
K.è seduto sulla sedia girevole. Conversa amabilmente con il nano Azazello.
Giorgio Linguaglossa
[Una mia vecchia poesia che ho modificato stamattina, da Risposta del Signor Cogito]
Il Signor K. è ancora là
Davanti alla finestra. Dopo l’attaccapanni. La porta.
Uno spazio bianco.
Disse: «Oggi il miglior modo per concludere una poesia è:
“Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.”
Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi.
Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso:
“Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.”»*
[…]
La linea dei cespugli… tinnivano le posate dei corvi,
l’argenteria degli uccelli garriva.
Rumore di forbici di barbiere. Afrore di rancido.
Annuii con il capo.
[…]
K.è seduto sulla sedia girevole. Conversa amabilmente con il nano Azazello.
Il parrucchiere François con la faccia di Dalì
Gli taglia la zazzera. Il critico Bezdomnyj, gilet giallo
sotto la giacca scozzese, parla di Yeshua.
Yeshua risponde a Pilato, gli dice cos’è la verità,
ma il Procuratore ha mal di testa, non ascolta, è distratto…
[…]
Sul divano rosso. La nera custodia semiaperta.
Lo Stradivari brillava nella bara il suo sonno incomprensibile.
«Ma io non sono un violinista – obiettò mio padre –
non ho mai suonato questo strumento».
Il corvo prestò questo pensiero al musicista.
Il quale lo dimentica, imbraccia il violino, lo porta in spalla,
Sotto il mento, si mette in posa…
* Un verso di Tomas Tranströmer
Un pensiero di Lao Tsu
“Lo Spirito non ha alcuna forma.
Attraverso le cose prende forma.
Il nostro pensiero è tracciare le linee interne
delle cose”.
Mario M. Gabriele
Ecco un esempio di come continuare a scrivere poesia NOE, senza scheggiature estetiche che dequalificano le proposte inedite. Capita anche a me di rivisitare versi abbandonati e poi riformulati sotto una nuova forma,. così come hai fatto tu, Giorgio, nel testo Il Signor K è ancora là. Credo che una maggiore selezione da parte di altri autori nel proporre poesie su questo Blog, sia il modo migliore per misurarci con la critica e con gli obiettori della poesia innovativa. Nessun altro linguaggio è ipotizzabile se non aderente all’esperienza culturale a cui ci si è approdati, scavando sempre di più dal fondo biologico dell’inconscio, per risalire alle superficie superiori delle dissolvenze.

È soltanto un dio
che non sa come uscire dal guaio in cui si è cacciato
Giorgio Agamben
Scrive Giorgio Agamben in L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2017 pp. 296-297
5.14. L’arcano della politica è nella nostra forma-di-vita e, tuttavia, proprio per questo non riusciamo a penetrarlo. È così intimo e vicino che, se cerchiamo di afferrarlo, ci lascia fra le mani soltanto l’inafferrabile, tediosa quotidianità. È come la forma delle città o delle case in cui abbiamo vissuto, che coincide perfettamente con la vita che abbiamo dissipato in esse e, forse proprio per questo, improvvisamente ci appare impenetrabile, mentre altre volte, di colpo, come nei momenti rivoluzionari… si innerva collettivamente e sembra svelarci il suo segreto.
5.15. Nel pensiero occidentale, il problema della forma-di-vita è emerso come problema etico (l’ethos, il modo di vita di un singolo o di un gruppo) o come problema estetico (lo stile che l’autore segna sulla sua opera). Solo se lo si restituisce alla dimensione ontologica, il problema dello stile e del modo di vita potrà trovare la sua giusta formulazione; e questo potrà avvenire soltanto nella forma di qualcosa come una “ontologia dello stile” o di una dottrina che sia in grado di rispondere alla domanda: “che significa che i molteplici modi modificano o esprimono l’unica sostanza?”.
5.13. Avviene lo stesso nella vita sessuale: quanto più essa diventa una forma-di-vita, tanto più essa sembra separabile dal suo contesto e indifferente ad esso. Lungi da essere principio di comunità, essa si separa per costituire una propria speciale comunità (il castello di Silling in Sade o le bathhouses californiane per Foucault). Quanto più la forma-di-vita diventa monadica, tanto più si isola dalle altre monadi. Ma la monade comunica già sempre con le altre, in quanto le rappresenta in sé, come in uno specchio vivente.
