdo di una situazione esistenziale, si fanno correlativi metonimici/metaforici di eventi paradossali. Scriveva Paul Klee nei suoi Diari: “il diabolico farà capolino qua e là e non potrà venir represso. Poiché la verità richiede una fusione di tutti gli elementi”. (Diari 1079) Le operazioni della coscienza o i flussi dell’inconscio si “automanifestano” dal modo in cui vengono mostrate cose e situazioni ambientali. Visibile e l’invisibile, all’improvviso, si danno simultaneamente. L’uso in un’accezione estensiva della metonimia/metafora, il dislocamento dell’astratto nel concreto o viceversa, i “giorni andati a male” in correlazione isotopica con “i sepolti vivi” in cantina, ad esempio, fanno sì che nell’apparente nitore delle sequenze l’oggetto diventi oggetto mentale, “anello che non tiene”, e apra il varco al pensiero e all’intuizione. A frammenti di realtà deformata.
È evidente che con Tosi siamo ormai lontanissimi da certi paradigmi poetici novecenteschi come quei meccanismi testuali azionati dal propellente del soggettivismo lirico sentimentale e minimalista. La sperimentazione investe la qualità dei frammenti- fotogrammi che sapientemente permettono di incrociare un altro livello della realtà. Che sia il sottosuolo dell’inconscio o il magazzino-cantina delle visioni o dei rifiuti della letteratura ‘alta’. Non a caso Tosi stesso si colloca tra due scrittori totem quali Tomas Tranströmer e Philip Dick, poeta laureato Nobel della letteratura l’uno, geniale scrittore “cervello di gallina” della cultura trash l’altro, ma ambedue impegnati nell’allestimento di mondi e dimensioni parallele, nella perforazione della realtà, nello sguardo distopico. Talvolta certi imprevisti surreali o iper-reali cominciano a esprimere la realtà. Disvelano. Anche Valéry, a tal proposito, ha osservato che la maniera più organica di esprimere la realtà è l’assurdo.
Eppure questa poesia espone fondamentalmente una condizione di “gettatezza” (“Il carattere dell’esistenza per cui noi siamo in un certo stato d’animo di cui ci è oscura l’origine, per cui l’essere c’è ma rimane oscuro, lo chiamiamo “l’esser gettato” dell’uomo -dell’Esserci-nel-mondo”). Qui c’è l’uomo dentro l’ingranaggio della realtà, in un originario esser-gettati-nel mondo (Geworfenheit) cosa tra le cose, ente tra gli enti, e a questo punto il lettore entra in una situazione emotiva di profonda angoscia:

Mondo visto dalle fessure di un armadio chiuso. / Un camion parcheggiato. Il volto addormentato di due persone /anziane.

***

A piedi nudi sulla plastica di un tappeto grigio trasparente.
Da sotto il tappeto si osserva l’andirivieni di una coppia. Devono aver litigato.

***

Raccolgo una poesia caduta.
Il silenzio fischiò al passare del treno.
Il freddo apparire delle cose.

***

Ogni tanto un verso / si lascia cadere nel vuoto. Continua a leggere

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Adeodato Piazza Nicolai  POESIE SCELTE INEDITE con un Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa

foto Renato Mambor

foto Renato Mambor

 Adeodato Piazza Nicolai è nato nel 1944 a Vigo di Cadore (BL). Poeta, traduttore e saggista,nel ’59 è emigrato negli Stati Univi, vicino a Chicago dove ha frequentato il liceo e si è laureato nel ’69 dal Wabash College (Indiana). Ha lavorato per la “Inland Steel Company” per 30 anni. Nel 1989 ha ottenuto il Master of Arts dall’Università di Chicago in lingua e letteratura italiana. Ha iniziato a scrivere poesie nella sua lingua ladina nel ’59 per non perdere le radici linguistiche e culturali. Ha pubblicato 4 volumi di poesie in inglese, ladino e italiano. Del Piazza Nicolai il prof. Glauco Cambon ha presentato alcune poesie ladine su  Forum Italicum. (1987). Rebecca West  ha scritto l’introduzione al volume La doppia finzione (1988) e la poetessa Giulia Niccolai ha scritto la prefazione al volume Diario Ladin (2000). Le sue traduzioni di poeti “dialettali” sono apparsi  sulle antologie  Via Terra: An Anthology of Contemporary Italian Dialect Poetry (Legas, 2000) e Dialect Poetry of Northern and Central Italy (Legas, 2001). In inglese ha tradotto vari poeti italiani, Donatella Bisutti, Eugenio Montale, Silvio Ramat, Cesare Ruffato, Milo de Angelis, Arnold de Voss, Mia Lecomte, Luigina Bigon, Marilla Battilana Fabio Almerighi ecc. e dall’inglese all’italiano Adrienne Rich, Erica Jong, Luigi Ballerini, Luigi Fontanella, Peter Carravetta, Liz Waldner, W. S. Merwin, Mark Strand, ecc. Finaziariamente assistito dalla N.I.A.F, (The National Italian American Foundation) ha tradotto e curato l’antologia Nove poetesse afro-americane (Vanilia Editrice, 2012). Nel 2014 è apparso sulla antologia Poets of the Italian Diaspora (“Poeti italiani della diaspora”) pubblicata dalla Fordham University Press di New York – insieme ad Alfredo de Palchi il Piazza Nicolai è il secondo poeta della regione veneta inserito in quella prestigiosa antologia. È membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Culturale della Comunità dei Ladini Storici delle Dolomiti Bellunesi e nell’autunno del 2017 sarà direttore della “Accademiuta Ladina de l’Oltrepiave”. Di prossima pubblicazione L’Apocalisse e altre stagioni e Quatro àne de poesie ladine.

adeodato piazza_nicolai

Adeodato Piazza Nicolai                      

Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Secondo Adorno «Il frammento è l’intervento della morte nell’opera. Col distruggere l’opera, la morte ne elimina la macchia dell’apparenza».1

Il discorso poetico di Adeodato Piazza Nicolai ha bisogno di uno scatto morale e umorale, nasce da un moto di indignazione e di rivolta, si sente che l’autore ama la poesia civile, che ha un tema ben circoscritto e nitido. L’autore ama la poesia a tema astratto; personalmente, preferisco quei luoghi dove l’autore si scopre, mostra i muscoli, mette in riga tutto il suo disdegno, lì a mio avviso ci sono gli esiti migliori; in molti versi l’autore non inserisce i punti ma, a mio parere, è come se ci fossero, la pausa del discorso viene spontanea. Di solito, nella poesia di oggi fondata sulla narratività l’apparizione degli inserti paratattici  indica che è imminente un sisma linguistico le cui avvisaglie si lasciano intravedere in alcune scaglie, in alcune tracce del linguaggio ridotto a lacerti aforistici, a strappi, a frammenti conflittuali che non chiedono di essere pacificati e composti ma di essere messi sulla pagina così come affiorano alla coscienza linguistica. Al fondo del principio costruttivo di questo sistema instabile e conflittuale qual è anche la poesia in italiano di Adeodato Piazza Nicolai, possiamo intravvedere, con una lente psicanalitica, una sorta di traduzione da un testo originario che è stato rimosso, o il bisogno di indirizzare la propria poesia a un autore venerato e preso a modello (ad esempio, Oriana Fallaci). Come ho avuto modo di accennare, si tratta di una scrittura che procede da una faglia originaria da cui deriva la frantumazione dell’universo simbolico altamente instabile. Del resto, Adeodato non fa alcuno sforzo per tentare di dare una sistemazione stabile o almeno apparentemente stabile alla sua costruzione poematica, anzi, certi strappi sono lì a dimostrarlo: cacofonici e indisciplinati essi tendono al disordine, si entropizzano e si disperdono, e l’autore ricomincia sempre daccapo, alla ricerca di nuove soluzioni formali e di nuove tematiche oscillando tra le sue tre lingue: il ladino, l’inglese e l’italiano, convinto, con Adorno che «un artista il quale creda di aver trovato il suo stile è con ciò già perduto».2

1 T.W. Adorno Teoria estetica, Einaudi, 1970, p. 514

2 Ibidem. p. 414

foto Renato Mambor 3

Renato Mambor

TRITTICO PER ORIANA FALLACI

I.

AGNIZIONE

Balcone assolato
Pansé iridescenti
Colomba immacolata
nel nido in attesa
Nuvole di cotone filato
avvolgono il sole che cade
Mi sento solo, sono il
tormento del microcosmo
Rileggo Oriana Fallaci
“La rabbia e l’orgoglio”
e “La forza della Ragione”
una orazione di Arianna
e la Cassandra di Firenze.
Ogni loro parola
cola dal vello del vero,
sembra manna avvelenata
avvolta in qualche mistero.
Se il passato richiama il futuro
allora cova guerre e pestilenze
povera gente e carestie poi
scoppierà l’apocalisse
come l’inverno postnucleare.
Resteranno particelle subatomiche
nelle radici dei cereali sepolti
nel disfacelo globale. Larve microchips
bucheranno forse la faccia butterata
del fu-pianeta bluverde dirottato
in compagnia delle asteroidi
in qualche altra galassia vagante …

.
II.
UN’ALTRA CASSANDRA

Oriana ha scritto “La forza della Ragione”,
oggi ascolto la forza della stagione
che spinge le zolle a spalancarsi per fare
spazio alla natura che spinge con rabbia
e sprigiona semenze sepolte in autunno.
Rifiuta la gabbia che l’imprigiona, urla
il diritto di libertà quotidiana. Nulla
la blocca o depista le radici assetate di
luce, di pioggia, di cielo. La spinta è ancora
incompresa dall’uomo che vuole piegarla
ai suoi desideri ma spesso senza successo.
Domina l’arte dell’insistenza che riconosce
il potere della natura madre-matrigna:
spinta irremovibile che fa fiorire fino alla
fine del ciclo naturale. Oggi ammiro l’incanto
di tutti i fiori sospinti dal sole e dal vento
baciati dalla pioggia che questa mattina
sospende l’ansia di qualche disastro causale
manipolato dall’uomo: la terza guerra mondiale
tra gli U.S.A. e Nord Korea, le tragedie degli
emigranti imbarcati su gommoni fatiscenti che
spesso affondano nel Canale della Sicilia. Ecc.,
ecc., ecc. … Arsure nell’Africa sub sahariana, guerra
civile nel Venezuela, mass-jailings in Turchia:
quante terribili macchinazioni dell’uomo fautore …

III.
ANCORA LA CASSANDRA FIORENTINA

Oriana Fa-la-ci: la “c”del coraggio.
Odiava la menzogna, rispettava
la paura, viveva ogni giorno la verità.
Da Firenze, la sua città, lavorava
nel mondo intero: in Europa Asia
le Americhe Indonesia Australia
tutta l’Africa il Medio Oriente e
specialmente la realtà mussulmana.
Nessun confine poteva fermarla
e verso la fine ha smascherato il vero
nemico dell’Occidente: Allah e Corano.
La Cassandra fiorentina ci ha avvisato
Scosso, arrabbiato, incoraggiato a
vedere la verità ma pochi l’hanno
ascoltata, assecondata, capita.
I ciechi non hanno voluto vedere
i sordomuti non sentire né parlare
e le cicale sempre più ambigue si
sono girati dall’altra parte. Meglio
la fine della nostra cultura, l’arte
e la letteratura; veder saltare in aria
le nostre cattedrali, campanili,
ville, giardini con le bombe di Osama
e del Califfato della morte. Ficcare
le teste sotto la sabbia invece di dare
sfogo alla giusta rabbia e all’orgoglio
che ci apparteneva una volta. E i
potenti papaveri-padroni dei salvagente
privati sono spariti nei paradisi fiscali
lasciando la plebe a morire di fame.

Se ne fottono del pianeta morente,
svuotato delle risorse vitali, Basta
fare i soliti affari e sempre scansare
i barboni che infestano tante città.
Chi se ne frega della solita gente
che non ce la fa fino alla fine del mese?
Forse parla soltanto Papa Francesco,
voce dispersa nel vasto deserto del
menefreghismo, del populismo
salviniano, dell’euro scetticismo
lepeniano, del bipolarismo italiano
nel frattempo i monumenti sfaldati
le chiese svuotate, le sinagoghe segnate
da slogan nazisti e fascisti mentre
moschee vogliono dominare la scena
sul nostro stivale malmesso, incazzato
e sempre di più impoverito. L’unico dio
resta il denaro e la Fallaci sta meglio
sepolta e cancellata dalla memoria …

foto Renato Mambor 1

Renato Mambor

AVEVO SOGNATO

una visita a Casarsa ma eri già partito
con tua madre per Roma. Ti sei
fermato a Bologna a salutare un amico
che era già morto da tanto tempo
eppure
viveva nelle tue poesie. Dopo
decenni d’indicibile dolore
in fine anche la vita ha fatto a pezzi
il tuo cuore. Rimani come pensiero
a forma di rosa. Pier Paolo,
chissà se dove tu ora riposi
non fiorisca un rametto di spine:
speranze di pace. Addio e sogni
tranquilli ma senza squilli dai ladri
padroni
e soprattutto senza quisquiglie…
soltanto bisbigli. Sussurrami
ancora, mio amato
compagno di lotte incomprese …

ANDREA, DI CERTO MI SENTI

Caro Zanzotto, appena terminati
gli scavi anali vesuviani di Pompei
tutto ricomincia da capo di nuovo.
Sono scappato nel bosco degli urogalli
per dialogare con Mario Rigoni Stern.
Mi guida e consola con il suo silenzio
immanente-trascendente immediato.
Lo ascolto mentre sopra la testa
sorvola e canta un cardellino: qui non
s’annidano allodole né usignoli, ma
qualche volpe un cerbiatto e forse l’uomo
del tuo Altipiano che ausculta, piange,
gioisce. Bambino, tendevo col vischio per
portarli a casa (gli uccelli), innamorato
della loro suprema sinfonia. Oggi dei
contrabbandieri ancora beccano uccelli
e le bestie del bosco. Meglio vederli volare
brucare e sentirli in piena libertà. Pure
tu, Andrea, amavi Soligo, Solighetto e certi
paesani tranquilli, in pace con se stessi:
immersi-sommersi nel cosmo dietro casa.
Mi sento troppo lontano da quel passato
strozzato da realtà postmoderne-virtuali
al posto di rare verità virtuose.

GRAZIE, “TARGIN”

Defecare è un traguardo irraggiungibile
grazie al “Targin” prescritto dal neuro-
patologo (dopo la visita dal pneumologo)
per combattere dolori di una
neuropatia, etiology unknown. Pericolo
di assuefazione? Risponde il dottore:
“Pericolo minimo. E’ un oppiaceo sin-
tetico…” A casa consulto il bugiardino.
Avvertenze e Precauzioni: Si rivolga al
medico o farmacista prima di prendere
“Targin” –: (1) il medicinale può alterare la
capacità di guidare veicoli e di usare macchinari;
(2) — in caso di pazienti anziani o debilitati (deboli)
(3) – se soffre di ileo paralitico (un tipo di os-
truzione intestinale causata da oppioidi); (4)—se
ha insufficienza renale; (5) – se soffre di insufficienza
epatica lieve; (6) – se ha insufficienza polmonare
grave ( per es. ridotta capacita respiratoria; (7) – se
la sua ghiandola tiroidea non produce abbastanza
ormoni (insufficienza tiroidea o ipotiroidismo); (8)—se
le sue ghiandole surrenaliche (surreali?) non producono
abbastanza ormoni (insufficienza surrenalica o morbo
di Addison); (9) – se ha disturbi mentali accompagnati da una
(parziale) perdita di senso della realtà (psicosi) dovuta da
alcool o dall’intossicazione con altre sostanze (psicosi indotta

da altre sostanze); (10) – se soffre di calcoli biliari, (11) – se
la sua ghiandola prostatica è ingrossata in modo anomalo
(ipertrofia prostatica; (12) – se soffre di alcoolismo o delirium
tremens; (13) – se il suo pancreas è infiammato (pancreatite);
(14) – se ha la pressione bassa (ipotensione); (15) – se ha
la pressione alta (ipertensione); (16) – se ha patologie cardio-
vascolari preesistenti; (17) – se soffre di epilessia o ha crisi
convulsive. Ho citato soltanto metà. Spaventano
abbastanza anche i meglio informati. Rimane
la mia tragicommedia: defecare è una pena
inconcepibile, riempie il paziente di vergogna.
Come si fa ad inghiottire un farmaco cosi?

