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Tiziana Antonilli – Nove poesie inedite con un Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa

 

Foto source favim-com-17546

L’unica colpa delle scarpe infilate / – sono bianche – hai detto  

Tiziana Antonilli è nata a Campobasso dove insegna lingua e letteratura inglese. Ha pubblicato Incandescenze  (Ed. del Leone), Pugni e humus  (Tracce) e  Foglia del vostro ramo, silloge poetica vincitrice del Premio Montale in 7 Poeti del Premio Montale (Scheiwiller, Milano, 1997), e il romanzo di denuncia Aracne  (Ed. Il Bene Comune). È presente nell’Almanacco  poetico iPoet (dodici poeti italiani), LietoColle, 2016.

Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa

Un linguaggio poetico deve essere incoglibile per essere significativo e significante, altrimenti ricade nella accessibilità tipica del linguaggio informazionale. Il linguaggio poetico di Tiziana Antonilli ha questo di buono, che ha preso congedo dalla facile accessibilità della poesia che confida nella comunicazione, per questo riesce incoglibile e inaccessibile al lettore medio, per il semplice fatto di voler dire qualcosa a cui il «detto» recalcitra; perché ciò che è essenziale di dover dire non rientra nella casa del «detto», il voler dire si è irrimediabilmente allontanato dal «detto», gli è divenuto estraneo.  Ed ecco comparire la figura dell’«Estraneo», come avviene nella «nuova ontologia estetica». Il percorso fatto dalla poetessa di Campobasso da altre sue precedenti prove da me lette nel passato è stato grandissimo, ed è arrivata a questo suo meta linguaggio tutto particolare che impiega la ridondanza interna al significato, vale a dire, il significato non è quello che la frase dice ma altro, si è lateralizzato, si è spostato:

Lo zero l’aveva già detto:
sono io al quadrato, non ci credi?

È ovvio che qui siamo al di fuori della utilizzazione informazionale del linguaggio, anzi, è vero l’opposto, il linguaggio poetico risponde al richiamo della distanza, in primo luogo della distanza dall’io, e in secondo luogo dalla distanza dalle parole, ed è tanto più significativo quanto più lontano risiede nella sua intolleranza alla comunicazione, ma non per questo si tratta di una poesia incomprensibile, è comprensibilissimo, tanto più quanto più ci allontaniamo dal concetto di un linguaggio che «indica» un qualcosa che sta al di fuori di esso. Il significato è sempre all’interno del linguaggio, ma è il modus di avvicinarsi ad esso che è cambiato, è la strategia di accerchiamento che è cambiata.

restiamo / senza dover aspettare lo Straniero

scrive la Antonilli. Ed è questa la nostra stazione esistenziale. Il linguaggio poetico può rispecchiare questa situazione esistenziale solo perdendocisi come un oggetto (e come un soggetto), solo sottraendosi agli imperativi dell’Ego e alle sue istanze auto organizzatorie; solo resistendo alla dittatura della fagocitazione dell’informazione si può raggiungere la significazione.

Come in ogni autentica poesia di ispirazione esistenzialistica, la Musa della Antonilli si trova a suo agio nei non luoghi: un bar, un corridoio, una strada anonima etc: «- un bar in blackout / è l’inutile fattosi luogo – / si vaga per strade lucidate / e liberate dall’idea assurda / di dover per forza condurre a un luogo». Si sta «In piedi, contro il muro della scuola di musica», al buio, «-La centralina elettrica è saltata –»; di frequente sono inserite locuzioni stranianti di traverso al contesto, con la finalità di accentuare l’estraneazione della condizione esistenziale rappresentata: 

L’unica colpa delle scarpe infilate / – sono bianche – hai detto  

Non c’è nessuna ridondanza acustica, il verso spezzato è modellato su una sintassi nominale, dichiarativa.

foto-video-vuoto

Il Vuoto – A porta serrata / – un bar in blackout / è l’inutile fattosi luogo –

Scrive Lacan:

«Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.
È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]
Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.
Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]
Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.
Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.

Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]

Ormai non c’è più da aspettare Godot, siamo già da un pezzo In viaggio con Godot (dal titolo del libro di Mario Gabriele), solo che non ce ne siamo accorti; Tiziana Antonilli ha intuito che era ora di mettersi in viaggio verso la pagina bianca della nuova forma-poesia.