Nella storia della filosofia, il luogo in cui questo problema è stato posto è l’averroismo, come problema della congiunzione (copulatio) fra il singolo individuo e l’intelletto unico. Secondo Averroè, il medio che permette questa unione è l’immaginazione: il singolo si congiunge all’intelletto possibile o materiale attraverso i fantasmi della sua immaginazione. La congiunzione può, però, avvenire solo se l’intelletto spoglia il fantasma dei suoi elementi materiali, fino a produrre, nell’atto del pensiero, un’immagine perfettamente nuda, qualcosa come una imago assoluta. Ciò significa che il fantasma è ciò che il singolo corpo sensibile segna sull’intelletto nella misura stessa in cui è vero l’inverso, cioè che esso è ciò che l’intelletto unico opera e segna nel singolo. Nell’immagine contemplata, il singolo corpo sensibile e l’unico intelletto coincidono, cioè cadono insieme. Le domande “chi contempla l’immagine?” e “chi si unisce a che cosa?” non ammettono una risposta univoca. (I poeti averroisti, come Cavalcanti e Dante, faranno dell’amore il luogo di questa esperienza, in cui il fantasma contemplato è, insieme, il soggetto e l’oggetto dell’amore e l’intelletto conosce e ama sé nell’immagine).
Ciò che chiamiamo forma-di-vita corrisponde a questa ontologia dello stile (corsivo mio), essa nomina il modo in cui una singolarità testimonia di sé nell’essere e l’essere esprime sé nel singolo corpo.
*
«È curioso come in Guy Debord una lucida coscienza dell’insufficienza della vita privata si accompagnasse alla più o meno consapevole convinzione che vi fosse, nella propria esistenza o in quella dei suoi amici, qualcosa di unico e di esemplare, che esigeva di essere ricordato e comunicato. Già in Critique de la sèparation, egli evoca così a un certo punto come intrasmissibile “cette clandestinité della vie privée sur laquelle on ne possède jamais que des documents dèrisoires” (p. 49); e, tuttavia, nei suoi primi film e ancora in Panégyrique, non cessano di sfilare uno dopo l’altro i volti degli amici, di Asger Jorn, di Maurice Wyckaert, di Ivan Chtcheglov e il suo stesso volto, accanto a quello delle donne che ha amato. E non solo, ma in Panégyrique compaiono anche le case in cui ha abitato, il 28 della via delle Caldaie a Firenze, la casa di campagna a Champot, lo square des Missions étrangères a Parigi… Vi è qui come una contraddizione centrale, di cui i situazionisti non sono riusciti a venire a capo e, insieme, qualcosa di prezioso che esige di essere ripreso e sviluppato – forse l’oscura, inconffessata coscienza che l’elemento genuinamente politico consista proprio in questa incomunicabile, quasi ridicola clandestinità della vita privata. Poiché certo essa – la clandestina, la nostra forma-di-vita – è così intima e vicina, che, se proviamo ad afferrarla, ci lascia fra le mani soltanto l’impenetrabile, tediosa quotidianità. E, tuttavia, forse proprio quest’omonimia, promiscua, ombrosa presenza custodisce il segreto della politica, l’altra faccia dell’arcanum imperii, su cui naufragano ogni biografia e ogni rivoluzione. E Guy, che era così abile e accorto quando doveva analizzare e descrivere le forme alienate dell’esistenza nella società spettacolare, è così candido e inerme quando prova a comunicare la forma della sua vita, a fissare in viso e a sfiatare il clandestino con cui ha condiviso fino all’ultimo il viaggio».1]
1] G. Agamben, op. cit. pp. 11,12
Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa
È noto che la poesia italiana ed europea durante gli anni settanta ha subito l’invasione della vita privata e del quotidiano nella forma-poesia. In Italia questa moda prende inizio con il libro di Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo (1975) e, successivamente, con il libro di Valerio Magrelli, Ora serrata retinae (1980). La versione storiografica accademica però trascura che negli anni novanta ci sono stati poeti che hanno seguito una via del tutto diversa: Giorgia Stecher (1936-1996) con Altre foto per Album (1996), Maria Rosaria Madonna con Stige (1992), Helle Busacca (1915-1996) con I quanti del suicidio (1973), Niente poesia da Babele (1980), e Mario Lunetta (1934-2017) con una fluviale produzione poetica, narrativa e saggistica che lo segnerà come l’alfiere della opposizione permanente alla deriva miroritaria e minimalista della poesia italiana.
In questi ultimi anni è diventato sempre più palese che quelle tematiche private e privatistiche si sono esaurite. È un dato storico sotto i nostri occhi. Rimane presso i continuatori di quella impostazione privatistica della poesia un intendimento situazionista e privatistico, sono rimaste per un po’ in vigore le tematiche moraleggianti sub specie di riformismo orfico, e un descrittivismo psicologico di matrice neo-verista… ma, insomma, tutto sommato, una linea minoritaria di un tipo di poesia già minoritaria ai suoi albori.
In questi ultimi cinque sei decenni la poesia italiana (ed europea) è diventata un microlinguaggio dichiarativo, si è ritirata in una nicchia, al riparo dei fortissimi e impetuosi venti che spirano in pianura e sulle montagne del mondo globalizzato.