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Angela Greco, Fuori le mura – POESIE INEDITE, con una Nota critica di Mario M. Gabriele un Appunto di Giorgio Linguaglossa sulla Rappresentazione e una riflessione dell’autrice

foto-tritticoAngela Greco è nata il 1 maggio del ‘76 a Massafra (TA), dove vive con la famiglia. Ha pubblicato: in prosa, Ritratto di ragazza allo specchio (racconti, Lupo Editore, 2008); in poesia: A sensi congiunti (Edizioni Smasher, 2012 di cui è in preparazione la seconda edizione); Arabeschi incisi dal sole (Terra d’ulivi, 2013); Personale Eden (La Vita Felice, 2015); Attraversandomi (Limina Mentis, 2015, con ciclo fotografico realizzato con Giorgio Chiantini); Anamòrfosi (in uscita per le edizioni Progetto Cultura di Roma con prefazione di Giorgio Linguaglossa). È presente anche in diverse antologie e in diversi siti e blog.

È ideatrice e curatrice del collettivo di poesia, arte e dintorni Il sasso nello stagno di AnGre (http://ilsassonellostagno.wordpress.com/). Commenti e note critiche ai suoi versi sono reperibili all’indirizzo https://angelagreco76.wordpress.com/.

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Mario M. Gabriele

 Nota critica di Mario M. Gabriele (dicembre 2016)

Nella raccolta inedita dal titolo Fuori le mura del 2016 di Angela Greco, la tipologia linguistica, moderna e per frammenti, punta tutto sul fermo immagine, nel tentativo di recuperare universi statici e in movimento, con proprie frazioni temporali e metaforiche. La parola poetica si forma ad ogni scatto di foto flash, mentre lo sguardo si fissa sulle “facciate in ristrutturazione”, su tutto ciò che proviene dall’esterno. E’ un reportage multiforme, coloristico, percepibile come illuminazione del momento nel tentativo di scoprire l’attimo ineffabile, fluidificante fra soggetti e oggetti. L’occhio è il periscopio puntato sul mondo. Le campionature dell’esistenza, polverizzate dal tempo giacciono su un terreno deflorizzato, tornando a esistere nel momento in cui il Vuoto, la frantumazione, il senso deleuziano di una “totalità perduta” finiscono di essere tali, per integrarsi nel corpo dei frammenti, che ridanno essenza, all’assenza, in un viaggio della mente e della psiche. Qui “l’effetto di superficie” diventa armonizzazione delle cose, categoria rifondatrice della materia, volontà di ricostruire tutto ciò che resta nel cuore e nella mente. Non c’è bisogno delle narrazioni, perché il discorso si affida al frammento, che svolge un ruolo di determinazione delle cose, con piccoli squarci dialogici, in una spirale di frantumazioni e di intuizioni che si fissano in una sorta di fotoni poetici.

Il postmoderno ha ucciso i cantastorie e gli aedi del lirismo. Si è istituito così l’ideale storico della liberazione da ogni contatto con la metrica, che governava rigidamente la struttura del verso nel Novecento. Oggi il criterio di validazione di un testo poetico, non può prescindere dalla ricostituzione della parola, che resta l’unico mezzo progettuale del divenire poetico. La modernità culturale lo esige. Profondità e altezza si annullano con una descrizione del mondo esterno e di quello interno nella configurazione della realtà attraverso i vari stadi, provvisori e fluidificanti. L’autrice annota tutto questo con ritmo crescente, misurando la propria lunghezza visiva su sfondi catarifrangenti formalizzati poi con i versi.

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Angela Greco

Nota dell’autrice.

Queste composizioni inedite narrano incontri e situazioni reali e realmente accadute, che a loro volta hanno rimandato ad altri luoghi anch’essi spesso reali, ma ancor più simbolici e metaforici, inseriti per rimando d’immagine, mischiando soprattutto i piani temporali.

La scelta del frammento si è adattata alla perfezione all’esigenza che da tempo avevo di rendere materialmente il problema del tempo sfuggevole e fuggente e del ricordo.

Il momento, l’attimo, fosse del ricordo o dell’emozione, ho ritenuto opportuno renderlo in frammenti appunto, in flash, come fossi un fotografo, che sceglie (perché la stesura di un verso comporta delle scelte precise, delle decisioni da prendere) lo scorcio più idoneo, il taglio, l’angolazione, l’esposizione e solo dopo scatta la foto, dove “scattare la foto” qui sta per imprimere l’attimo su un supporto.

Rimanendo nell’ambito delle scelte, per me la poesia è simile ad un taglio chirurgico, dove il chirurgo, deve sapere con esattezza dove incidere e ridurre al massimo l’indecisione (mancanza di decisione o indeterminatezza, ossia mancanza di definizione e torniamo così ancora all’immagine, che deve essere definita, precisa, e non generica) pena la vita del paziente. Così in queste poesie: i luoghi, i tempi, gli spazi, sono identificati con precisione, per catturare – non senza sforzo s’intenda – quel momento e non un altro; il momento preciso rimasto in me e che l’elaborazione-sedimentazione ha restituito soltanto dopo in poesia.

giorgio-linguaglossa-15-dicembre-2016Appunto di Giorgio Linguaglossa sulla «Rappresentazione»

Il tratto caratterizzante della forma artistica del Moderno va individuato, secondo Foucault in quell’opera fondamentale che è Les Mot et les choses, nel concetto di Rappresentazione (Darstellung) attraverso la diagnosi di Las Meninas di Velazquez. I termini del problema sono presto detti. Si rappresenta l’atto stesso della rappresentazione: pittore, tavolozza, grande superficie scura della tela rovesciata, quadri appesi al muro, spettatori che guardano; da ultimo, nel centro, nel cuore della rappresentazione, vicinissimo a ciò che è essenziale, lo specchio, il quale mostra ciò che è rappresentato, ma come un riflesso così lontano, così immerso in uno spazio irreale, così estraneo a tutti gli sguardi volti altrove, da non essere che la duplicazione più gracile della rappresentazione.

Tutte le linee del quadro convergono verso un punto assente: vale a dire, verso ciò che è, a un tempo, oggetto e soggetto della rappresentazione. Ma questa assenza non è propriamente una mancanza, è piuttosto quella figura che “nessuna” teoria della rappresentazione è in grado di contemplare come suo momento interno. La caratteristica della rappresentazione alle origini del Moderno sta dunque nel fatto che il soggetto della rappresentazione, il produttivo “fuoco” che la sorregge, le coordinate, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa.

L’absentia segnala dunque in Foucault la chiusura di ogni representatio. Nessuna teoria della rappresentazione è, in quanto tale, in grado di includere nel suo circolo il Soggetto-sostegno della rappresentazione. L’osservatore, per cui la rappresentazione è allestita, non può osservare se stesso, ma solo il suo simulacro, o, come in Las Meninas, la sua immagine riflessa nello specchio. La forma-poesia dell’età moderna rientra in questo schema epistemologico: il soggetto viene ad eclissarsi, viene detronizzato della sua presunta centralità e la sua visione diventa strabica, eccentrica, parziale, s-focata, fuori fuoco, fuori gioco, insomma, non è più centrale, ha perduto la sua centralità… ma questa intrinseca debolezza del soggetto, della centralità del soggetto, invece di rivelarsi una debolezza ontologica può, paradossalmente, riabilitarsi in una nuova volontà di potenza, in una nuova messa a fuoco del problema della rappresentazione e del soggetto che sta al di fuori di essa. In una parola, in una continua de-angolazione prospettica tipica delle moderne (o meglio post-moderne) forma-romanzo e forma-poesia.

È proprio il concetto di de-angolazione prospettica quello che vorrei mettere a fuoco nella poesia di Angela Greco. La de-angolazione prospettica in un testo letterario fa sì che si ha un inizio ma non una fine, non solo, e che all’interno dello sviluppo della rappresentazione non si dà un filo conduttore stabile ma un susseguirsi di punti di vista, di angolazioni prospettiche che confluiscono in un sistema di scrittura caratterizzata dalla multi prospezione prospettica; particolarità costruttiva che investe sia la forma-poesia che la forma-narrativa odierne.  Caratteristica della poesia di Angela Greco è il suo procedere per «tagli» dell’oggetto, per sovrapposizioni e accostamenti di «pezzi», e successivo montaggio, per dis-locamento dell’io parlante, per «slittamenti» frastici, per «sviamenti» e «deviazioni» dall’ordito principale del discorso; c’è insomma, una dis-locazione, un andamento a zig zag, che va di qua e di là, che porta il discorso poetico attraverso deragliamenti di significati e di direzioni, quasi che il senso, se senso c’è del discorso poetico, fosse possibile afferrarlo soltanto tramite una serie continua di deviazioni e di smarcamenti dal filo del discorso, mediante illogicismi, inserzioni di onirismo, di surrealtà, di fatti del quotidiano, di relitti linguistici che galleggiano in un mare di prosasticità.

 

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Angela Greco

Angela Greco

Incontri urbani

Il cerchio perfetto dei tuoi occhiali
è sottrazione d’azzurro,
segna il confine dell’immagine riflessa
che accoglie il flash della macchina fotografica.
(Il fondale è lo spazio tra gli alberi
e la città in lontananza)
Nuda esco dalla Tempesta.
Settembre. Il giorno ha precisione meteorologica.
Il metal detector passa attraverso il suono delle campane.
Il treno esce allo scoperto lungo il muro disegnato.
Due file di auto e aceri a mosaico. La visuale.
Ti seguo.
In mezzo, un discorso sulla poesia.
Prima strada a sinistra. Facciata in ristrutturazione.
Le porte da saloon dell’ascensore stridono
e lo specchio ci riflette nei due angoli opposti.
Un metro quadrato fa procedere lentamente il tempo,
mentre al muro bianco si alternano vetro e luce.
Sesto piano. Rumore di chiave nella serratura.
Due porte. Corridoio con libri. Finestra aperta.
Interno giallo con legni scuri. Finestra chiusa.
Stapelia Variegata apre il suo fiore fuoristagione
e non ha più importanza quel che accade all’esterno.
«Sono uno dei tuoi angeli relegati in Paradiso».
Ridi.

Il nono secolo è stato un tempo di battaglie, per me;
per te, il tempo del testo kashmiri e della sua filosofia.
Uno di fronte all’altro: clangore di spade e fruscio di pagine.
Le porte del tempio di Giano ancora aperte
oggi si chiudono in questo inizio. Siamo il passaggio
e la doppia fronte nel suo significato originario.
Il Novecento è la cicatrice ombelicale da disinfettare,
perché si occluda e possiamo allora dirci adulti.
Procediamo un millennio alla volta: il terzo,
dall’anno 753 dalla fondazione di Roma, ci sorprenderà.

 

Tra me e dio

Di quante parole ha bisogno un dialogo?
Pavimento coperto da schegge di vetro.
Lo specchio rotto e l’immagine in frantumi.
Guardo in basso. Ogni frammento amplifica la visione.
Black out. La midriasi svela una presenza.
Pugni chiusi. Prendo la direzione opposta.
In silenzio. Ascolto.

Siamo nel 1987. Giugno. L’ulivo è in fioritura.
Non ci sono nuvole dopo pranzo. Passeggiamo.
In lontananza la strada scende verso il vigneto.
Il cane abbaia ad un’auto di passaggio. Io gioco
a raccogliere le pietre lisce verdi e grigie del fiume
che nasconde la sua acqua in profondità.
Siamo nel 1987. Sto imparando a scrivere.
In quel preciso momento abbiamo smesso di parlare.

Ho incontrato Dio una notte del 1928. Primi giorni di gennaio.
Mi dissero che era nato da poco.
Ebbero paura morisse subito, la mattina stessa del parto.
Per questo giunse a gennaio.
Mi domandai dove fosse l’altra metà da cui anche quel dio era nato.
19 ottobre 1959. Paese in festa. Le campane suonano alle 11.
Sono passati cinquantasette anni e trenta secoli
dal giorno in cui le due parti si sono ricongiunte.

Pagina bianca. Mitra uccide il toro. Qualcuno muore sempre.
Dalla giugulare fiotta la fertilità della terra. Pagina scritta.
Ogni dio ha un sacrificio da compiere. Il mio è vivere.
L’immortalità è scrittura nell’agonia del foglio immacolato.

Ultimo atto. Quattro i cavalli e quattro i colori. Sette i sigilli.
Il giorno successivo al primo flagello ho imparato a cavalcare.
Una filastrocca scioglie la lingua e segna la strada.
Primo giorno di scuola. Finestra aperta. Siedo nel banco
vestita di bianco e tu sorridi lasciandomi la mano.
Dio è una promessa di ritorno.

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Angela Greco

Strada senza uscita

Da tre anni aspetto la fioritura dell’iris aucheri
affresco di Tebe e gioia del giardino del faraone,
introdotto in terra egizia dalla bella Siria.
Aspetto la scia colorata della buona notizia
l’attimo preciso in cui rileggere la carta delle vie
e lasciare alle stelle la decisione dell’esito finale
di questa strenua battaglia che lo specchio conosce.

La finestra è aperta su un nuovo documento word,
ultima versione, stessi caratteri, spaziatura e margini.
La seconda finestra si apre su una strada senza uscita.
Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto di bestia macellata annuncia la notte.
Il toro muggisce nel recinto di pietra all’ombra del castello:
il compianto è per un’altra morte, questa volta
non è Ignacio a lasciare la scena eppure l’odore è lo stesso.

La camicia azzurra stirata alla perfezione
induce ad allontanarsi dal tuo petto
per timore che linee segnino il desiderio.
Basta una stretta di mano, affare concluso
senza altre parole si stipula il contratto:
coltiveremo iris e alleveremo bovini per gli dei.
Ci occuperemo anche della morte,
in un secondo momento.

Il castello è chiuso al pari di un ufficio comunale.
A questo si riducono i viaggi, alla burocrazia.
Riprendo il cammino con l’indice tra le pagine
e mi fermo al quadrivio segnato dalla croce.
Leggo ancora un verso, quello in cui descrivi la città
e tutte le variazioni del suo nome. Siamo ad Oriente
e il ritorno all’ora legale affretta la sera e le sue ombre.
Scrivo un altro rigo seguito da puntini sospensivi.

Le colombe al mattino tubano sul balcone.
Il computer illumina la stanza centrale della casa.
La mattina inizia sempre con il caffè amaro
ed una lettura che mi restituisce il sogno.

 

Fuori le mura

Crollano all’esterno del palazzo
le mura, il re, pietre e attese.
Si spezza dell’abito dai bordi d’oro il filo
con cui era unito alle sete. Cadono bottoni.
Il telaio s’inceppa sull’ultimo punto:
un giorno di novembre ed un ritorno.

La regina ed i suoi enigmi destano Salomone.
Possono disconoscersi ed invertire i ruoli:
lui farà domande e lei avrà saggezza, ma
il deserto non cambierà la sua natura
e della sabbia si occuperà la carovana.
La notte segnata dalla stella riconduce a casa.

Living con divano in pelle e libreria. Terzo ambiente.
Orologio fermo all’ora del decesso. Dodicesimo anno.
La data immobile sul calendario dice che è dicembre
nuovamente il quindici.
Come numeri dalla faccia d’un dado, ha detto il poeta,
mentre imperterriti perdiamo tempo in domande inutili,
distraendoci con risposte di comodo.
Ricorrenze

#1

Novembre è entrato alla tua uscita
per fumare e telefonare.
Ha posto due domande:
«Continuare fino alla fine?»
«Fermarsi al 23, mercoledì, ore 19 e 40?»

La pioggia mi sorprende a ridere
incredula della voce alla compieta,
preghiera esaudita, immagine nitida
nella sera incipiente. Poi la cena, per prassi.

Si è abbreviata la distanza dalla luna.
Nuovi eventi hanno permesso l’avvicinamento
e non occorre più rivolgersi ad alcuna agenzia.
Per esplorare il cosmo basta guardare la foto:
quella dove stringi tra le mani l’ultima ora del giorno.
#2

«Dimmi cos’hai»
40 anni. Una penna. Fame.
Il libro degli astri. Un ricordo.
Scegli.

«E cosa vorresti?»
Un biglietto per l’Orient Express.

La voce legge Tranströmer:
un chiarore blu…una fessura
attraverso la quale i morti
passano clandestinamente il confine.
Mentre ci diluiamo con le ore della notte,
una lampada velata aspetta l’alba.