«Il linguaggio – ci ricorda Giorgio Agamben – deve necessariamente presupporre se stesso». Il linguaggio, ci dice Mario Gabriele, è fatto con la stoffa di un altro linguaggio, è linguaggio di linguaggi, frantumi di linguaggi rottamati, residui, scarti, scampoli, «Ritagli di carta e cielo» (1996) dall’omonimo titolo di un libro di Donatella Costantina Giancaspero. Non c’è meta linguaggio se non nel linguaggio. Non c’è linguaggio che non sia metalinguaggio sembra suggerirci Mario Gabriele, il quale sa bene che bisogna tenere in piedi le fila del discorso poetico rispetto all’indicibilità come condizione assoluta della dicibilità.

1] J. Lacan, Ecrits, 1966, Scritti I, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293

Tiziana Antonilli

Nove poesie inedite

28 agosto
Venuto per raddoppiare i giochi,
sembrava altri compiti non avesse
in quel giorno fra i residui di agosto,
rendere pari l’unicità.
Ridiventarono insieme uno
quando gli ideatori del doppio
incamminandosi
lasciarono una fontana sola
ma ricca d’acqua
per irrigare la vigna. Continua a leggere

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LA POESIA ESISTENZIALISTICA di Alberto Bevilacqua (1934-2013) Piccole questioni di eternità, Einaudi, 2002 – con un Commento impolitico di  Giorgio Linguaglossa

Foto Musée D'Orsay

la mia anima dov’è andata a finire,
l’avevo qui, poc’anzi…

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Queste «poesie di una vita», scritte da Alberto Bevilacqua durante la sua maturità di narratore, sono una esperienza poetica del tutto personale. Forse soltanto un narratore poteva scrivere delle poesie così intime senza cadere nel minimalismo e nel privatismo; soltanto un narratore poteva liberarsi dell’armamentario retorico senza ambascia. La scrittura di Bevilacqua è attaccata alla «cosa» che vuole significare. Il referente riveste una grande importanza. Un altro elemento significativo risiede nell’essere una poesia aliena da qualsiasi precettistica sull’oggettistica degli interni o preziosa ironizzazione del testo. La poesia di Bevilacqua ha abbandonato le forme stereotipiche, non impiega retorismi stranianti, le mosse da cavallo di sklovskjiana memoria sono assenti.

Ecco una dichiarazione di poetica già fin dalle prime pagine di apertura del libro: «Il sapere non è che una grafia / con cui ciascuno nasconde ciò che sa». La poesia per Bevilacqua è uno scandaglio puntato verso le zone oscure dell’esistenza, una sonda gettata tra i misteri della nostra «eternità». L’autore si chiede che cos’è l’«eternità» e se veramente l’uomo contenga in sé una particella di essa; questione non oziosa. Bevilacqua ha voluto consegnarci una specie di manuale di «piccole questioni di eternità», in formato ridotto e abbreviato, giacché ognuno di noi ha il proprio bagaglio di «eternità» da custodire.

 È utile  leggere uno dei primi scritti poetici per confrontarlo con l’ultima composizione contenuta nel libro per poter verificare l’omogeneità interna tra i due scritti, come dire, l’assenza di sviluppi stilistici:

Compleanno

la mia anima dov’è andata a finire,
l’avevo qui, poc’anzi,
fra male di testa e pillole,
qualche foglio appuntato,
forse ha scoperto che oggi ho
un anno in meno da vivere
(gliel’avevo occultato per prudenza)
o forse è stato
il vento di marzo, o i seccatori
che vanno e vengono, qualcuno
cleptomane di libri e cose inutili.
Che sia nei paraggi è indubbio,
faccio una confusione
di posta inevasa, reclami di pagamento, cartoline
d’amore, per cercarla, invano

*

L’ultimo congedo del dio subalterno

… tenetemi sul cuore la vecchia
lettera di famiglia
mai spedita, mai scritta,
per pura tentazione
tenetemi serenamente anche contro
coscienza,
contro natura,
sono così poca cosa:
uno per voi esistito
nient’altro, eppure
tanto e per tanto da scrivergli
senza destinazione

il mio esilio è ovunque
in me più che altrove

…E adesso vi lascio e vorrei mettere la data
ma non ricordo che giorno sia
non ricordo più il tempo – credete –
non riesco
più a vedermelo alle spalle il tempo
…perdonatemi questa inezia,
l’importante è che io vi abbia amato,
vero? O che almeno vi abbia conosciuti,
spero, almeno una volta: rispondetemi al riguardo
rassicuratemi

Foto Amelie

il mio esilio è ovunque / in me più che altrove

In entrambe le composizioni il tono, tra l’ottativo-colloquiale e l’assertivo-riflessivo, è il medesimo, medesimo l’impianto affabulatorio, l’uso degli incisi a spezzare il fluire del ritmo del discorso, gli incipit che irrompono di sghembo, come in scorcio, per permettere di progredire dentro il punto di latenza della progressione sintattica per gradi successivi, per successivi approfondimenti della progressione verso il punto oscuro. È evidente che in queste poesie la verità («che ci scruta dal fondo del suo specchio»), le “piccole questioni di eternità”, abitano il dettaglio, le fessure dell’anima, gli interstizi di oscurità.