Nel frattempo, si è avverato il monito di Adorno: «Tutta la cultura dopo Auschwitz è spazzatura», dinanzi al quale anche la critica alla poesia e alla cultura italiane di Mario Lunetta è andata a sbattere contro un muro di gomma.
Quella critica della cultura era, ed è tanto più oggi, già allora fuori contesto, era la critica di un intellettuale isolato. E quindi la risposta della cultura ufficiale è stata quella che il padrone mette al suo cane: la museruola del silenzio assordante, così da impedirgli di abbaiare, o comunque, di impedire una audience più alta alle sue accuse culturali.
In questi ultimi anni, dicevo, è diventata sempre più palese una forte reazione a quella visione privatistica del privato e a quel minimalismo ingenuo. La nuova ontologia estetica è la più drastica e convinta reazione a un indirizzo e a un versante della recente poesia italiana che ha ormai esaurito (semmai ce l’ha avuto) l’iniziale effetto propulsivo. Quell’indirizzo di poesia privatistica è andata a sbattere sul muro dell’«impenetrabile tediosità del quotidiano» (per usare la dizione di Agamben), oltre di esso non era possibile andare. Quel tipo di autobiografismo introspettivo e auto ironico è finito nella rigatteria delle istituzioni stilistiche, questo mi sembra lampante per chi abbia occhi e orecchie per intendere e per osservare. Quell’autobiografismo è finito nella «nuda vita», nella vita vegetativa delle nuove post-masse che si nutrono di ipoverità. Quell’autobiografismo (nella poesia come nel romanzo nel cinema e nelle arti figurative) è finito nella ipoverità e nella insignificanza, nell’apologetica del tempo che fu e nell’apologia del corpo. Di tutta quella paccottiglia culturale oggi è rimasto un grande mercato di narrazioni agiografiche e ipoveritative.
Dunya Mikhail
La partita
È soltanto una pedina
salta sempre nella casella opposta
non si volta a destra né a sinistra
non si guarda indietro
è mossa da una regina demente
che attraversa la scacchiera in lungo e in largo
e non si stanca di portare bandiere
e insultare gli alfieri
È soltanto una regina
mossa da un re sventato
che conta i quadrati ogni giorno
sostenendo che sono di meno
e prepara torri e cavalli
sognando un accanito rivale
È soltanto un re
mosso da un abile giocatore
che si rompe la testa
e perde il suo tempo in una partita infinita
È soltanto un giocatore
mosso da una vita vuota
in bianco e nero
È soltanto una vita
mossa da un dio confuso
che un giorno ha provato a giocare con l’argilla
È soltanto un dio
che non sa come uscire dal guaio in cui si è cacciato.
Traduzione di Elena Chiti
Poesia n. 309 Novembre 2015
Dunya Mikhail. Il mito più forte della guerra
A cura di Elena Chiti
Edith Dzieduszycka
da L’immobile volo di prossima pubblicazione per Progetto Cultura
LEI
una tovaglia fresca
odorosa di bucato
sul tavolo rotondo accanto alla finestra
Invece sul carrello
un vassoio di lacca con calici bottiglie
un mazzo di lillà dai sentori d’infanzia
In sordina gemevano
in preda a Metamorfosi
i ventitre violini
Ho scoperto con gioia
che anche a te piacciono
Era tutto perfetto
era stucchevole
quasi mi vergognavo
un’immagine kitsch da corriere del cuore
Prevedevo il tuo ghigno
lo davo per scontato
ma ti sei trattenuto
forse avrai capito che ti aspetto al varco
*
Aprire la finestra
far entrare la polvere
lasciar uscire un urlo
camminare all’indietro
indagando le orme
del passato
presente
D’un rovescio di mano
aggrapparsi all’aria
che si canta
e respira
e che manca
nello scrigno
di vana cianfrusaglia
(Edith Dzieduszycka, D’orod’argentod’ombra, Genesi, Torino, 2019, p. 84)
Paola Renzetti
Quell’autobiografismo è finito nella “ipoverità e nella insignificanza”.