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci,  Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Altri interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it.

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Ubaldo de Robertis, SEI POESIE INEDITE sul Requiem di György Sándor Ligeti (1923-2006) (1965): Immagini di un Universo, e Kósmos (κόσμος) “ordine”, “Prima che…” sul tema dell’Assenza; “L’Anfora” sul tema della frattura/incomunicabilità, e la penultima sulla questione del tranello in cui può facilmente cadere l’artista, lo scienziato, l’innovatore: “I fantasmi della mente”. L’ultima dedicata a: “Theodor Franz Eduard Kaluza” ; con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Ubaldo de Robertis ha origini marchigiane e vive a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore), e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero, (Puntoacapo Editore). Nel 2014 pubblica: Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore. Ha conseguito riconoscimenti e premi. Sue composizioni sono state pubblicate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. E’ presente in diversi blogs di poesia e critica letteraria tra i quali: Imperfetta Ellisse, Alla volta di Leucade, L’Ombra delle parole. Ha partecipato a varie edizioni della rassegna nazionale di poesia Altramarea. Di lui hanno scritto: S. Angelucci, Pasquale Balestriere, G. Linguaglossa, Michele Battaglino, F. Romboli, G.. Cerrai, N. Pardini, E. Sidoti, P.A. Pardi, M. dei Ferrari, V. Serofilli, F. Ceragioli, M.G. Missaggia, M. Fantacci, F. Donatini, E.P. Conte, M. Ferrari, L. Fusi, E. Abate È autore di romanzi Il tempo dorme con noi, Primo Premio Saggistica G. Gronchi, (Voltaire Edizioni), L’Epigono di Magellano, (Edizioni Akkuaria), Premio Narrativa Fucecchio, 2014, e di numerosi racconti inseriti in Antologie, tra cui l’Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) a cura di Giorgio Linguaglossa.

ubaldo de Robertis foto

Ubaldo de Robertis

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Ha scritto di Ligeti Andrej Ždanov:

«Pur essendo ateo, l’ungherese György Sándor Ligeti (1923-2006) scrisse due veri e propri capolavori di musica religiosa: il Requiem, per soprano e mezzo soprano solista, due cori misti e orchestra (1963-65) e Lux æterna, per 16 voci soliste (1966). Quest’ultima originariamente apparve quale sorta di coda del Requiem, traendo l’impostazione da antiche messe per i defunti. Del resto Ligeti era affascinato dall’opera del compositore fiammingo Johannes Ockeghem (1410-97), che per primo impostò il requiem, e sulla cui opera il Magiaro affermò: “La continuità incessante della musica di Ockeghem, un progresso senza sviluppo, per me è stato un punto di partenza onde pensare in termini di strutture impenetrabili del suono”. Il critico statunitense Alex Ross, facendo riferimento a Lux æterna e Lontano, per grande orchestra (1967) scrive: “Il punto fermo della ‘musica più elevata’ è mantenuto in Lux Aeterna e al brano orchestrale, Lontano, a cui fa riscontro. Entrambe le opere hanno il carattere di oggetti occulti, o di paesaggi da sogno in cui il suono diventa una superficie tangibile”. A fine anni Sessanta, Stanley Kubrick aveva assunto il musicista Alex North (1910-91), allo scopo di comporre una partitura per 2001: odissea nello Spazio, e lo incoraggiò a copiare la musica ligetiana. Però il regista restò insoddisfatto dal lavoro di North, quindi lo licenziò e pose nel film brani di Ligeti, senza chiedergli l’autorizzazione: Requiem, Lux æterna e Atmosphères che lottavano nelle scene con il classicismo di Aram Chačaturjan, Johann Strauss figlio e Richard Strauss. Dopo la proiezione inaugurale negli Stati Uniti (1968), un amico di Ligeti gli scrisse per informarlo che era uscito un film in cui si udivano tre sue composizioni.

Quando Ligeti partecipò alla prima viennese, restò comprensibilmente scioccato nel rendersi conto che la musica era stata utilizzata piratescamente, sia pure citata da Kubrick nei titoli di coda. A conclusione d’una lunga battaglia legale l’MGM fu costretta a pagare i diritti d’autore minimi. Nonostante ciò Ligeti espresse ammirazione per l’opera: “In Kubrick, Ligeti ha riconosciuto la volontà di esplorare e assumersi rischi, una preoccupazione instancabile per il dettaglio e la maniacale ricerca della perfezione, simile a quella di Ligeti stesso”.

È essenziale sottolineare che senza le musiche di Ligeti la pellicola sarebbe stata del tutto inefficace. Tali composizioni rappresentano non solo una parte della colonna sonora, ma permeano di spessore onirico l’intero film».

Non deve quindi fare meraviglia se la musica di Ligeti abbia lasciato una impronta profonda in un poeta come Ubaldo de Robertis il quale è un Ricercatore chimico nucleare e quindi anche un uomo di scienza. Ripeto da sempre che oggi la poesia deve guardare attentamente al linguaggio della musica più alta, al linguaggio dei fisici teorici, deve aprirsi alle suggestioni delle nuove scoperte nel campo della astrofisica, stiamo per entrare, come hanno detto Roger Penrose e Stephen Hawking, in un’epoca di rivolgimenti nella concezione dell’universo, rectius, degli universi, o meglio, del multiverso; le nuove tecnologie: la nano tecnologia e la bio tecnologia avranno ripercussioni gigantesche anche nella nostra vita quotidiana, nella nostra vita di tutti i giorni, e la poesia non può restarsene a guardare, o meglio, ad ignorare l’avvento della imminente nuova rivoluzione copernicana senza trovare in se stessa la forza per porsi in discussione e rinnovarsi, rinnovare il lessico, il metro, il tono, la gittata stessa della immaginazione. Consiglio quindi di leggere queste poesie di Ubaldo de Robertis ascoltando la musica di Ligeti che l’ha generata per diffrazione ed entropizzazione sonora, per risonanze acustiche e con la quale si trova in rapporto di magica affinità. Poesia che diventa un «pensiero rammemorante» che procede per «riverberazioni», linee eccentriche continue e sfumate, con le parole di Ligeti: mediante un «progresso senza sviluppo», una linea ondeggiante e iridescente, riverberante  che si scrive nel mentre che traccia la partizione dello spazio negli spazi innumerevoli e nei tempi innumerevoli che scorrono in una lamina sottilissima tra due membrane gigantesche…. «fra ombre continuamente dirette verso un altrove», «particelle minime vaganti spiragli acustici cromatici», «come             se non fossero frammenti» «ma apparenze / astrazioni che  toccano / oscuri timbri / tasti segreti / sentimenti risonanti» «Sull’orizzonte degli eventi». Sono convinto che un poeta incontra la poesia quando stabilisce un orizzonte posizionale dal quale guardare l’orizzonte ontico. Ora, non è che ogni epoca ne dia a iosa di codesti «orizzonti posizionali», essi sono in numero limitato, ed alcune epoche non ce l’hanno affatto. Ed essi, soltanto essi permettono lo scoccare della scintilla della Forma poetica.

Poesie di Ubaldo de Robertis

Immagini di un Universo

Immagini di un Universo
inaccessibile
pur se ogni oggetto è lì per riferire
che esiste
obiettivamente
come esistono corpi celesti astri
paesaggi sonori
anche se non li perlustriamo
uno ad uno
anche se non li osserviamo
direttamente
per la fitta coltre della separazione

è il cartesiano ego
principio intrascendibile
che lo costituisce
la coscienza e i suoi modi di cogliere particolari
particelle minime vaganti spiragli acustici cromatici
inaggirabili nello spazio là fuori
[quale fuori?]
come se non fossero frammenti
di sangue e carne
ma apparenze
astrazioni che toccano
oscuri timbri
tasti segreti
sentimenti risonanti
ora che nessuno ha più l’ardimento
di difenderli
di evocare
azzurre lontananze

All’improvviso
il violento sollevarsi di echi
estemporanee sferze di suoni remotissimi
folate di vento armonie sonorità pioniere
un maelström di echeggi e noi
uditori esterrefatti
osservatori
increduli vibranti
qui sulla Terra in superficie
torniamo
ad incontrare noi stessi
riverberati in quello spazio
da cui ci eravamo indolentemente
esclusi

Ecco dinanzi ad occhi
stupefatti
si spalanca nuovamente
l’inesplorato.

.
Kósmos (κόσμος) “ordine”

Sulla scia di oggetti sfuggiti dal tunnel quantistico
mai stati in contatto [ fortuito ]
con il cono di luce
incapace di comprenderli
fra ombre continuamente dirette verso un altrove
ai margini di stati di vuoto
che si negano al riempimento
in regioni dello spazio-tempo oltre le quali cessa
ogni possibile osservazione
la piccola grande visione della musica
con le sue partiture cosmiche
dissonanti variazioni
nella loro successione
che si scostano poco a poco dal tema dominante
fin quasi a stravolgerne l’assetto
sa parlare da sé
al più appariscente astro dell’universo
e all’atomo più piccolo e lieve
fa apparire come fosse ordinato
l’insieme di mondi nello spazio sparsi
soggetti ad evolversi a modificarsi
fa apparire come fosse organizzato
il moto di particelle elementari
ognuna con il suo singolare modo di vibrare
Sull’orizzonte degli eventi
così distante dal linguaggio che lo rivela
l’infinita mente grande [ e lontano ]
e l’infinita-mente piccolo [ e recondito ]
varcano l’universo mentale
irrompono come un respiro [o un soffio]
sulla sfera della coscienza
presenziano al nostro inquieto movimento
e con esso fino allo stremo
al nostro continuo mutamento.

Prima che…(Il demone dell’Assenza)

Rahko dipinga di nero la Luna
prima che
venga a mancare quel desiderio familiare
goduto poi perduto

Il demone dell’Assenza
immagine senza ombra
ti farà rincorrere qualcosa
che altrimenti si dissolverebbe
continuerà ad illuderti
di riavere ciò
che ti era appartenuto
A quest’ultima attesa si appiglia
il pensiero rammemorante
che si capovolga in pieno
questo vuoto
l’assenza in presenza
sino a pervadere
il Tutto
Intanto Piru continuerà
a fare impazzire le fanciulle
che si ubriacheranno
e si esibiranno in atti osceni
che tutti potranno guardare e sentire
affinché anche le vedove torneranno a sposarsi
In fondo l’angoscia ha il suono
/o il non suono/ della mancanza
un vuoto che non vuole
essere colmato.

* le parti in corsivo sono tratte (liberamente) da: Gli dei di Hame e di Carelia di Mikael Agricola
Ubaldo De Robertis legge.

L’Anfora

Neve in alto
pura
la terra natia
la gola scura
del fiume in basso
la foschia
continua a salire
il sentiero non è più tanto ripido
come prima
l’eco di cose lontane si separa sparge
dissolvenze incrociate
immagini destinate a scomparire
Lui… non le stacca gli occhi di dosso
– Com’è cupo il tuo silenzio- le dice chiamandola con molti nomi
“È rotta, – ripete Lei- ahimé! È rotta! L’anfora più bella!
Ne sono sparsi i frammenti qua intorno!”
Giorno
inoltrato
il limite dell’orrido
di lato
più in su … l’altura da oltrepassare
più agevole scavare un pertugio
nel ghiaccio
scortati dal richiamo di una cosa calda
desiderio che pervade l’ambito dei sensi
e quello della ragione
senza aderire
a nessuno dei due
calore che non si può attingere neppure in prestito
dall’ambiente
dal niente che li circonda
Lui vuole scavare
andare all’indietro
Lei… andare oltre…
Impossibile sanare la frattura
a partire da quel fondo diviso
dal corso d’acqua
e da quella cima dove più cruda è la realtà
nemmeno scalfita dalle parole dell’uomo
di per sé vaghe e vuote
alla donna continuano a cadere di mano
i frammenti raggelati
“È rotta, ahimé! È rotta!
L’anfora più bella!

I fantasmi della mente

Bellezza
origine e ultimità del cosmo
in occhi verdi
sognanti
il nastro della felicità
tra i capelli
nessuna asperità
nessun affanno interiore
volgere via lo sguardo
chiamarlo altrove
lei non vivrebbe di là dalla cornice
lungo dirupi
sentieri non tracciati
in cerca del rimosso
l’impensato
il mancante
le cose che si lasciano intuire
quelle invisibili
segrete
A volte
si riesce a vedere prati fioriti ovunque
svelare il turbamento
le cose che non si fanno riconoscere
e che non ti riconoscono
Altre volte
la realtà si avvicina
si rivela troppo in fretta
il talento la amplifica
così il pensare fuori dagli schemi
le idee oltre misura estranee
alla tradizione
esuberanti
inusuali
fermenti eccessivi
fulminei
i fantasmi della mente tendono
un’ imboscata
Dici di stare in guardia?
Da cosa?
Dall’euforia? dall’assillo?
La depressione La mania?
Le allucinazioni Le ossessioni?
La fobia?
Le torbide passioni ? L’isteria?
L’ansia di draghi rossi e salamandre
che gettano fuoco su di te
A volte
capita di udire
da lontano
una musica che copre l’ inquietudine
qualcuno ha l’impressione
che siano gli stessi soggetti
a seminare paure e a comporre musica
E’ successo a Robert Schumann
rinchiuso in un istituto mentale
di Bonn
le partiture deliziose
le note che ci ha affidato
e le paure
dell’acqua
degli spazi aperti
delle altitudini
paura di essere
avvelenato
diventare un altro
e avvertiva il suono
continuo
“di lontani ottoni
che diventava coro di angeli
che cantavano una melodia
che lui inutilmente
cercava
di trascrivere”
E non aveva ricevuto
il bacio
da Anne Sexton
i nervi sono accesi e
il compositore è entrato nel fuoco
dove fa il nido la salamandra
a corto di veleno
e il pieno il drago rosso
improvvido custode del vello
d’oro.
La tua idea fissa è
che quelle pennellate
evidenti
fioriture nel dipinto
e quel volto sublime
ti volteggino intorno
offrendoti le più sorprendenti
rivelazioni
e tutto con una musica
idilliaca
di un pianoforte
/che per la gente normale
può tacere tutta la vita/
magari quella musica è
un Improvviso in do maggiore di Schumann
La fanciulla con il nastro turchese
tra i capelli
sorride

.
Theodor Franz Eduard Kaluza

Dimensione spaziale
aggiuntiva
invisibile
arrotolata su se stessa
grani minimi di spazio
di tempo
di luce
a costituire il mondo
lumi in un cantuccio
organo e vecchi dischi
odore risvegliato di cere
in quest’ombra
aggrovigliate ripercussioni
risuonano sui vetri delle finestre
riecheggia in pieno sole
il rammarico d’essere vecchio
per dilettare l’ orecchio
smorto l’organista
fuori di sé
senza il mantello scuro da concerto
sullo scranno scarlatto
braccia prese da un moto irrequieto
ma è musica già registrata
non può dal vivo conseguire
le dimensioni nascoste
del cosmo
dell’esistere
predire il futuro
ora che il destino più non esiste
come un lampo improvviso
cade sui tasti del suo strumento
seguito dal tuffo dei portoni
serrati con brutalità
tutto si placa all’interno
ristagna l’esile fumo di incenso
che l’organista soleva separare
con le proprie mani