 Possiamo dividere i poeti del Novecento in due categorie: quelli che intellettualizzano la poesia che hanno ricevuto in comodato d’uso dai predecessori, e coloro che operano invece una dis-intellettualizzazione. In quest’ultima tipologia rientra sicuramente Alberto Bevilacqua. In una sana vita letteraria occorrono entrambe le categorie. Al primo tipo appartengono poeti quali ad esempio Sanguineti e Zanzotto, essi operano una introduzione di scritture allotrie nel corpo della tradizione stilistica, arricchiscono il corpus lessicale e semantico della koiné linguistica ereditata, aprendo così maggiori spazi e possibilità espressive alla poesia. Che poi questi spazi si siano effettivamente “riempiti”, è un altro discorso; ciò che appare come una potenzialità non è detto che si traduca sempre in atto.

È noto che l’apertura lessicale e semantica introdotta da Sanguineti con Laborintus (1956) e Zanzotto con La Beltà (1968), si sia tramutato nella loro produzione poetica posteriore, in “chiusura” lessicale e semantica, più o meno a partire già dalla fine degli anni Settanta. Le proposte di poetica sono come delle automobili, all’inizio hanno lo sprint della giovinezza del motore, ma quando il motore accusa usura e la meccanica vecchiaia, la macchina perde di potenza.

La poesia di Alberto Bevilacqua opera una stabilizzazione del linguaggio poetico convertendolo in narrativo, svolge una funzione stabilizzatrice. Dopo una generazione di decostruzione dei linguaggi poetici, ecco che interviene una generazione che agisce da stabilizzazione, da controspinta, da contrappeso nei confronti dei linguaggi poetici precedenti.

Una poesia narrante, fortemente ancorata al piano narrativo con reminiscenze dei luoghi memoriali come questa di Bevilacqua, rientra perfettamente nel quadro di ricomposizione delle tensioni antinomiche che hanno agitato le soluzioni linguistiche degli ultimi due decenni del secolo trascorso.

Strilli Tranströmer 1Strilli Talia la somiglianza è un addioScrivevo in Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (Società Editrice Fiorentina, 2013):

Possiamo definire Piccole questioni di eternità (2002), Tu che mi ascolti (2005), Poesie alla madre (2005), Duetto per voce sola (2008) e La camera segreta (2011), di Alberto Bevilacqua come un genere di discorso poetico privo di interlocutore. Qualcosa di non dissimile da un discorso segreto che si stabilisce tra due interlocutori che si trovino in una camera d’albergo, in una residenza di passaggio, in un luogo di transito, al tavolo di un bar o in uno scompartimento di un treno in corsa. Un discorso segreto che si sviluppa come monologo che l’io rivolge a se stesso. Che cos’è il monologo? In che senso e entro quali limiti si può dire che si è in presenza di un monologo? Che differenza c’è tra, mettiamo, il monologo della poesia di un Bevilacqua e quello del Montale di Satura? (1971). Bevilacqua smobilita il tono understatement alto-borghese di Montale: quello che rimane è l’ossatura di un colloquio «segreto» con se stesso; un colloquio intenso, vibrante, fitto di retro pensieri, di quasi pensieri, di frasi forse pronunciate o immaginate. Ma che significato ha parlare oggi di discorso poetico così come si è configurato nel corso del secolo scorso? Ci sono delle differenze? Possiamo affermare che il discorso poetico del secondo Novecento è stato quella particolare «forma stilistico-simbolica» che ha abbozzato un «discorso sulla verità»? (discorso sulla menzogna dell’arte, sulla finzione, sulla rappresentazione della verità, sulla messa in opera della verità, etc.). Di fatto, con lo scorrere del Novecento, quel discorso poetico che si fondava sulla illusione di contenere al suo interno un messaggio, si è rivelato per ciò che era: una illusione. Già Mandel’štam negli anni Dieci del Novecento scriveva e teorizzava una poesia senza interlocutore, una poesia senza messaggio, o meglio, con un messaggio segreto, scritto in una lingua sconosciuta o dimenticata, messo in una bottiglia abbandonata nel mare. Mandel’štam scriveva «poesie da camera» come lui le chiamava, predicendo che il lontano futuro della poesia sarebbe stato scrivere «poesie da camera».