Perché è l’uomo senza poteri, ad essere diventato insignificante. Perché non c’è più uno sfondo, uno spazio comune “a colori”, da cui essere attratti, a cui poter accedere in qualche modo (solo un grande e piccolo mercato di narrazioni e di azioni in cui ognuno fa per sé). La moda in serie, ha fatto il resto. Una grande inflazione di immagini, ha surclassato ogni genere di testo scritto. L’immagine di Jep Gambardella tra i rifiuti è memorabile. E quel sorriso. Sorriso di chi, dopo tutto, non se la passa ancora poi così male. E’ diventata consuetudine (purtroppo) muoversi tra i rifiuti. Lo sguardo non fa in tempo a posarsi su qualche bellezza del paesaggio, che incontra dei resti abbandonati, dei segni di distruzione o degrado (nelle grandi città siamo in tantissimi, ma succede anche in piccoli borghi, e di più in proporzione). Il poeta deve occuparsene, senza fuggire. Però certe immagini di un gusto che si è imposto, sono diventate debordanti, suscitano un disgusto, quasi pari a quello delle pubblicità del Mulino Bianco (astutamente le modificano). Non vedo perché dobbiamo farle nostre, fino a rasentare l’autodistruzione. Un compito forse ce l’hanno: quello di farci inciampare (soccombere?) creare uno scarto, per andare oltre. Oltre…oltre. Per far cosa?. L’uomo della strada, l’operaio disoccupato, l’artista, si trovano su dei pericolosi crinali. Apprezzo le poesie di Mario Gabriele e di Giorgio, qui pubblicate. Arriva da esse un respiro che si muove verso… pur con le porte chiuse. E una stanza, e i corvi. Ma che non siano troppo chiuse queste porte. C’è bisogno di aria.
«Nell’immagine contemplata, il singolo corpo sensibile e l’unico intelletto coincidono, cioè cadono insieme. Le domande “chi contempla l’immagine?” e “chi si unisce a che cosa?” non ammettono una risposta univoca. (I poeti averroisti, come Cavalcanti e Dante, faranno dell’amore il luogo di questa esperienza, in cui il fantasma contemplato è, insieme, il soggetto e l’oggetto dell’amore e l’intelletto conosce e ama sé nell’immagine).
Ciò che chiamiamo forma-di-vita corrisponde a questa ontologia dello stile, essa nomina il modo in cui una singolarità testimonia di sé nell’essere e l’essere esprime sé nel singolo corpo.»
Paola Renzetti
L’immagine contemplata”. L’immagine spesso sembra fissarsi e concentrarsi su un singolo particolare: molti e diversi (i più disparati dell’esistenza) in testi come i vostri. La “contemplazione” fa pensare a una dimensione in cui qualcosa si espande, e nello stesso tempo comprende in sé qualcosa di vasto. Ma per farlo in modo efficace, non si dovrebbe eccedere con i particolari, secondo me (Facile parlarne, bisogna provarci!). Mi viene in mente il termine, contesto… sfondo. Penso anche ad artisti che superano lo sfondo materico e vanno oltre.
Comprende in sé qualcosa di vasto,non mi pare chiaro. Qualcosa di più completo e di ulteriore, diverso, non supposto prima.
Tiziana Antonilli
Etichetta vuole
che una brutta notizia
precipiti nel silenzio apparecchiato ad hoc
e che i presenti si mostrino contriti.
L’allegra compagnia invece
l’ha afferrata e fatta girare
con calci bene assestati
fino a maciullarne l’anima dura
per lasciarla sulla strada affollata dal giorno di festa.
L’inverno, hanno detto,
completerà l’opera e la renderà compostabile.
Senza chiedersi se qualcuno lontano
stesse usando le mani
per darle sepoltura.
Giorgio Linguaglossa
Intorno ad una nuova ontologia delle parole
Un giorno una autrice di versi (di cui non dirò il nome) mi confessò che cercava di non leggere la poesia degli autori contemporanei perché si sentiva minacciata da «quelle parole» che piombavano sulla pagina con la forza posticcia del magnete dell’io, quell’io che, nella sua strategia difensiva ed auto organizzatoria, si pone sempre in ascolto di ciò che più gli garba e che non collide con le sue esigenze di auto organizzazione. Perché non v’è mai stato un canto sepolto e originario di cui sarebbe da trovare il bandolo di una matassa sfuggita di mano… Sarebbe occorso, invece, mi disse, una diversa pratica della poesia, una pratica che fosse una distanziazione, un prendere le distanze, un allontanamento da quelle pratiche plenipotenziarie e totalitarie che vogliono assoggettare la parola al governo autoritario della linearità sintattica oggi insindacabile e invece ingovernabile in quanto presuppone una concezione totalitaria e plenipotenziaria dell’io. E che al contrario occorreva sindacare, interrompere, ripudiare, porre tra parentesi quel tipo di costruzione attanziale in quanto posticcia, prodotto del lavoro dell’io, superfetazione dell’io, epifenomeno dell’io posticciamente posto… Occorrerebbe, al contrario, mi diceva la poetessa in questione, lavorare sull’io per interromperne il collegamento al segno linguistico referenziale e referenziato che una certa tradizione ci ha consegnato in eredità. Ma, come fare? Come fare per uscire da questo circolo vizioso che ci riporta inevitabilmente al «canto sepolto e originario»?, seduttivo sì, ma fittizio in quanto facente parte della strategia difensiva e auto organizzatoria dell’io?