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Annamaria De Pietro DIECI POESIE EDITE E INEDITE “Poesie affogate al caffè” “Poesie da camera” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

pittura Bauhaus.
Annamaria De Pietro è nata a Napoli, dove ha vissuto fino all’adolescenza, da padre napoletano e madre lombarda. Vive da tempo a Milano. Ha cominciato a scrivere non occasionalmente, ma sempre, in età matura. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005), col quale  paga il suo tributo alla città d’origine, poco amata, mai più visitata. Nell’ottobre del 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012). Ultima pubblicazione, Rettangoli in cerca di un pi greco Il Primo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2015).
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città Tomas Saraceno

città Tomas Saraceno

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
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Come ha osservato Adorno, la «musica da camera», con il salotto decorato con mobilio d’epoca grande sufficientemente da ospitare invitati scelti, è un genere che appartiene al passato. Analogamente, la poesia, la quale presuppone il classico letterato occidentale che si dedica alla lettura nella sua stanza ben rifornita di libri. Entrambe queste precondizioni (un salotto, l’esibizione di aristocraticismo e il tempo libero) sembrano più essere una caratteristica del passato che non del presente e del prossimo futuro. È molto probabile che le condizioni della lettura di un libro di alta letteratura siano oggi precarie forse ancor di più che nel recente passato, per via delle intervenute modificazioni della identità dell’uditorio mediatizzato. Già il rotocalco e il paperback sembrano regesti del passato trascorso a confronto con i diletti del monitor che già un’ombra di nostalgia vela quegli oggetti ricoperti di polvere sottile. Una «poesia da camera» sofisticata, algida e distaccata come questa di Annamaria De Pietro fa l’effetto di un elettroshock, è smaccatamente anacronistica, perché presuppone un pubblico colto dotato di sofisticati congegni di decrittazione delle opere poetiche che oggi non c’è più. Tuttavia, benché anacronistica ed elitaria, questa poesia si pone nella sua indecrittabile avvenenza come una bellezza indesiderata tra le nostre braccia. Non sappiamo più come comportarci dinanzi ad un tale rigoglio di stile e di stilizzazione. La poesia veramente emancipata si pone a noi come un punto interrogativo, richiede la nostra esclamazione, risveglia i nostri dubbi, non convince, non vuole convincerci né persuadere; non c’è alcuna tesi, tantomeno alcun messaggio, né in bottiglia né per via postale. L’«inquadratura» di questa poesia è descritta con severo ordine geometrico e matematico, sintattico e paratattico; anche le rime sono artatamente poste e intermesse non per stordire il lettore con la loro dolce eufonia quanto per ricreare le condizioni musicali di una atmosfera, che altro non è che un effetto di lontananza che appare, miracolisticamente, vicina; magia da baraccone dell’arte poetica divenuta merce e ridotta a intrattenimento. La poesia di Annamaria De Pietro pronuncia, con lo strascico delle sue vesti raffinate e ridondanti, un verdetto di condanna, o forse di estraneità rispetto al mondo, dubitosa sulla emancipazione dell’arte dal mondo delle merci linguistiche, poiché essa è sempre in procinto di ricadere nella volgarità kitsch che ha sede nell’emporio e nei telemarket. Ribellione alla prostituzione dell’arte poetica con un di più di solipsismo e di elitarismo, un sussiegoso distacco dal banale.
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Ecco, annoto che dietro la restaurazione di questa tecnologia stilistica la De Pietro intenda la conservazione di quell’eredità culturale che è svanita da un pezzo; ma non vedo come si possa conservare ciò che è svanito se non istituendo la sovranità di uno stile che tutto occupa, che occupa un territorio che è stato abbandonato in maniera precipitosa e affrettata. Questo, credo, sia il nocciolo dell’operazione stilistica della poetessa napoletana, autrice del libro in dialetto napoletano (Si vuo’ ‘o ciardino) del 2005, più bello che abbia mai letto.

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annamaria de pietro 2010 febb

annamaria de pietro 2010 febb

Annamaria De Pietro

Poesie affogate al caffè

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Inquadratura

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Nel quadro largo non da finestre o persiane
luce fa mutazione come in un vero giorno,
né troverebbe intarsiature, né spigoli,
per mutazioni da caso a forma – intorno
un’aria uguale solo consiste nel limite
tracciato a china o a pennino da musica
tanto ne è netto il tratto, righe fra angoli.
Su uno sgabello lei – non si vede schienale –
volta la testa a sinistra, nella tastiera
di uno strumento da grembo – se ne vede l’estremo corno –
cercando le sue medesime dita come in stipite
il calare e il montare di un ragno che carica
filo alla rete dentro un congegno atonale.
Al lato sinistro, a filo esatto della sedia,
in forma di soffietto aperto un cane di taglia media
– i manici il muso e le zampe –, triangolare il contorno,
a lei guarda convergendo lo sguardo alla filiera –
se ne incordano uguali gli sguardi nella statica
forcella di aspettazione tacitamente uguale.
Perché io non sento suonare in questo quadro d’inedia
che le aste azzurre che segnano ora quel quadro nitide,
e solo questo so io, fuori da sensi e simboli,
che lei suona di schiena, e che l’assolve un cane.
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(inedito)
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Scatti ovvero sbagli tattici

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La regina muove il cavallo in alto
alla sella d’avorio in angolare
tratto doppiato, piú lungo, piú breve,
o piú breve, piú lungo, e dello scatto
scattano i festoni cambiando vento
secchi e lei volta lo sguardo di scatto
senza voltare il volto di ossa e neve,
e di novanta gradi la circolare
corona sposta le piastre di smalto.
A due colture sta il campo, di lieve
salvia e di caffè d’oltremare,
e ognuna alle cinte ferma di scatto
il reclinare iniziale che seguí il salto
del cavallo stretto a briglie e a frontale.
La regina asseconda il cambio lento
di un minimo moto dell’anca, e greve
poi segue il passo di scatto in scatto
minimo al luogo di massimo risalto.
Lei guarda in sola forma sagittale,
lei non accorda un’altra via di evento
alla sua caccia d’angolo che deve –
lei guarda in forma cinta lo scatto
minimo a forma cinta da spalto
d’ebano del re d’ebano immortale
nella sua casa aperta di spavento.
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(inedito)
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Cilecca

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Imbracciato il fucile, l’alta obliqua
amazzone mirò nel cervo all’acqua,
zoccoli chiusi nell’erba, e dall’occhio
chiuso fuori di mira un raggio a specchio
all’occhio aperto che sfondava il cerchio
a imbuto della mira una risacca
obliqua come suono dall’orecchio
sventò cadendo di lato dal tacco
della distanza l’alto al basso, pecca
di precisione da olio liscio a morchia,
e il piombo spaccò a mezzo una siliqua
che a un ramo verde inclinava la stecca,
fuggendo il cervo alla selvosa cerchia
a esedra aperta per zoccoli e tocco
nel suono d’eco lunga di cilecca.
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(inedito)
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Notturno con tè e civetta

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Nelle foglie del tè per sguardo acuto
la civetta notturna alla finestra
larga all’aria d’estate spia le sorti
non vista, grigia matassa nel nero
confine al davanzale, e dentro tocca
il secco delle tazze cui il tributo
d’amicizia a ora incongrua un tè leggero
vanno versando al fresco della bocca
lei e lei – alto silenzio. Aromi forti
eludono la paglia fine, a fiuto.
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(inedito)
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Una pianificazione perfetta
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Di tutto il tempo perso, mentre l’anima mundi
prosegue ipnotica la sua selvatica
carriera di coerenze, e mentre il merlo
fischia di becco la musica al ramo
– lei non sa dire, ché a lei la nube oscura
questo schermo perfetto. Poi vederlo
sarà mossa del poi dalla grammatica
spaziata d’archi e orologi a richiamo
silenzioso, per ora, sprezzatura
di martelli sommersi nell’incudine.
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(inedito)
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foto le maschereCombattimento al campo del vento e della luce
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Questo è un tempo ventoso – io non ho armi
contro il suo grande andare – e intese falci
di ferro freddo radono e rasoi
tutto il fogliame della luce, i tralci
che tardano a mollezza il chiaro – marmi,
e acciai feroci scoprono a grand’aria,
delle folte pellicce abrasi i cuoi,
le gelate cotenne – e senza intralci
splende in clangore l’alta luminaria.
Io non ho armi, vana sagittaria,
non ha centro il bersaglio – per disarmi
in sé si elidono i cerchi scorsoi.
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(pubblicato in “Il monte analogo”, I, 2, novembre 2004)
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Maddalena e l’uomo strano.
Detto e contraddetto
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Io presi amore dentro un uomo strano.
Lui portò via con sé la mia bellezza
per vie di palme che davano frutta,
e dava frutta al muro il melograno
a noi, a quegli altri – non ricordo i nomi.
Ai miei capelli spargevano aromi
le scie leggere della bianca brezza
di sera, ma non sciolse mai la treccia
lui, solo il vento, tendendo la mano.
Non mi toccò, finché toccata tutta
fu la sua strada forte di amarezza
e toccò il tronco secco e senza pomi.
– Non mi toccare – disse. Io tesi invano
la mano ripiegando la carezza
come dopo le falci arpa di grano,
come dopo le piogge foglia asciutta.
Ora in deserti di selvatichezza
io spiego a me la perfezione brutta
e lui la toccherà, stando lontano.
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A volte li ricordo, i sontuosi
capelli troppo accarezzati, troppo
torti nei ganci. Io non sapevo come
fare a disfare il troppo denso groppo
dai campanelli e i pettini d’argento,
l’amo degli occhi che serrava il becco,
le mani strette ai nervi faticosi.
E quelli mi guardavano a commento –
– di uno soltanto mi ricordo il nome.
Non la toccai. Mi contentai del vento
mano di foglie di un albero secco
e saltai l’aria dal mio fianco zoppo.
A volte la ricordo, ma non sento
altro oltre i ganci del vento, corrosi
sui polsi trapassati da uno stecco.
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(pubblicato in “l’immaginazione”, 233, settembre 2007)
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Belinda e il mostro.
Detto e contraddetto

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Quell’altro amai, quell’attimo soltanto
quando la pelle ocellata d’infame
bestia cambiò dentro il mio sguardo chino
come nell’acqua il vento che si posa.
Fu solo allora, senza schermi e presto,
che conobbi il padrone del giardino,
il creditore della giusta fame,
colui dai cui rosai rubò la rosa
ultima e prima il mercante. Chi è questo
che sta nel quadro dell’onore in posa,
le scarpe a zampa di leone, il cane
danese al fianco come Carlo quinto?
La rottura del patto io qui contesto,
la forma che cambiò da cosa a cosa,
da fronda franca in oro di catene,
stretta la vasta distanza vicino
dove tradendo va chi va chi viene.
Non perdona a costui la triste sposa,
non lo scusa il suo sguardo, e non rimane
del furto e amore rinchiuso in un gesto
che una spina inchiodata dentro il guanto.
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Io chiedo scusa di averti amata tanto
dal fiore dello sdegno, amara sposa,
tanto da uscire il varco. Era vietato
il varco del giardino, era altra l’aria
che a me urgeva i tuoi passi. Ma la rosa
la confusi col legno, e confinato
fu il fascio dei rosai a stanza contraria
dove non sei. Fu brevissima cosa,
fu brevissima danza che soltanto
un attimo danzammo persi accanto
e poi voltò come si volta e svaria
nell’acqua il vento. E ora senza fiato
al quintuplice vanno di un’esplosa
granata presa in libertà gregaria
a me vanno imitando la speciosa
rosa di mercanzia, soldo rubato,
i cani ai lunghi guinzagli nel guanto.
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(pubblicato in “l’immaginazione”, 233, settembre 2007)
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Biglietto d’invito a santa Teresa d’Avila
per condividere una bibita fresca
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Vorrei che fosse in settembre o in aprile,
quando l’aria di dio abbassa la musica,
dentro un portico d’ombre bianche e nere
– e ocra quanto una noce. Sarei davvero felice,
Teresa Cepeda da Avila, suora carmelitana,
se tu ed io potessimo incontrarci una volta
– gonne fruscianti delicati inchini,
scarpe da strada, borse da viaggiatrice,
in pausa ognuna dal suo calendario.
Ma tu non mi parlare dell’angelo balestriere
né dell’architettura dei giardini –
né io ti parlerò del dizionario
e dell’architettura dei giardini –
cosí la voce nella voce si ascolta.
Ce ne staremo noi fra il giorno e la sera
alle cadute d’angolo di una tovaglia sottile,
i limoni tagliati a metà nella linda fruttiera
e la conca di acqua e rame che bilica
vibrando a pelle freddo fresco divario
una confinaria legge della fisica.
Staremo quasi in silenzio, nell’ora mediana.
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(pubblicato in “l’immaginazione”, 233, settembre 2007)
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La vergine di Norimberga
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Includendo attentamente sé stessa
lungo cerniere ferrate nel legno
con chiodi retroversi si castiga
l’assai perfetta vergine tedesca,
la contegnosa e purissima, e a sdegno
tiene le lance del lanciere, e l’esca
che volta ad arco la ripida riga
del pescatore in agguato. Suo pegno,
suo stemma comitale di contessa
è l’armeria che difende il suo regno
nello specchio di scatole riflessa.
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(pubblicato in “l’immaginazione”, 233, settembre 2007)

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Ubaldo de Robertis POESIE SCELTE Inedite “Ad immagine dell’infinito”, “Il presente, la sola dimensione”, “A Max Frisch”, e una poesia edita “Da Diomedee”, (2008) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Henri Matisse - 1939

Henri Matisse – 1939

Ubaldo de Robertis ha origini marchigiane e vive a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore), e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero, (Puntoacapo Editore). Nel 2014 pubblica: Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore. Ha conseguito riconoscimenti e premi. Sue composizioni sono state pubblicate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. E’ presente in diversi blogs di poesia e critica letteraria tra i quali: Imperfetta Ellisse, Alla volta di Leucade, L’Ombra delle parole. Ha partecipato a varie edizioni della rassegna nazionale di poesia Altramarea. Di lui hanno scritto: G. Linguaglossa, F. Romboli, G.Cerrai, N. Pardini, E. Sidoti, P.A. Pardi, M. dei Ferrari, V. Serofilli, F. Ceragioli, M.G. Missaggia, M. Fantacci, F. Donatini, E.P. Conte, M. Ferrari, L. Fusi. È autore di romanzi Il tempo dorme con noi, Primo Premio Saggistica G. Gronchi, (Voltaire Edizioni), L’Epigono di Magellano, (Edizioni Akkuaria), Premio Narrativa Fucecchio, 2014, e di numerosi racconti inseriti in Antologie.

Henri Matisse - 1947

Henri Matisse – 1947

Commento di Giorgio Linguaglossa

Non siamo alla teatralizzazione delle vicende private dell’io come avviene nella poesia frequentata in Occidente nell’epoca della stagnazione spirituale e della straordinaria leggerezza dell’essere, e neanche in un sotto-genere, in quello che elegge il «tu» quale destinatario di testi-missiva. Ubaldo De Robertis opta per l’esplicita forma dialogica e parla con il lettore, un misterioso «implicito», una specie di «doppio» (?) della propria coscienza, ovvero, con il lettore spettatore. De Robertis racconta sempre un evento preciso (un non-detto, un implicito) con il massimo risparmio di parole-cornice, ecco la ragione della incisività del verso lineare di questa poesia, che termina proprio lì dove deve terminare, ma il significato è nel verso successivo, si nasconde in una omissione, in un segmento omesso, nella elusione, nel non-detto. Il lettore viene posto davanti ad un evento-racconto, il non-detto, l’inesplicito. Non c’è un versante edificante in questa poesia, il lettore non viene disturbato da eccessi enfatici, e questo è un punto a vantaggio dell’autore che mostra una sicurezza di dizione e una icasticità del lessico di accorta fattura. È una particolare poesia di inazione, di impliciti, di non-detto questa dell’autore. Non si tratta, credo, soltanto di un metodo di composizione ma anche e soprattutto di un metodo di addestramento alla vita, esercizio militare dell’anima.

Se prendiamo la composizione base della poesia di Ubaldo de Robertis, ci accorgiamo che l’autore compone come riprendendo il filo di un discorso abbozzato in precedenza. Si può leggere la poesia di de Robertis a ritroso, dall’ultima alla prima composizione e nulla cambierebbe del senso complessivo, perché non c’è un senso, ma una serie di sensi. Le composizioni entrano subito nel tema dialogico: c’è l’introibo ad un oggetto eisistenziale, per lo più un «negoziato» con il lettore.

Henri Matisse 1941

Henri Matisse 1941

C’è una componente «sacrale» in questo metodo ma è un «sacro» nutrito di falso e inautenticità. «Non si dà vera vita nella falsa», ha scritto Adorno in tempi non sospetti in Dialettica dell’illuminismo (1947). Nel frattempo, il mondo è diventato integralmente falso, e l’«io» ne è una degna protesi, il «tu» è una immagine posticcia, che non si sa quando sorge e quando non sia più una proiezione dell’«io». E così via. Il segreto forse si cela nell’assenza, nell’impronta, nella traccia. E sarà compito del lettore esercitare l’indagine nell’atto della lettura. Direi che in questo genere di poesia è prioritario l’atto della investigazione. La poesia si costruisce come interpretazione del non-detto, del non-accaduto. Il  momento dell’analisi precede appena d’un soffio il momento della deduzione; l’analisi è, insieme, retrospezione e prospezione, osservazione del dettaglio e visione dell’insieme, visione panoramica dell’io e del tu. Di qui l’abbondanza di deittici e dei sintagmi segnaletici dei luoghi.