La poesia degli ultimi venti anni di Bevilacqua sta, in rapporto ad opere «storiche» come Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini e con La ragazza Carla (1962) di Elio Pagliarani, in una posizione di triplice svantaggio: primo perché è venuta meno l’istanza ideologica; secondo, perché è venuta meno l’istanza sperimentale; terzo, perché quella Modernità che allora era agli albori, agli inizi della rivoluzione industriale, oggi è palesemente un attrezzo da museo della belle époque. Il poeta romano prende congedo dalla poesia del Novecento con tutto il suo prezioso carico di possibilità inespresse e intermesse. Che per grado di consapevolezza e livello di elaborazione formale la poesia di Bevilacqua segni una svolta significativa rispetto alla propria e altrui precedente poesia, credo sia fuori di dubbio.

Con l’ingresso degli anni Novanta, la generazione dei poeti nati prima del 1950 acquisisce una consapevolezza più profonda e complessa delle ragioni della crisi del discorso poetico, e ne trae le dovute conseguenze finanche rispetto al tempo recentissimo in cui l’egemonia delle poetiche maggioritarie che facevano capo al «minimalismo» ci squadernava il racconto delle ambasce e delle ambiguità «ottiche» dell’«io» in un linguaggio riconoscibile: nella sostanza, turistico.

I titoli dei libri di Bevilacqua: Duetto per voce sola, Tu che mi ascolti, La camera segreta designano l’ambiguità e l’impenetrabilità di una voce geroglifica, che si esprime in un «duetto», duale, interna; ma non ci si lasci trarre in inganno dal titolo, in verità si tratta di un monologo, un monologo ulteriore, che proviene da una proroga temporanea, l’ennesima, che viene dopo la galassia di parole del quotidiano. Un soliloquio che si sdoppia e si disarticola e si pone come discorso di tesi ed antitesi, solenoidale, come duellanti e coreuti che allignano nella stessa dimensione atopica e anomica, giacché, inutilmente qualcuno cercherebbe di rintracciare tra gli interstizi e i lemmi dei «duetti» poetici di questa poesia una qualche comunità di luogo e di «destino», concetto da prendere con le molle trattandosi di una poesia che esula da quello analogo di molta poesia «destinale», un po’ di maniera e artefatta fatta negli ultimi due decenni del Novecento. Possiamo dire che la poesia di Duetto per voce sola abita una lingua anomica di una zona franca: una lingua che non paga alcuna franchigia né alcun dazio alla tradizione, che anzi ha preso congedo dalla tradizione e dalla letterarietà; una voce franca che si è abbassata la maschera sul volto, che parla un monologo dietro al quale non c’è un altro monologo, che parla ad un interlocutore dietro al quale non c’è nessun altro interlocutore, che parla alla maschera di se stesso. Una lingua che ha cessato di essere la depositaria del «messaggio» o dell’«antimessaggio», che si deposita un po’ come la polvere sui mobili. Che cade ed accade come per una sua legge di gravità. Che adoperiamo quando parliamo in una stanza ammobiliata, in una camera d’albergo, nelle sale d’aspetto di un aeroporto, nel corridoio di un anonimo ufficio. Una lingua estranea e provvisoria.

Soltanto in queste condizioni può nascere la lingua poetica di Bevilacqua, non come un flusso ma come un insieme di rigagnoli, non con il carattere della continuità ma con quello della discontinuità e della aritmia. Si può affermare che quella sorta di esperanto poetico quale era diventato il linguaggio poetico del tardo Novecento incontra in questa poesia il suo capolavoro e il suo compimento per via della presa di congedo dalla forma-poesia del Novecento e della estrema duttilità della lingua «narrativa» o di provenienza narrativa impiegata dal poeta parmense: una miriade di sintagmi del parlato e del pensato, sintagmi dei retro pensieri e dei quasi pensieri, un ingolfamento affollamento di singole immagini-emozioni; quella poesia dei minimi termini e da minimo comun denominatore in auge in questi ultimi lustri nella poesia italiana contemporanea, viene qui letteralmente capovolta, e trova la propria rutilante vittoria con una grande mobilitazione di espedienti e stilemi narrativi.

Alberto Bevilacqua Alberta De Fontaine

Alberto Bevilacqua con Francesca De Fontaine

Poesie di Alberto Bevilacqua da Piccole questioni di eternità

… faccio cattivi sogni,
sogni che mi sfuggono, mi deridono,
splende d’insofferenza il sonno,
è stanco di me come padre,
s’è fatto alto, è uscito di misura,
non è più il fanciullo
di ieri,
ma un adulto che ha diritto
alla sua vita ormai
e a farsi per amante quell’eterna
ombra che chiamano
morte ed è solo il crescere dei sogni Continua a leggere

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