Occorre allora introdurre nella costruzione una de-costruzione, nella letteralizzazione una trans-letteralizzazione, nella contestualizzazione una trans-contestualità che interrompa lo scorrere frastico del tempo sintattico unilineare, che lo ostacoli e ne mini l’ordine prestabilito dal logos autoritario ma con il quale la «nuova poesia» non ha nulla da spartire né condividere. In questa diversa pratica delle parole è indispensabile introdurre una distanziazione da esse e tra di esse allo scopo di giungere ad una «altra» fisicità delle parole, a una più vera fisicità delle parole. In fin dei conti la letteralità è una convinzione e una convenzione che può essere accerchiata, destituita e rimossa.
Improvvisamente, ciò che ci appariva nella sua enorme pesantezza, si rivela invece come liberatoria, le parole possono venire alla luce libere, senza dover attraversare quelle paratie difensive, quei muraglioni intimidatori che le vorrebbero respinte e respingenti. E allora scopriamo che quella «pesantezza», come diceva Nietzsche, si è convertita in «alleggerimento», il peso più grande è diventato il peso più piccolo, l’arroganza di certe parole è diventata mitezza, abitabilità. È il peso del linguaggio che qui è in questione, quel peso che è diventato insopportabile e produce afasia… Ed è inevitabile che quando un universo di parole collassa, sorgano anche le nuove parole di un altro universo… Così, non resta altro da fare che operare un ripiegamento, una ritirata ad un’altra posizione posta più indietro, ad una distanza di sicurezza, dietro l’io che ci sorveglia e incute pesantezza; indietro, molto più indietro, prossimi alle parole più fragili; rinunciare a tutte le posizioni acquisite, alle posizioni di comodo, rinunciare alle rendite parassitarie… dirigersi verso una ontologia meta stabile delle parole.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/11/07/intorno-ad-una-nuova-ontologia-delle-parole-una-ontologia-metastabile-la-concezione-totalitaria-e-plenipotenziaria-dellio-la-forma-di-vita-corrisponde-a-questa-ontologia-dello-stile-scriv/comment-page-1/#comment-60092
Una ricognizione: la poesia di Roberto Bertoldo
Nella direzione della de-fondamentalizzazione dell’io intrapreso dalla poesia italiana più avveduta di questi ultimi lustri mi piace talvolta ricordare che ci sono stati dei precursori che hanno segnato il campo ed hanno indicato con chiarezza che la spinta propulsiva della poesia del quotidiano e della cronaca con annesse le adiacenze dell’io era da tempo in via di affievolimento.
Una direzione «in diagonale» e in contro tendenza è invece la poesia del piemontese Roberto Bertoldo, il quale si muove alla ricerca di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo, salvando del simbolismo il contenuto di verità stilistica, aspetto evidentissimo in opere come Il calvario delle gru (2000), L’archivio delle bestemmie (2006), Il popolo che sono (2015), da cui queste due poesie:
La satira di Dio
Ho parlato con le note di una luna pipistrello
che sgocciola dalle nuvole
ho parlato di sporche assenze nella mia patria divelta
ma senza suoni e immagini
le parole sono l’autoaffezione dei vili
allora ho parlato con le bestemmie e le rivolte
ma si sono divelti anche gli occhi dei miei fratelli
i loro abbracci hanno perso la pelle
e così ho ricamato Dio sul dorso delle poesie
e Dio ha sputato la farsa delle mie dita
e mi ha cresimato
“agnello dalla gola profonda”.
Mio padre mi ha amato
Ho impaginato le mie metafore, ma erano lacrime
lo so. Triste è il suono che sento, è la vendetta,
pulsa con un tono che è soave, lurido e soave.
Eppure gli occhi, tra le palpebre, gli sputavano messaggi
e io non li capivo, addirittura non capivo
se mi guardava: erano nocciola
come i capelli che ancora mi stanno sul capo
una macchia nocciola tra le fessure
e non ho mai scordato che avrei voluto morire io
con i suoi occhi che mi guardavano,
dargli la pugnalata della mia morte avrei voluto,
che sapesse lui quanto l’ho amato,
perché non c’è parola più santa
dell’ultimo sguardo ferito.
Nell’ambito del genere della poesia-confessione, già dalla metà degli anni Ottanta emergono Sigillo (1985) di Giovanna Sicari e, all’inizio degli anni Novanta, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna, una delle maggiori poetesse del novecento della quale Progetto Cultura di Roma ha pubblicato in questi giorni Stige. Tutte le poesie (1990-2002) pp. 150 € 12; ricordo qui anche Altre storie per album di Giorgia Stecher (1996).