Una procedura sottoposta alla logica della sintassi. Il metodo di scrittura di Ubaldo de Robertis consente lo scorrimento delle proposizioni, è una procedura che rimanda ai rapporti di inferenza e inerenza tra le proposizioni, un percorso duale, relazionale dal quale ciò che si è definitivamente assottigliato sembra essere la «sostanza», la stoffa delle relazioni umane. La stessa abbondanza di deittici, dicevo, cioè di quelle unità pronominali e avverbiali che si possono rintracciare in questa poesia, sono una spia delle relazioni spaziali e temporali che si organizzano intorno al «soggetto», che costituisce il principale punto di riferimento, il semaforo «significazionista (?)» e relazionale delle composizioni.

Ubaldo de Robertis

Ubaldo de Robertis

Poesie di Ubaldo de Robertis

(A Max Frisch)

Mare e cielo adunati in un unico sguardo,
visione maestosa, sublime. Ritta sullo scoglio
una minuscola figura, si toglie il cappello
alzandolo il più possibile per sventolarlo.
E non ci sono vele all’orizzonte, angoli ristretti, relitti,
solo stupore, a Palavas, con cui riempirsi gli occhi,
ebbrezza che in un uomo ordinario sparisce.
Non in Courbet. Fierezza, monumentalità,
unisce a quella solitudine, della sua luce
penetra il mondo che si schiude al modo di uno scrigno
e ha bisogno della luce del mondo per esistere.

Nel retroterra un uomo è diventato pietra.
Medusa non l’ha guardato, chissà perché è impietrito
e a che fine le ombre s’intrecciano sul capo anguicrinito,
quale identità lui che, forse, ha conosciuto
molti luoghi in cui fermarsi per rendersi invisibile.
Chi è? Ha forse consumato per intero il respiro?

Lo spazio intorno trasfigura per la rapidità
con cui sfilano tram, un continuo va e vieni.
Uomini che si muovono come nuvole incombenti,
senza avvertire d’essere anelli di una catena casuale,
e persistono ancora… a passare. Forme dissolventi.

Pura casualità l’incontro. L’altro non deve tornare,
prendere una via, ripartire all’istante:
“Non stavi per caso fuggendo dalla sventura?
Per quasi tutto il tempo della vita io l’ho sfuggita
riducendomi in solitudine.”
Amnesia di esseri e luoghi.
Agli uomini comuni poco è concesso di chiedere, o sapere,
arduo trarre inferenze, deduzioni.
Immagini indurite, alterate, confuse con quelle di altri.

Quei peli di un rosso chimico slavati, gli occhi azzurri
iniettati di ruggine, l’arcata inferiore sporgente,
sulla fronte appena percettibile il segno di una cicatrice.
Il tempo estatico dell’insurrezione delirante
ti può esplodere in faccia, auto-annientare, come l’esaltazione
di Corbet per la Comune, pagata a caro prezzo.

Nessuna espressione, ansia di abbandonare le tenebre,
persiste la storica immobilità.
E quel suono alto nell’aria? Un nuovo espediente?
Solleva il Quartetto per Archi l’alto sentire, l’Opera 132,
quanto di più solenne e impenetrabile ci sia nel Genio,
afflitto da ipoacusia. Musica, tempo di redenzione, dell’utopia.
Nessuno che sia disposto ad accoglierla.
Nessuno che sappia congiungersi con Beethoven.
Suoni, segni, e note, alte in numero sempre minore,
condurranno a un raggiro.
L’ assurdità è che uno ha coscienza della propria vuotezza
e l’altro, annichilito, non ha un’identità.
Ma se nella tasca interna della sua giacca scovate un biglietto,
solo andata, per Amsterdam,
Signori, non dubitate quell’uomo sono io.

Henri Matisse 1939

Henri Matisse 1939

*

Il presente: la sola dimensione.
E ha perso il nome, l’essenza, causa sui
e per l’azione di famulus miserandi
fautori dell’espansione, corruttori d’identità.

Fletto la passività, sfato la connessione,
frantumo gli argini, l’indolenza
che assume valenza metafisica.

A lungo fu il grigio degli sguardi
ora un piccolo astro rosso lucente
lumeggia nella mente come esigenza
di un luogo limpido, nuovo, d’aria e di luce.

(contro-voce)
Senza paesaggio che lo distingua,
con troppi punti di approdo,
troppi crocevia da oltrepassare.
Una trappola claustrofobica.
La fiera globale non è poi
così male, spinge lo sviluppo,
riduce la povertà, vale l’adagio
del sempre ci sarà chi affligge
e qualcun altro che sarà oppresso,
e poi… esiste la libertà intera?

In mare o terra, scortato dal miraggio
seducente, fra l’istante di un crollo
nell’abisso e il ritorno alla vita,
lascia dall’altro lato il servaggio,
l’inedito è di fronte, l’impazienza di scoprire
la propria identità,
l’idea di sé difforme dagli altri,
e di sé attraverso il tempo. Sincronico
e diacronico, – direbbe Saussure.

Co-abitare l’isola, antica come il mito.
Perché nessuno la nomina?
Perché gli echi sono inaudibili?

In quell’arcaica natura in cui si raccolgono
le ombre, mani come rami stringono altre mani,
arbusti sempreverdi, compatti, ricadenti sulla terra
vermiglia, s’ incontrano fra spigliate fioriture
di intenso color lilla, rosse bacche fragranti.
Una sorta di Origine.

E c’è chi, affrancato, scuote le catene,
festosamente, chi sente come un’epifania
la contorsione di quel corpo accorso
dietro una promessa che l’animale-uomo
è legittimato a fare: das versprechen darf.

Certi danzano, ridono,
altri parlano un lessico ermetico, inconsueto.

E’ forse necessario un nuovo linguaggio?
Un idioma segreto?

Co-abito l’inquietudine, il dubbio
che tradisce, scruto in faccia l’incertezza,
per capirne il senso.

La mancata dialettica non lascia individuare
inediti scenari, antidoti alla coazione a ripetere,
/vero elemento demoniaco/, la dimensione
dell’agire, saggiare la vertigine della libertà
che ad ognuno dovrà rivelarsi.

Majakovskij tuonava:
/Noi la dialettica non l’imparammo da Hegel //
quando sotto i proiettili /dinnanzi a noi
fuggivano i borghesi,//

Qui, alcuni fuggono, ripiegano,
tenendo in petto, semplicemente,
il senso di vertigine, il mancato riscatto.

Arretrano. Volgono i passi,
si consegnano alla prassi.

E i crolli?
Le macerie ammassate sulla via?

Eretto intorno all’isola, o forse nella mente,
l’archivolto azzurro-cielo sorregge l’utopia
perché il mondo non sia più
come un non so che di apparente.

L’esperienza gradualmente si invera.
In evidenza l’effettiva identità, la memoria,
stili di vita relegati ai margini,
in penombra le paure, le perplessità,.

Per gioia ogni voce diventerà riconoscibile.
Nessuno incererà “de’ compagni/senza dimora/
le orecchie”, per godere la bellezza del canto
delle sirene, più deliziose che mai.
Nella congiuntura le incantatrici ritroveranno,
definitivamente, la loro dionisiaca voce.

Henri Matisse - 1923

Henri Matisse – 1923

*

«La clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo
capovolta e tu con essa..
Friedrich Nietzsche: La gaia scienza

Ad immagine dell’infinito

La gravità zelante di un valletto, in ombra,
sul cono più alto, stagnante, ad ogni soprassalto.
Estraniato. Nella bonaccia. Sul palcoscenico di vetro
si illude di mandare fuori tempo il congegno.
Tempo rubato. Dilazionato.
All’improvviso si sente mancare la terra sotto i piedi,
mentre si avvicina alla gola che apre al sottomondo segreto,
non può tornare indietro, sospinto, a capofitto declina
in tante traiettorie frenetiche, sul fondo,
stilla come sangue da una stretta ferita,
scontroso, perché sa che non potrà abitare
le stesse posizioni ogni volta che la clessidra
sarà sovvertita.
Ma c’è qualcosa che lo umanizza,
che oltrepassa e trascende il tempo.
Perduto?
Ritrovato?
O un irreversibile salto verso il nulla?

E rovesciato, nell’aria, inizia un nuovo ciclo
verso un tempo nuovo di cui è arduo carpire l’intensità
di ciò che passa, o anche la tenuità,
difficile esibire immagini coerenti della nostra presenza,
scoprire un’effettiva, reale, misura interiore,
per comporre tutti questi frammenti(di sabbia)
in pensieri dicibili.
Dicci pure, Louis Borges: fu realmente di miele
l’ultima goccia attingibile della tua clessidra?

(Inedite)

da: Diomedee, Edizioni Joker, 2008

Aghi d’albero gomitoli senza nome
flutti di acque verdastre mormoranti
angoli asciutti sabbie delicate
falesie bianche
spiagge curvate come lame
come dame stanche

Isole che gareggiano per bellezza
con ogni terra ferma
isole di leggende di storie
isole di memorie senza vele
Isole invisibili di croci
Isole senza voci.
Isole dei fuochi silenziosi
dei sentieri di pietra
dei monoliti dei ciclopici massi
dei taglienti sassi

Isole delle notti tolleranti
di sconsolate amanti
Isole dove siamo nati
dove siamo approdati
dove abbiamo vegliato
dove abbiamo cantato
Isole dove abbiamo pianto.

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POESIE INEDITE di Tiziana Antonilli con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

Fayyum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

Tiziana Antonilli ha vinto il Premio Montale per gli inediti ed è stata inserita nell’antologia dei vincitori  “7 poeti del Premio Montale” (Scheiwiller), tre sue poesie, in seguito a selezione nazionale, sono entrate a far parte di altrettanti spettacoli teatrali allestiti dalla compagnia Sted di Modena. Il suo racconto Prigionieri  ha   vinto il Premio Teramo (Presidente Giuseppe Pontiggia). Ha pubblicato le raccolte poetiche Incandescenze ( Edizioni del Leone ), Pugni eHumus (Tracce) Suoi testi poetici sono presenti in  diverse antologie e riviste letterarie. Ha pubblicato il romanzo di denuncia  Aracne (Il Bene Comune). Insegna lingua e letteratura inglese  presso il Liceo Linguistico Pertini di Campobasso.

tiziana antonilli

tiziana antonilli

Commento di Giorgio Linguaglossa

Cara Tiziana,
le tue poesie mi riescono familiari ed insieme estranee. Mi chiedo: come può accadere questo? Come può accadere che alcune cose che tu dici, pur se non le capisco (letteralmente), riesco a sentirle perché mi sembra di averle vissute? Forse, sono le parole a tradirci, o perché troppo usate, e quindi non più significanti, o perché estranee, e quindi insignificanti. Ma, appunto, non è la parola «insignificante» quella che meglio ci attraversa? Quella che meglio sentiamo nostra? Come nella poesia di apertura di questa tua silloge di cui presentiamo i primi quattordici pezzi, dove c’è qualcosa che mi sembra di aver già vissuto, detto e pensato. Così è che la poesia passa da un autore ad un lettore, quando c’è dissimmetria e diseguaglianza tra i due poli, quando stiamo su piani diversi di una medesima realtà. Usare le parole in poesia corrisponde, il più delle volte, a scrivere una musica per dei testi che non comprendiamo o non comprendiamo fino in fondo. Voglio dire che tu sei riuscita, qua e là, a scrivere qualcosa che tu stessa forse non hai compreso fino in fondo. Ed è appunto questo ciò che passa al lettore, che lui sente davvero familiare. Scrivere poesia significa non dominare completamente il linguaggio (proprio il contrario di quanto ci hanno insegnato nelle università), anzi, lasciarsi andare, lasciarsi cullare da una musica strana che non comprendiamo, per dei testi che non capiamo, non dominiamo e che non avevamo preventivato.

 Fayyum femme portrait

Fayyum femme portrait

2.
Via Genova
La porta nascosta è socchiusa
– mi avevi detto in codice.
Percorse le scale
– di colpo libera dai lacci
come avevi deciso –
ho respirato la nostra casa
le mie orme e le tue
sul rapido ballatoio
per i bambini lungo come l’estate.
Ho lanciato poi a Gabriella
l’unico ricordo che conservo di lei
e dei suoi resti e
– messaggera del Tempo –
sono scesa.
Manca tutto – mi hai spinta.
Riafferrate le scale
posizionandomi come uccello notturno
ti ho intuita – calda e indaffarata.
E l’ho visto.
Stretto tra i palazzi
in affanno
i muri incombenti
ma salvo
il prato delle capriole.
Hanno cambiato colore
gli occhi di Faber, al racconto.
Ora so
che si entra
non visti.

.
3.
Boomerang
Opera e gioiello dei nativi
dicesti – mentre mi tagliavi in due
forse tre pezzi.

Si tinse d’arancio
e cominciò a sferzare l’aria
lanciato da due bimbi
compagni di gioco e di sangue.

Provai a ricomporli
ma uno dei pezzi del tuo massacro
respirava accanto a chi
anni e anni dopo quel dono
aveva deciso di andarsene.

Ora sai che forma
può avere una lama.

.
4.
Febbraio
Mese di progetti scaduti
di madri e parole scalpitanti
la città ostaggio
di mille cancelli di neve.

Febbraio a due facce
e a due graffi:
gelato il cammino del padre
che resterà solo.

5.
Scaduta è ormai la richiesta
spento il bruciore di cui crepitava la sera in fuga.
Quel solco è trincea
che più riempio più scavo
e allora ecco di nuovo l’urlo
riattraversiamo la ferita slabbrata
andiamo via di corsa – impauriti
non sapendo che lo spigolo aggirato
si fa poi chiodo in carne
viva.
Due anni hanno chiesto per trovare casa
le tue parole – eredità inattesa che mi scotta le dita
trovarle sulle pagine del Poeta che amavi.
Eppure avevi solo chiesto: vieni! Vieni!

Fayyum portrait d'homme (120-140 d.C.)

Fayyum portrait d’homme (120-140 d.C.)

6.
Ala
Come fornito di ala
frastagliata ma senza ingombro
verso la schiena incurvata da Insonnia
il tuo braccio.
Fluttuavi nell’ombra quindi
ma quel tocco era denso – era vigore
non saluto allora, il tuo no piuttosto
a un torpore che vedi in me che non vedo.
Tra braccio alato e spinta
corre il limite o azzarda lo spiraglio
il patto è non chiedere e non svelare
un fulmine illumina il bosco
ma non la lepre che tra gli alberi
corre con il cuore in gola.

7.
Incontro con l’Ombra
Proprio all’altezza dei gomiti preparavo l’abbraccio
di te già vibrava il mio fianco
ma per non svelare la nostra relazione
e per lasciarti nel cellophane del comune sentire
sono rimasta nel mio io.
Chi sedeva dietro di noi
mai saprà i tradimenti e le fedeltà che nutriamo.

E il mondo continua a girare
nell’assoluta certezza del sole.

.
8.
Non so se da stella polare
hai dimenticato le mie omissioni
fatico a calcolare
di quanto ti abbiano scavato la fronte.

Considerando ciò che è stato tra noi
anche se sposto e cambio l’ordine
quel meno a mio carico non si smuove
né si arrischia a guarire.

Sarebbe come portare l’est al nord
e aumentare alla vita i tornanti.

Meglio restare a stringerti le dita
non voglio che concentrata sul mio ri-andare
mi sfugga il tuo ritorno.

.
9.
Mi hanno detto che se lei cantava
tu percorrevi indaffarata le stanze
era simbiosi tra voi
tramite Adelmo certamente
con la cui vita la nostra si era già intrecciata.

Hai inviato la parola russa
che combacia con quella greca:
benché sottratta, respiri ancora
l’aria fredda di questa città
a metà strada fra il sole
che ti vide scalpitare di impazienza
e le pianure gelate di lei.

Tre mesi bastano a divaricare l’Amore
si parte con l’alfabeto delle coincidenze
si finisce con una mattonella rotta
sul pavimento – basta un passo più lungo
per non accartocciarsi.

 Fayyum ritratto femminile (120-140 d.C.)

Fayyum ritratto femminile (120-140 d.C.)

10.
Principessa
Cono gelato crema e nocciola
tu sulla strada che l’adolescenza
riempiva di corse e sudore:
ci siamo riconosciute.