Nella poesia di Roberto Bertoldo vi sono dei cunicoli sotterranei tra i diversi gradi di esperienza che l’oggetto linguistico rivela all’osservatore. V’è un continuum, topologico e metaforico, e salti semantici e metaforici. È rinvenibile una retorizzazione del soggetto di stampo modernista (né in posizione di punta né in posizione di retroguardia), una «lontananza» dall’oggetto da sedimentare e conglomerare nell’impianto stilistico. L’io percipiente osserva, reclama l’oggetto del suo desiderio. La riproposizione della centralità del soggetto percipiente è qui un passo obbligato. Bertoldo pronunzia la condanna del «mondo», la sua è una poesia di invettiva, ieratica e plebea svolta con un lessico basso e toni infiammati. La fine della «Storia» porta con sé questo corpo a corpo con gli interlocutori della poesia. Bertoldo individua una via di uscita dalla de-fondamentalizzazione dell’«oggetto» e dalla dissoluzione del «soggetto» attraverso la metafora. Direi due discontinuità che si sommano, anzi, si sovrappongono. E si elidono. La continuità della percezione si converte in interferenza, intermittenza, simbiosi tono simbolica, simbiosi stilistica che si risolve nella «cicatrice» della metafora. Poesia che tenta la costruzione di un argine al problema del «vedere», anzi, della «cecità» propria del minimalismo tutto inchiodato sulla riproposizione della centralità di un «io ingenuo», confessionale, acritico che economizza nell’atto del vedere e adotta il commentario agli eventi della propria biografia. Nient’altro che personalismi, esibizionismi, psicologismi, antropocentrismi.
Non ho più dubbi sulla brutalità umana.
Vi prego, cantate un’altra canzone.
Si era impossessata di quel violino
e non voleva più lasciarlo.
Glielo strapparono dalle mani,
lo gettarono giù da un dirupo.
Niente. Lei – con lui. Questa volta
fu il corvo, a farlo vibrare.
Nessun dubbio sulla brutalità umana.
Cantate vi prego, quella canzone.
Ripropongo questa mia poesia, con due intenzioni – Prima: quella della sua esistenza, per cui passa (in qualche modo) anche la mia. Seconda: quella di provare a rendere ragione del suo agire, e per essere nata.
Nata senza essere attesa, apparentemente da una situazione-suggestione imprevista, accidentale – il corvo – il violino – un contesto “agreste” – (ma nei piccoli casi si danno eventi-particolarissimi, come sappiamo). Come sempre accade, l’incontro con l’Altro, ci restituisce o crea, l’immagine di qualcosa di noi che può emergere e perfino costituirci, per un tratto.
Rivendico per lei, l’essere nata dal profondo. Quella lontananza ha un suo canto e una sua voce, che chiede udienza affiorando. Nel farsi udire, porta con sé coaguli, peso. Non è facile assegnarle un posto.
Ho provato a farlo inquadrandola in un contesto, anche visivo-spaziale (non chiuso) dove soggetto e oggetto potessero stare l’uno accanto all’altro e convivere con altre presenze, pronte ad agire.
Ne spiego a posteriori l’esistenza (ha fatto un viaggio lungo, con un rocambolesco arrivo) Constatazione sulla condizione umana, senza sconti. “Canto profondo” che non rinuncia ad esistere e a trovare le strade, per intercettare altri canti.
Questa poesia è per me un rebus. Capirei se alla fine dicesse “Cantate vi prego, queSTa canzone”. Ma resta un rebus, e un po’ mi rimanda a De André.
Ecco, magari avrei fatto a meno di “inquadrarla in un contesto”. E’ una perdita di tempo. Qui, l’unico a tentare ancora un qualche contesto è Giorgio Linguaglossa, che però scrive:
Davanti alla finestra. Dopo l’attaccapanni. La porta.
Uno spazio bianco.
Però dai, primo distico e terza riga con cambio di passo, li ho notati.
Oh, per nessuno è facile;)
Per me contesto significa spazio aperto, “stanza”. In Appennino, nelle boscaglie, si aprono degli spazi, delle radure più o meno grandi (di solito non molto) che vengono ancora oggi chiamate “stanze” – “camere”, dai montanari del posto. Come si può ben capire, non sono mai chiuse. Entra della luce tutt’intorno, (non parliamo dall’alto!) e vi si affaccia qualche sentiero per i passaggi, da una – all’altra, passando per il bosco. Per ogni poeta la poesia prende forma-vita, in uno spazio diverso. Ci sono spunti, figure che si affacciano. Non sempre mostrano la carta d’identità. Si fanno avanti, ma mantengono la forza dell’ enigma. Ci possono essere piani diversi, “rilievi” o “scavi” (da immaginare), voci individuali o collettive che si evocano a vicenda, o che ne richiamano altre, come nel caso del mio breve testo. Non è facile, vero, non è mai finita. E non finirà.
La faccio più semplice. De André può essere una di quelle voci. Una e non univoca. Mi ci hai fatto pensare, Lucio Mayor. I luoghi possono essere diversi (mai fissarsi), anzi è bene che lo siano. Non sapremo quali. Grazie e buone cose. .
Buone cose a lei.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/11/07/intorno-ad-una-nuova-ontologia-delle-parole-una-ontologia-metastabile-la-concezione-totalitaria-e-plenipotenziaria-dellio-la-forma-di-vita-corrisponde-a-questa-ontologia-dello-stile-scriv/comment-page-1/#comment-60104
È possibile il colloquio in poesia?
cara Paola Renzetti,
le due parole chiave della tua poesia sono: «corvo» e «violino». Ma, guarda la coincidenza! Sono anche due parole, due simboli che hanno guidato e guidano la mia poesia… Da lì è nata in te la suggestione della poesia. La poesia è un campo aperto, una radura (Lichtung) che riceve luce aria e sole da tutte le parti. Una radura vive perché ha il bosco intorno, e l’ombra del bosco. E poi, le parole hanno delle ombre, ombre che si allungano, si accorciano, cambiano direzione… Le parole, questa è la verità, non sono mai gratuite, abitano una «patria linguistica» e il poeta non deve fare altro che Entrare in quella «patria». Entrarci non è semplice affatto. Occorre prepararsi. Occorre un addestramento meticoloso, drastico, totale, una abnegazione totale.
Ecco perché molti pseudo-poeti a contatto con i teoremi della nuova ontologia estetica si ritraggono inorriditi e gridano allo scandalo. Perché è sommamente difficile entrare in una «patria linguistica», perché lì, in quel luogo, l’io plenipotenziario mostra tutta la propria inanità e inessenzialità. Io mi permetto di essere drastico: tutta quella pseudo-poesia che ci parla delle ipotiposi e delle pseudo problematiche dell’io, come in quella poesia di Paul Muldoon che ho commentato qualche giorno fa, per arrivare alla poesia di Patrizia Cavalli, Magrelli ed epigoni vari di questi ultimi decenni, sono ciarla, chiacchiera, intrattenimento al più e al meno, decorazione, festoni colorati, palle di vetro, psicologismo…
È possibile il colloquio in poesia?, direi che è possibile soltanto attraverso una finzione, attraverso la problematizzazione e teatrqalizzazione della poiesis. Noi sappiamo, per averlo appreso nel corso del novecento, che più la problematizzazione investe il pensiero (poetico) più il soggetto esperiente si rivela colpito dal tabù della nominazione. La poesia che si è fatta in Occidente nel secondo novecento risponde a questo imperativo categorico: fare della forma-poesia una colloquio in poesia. Ma quel colloquio con se stessi altro non è che il colloquio che un io plenipotenziario rivolge ad un secondo io plenipotenziario. Un rapporto di potenza, un rapporto di legittimazione. E qui non si scappa, il colloquio altro non è che un monologo mascherato. Qui si nasconde una antinomia. C’è una oggettiva difficoltà, da parte del poeta moderno, a nominare il «mondo» e a renderlo esperibile in poesia. C’è una oggettiva difficoltà a scegliere l’«oggetto» della propria poesia; quale «oggetto» tra i milioni di «oggetti» che ci circondano?, e perché proprio quell’oggetto e non altri?. Che l’atto della nominazione si riveli essere il lontanissimo parente dell’atto arcaico del dominio, è un dato di fatto difficilmente confutabile e oggi ampiamente accettato, ma quando la problematizzazione investe non solo il «soggetto» ma anche e soprattutto l’«oggetto», ciò determina un duplice impasse narratologico, con la conseguenza della recessione del dicibile nella sfera dell’indicibile e la recessione di interi generi a kitsch.
Mai forse come nel nostro tempo la dicibilità della poesia come genere è precipitata nell’indicibile. Voglio dire che una grande parte dell’«esperienza significativa» della vita di tutti i giorni (ammesso che ci siano ancora «esperienze significative») è oggi preclusa alla poesia, per aderire al genere romanzesco della narratività. Direi che l’ordinamento borghese del mondo occidentale con il suo semplice prescrivere il «dicibile», bandisce implicitamente tutto ciò che non è immediatamente dicibile nei termini della sua sintassi, del suo lessico e della sua concezione del mondo.