Devi avere attraversato pianure immense
o quanto meno un muro blindato
per arrivare alle mie dita con tempismo perfetto –
raccontavo il tuo nascondimento
orgoglio di fronte alla morte.

Regale come allora
mi hai interrogata con il tuo verde acqua
vengo dal regno degli Altri – dicevi
che un po’ dormono un po’ scompigliano i capelli.

Andando via ti ho vista in trono
inseguirmi con i tuoi due sguardi.

Per ritrovarti sto sviscerando una strada
le traverse – gli angoli sottratti ai giardini.
Le notti. I decenni.

.
11.
Che fare?
Ora davvero non so
quale poesia leggere con te.

Ho imbandito una tavola a fiori
acqua e pane aspettando la tua energia
in un’ora imprecisata della notte.

Se il varco È
che cosa hai deciso?
Se sto infrangendo il cristallo di qualcosa
dovrei sentirne i frantumi
ascolto invece solo la canzone profonda dell’inverno
un ritmo di note basse
come quando si scosta la terra
d’intorno alla buccia chiara
delle patate scelte per la cena.

.
12.
Perdersi
I capelli fili elettrici
vi sostano pensieri nervosi e provvisori
gli occhi non più erranti per febbre
riflettono a malapena i lampioni serali
ristagna la voce che ieri si alzava
discorde e incurante.
Non arriva neanche la piuma
che prese in consegna
la partenza più amara della tua vita
né al blu si affianca la mano
che allora indicò il nord-est:
l’ora è immatura.
Il nome sì persiste
involucro funzionale alle ventiquattro ore
il resto si trova in garage
smontato
pezzo su pezzo.

Fayyum Portrait (120-140 d.C.)

Fayyum Portrait (120-140 d.C.)

13.
Vorrei
Vorrei tornare alla tua pelle
che sa di sabbia
tagliata in due
da una catenina d’oro
e dai miei morsi

ripercorrerne gli angoli
con dita umide
aspettando che oltre
la curva tiepida della schiena
arrivi anche l’anima

perché ti ho sorpreso e preso
in un moncone di notte.

.
14.
Soma 2
Quando precipita per dissonanza
e feroce si avvinghia
sempre alla stessa ora
del calendario urlo mai
più dovrai stringermi così forte
il respiro e dannarmi a sbagliare ritmo
a errare come quel battello ubriacato
da nostalgia e porti.

Al suo passaggio le punte
chiodate si spaccano
e inaugurano l’attesa
che libeccio le arrotondi
poi si tuffa nell’orrido
e ogni verde trema d’inchiostro.

Quello che dicono
sia di riserva
non aspettava altro.

Daccapo e ancora accapo.

15.

Ho visto l’agosto maturo
ma non ho difeso mia madre
è il fiato che va e viene – pensavo
e il fuoco mangiava ancora il Carso.

Quando ha ceduto in verticale
a una città vista sempre di schiena
guardando oltre la pioggia dicevi
che allontanarsi dalla luce
è un avvicinarsi visto da marzo
e covavi l’Evento
che per garantirti un nome
vedi da sempre annidato
nella regione più tetra dell’anno.

Stavolta c’è solo un rombo
che neanche il bambino più svagato
confonde con l’ennesimo temporale.

Solo tu non sai che gli aerei da guerra
sono già partiti.

avevamo preventivato.

1 Commento

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana

POESIE di Annalisa Comes AUTOANTOLOGIA da  “ouvrage de dame” (2004), da “Racconti italoamericani” (2007), da “Fuori della terraferma” (2013) Poesie Inedite

Fayyum ritratti di donne romane 120 - 140 d.C.

Fayyum ritratti di donne romane 120 – 140 d.C.

Nata a Firenze nel 1967, Annalisa Comes vive tra la Francia e l’Italia. Dottore di ricerca in Filologia Romanza e Italiana, specializzata in «Giornalismo e Comunicazione», attualmente svolge attività di ricerca fra l’università di Nancy (Lorraine) e Verona con una tesi di dottorato sulla letteratura italiana per l’infanzia.
Ha tradotto e traduce dal francese per le case editrici Le Lettere (fra cui : M. Cvetaeva, Il ragazzo Premio « Monselice-Leone Traverso Opera Prima » 2000, in corso di stampa la nuova edizione), Donzelli (fra cui Prosper Mérimée, Tutti i racconti, 2004 – segnalato al Premio Monselice 2005), Voland, Nutrimenti, Lantana. Ha pubblicato saggi e articoli su riviste italiane e straniere occupandosi di letteratura medievale e contemporanea (« Critica del testo », «Cultura neolatina», «Studi mediolatini e volgari», «Anticomoderno», «InVerbis»), di cinema e fotografia («Multisala International» e «The Scenographer»). Ha curato le poesie e le note filologiche dell’opera poetica di P.P. Pasolini per le edizioni Mondadori (I Meridiani 2003), l’edizione critica del poeta siciliano Rinaldo d’Aquino ( Poeti della Scuola Siciliana, Mondadori, I Meridiani, Milano 2008). Nel 2014 ha redatto l’Introduzione di Marina Cvetaeva, Lettera all’Amazzone, Editori Riuniti Internazionali, Roma (prefazione di Erri de Luca, traduzione di Angelo Pavia). In corso di stampa presso Lantana (Roma) la sua biografia di Astrid Lindgren Una vita dalla parte dei bambini.

Ha curato la prefazione del libro di poesie di P. Sanna, L’ombra dei minareti (Maremmi Editori, Firenze 2006) e la postfazione del libro di poesie della poetessa polacca Julia Hartwig Sotto quest’isola (Donzelli, Roma 2007). Allieva di Amelia Rosselli, ha vinto diversi premi di poesia tra i quali: Premio Internazionale «Eugenio Montale», «Dario Bellezza», «Giuseppe Piccoli», «Artisti di strada» e il Premio Speciale «Città di Roma» per la poesia 2007. Le sue poesie sono pubblicate da De Arte, Crocetti, Passigli, Empiria e su diverse riviste italiane e straniere («L’immaginazione», «Malavoglia», «Caffè Michelangelo», «Forum Italicum» di New York, «Corriere della Sera», «Corriere di Firenze», «Semicerchio», «L’Area di Broca», «Gradiva» di New York, «Nowa Okolica Poetow» in traduzione polacca; «Roman Law» in traduzione cinese).
Ha pubblicato le raccolte di poesia: ouvrage de dame (Gazebo, Firenze 2004 ; L’Harmattan, Parigi 2007 – Premio Internazionale «Anguillara Sabazia Città d’Arte»); Racconti italoamericani (L’Harmattan Italia, Torino 2007 segnalata al Premio di poesia «Opera seconda – Alessandro Ricci – Città di Garessio»); Fuori dalla terraferma, disegni di Fred Charap (Gazebo, Firenze 2011, Premio Nazionale «Alpi Apuane»; L’Harmattan, Parigi 2013). Nel 2006 ha pubblicato il cd Dal nuovo mondo, in collaborazione con il compositore Luigi Negretti Lanner (Lanner Edizioni). In corso di stampa presso la casa editrice Gazebo di Firenze (luglio 2015) la sua raccolta Il corpo eterno, con tre fotografie di Vasco Ascolini.
Ha organizzato e condotto il Corso/Laboratorio di scrittura creativa per bambini presso la Biblioteca del XII Municipio « P.P.Pasolini » – Roma (2008). È stata invitata all’Università di Cagliari (2009) dove ha tenuto due conferenze: « Scrivere per poesia » e « Didattica della poesia » ; nel marzo 2015 ha partecipato alla Table ronde Au croisement des langues et des langages con Fabio Pusterla e Mireille Gansel (organizzata da Claude Cazalé e Christophe Mileschi, Université Paris Ouest Nanterre La Défense) con un intervento sulla traduzione della poesia e la poesia di Jean-Claude Izzo. Fra il 2014 e 2015 ha organizzato, in Francia e in Italia, l’esposizione fotografica dal titolo «Sulle tracce di Tove Jansson nel centenario della nascita» (Ouessant ; Roma ; Vitré).
Nel 2014 ha vinto una « résidence d’écrivain » di quattro mesi presso il Sémaphore de Créac’h, Ouessant (Associazione C.A.L.I., DRAC Bretagna, Consiglio Regionale della Bretagna) dove ha scritto il poema Quand Jonas se cacha dans un ventre de pierres – Ouessant île-baleine, disegni di Fred Charap (pubblicato in parte nella rivista «L’Archipel des Lettres», giugno 2015).
Fa parte delle associazioni AAIS (American Association for Italian Studies) e AATI (American Association of Teachers of Italian) e per le quali ha partecipato, nel 2014 e 2015, alle Conferenze di Zurigo e Siena con interventi sulla letteratura per l’infanzia, in particolare la poesia e l’illustrazione.

Link
Sito internet di Annalisa Comes : http://www.annalisacomes.com
Sito internet di Fred Charap : http://www.fredstudio.info/
Sito internet di Vasco Ascolini : http://www.vascoascolini.com/
http://uneautrepoesieitalienne.blogspot.fr/search/label/Comes
Reportage su Ouessant : http://www.humboldtbooks.com/tag/annalisa-comes/
Dal cd «Dal nuovo mondo : https://www.youtube.com/watch?v=MtEQZfQ6mjM

Da  ouvrage de dame, disegni di Fred Charap, Gazebo, Firenze 2004 ; L’Harmattan, Parigi 2007 – Premio Internazionale «Anguillara Sabazia Città d’Arte»):

Annalisa Comes

Annalisa Comes

IV

una preghiera, una ancora
con la mano stretta
allacciata al muro, all’alloro
per dire
che tutto affiora,
così semplicemente
che i versi sono i versi
e la lingua mente o brucia
e non sa promettere
che un fascio di esercizi
nel quaderno verdesalvia
millenovecentonovantanove.

V

Prima,
ho salvato il tuo bicchiere
posandolo
pazientemente sullo scaffale
sulla mia eredità
sulle mie ossa.
Il davanzale
no, no
era il tuo sorriso
e gli occhi socchiusi
il mio parapetto
e la mia culla.
Ma ora hai rimesso quel debito
e questa stagione morde ancora.

.
VI

inganni del mestiere

eccola, la montagna incombeva
il ghiaccio attorto come
su una candela
Scorre giù
bruciando di nebbia
bianco e svogliato
La mia montagna che sale di metri
e riposa nel petto,
bucandone i lati

VII

giorno feriale
è il settimo
il settimo giorno dedicato a te
all’occhiello ben fatto,
al lacerto senza scorta
alla porta mal ridotta
al verde alloro che scotta
– scomunica il suo duro verde
i fili della trama che
forgiano i capelli
sono i miei steli, la mia
pelle, la scollatura della foglia
– aperta, scola e ammansisce
scombacia la mia nervatura
e scompare me – l’ordito.

****

Fayyum, ritratto femminile Mummy 120-140 d.C.

Fayyum, ritratto maschile Mummy 120-140 d.C.

Da Racconti italoamericani, L’Harmattan-Italia, Torino 2007; raccolta segnalata al Premio di poesia «Opera seconda – Alessandro Ricci – Città di Garessio»):
East side-west side

I

You dream a wounderful life
just down the corner
just down the corner
up to the hill
with pleasure fill
just down the corner
just down the corner.

Lingua metà oceano,
là una ragazza-madre porta il figlioletto in un parco pubblico.
Gli uccelli picchiano le tempie alle vecchie querce.
Sul verde acetoso della tela casalinga
un tosaerba canta,
disteso bocconi.

Là fuma un’officina di buon lavoro
e di mensa.
Sorride alle bufere del nord.
E tende abbassate, di sedie con foderine:
l’officina fuma per il caffellatte
fuma la vasca da bagno inglese
e soffia la sua aria di borotalco.
Soffia laggiù
sull’erbetta composta dal barbiere,
sulla collina di coda di aceri,
sul colonnato neoclassico della polizia,
sull’ovale di cuoio
lanciato dagli scolari dopo la scuola.
E il cielo splende
nella sua cortina di mattoncini rossi.

Soffia la luce color zafferano
nei caffè dove si incontrano dentisti
e cameriere con la gonna lilla al ginocchio,
e lo zucchero dell’applepie feriale,
e pensionati col libro mastro delle partite sottobraccio,
mentre nella hall di una pensioncina
tre vecchiette lavorano a maglia
e dentro profonde poltrone di chinz azzurro discorrono
della Pentecoste,
e di tanto in tanto graffiano di smalto
la tazza del tè.

Là una pozza in cortile
ricorda la seconda riva dell’Hudson,
la giacca appesa nell’armadio
la carta delle due Americhe
e un tassì attraversa sobri e ubriachi.

Così soffia la luce di vetro
dal bovindo
col suo tintinnio di cucchiaini da gelato
alle cinque in punto – pill,
sulla chiesa dalla schiena veneziana,

up to the hill,

e sulle begonie gialle, e i muretti d’alloro,
e sull’asfalto dal sapore di miele.

Una madre con la stella di david
appuntata sul colletto di seta azzurra
culla nella polvere
il carrello della spesa.
E si addormenta anche l’oceano
al ritmo del suo canto,
metà lingua.

Up to the hill
with pleasure fill.
Soffia il fiato della balia nera
che aggiusta quasi in corsa gli angoli della calza scesa,
soffia il caminetto sul calendario delle cascate d’Occidente,
soffia il melograno dietro le righe oblique dello steccato.

just down the corner,
just down the corner,
just down the corner.
A ovest, dove la memoria sa di metallo,
il dado è levato in cielo
e il cielo è di un pallido azzurro, ancora notturno.
Sfogliando il «New York Times» un uomo sente nel fruscio l’annuncio
del canale e sirene dei pompieri e grattacieli
e ancora, ancora più a ovest,
quando una specie di Titanic vira
sputando schiuma dalle bocche,
vede la donna di gesso che troneggia
colla sua fiaccola da negromante tra le dita.

 città di Fondi, ritratti muliebri

città di Fondi, ritratti muliebri

II

Oh honey, where is your man?
Honey, your man is just down the river
He is just down the river.
just down the river –
opposite side.

C’era la luna e la terra brillava.
Giù lungo il fiume alla mezzanotte.

– Non c’è –
– Non c’è –

C’era la luna e il vento di nord-est
e il cielo blu degli appuntamenti:
io aspetto, l’azalea rosa cucita al petto.
Le luci sono accese, i cortili muti
e una pioggia senza scrosci sull’oceano,
fin qui alla riva oleosa dell’Hudson:
una pioggia larga e possente
cola tra i neon, sul treno merci, sul giardinetto della vedova del pastore,
sul distintivo scintillante di uno sceriffo.
Dorme l’intera città:
nella sua coltre di benzina e trampoli azzurri
si seccano gli sputi sopra le stecche da biliardo.
Dormono i vecchi fiumi e le colombe bianche del quartiere cinese,
e le valigie del deposito 436,
il molo col suo ricamo di alghe e foglie di tè.
Giù, lungo il fiume, alla mezzanotte
aspetto, percorrendo col passo la notte calata:
troppo scuro per leggere un romanzo.
Aspetto sulla riva di acqua e cielo,
sulla banchina dello sbarco:
qui accanto la minestra cola dalla bocca di un vecchio ferroviere
cola a zig zag dal suo berretto la pioggia della metropoli
cola anche sull’ombrello nero aperto solo a metà
del ricco avvocato
e le gocciole rigano il colletto azzurro inamidato:
così tanto per vera democrazia.
Aspetto nella notte nera, come un uccello.
Tra i fanali dei bus, che fiottano
a ritmo l’acqua che sa di birra e lampone.
E guardo le lancette dell’orologio
e il cane che abbaia
e il fischio tra i denti di un potente swing.

– Non c’è –
– Non c’è –
Oh honey, where is your man?

Scuoto la testa,
l’aria è pesante di gomma e corda andate a male
sotto la luna si spande un buio già tutto invernale.
Al tavolo laccato di una stazione di benzina
aspetto, bevendo fino alla mattina.

Ricordo il bicchiere di quarzo tra le sue cinque dita.

Ah, non ho pazienza
non ho pazienza,
ma aspetto che la pioggia passi per uscire.
Non ho pazienza,
non ho pazienza,
ma aspetto che questa pioggia lenta passi la colazione,
e i nodi dei capelli:
una mosca ronza sul velo della camicia.
Non ho pazienza,
non ho pazienza,
si scioglie nella pioggia anche il giornale della domenica,
cola dal vetro l’acqua verde dell’oceano.
Non ho pazienza
non ho pazienza.
Batto col tacco le onde del linoleum,
brillano sulla tavola i cerchi dello zucchero a velo,
piove senza fretta
acqua dal rubinetto.

– Ah, non c’è –
– non c’è -.

Honey, your man is just down the river
He is just down the river.
opposite side.

Honey, lui (un tale del West) scende ubriaco
dal caffè saloon nella luce giallo limone
mentre un cane abbaia, e il fischio della metro
sale sulla collina insieme a un blues,
giù alla riva sinistra del fiume.
Siede da solo nel buio.
Sfoglia gli annunci del «New York Times».
Giù sulla riva opposta del fiume:
opposta, mentre lei lo aspetta invano.
III

Lingua metà oceano,
sulla terra dello sbarco e della profezia.
Passa nel canale sull’acqua di petrolio
un piroscafo di viti e bulloni, con la sua potente caldaia di ghisa.
East side-west side.
Passa col suo carico dividendo la città:
di tetti, asfalto, calce, pioppi.
Basta uscire dalla cabina
per vedere i gabbiani biforcuti sulla gru verderame
e più in giù, nella nebbia fitta,
vedere che la terra non è tonda ma
cime di neon azzurrino.
Là dove il fiume divide est e ovest,
separa la collina dal parco pubblico con la sua prua di ferro,
e il figlio dalla madre,
il bianco dal nero,
l’impero dal cortile di terracotta senza luna.

You dream a wounderful life
just down the corner
just down the corner
up to the hill
with pleasure fill
just down the corner
just down the corner.

Ogni uomo, scendendo dal predellino, si dice figlio della libertà
sventolando un panno a strisce.
Ognuno di loro ingoia la luce della luna
e accartoccia il quotidiano delle province,
nella direzione di una mano tesa.
Ognuno di loro guarda l’acqua che gorgoglia
e il suo riflesso nella prima vetrina di un caffè;
mentre il dito compone il numero, la mano afferra la cornetta.
E basta chiudere gli occhi, chiuderli sulla scialuppa
vuota, immobile in mezzo alla baia
e gridare – opposite side –: terra!

Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

Rock and roll ai piedi del letto

Lungo tutto il litorale della Nuova Inghilterra
scintillano le tazze di porcellana: tè, con latte, e senza zucchero.
Nel buio può capitare di perdersi, di vagare intestarditi
come falene. Tanta bellezza che sparisce –
ma bada – il nostro respiro quotidiano
nella notte fonda non sveglia più nessuno e
nemmeno i rumori da un muro all’altro o un po’ di musica
tutta novecentesca. E di questo giorno l’unica impronta
è la vecchia coperta sulla sedia.

*

Blues di un eroe

I
Non ha tempo per la terra che gronda

che sluccica manifesti

che s’inceppa nei suoi meccanismi d’arteria.

Non ha tempo per raccattare dalla terra

il cartoccio della frutta andata a  male,

non ha slancio per la desolazione casalinga.

Oh, povero Adam

si è perso per cantoni, corridoi e piazze

Oh, povero Adam
sente il suo passo zoppo da dietro l’angolo

è lì che trema d’ira e non ha voce.

II
Sono loro? Sulla terra sfiora le zolle e abbassa la schiena

ma è l’asfalto che fa sbattere le ali alle falene.

Si chiede se gli animali hanno spalle che bruciano.

Si chiede se deve fare da sentinella alla terra:

perché è lì che il fuoco brucia

che le onde stramazzano come buoi

lì che ci si ammala d’amore

lì che la carne salta come un salmone.

Oh, povero Adam
si è perso per cantoni, corridoi e piazze

Oh povero Adam

sente il suo passo zoppo da dietro l’angolo

è lì che trema d’ira e non ha voce.

III
Per terra ritrova il colore diurno del neon

i fiori schiacciati dal temporale.

Si piega sul muretto di un parcheggio

e sbriciola il pasto ai piccioni.

In mezzo alla terra tocca il carbone

di uno scarafaggio

e un coccio,

e la ruggine di una sirena.

Oh, povero Adam

si è perso per cantoni, corridoi e piazze

Oh, povero Adam

sente il suo passo zoppo da dietro l’angolo

è lì che trema d’ira e non ha voce.

IV

Con la terra, pensava di fare gomitoli

da cucire senza etichetta.

Indossa la giacca elegante per andare in tv,

ma la terra sotto gli trema e si sbuccia e si squaderna,

la terra che non è estiva né buona.

E per questo lo picchiarono, per paura,

mentre lui, a terra si trascinava.

Oh, povero Adam

si è perso per cantoni, corridoi e piazze

Oh, povero Adam

sente il suo passo zoppo da dietro l’angolo

è lì che trema e non ha voce.

Fayyum, ritratto di  fratelli

Fayyum, ritratto di fratelli

Nella tasca della giacca
a I. Brodskij,
per P.
1
Così a dicembre tiri fuori
la giacca di tweed,
rimani incantato alla finestra scura,
e forse ci vedi il tuo destino
che rotola per le strade,
su e giù,
come le macchine.
Il vento caccia i brutti pensieri
smuove le palline rosse dell’albero-
dondolano le ultime foglie dei platani-.

2
Con la mano torni indietro.
Ricordo bene come cerchi nella tasca della giacca.
Lei ti diceva: la terra non è tonda
ma solo lunga-,
così aveva contato Brodskij
e misurato l’oceano.
Aveva messo in fila le onde, una dopo l’altra,
col suo passo cadenzato
e alla fine
era tornato nel vecchio continente,
in un angolo d’Adriatico.
3
La casa è immobile.
Così come l’hai lasciata la ritrovi,
per pranzo e per cena.
E passi il dito su una cornice impolverata
come a far riprendere luce alla vita,
al giorno.

*

Amorosamente regolare
o la viltà di un piccolo borghese

 Fayum portrait compared with Picasso's self-portrait

Fayum portrait compared with Picasso’s self-portrait

Non sta fermo l’oggetto e non si muove.
Noi deliriamo. La cosa è lo spazio
che occupa la cosa.
I. Brodskij, Nature morte

I
Cosa brucia nella sua bocca?
Sul materasso l’impronta della notte
sul tavolo gli oggetti come un promontorio.
Guarda bene perché questo non è il paradiso,
ma abbassando le palpebre
ordina il fondo del lenzuolo
e sistema il corpo quando è ancora buio.
Allora ascolta lo sferragliare del tram
e i ferri della vicina che alzano
e abbassano il filo di lana.
Così bisbigliano le ultime notizie di morte.

II
C’è spazio. C’è tutto lo spazio
perché le sue mani possano rovistare
nel lavandino, sulla busta del latte,
andare qui e là senza vergogna.
La luna era passata sul tetto rosso,
sui piatti bianchi, sulle spalle della sedia
e aveva lasciato righi di penna
e il peso della notte in cerchi concentrici.
Senza fuoco. Senza stufa.
Era scivolata sulle ciocche dei capelli.

III
Non c’erano mai state prospettive.
L’orizzonte affonda e dorme.
Sul pavimento, sulla terra:
i vestiti e un cappotto da pieno inverno.
Sul pavimento grigio i guanti neri,
Sul pavimento grigio il gomito, il braccio.
Ma l’uomo ha paura e non si sveglia,
non del tutto. Anche se è domenica,
anche se è per chiedere la pace.

IV
Dov’è che gli oggetti sono rotondi?
Eppure lui si aggrappa agli spigoli con le unghie,
alla sua vita piccola e borghese,
all’aria della superficie. Qui. Dandosi un gran da fare.
Chiude la porta a chiave e aspetta che il ghiaccio passi,
e la corriera blu, e il cane col suo canto da ubriaco.
Perché nella vita non c’è profitto
e non c’è colpa più pesante di questo stare al mondo
senza lottare.

V
E sbaglia quando apre il vetro al cielo,
quando apre gli spicchi di un’arancia
solo per vedere come s’annera,
perché la stagione corre, di fretta
avanti e indietro sbattendo
gli sportelli di formica in cucina:
sul petto l’odore delle noci, come ogni anno,
il fischio del bollitore, l’indice sul legno bianco
della porta del bagno.

VI
Passò qualche macchina,
nessuna che andasse nella stessa direzione.
Lui guardò l’orologio sotto il soffitto,
poi il bicchiere vuoto
molte più cose se ne sarebbero potute andare –
e la luna era quasi sparita, c’era un’impronta bianca, di carta,
c’era spazio per un’intera giornata

Questa la santità della sua morale
di giovane borghese, feroce e di cortile:
s’inginocchia con la lingua
all’Ave e all’Angelus del grosso cupolone,
suddivide intelletto e Nuovo Capitale,
ma gira il volto alla fiumana
morta oltre lo stivale.

****

 Fayyum, ritratto

Fayyum, ritratto

Da Fuori della terraferma, disegni di Fred Charap, Gazebo, Firenze 2011; Premio Nazionale «Alpi Apuane», L’Harmattan, Parigi 2013:
Traversata

Appoggio il gomito alla veranda –
Gli uccelli in picchiata
più piccoli dei gabbiani
senza lingua -,

Mi sembra di aver già attraversato
queste acque, una volta.
E mentre portano il conto
di due caffè
a lui tremava la voce.

Ogni tanto mi voltavo
a sentire il vento in visita,
sulla faccia, sulle orecchie
dentro la cerata gialla.

Laggiù la baia e
il piano delle onde.

*

Frammenti d’albero maestro

Il confine delle terre annera nella notte. Gli uomini
vanno e vengono sul ponte. Hanno tirato le reti
e il sole non tramonta più. La prua luccica
di uno splendore esatto, da orologio.
Ovunque il quadrante sfavilla e brucia sulle rocce.
I fanali di Sant’Anna stridono, poi si addormentano.

Buio. Una boa enorme in secca.
Chiusi gli ultimi bar e la biglietteria e un
taxi acquatico dal corpo giallo e stanco.
Buio anche per i pochi passanti
e le loro orme a crocicchio. Il vento
sbatte la cenere al bavero del cappotto.

Laggiù il nord, piatto e anziano.

*

Terra

Guardava verso la riva –
guardava ancora e ancora: l’aria calda
il pasto avanzato,
il furgoncino che porta legna da ardere,
la stoffa ruvida della camicia bianca.

Laggiù, non ti preoccupare, aveva detto,
laggiù c’è la terra,
ma le correnti, qui sono forti.
Più forti che in qualunque altro mare.
Con la sua giacca sportiva e
gli occhi scuri che si levano dal fumo –
la schiena appoggiata al parapetto.

Vidi un grosso pesce che vorticava
in un angolo,
un mulinello dai cerchi opachi.
E tre ragazzi con le loro lenze
che andavano sott’acqua
e ai piedi una mezza dozzina di sardine
agonizzanti.

L’aria calda, i galleggianti
filavano in superficie:
una grossa luna
senz’altro appoggio,
come fosse mattina.

*

Moules frites

Gli sfiora la guancia
perché piange, si asciuga gli occhi
con il tovagliolo
e sposta lo stuzzicadenti nella mano sinistra.

Il temporale batte sui vetri
feroce come un fiume in piena.
Fuori ci sono brutti ricordi.
Lui passa la mano sulla fronte,
sulla costa, sul sonno agitato.

Un cameriere del sud
arrota l’accento italiano
e scrive ordinatamente il piatto del giorno:
vorrei mangiare con questo uomo
per il resto della mia vita.

*

Oceano

Alla fine i rami dei salici non erano
più visibili
e ho detto addio alla terra.
Solo per poterla salutare da lontano,
per immaginare la costa e le sue città,
ricordare di aver visto tutto fuori dalla finestra,
mentre pioveva.

Chi vuoi prendere in giro? mi dicevo,
l’anno prossimo o forse solo fra pochi mesi
l’indice sarà arrivato all’orlo estremo della carta
giù, allo spigolo del tavolo di legno,
e avrai smesso di dondolarti a tre quarti
e preparare caffè per due la mattina.

 Fayyum portrai d'enfant

Fayyum portrait d’enfant

Inedite

Détail
(dans le Château de Versailles)

Le cadre de la fenêtre –
immobile –
– fixé -.
Il a arrêté son battement -.
Rien ne bouge plus
qu’une toile d’araignée
(à la petite haleine) -.
*

Au 14 rue de Noailles

à Claude

C’est l’adresse d’un hiver perpétuel
Les vagues remontent
encaissées
la cour, les murs et les nuages
Le vis-à-vis du monde
se cache, coque-vide.
L’orage a ravagé les décors et les broderies
a fait ses ruines de pierres crues
et dispersé l’exil –
et marqué la porte avec du rouge

Pas une miette royale – si jamais il y en avait une –
n’est restée debout
Pas une dentelle – une petite miniature –
Où la barbarie a parsemé
l’ombre et le cri
là aujourd’hui pousse la grâce de la mémoire
Où la haine a dansé
à trois temps
sa valse de papillon,
sur ses ruine demeure ma maison
et repose dans tes mains royales
l’orage.

Ce sont ces décombres
l’adresse perpétuelle de l’hiver
Poussière de pierres et de misères
que j’ai élue

Dans ce desért
l’hiver nous chante
votif.

*

Just married

Gomito contro gomito
Sorridono dietro uno scrigno di montagne
Azzurre – le mani intrecciate
In un unico fiore
Lei ha un abito corto di seta bianca
Lui spessi occhiali neri e una cravatta lunga
D’altri tempi
La spalla nera – poggiata a quella nuda di lei.
God Bless You!

A destra, due calici bevuti
A sinistra, il tavolo scende nel dirupo d’ombra
Fino a scavalcare l’Oceano –
E toccare terra in questa cucina
Di luce gialla e gelata
Sul tavolo – un bicchiere
Un osso
Una bibbia francese. –

D’oltreoceano arrivano
Brindisi
E onde di prato bentosato
E il soffio della notte tiepida
Mentre sulla cornice di un muretto
Una vecchia in rosa balla aggrappata
A un’elegante giacca di puro tweed inglese.
God Bless You!

Aspetto il mio turno
Nella cucina di smalto
Dove le colombe hanno arrestato il loro volteggio
E razzolano fra smerli di briciole
Dove le stelle hanno arrestato il fulgore
E l’ornamento.
Ché la mia mano aperta per il benvenuto
Stringe un bicchiere vuoto
Il tavolo batte la sua risacca
E il deserto sospira nel cuore.

31/V/15

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POESIE INEDITE di Silvano Gallon con un Commento di Gëzim Hajdari

Balthus la chambre (1954)

Balthus la chambre (1954)

Silvano Gallon, nato a Frosinone nel 1946, vive in Ciociaria dopo aver lavorato per 35 anni presso il Ministero degli Affari Esteri di Roma. Nel 2001 ha fondato con Vincenzo Bianchi e Giuseppe lucci l’Associazione Culturale Akkad, per gli scambi culturali tra l’Italia e la Macedonia ed i paesi balcanici. Con la stessa Associazione ha creato il premio “Il vento della Pace” e dal 2004 è Presidente dell’Incontro Poetico d’Europa.
Ha organizzato numerosi meeting internazionali e, tra essi, il gemellaggio culturale tra Cervara di Roma e Struga (Rep. Macedonia). Ha pubblicato saggi storici, soprattutto sull’emigrazione italiana, e scrive poesie dal 2000.
Come poeta è stato invitato per tre volte al Festival Internazionale di Struga (2006, 2008, 2011), al Festival Internazionale di Parigi (2010) ed a Nis (Serbia)

Commento di Gëzim Hajdari sulla poesia di Silvano Gallon

La poesia di Silvano Gallon sorge dalla vita quotidiana, dalle cose che lo circondano quotidianamente. L’alba, il giardino, la strada, il buio, le ombre, la luce, il verso del merlo, i passi dei passanti, il verde, le stagioni, le voci della collina ciociara, lo scorrere del tempo, sono alcuni elementi con i quali egli colloquia e si interroga sulla propria vita e sul senso dell’esistenza. Silvano è il cantore della quotidianità, è la voce di tutti giorni. Sono versi che celebrano la memoria del percorso umano e la ferita dell’Essere. Amore e gioia, dolori e tormenti, addii e speranze percorrono le pagine del libro, dalla prima all’ultima; tutto si svolge in un silenzio quasi misericordioso, senza enfasi. Il dolore struggente dei versi del poeta feriscono il lettore rimanendo per sempre nella sua memoria. L’intimità del linguaggio e la sacralità della parola fanno di questa raccolta un poema di preghiere e salvezza. Leggendo i testi della nuova raccolta, ci rendiamo conto che ciò che rimane nella vita di un uomo sono proprio i ricordi di un tempo, le radici, gli affetti, i profumi campestri,
tutto il resto non è altro che fatica, abisso, vanità. L’unica coscienza che non ci abbandona mai durante il viaggio terreno, è la nostra ombra; un fuoco inesorabile brucia le attese, i sogni, le speranze, le conoscenze, le solitudini, le ferite, gli addii, inebriandoci con la brezza dell’eternità. E’ per questo che il poeta non si sazia di respirare la vita, per non morire mai.

Antonio Ligabue Falcone bianco

Antonio Ligabue Falcone bianco

quale brigante

vociando parole oscure
ma sì chiare
goffo nel mio sostegno
tremo nelle vene e nelle mani
come fossi al cominciamento
o alla fine dell’abisso

in sì turbata confusione
inciampo sui miei tratturi
rovinando coi passi in un pugno di terra
– ahimé, quale debolezza nell’uomo solo! –
timoroso
quasi arrendevole
tra i confini d’un giardino amico

batte il cuore
si oscura la pienezza del cielo
sotto un vento pungente e schiacciante
tra foglie, polvere e ombre selvagge

quale brigante senza desiderio
assiso su una pietra bianca
divoro la mia forza vitale
fuggendo tra un male e il peggio
mentre una gemma nuda azzurra
mi dona forza e speranza

.
primo maggio

sale intensa la nebbia
nel silenzio del primo giorno di maggio
che smorza il sorriso d’una tarda primavera
cupa e fredda
da battere i denti
come in autunno

tarda il seme della campagna
nei fiori della vite e nel giallo del grano
i venti, le piogge, la grandine
scagliano nella miseria
questa terra offesa
su cui mi perdo anch’io

tra un passo ed un inciampo
allontano lo sguardo
ferito nei palpiti del tempo
e la mia ombra
orlata ora di dolore ora di calore
lascia il segno del suo passo

raccolgo una goccia di rugiada
regale sulla paterna rosa rossa
luccicano le pupille
umide d’amore

Edward Hopper nudo in interno

Edward Hopper nudo in interno

cardiologia blu

sotto un cielo povero
due gocce tinte di nero
velano le rughe del tuo viso
senza sommergere il sorriso del tuo volto
smarrito dentro un dubbio
serrato in un piccolo grande guscio d’amore

la mia mano asciuga quel lampo
scorrendo poi sulle tue aride labbra
il timore sussulta nei tuoi occhi
prima che tra riso e pianto
un sospiro ci dia coraggio

in me s’attrista tutto di più
perché quella porta blu
ci turba tra un fuggire e un riaprirla
sempre mossi a tornare
per indagare
e curare

per esistere
tra gioia e pena
solamente in preghiera

.
settembre

nel paesaggio
che è meraviglia
brucia
la melodia del mio cuore

mi dolgo
tra freddo e caldo
se mai li provo
soffro
perché non tace
il grido di dolore

dai robusti cotogni
all’improvviso
lontano
dal mondo
e dalla vita
mostro paura
… del precipizio …

qui tutto è pace
tutto è silenzio
sono solo
affaticato
a guardare la notte

.
affanno

tra i peschi ed i cotogni
poggio il palmo delle mie mani
sedotte dai segni della fatica
sul mio cuore percosso ed affannato
come mai aveva sofferto

il cotogno lascia i suoi petali rosacei
leggeri e deboli alla brezza
il mio battito palesa stessa debolezza
dubitando dell’istante
tumido tra male e peggio

cresce il vento
la voce angustiata d’amore
sperimenta un’ultima preghiera
da perdono a perdono
senza più superbia
chino nel peso che curva

l’apparire della luna
accende il cielo d’una luce che seduce
ed in terra su quel viale che smarrisce
si spande ancora pace
che mi sembra eterna

edward-hopper-gas-1940

edward-hopper-gas-1940

armonia

il sangue delle vene
respira il fiato della sofferenza
tutto sospira in un silenzio
muto
eterno

il tempo piange
un momento tremulo
la vita parla d’amore
un momento eterno
il cuore palpita per entrambi
in una felicità trasparente

in attesa

di concedere il mio respiro
suona e risuona
un’anima errante
che brilla al cielo
racchiusa nella luna
colore di miele e cereali

.
fuoco che brucia

spezzo rami secchi
in compagnia dell’orto
trattengo il respiro
che trema in me

la terra si sazia delle mie orme
che la cenere non trattiene
e la fiamma che del demonio è figlia
mi da brividi ad ogni nuova impronta

precipito nelle onde del fuoco
riflesso di ciò che ho perduto
vedo il vuoto della cenere
naufrago nella solitudine

ora brucia nell’animo
anche il mio giardino
accarezzo un fiore secco
dimentico, mi spengo
vedo solo fiori bruciati

s’infrange tutto
nel crepuscolo dei tuoi occhi
si stringe il mio cuore
nel desiderio del tuo amore

Antonio Ligabue (1899 1965) Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

Antonio Ligabue (1899 1965) Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

cuore malato

trabocca ogni alba
il tuo radioso sorriso
luce a luce aggiunge
alla tua parola il sangue s’addolcisce
come frutti maturi del nostro giardino

mi chiudo dietro la mia finestra
la mia voce nasconde le insidie
il giorno pieno di sole
s’addentra nella tua tempesta
diventa nuda la verità del tempo

il tuo cuore malato
ricama giorno e notte
con i tuoi petali di sorriso
per sfuggire dolore e morte

ridotto nel battito
appartiene a noi
alla felicità
all’amore
non si spegnerà mai
per noi che sappiamo
coglierne i fiori

.
petali rosati

amo tracciare segni
per sorprendermi ancora
con profumati fiori e piccole piante

un ramoscello vacillante al suono del vento
lascia cadere petali rosati
che implorano perdono
vagando a destra e oltre
senza porre mente alcuna

vagabondo

e stropicciando i piedi a terra
al lamento di un usignolo
torno su quei petali
che parevano lucenti
sotto l’ombra del frutteto

chino sulla mia sorte
mi rifugio tra mani e gambe
non ho altre vie
e non rifiuto questa che è solo mia

raccolgo quei petali rosati
per compiacerli a dimora in una coppa
dove la morte non è sonno
ed il profumo si risveglia
rosa canina

la rosa canina bianca e forte
s’irradia su quei rovi selvaggi
apparendo e nascondendosi
oltre le ombre e le sterpaglie
assieme ad acerbe more

nella mia mano che cerca uno strappo
spunta una goccia di sangue
che macchia un petalo rifuso
vivo nella sua freschezza

s’indebolisce la mia anima
s’adombra nella quiete
e quel fiore macchiato di sangue
non so se donarlo
al cielo
o alla terra

Antonio Ligabue

Antonio Ligabue

la vita

un momento
con il sorriso del tuo volto
un momento ancora
tremolante nel nostro cammino
ancora un momento
fino a dormire nella notte

in questa terra ampia
trasparente nelle voci del nostro giardino
ardono i nostri cuori
ferita incessante

l’allegria della vita
che consuma i grappoli dorati del tuo corpo
nelle rose del tempo
palpitante per il nostro amore

.
Rughe

sospirano le mie rughe
l’una accanto all’altra
bagnate dal sudore
che melanconicamente le circonda

taccio ai brividi delle mie fatiche
che stillano le vanità del tempo

disfatto e lontano ogni imbarazzo
m’accompagno alla terra
zappando

Ansia

il gufo fissa immobile
dall’alto della rosa fuxia

vibrano nervose
tra il petto e l’addome
le mie mani rabbiose nei gesti

trascinato nelle mie ansie
inciampo nella compagnia
di tutto ciò che nego

.
Sottovoce

nel mio spazio
così stretto
e senza tempo
dispiego
quanto ho vissuto
tra le cose del mondo

rifletto
sul lungo tempo
sottovoce
senza volgermi
tra poesia e preghiera

.
Mal d’amore

il sangue tende i miei anni
giunti all’affanno delle arterie

l’anima sorregge un corpo gravato
il tempo rimescola tutti i miei passi

alimentano il mal d’amore
quegli occhi tuoi
pieni di luce e allegrezza

il mio sangue
esplora sempre la tua beltà

quale brigante

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Renato Minore – Poesie inedite con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Renato Minore 1   Renato Minore (Chieti, 7 settembre 1944), risiede da oltre trent’anni a Roma; è specializzato in Filologia moderna. Giornalista professionista dal 1971 presso i servizi giornalistici della RAI, attualmente è il critico letterario de Il Messaggero. Ha insegnato Teoria e tecniche delle comunicazione di massa all’Università di Roma. Come narratore ha pubblicato i romanzi Rimbaud (Mondadori), Il dominio del cuore (Mondadori), Leopardi, l’infanzia le città gli amori (Bompiani). Come poeta ha pubblicato La piuma e la biglia (Almanacco Lo specchio Mondadori), Non ne so più di prima (Edizione del Leone) Le bugie dei poeti (Scheiwiller), Nella notte impenetrabile (Passigli), I profitti del cuore (Scheiwiller). I suoi libri sono stati tradotti in più lingue. Ha scritto per settimanali come Il Mondo, quotidiani come la Repubblica, riviste culturali come Paragone. La sua attività critica è raccolta nei volumi: Giovanni Boine (La Nuova Italia, 1975), Intellettuali mass media società (Bulzoni 1976), Il gioco delle ombre (Sugarco 1986), Dopo Montale Incontri con i poeti italiani (Zerintya 1993), Poeti al telefono (Cosmopoli 1994), Amarcord Fellini (Cosmopoli, 1995), I moralismi del Novecento (Poligrafico dello Stato 1997) e le serie: Sul telefonino: Il tam tam del terzo millennio (Cosmopoli 1996), Il mondo mobile (Cosmopoli 1997), La piazza universale (1998). Sul divismo: Fragili e immortali, Il divismo all’origine (Cosmopoli 1997), Lo schermo impuro: Il divismo tra cinema e società (Cosmopoli 1998), Il pianeta delle illusioni: Il divismo negli anni Sessanta (Cosmopoli 1999) Eroi virtuali: Il divismo alle soglie del duemila (Cosmopoli 1999). Sulla comunicazione: Futuro virtuale (Cosmopoli 1995), Rotte virtuali (Cosmopoli 1996), Rotte convergenti (1997), “L’italiano degli altri”(Newton Compton 2010). 

Commento di Giorgio Linguaglossa

Non esistere
sarà forse impossibile.
Nel multiuniverso-patchwork

Mi sembra che questi versi siano il migliore introibo alla poesia di Renato Minore. Una poesia in «minore», che procede, in sordina, per toglimenti e sottrazioni, alla ricerca di uno statuto minimale del linguaggio che lo faccia friggere e sfrigolare nelle immagini, nel verso breve e nel respiro sincopato, claudicante. «Nel multiuniverso-patchwork» di Renato Minore forse è possibile utilizzare soltanto parole-patchwork, parole immondezzaio, parole-toppe, parole strappate dal loro significato, parole senza-fondo, o che vanno a fondo, alla deriva di un mare aperto. Nel mondo della disseminazione forse è possibile per un poeta odierno soltanto la forma-disseminata, abitare questa disseminazione, questa deriva delle parole-patchwork immerse nella instabilità permanente.
Il linguaggio e le sue immagini sono ridotte alla traccia, alla «forma del bianco che resta sulla carta», al pari di una impronta… lasciata sulla carta con un inchiostro simpatico. Un linguaggio di «impronte», dunque, invisibili, disperse nel bosco frondoso del linguaggio, un linguaggio poetico di sentieri dispersi nel bosco:

La cometa ha la forma
del bianco che resta sulla carta

C’è come un’angoscia ridotta allo stato gassoso in questo impiego del linguaggio, c’è la consapevolezza della cripticità del linguaggio poetico odierno a narrare qualsiasi rappresentazione prospettivistica, ma c’è anche la determinazione ad erigere un’ultima barriera, un’ultima trincea di resistenza dietro queste parole-impronte apparentemente disarmate ad opporsi alla marea montante del «vuoto» (non è un caso che questa mini raccolta termini proprio con la parola «vuoto»). Forse non ‘è neanche «resistenza» quanto consapevolezza del senso del «limite» di ogni operazione umana che non si attenga allo statuto della superficie, di ogni operazione poetica situata oltre il limite della «impronta» della «parola patchwork»:

Il tempo ha tanta vita,
la vita ha poco tempo.

La forma gnomica e aforistica di certe nervature collide con l’andante con brio che forma la spina dorsale di queste composizioni, come a sgambettare in ogni momento il discorso, qualsiasi discorso che assuma o voglia assumere un aspetto di serietà forzosa o di seriosità imposta, qualsiasi tono assertorio. È la legge della «leggerezza», forse troppo equivocata e incompresa, quella che muove il linguaggio poetico di Renato Minore, da non confondersi con la leggerezza imposta dalle condizioni del mercato editoriale della poesia; qui è in conto una ben diversa leggerezza, quella della drammatica condizione dell’uomo moderno.

*

 Quel tuo laborioso affannarsi
sulla stagnola del lago e del fiumetto
che sudava acqua, ma davvero,
portento d’una tecnologia essenziale
nel gesso della pecorella e sul
cartone crespato della collina
con angeli intermittenti,
faville stuccate nel soave frattale
della loro metamorfosi,
era meraviglia,
allegria che vela la tristezza
in un silenzio di molte cose quiete.

Renato Minore 2

DIALOGHETTO DI NATALE

1

Che le parole possano
ancora  abitare nel tenue lume
di perla e turchese…
Coprano  arbusti  e ciocchi di faggio,
pronte all’uso  di chi  ne fa poltiglia
e le svende, le svende, le svende…

Siano solo la buccia e la foglia
nel Natale,
il frutto attorno a cui scivola ogni cosa…

 2

Ma per essere colpevoli di ciò che facciamo
dobbiamo essere colpevoli di ciò che siamo?

Come piccole bolle formate
al momento dell’incontro,
e poi svanite, viviamo in spazi
evanescenti nella  paura
di non aver tempo per tutto,
non sappiamo che aver tempo
significa non aver tempo per tutto?

renato_minore 3

3

Ogni candela è una stella
In cima l’angelo  di Wenders
precipita
credendo di volare,
Nello stesso prato
il bue cerca l’erba
il cane vuole  la lepre,
la cicogna fiuta il ramarro.
Siamo le carte
di un castello perfetto,
ognuna è un crollo,
il  cedimento.

Una debolezza
si appoggia  ad altre,
il  corto respiro  entra
nel soffio universale

4

La cometa ha la forma
del bianco che resta sulla carta,
non di queste lettere di calendula
che pianto come chiodi
E le dieci candele d’una stella
illuminano il foro senza fondo
della grotta mai colmato
da ciò che  solo è  iridescenza.
Il tempo ha tanta vita,
la vita ha poco tempo.
Ma non  c’è  vento benevolo
per il   marinaio  che non sa dove andare.
Quando il cuore può parlare
non occorre prepararsi.
Interroga, oh se  interroga!,
non arriva  a comprendere.
Renato Minore 

l

Non esistere
sarà forse impossibile.
Nel multiuniverso-patchwork,
 a pochi  millimetri
dal nostro presepe,
un altro lo replica
con lane di pastori,
scintillio di stagnola,
verde muschiato,
neniette a ricarica.
La luce batte e rimbalza
 
come in gabbia.
Mai lo vedremo,
mai sapremo  
se ancora nella santa notte
le streghe alzino la selce
per fare malie
se chi nasce vince
l’esitare del vuoto.

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POESIA Y OTRAS LETRAS

sobre poesía y otras alimañas - sulla poesia e altri parassiti - sobre a poesia e outros parasitas

RIDONDANZE

La poesia non ha rimandi . La consapevolezza d'essere poeta è la stessa spontanea parola che Erode. Stermino io stesso il verso.

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale

L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.

Mario M. Gabriele

L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.

LA PRESENZA DI ÈRATO

La presenza di Èrato vuole essere la palestra della poesia e della critica della poesia operata sul campo, un libero e democratico agone delle idee, il luogo del confronto dei gusti e delle posizioni senza alcuna preclusione verso nessuna petizione di poetica e di poesia.

Un'anima e tre ali - Il blog di Paolo Statuti

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