Il logos problematizzato e figurato condiziona i modi di espressione della soggettività, ed essa finisce inconsapevolmente nell’imbuto della reificazione delle forme espressive e la formulazione del logos subisce il tabù della nominazione, che è quell’altra forma di dominio in cui si traveste l’ordinamento borghese della rappresentazione secondo i suoi valori e le gerarchie delle sue istituzioni stilistiche. Il poeta del Dopo il Moderno si sottopone benevolmente alla verifica di de-reificazione e di de-realismo che la tematizzazione della poesia gli richiede. E questo «sottoporsi» è un atto di abnegazione, di asservimento al logos maggioritario, alla ciarla letteraria. A pensarci bene, è paradossale ma vero: la poesia dell’esperienza ha bisogno di un universo simbolico, una «patria linguistica delle parole» nel quale prendere dimora e di un rapporto di inferenza tra il piano simbolico e l’iconico, ovvero, di una «patria linguistica»; in assenza di questi presupposti la poesia dell’io esperiente cessa di esperire alcunché e diventa qualcosa di terribilmente autocentrico ed egolalico: diventa presso a poco la carnevalizzazione di se stesso, esternazione del dicibile sul piano del dicibile: ovvero, tautologia.
Se il senso della poesia manca, manca la poesia il suo bersaglio. Non v’è orientazione semantica senza orientazione del significato. La poesia esprime il senso che può, al di qua di ciò che intende e al di là di ciò che attinge. Il compito che oggi arride alla poesia dei «poeti nuovi» è appunto ricostruire una relazione tra il significato e il significante, ma in termini del tutto diversi rispetto a quelli che abbiamo conosciuto nel Novecento.
In un mondo in cui i rapporti umani sono diventati un problema tra gli esseri riprodotti come talismani magici e ridotti a vasi incomunicanti di un messaggio che è stato soppresso dalla prassi sociale, resta il problema di come sproblematizzare il problematico, di come figurativizzare il non figurativo, di come liberare le emozioni dalla cella dell’io che racchiude l’inautenticità generale nel mondo degli oggetti semiotici.
Oggi forse, dicono alcuni, è possibile soltanto una poesia dell’inautenticità e del falso. Come il tinnire di una moneta falsa, la poesia la devi lasciare nel suo brodo di intrugli e di piccoli trucchi per poterla rubare agli dèi.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/11/07/intorno-ad-una-nuova-ontologia-delle-parole-una-ontologia-metastabile-la-concezione-totalitaria-e-plenipotenziaria-dellio-la-forma-di-vita-corrisponde-a-questa-ontologia-dello-stile-scriv/comment-page-1/#comment-60105
Sotto la spinta di questa chiosa
“[…]la poesia dell’esperienza ha bisogno di un universo simbolico, una «patria linguistica delle parole» nel quale prendere dimora e di un rapporto di inferenza tra il piano simbolico e l’iconico, ovvero, di una «patria linguistica»”
che estraggo da uno dei commenti di Giorgio Linguaglossa tento di dare una mia risposta proponendo un estratto di un mio recentissimo lavoro, in forma di Autoritratto, sulla vicenda umana, letteraria, poetico-linguistica di Ágota Kristóf.
AUTORITRATTO (con 3 testi poetici) di una delle più grandi interpreti dello straniamento europeo del ’900 e del disperato viaggio verso una autentica patria linguistica, straniamento e viaggio dati per frammenti tra ironia e malinconia con versi e personaggi di identità kafkianamente sfuggenti e schiacciati dalla cupezza dei loro destini:
Ágota Kristóf
(Csikvánd, 30 ottobre 1935 – Neuchâtel, 27 luglio 2011)
a cura di Gino Rago
“Io non scrivo più. Non mi interessa pubblicare. Se non avessero ritrovato questi testi non avrei consegnato niente agli editori per altri dieci anni. D’altra parte, mi sembra di aver pubblicato abbastanza. Ho scritto soltanto quattro romanzi e nove testi teatrali e, adesso, ho rivisto i due inediti che stanno di nuovo facendo parlare di me in tutta Europa: una raccolta di scritti autobiografici, L’Analfabeta, e una di racconti, La vendetta. Eppure sono considerata una delle maggiori scrittrici viventi in lingua francese, tradotta in trentatré lingue. Può essere che abbia altre cose da raccontare. E’ la voglia che mi manca. Continuo a scrivere ogni tanto per me stessa, ma, senza che sia successo niente di speciale, ho perso l’entusiasmo necessario. E poi, forse, lo trovo anche un poco inutile. Sono uscita l’altro ieri dall’ospedale, sono tornata nel mio appartamento. Sto in una vecchia casa nella parte vecchia di Neuchâtel, in una strada dove non si sta mai tranquilli. Ci sono prostitute, drogati, ubriachi. Ma ci sto bene, c’è il supermercato vicinissimo.
Mi sento vecchia, malata, mi hanno lasciato cicatrici dappertutto. Mi hanno operato alle gambe, per facilitare un poco la mobilità, e alla pancia.
L’atto della scrittura mi porta via come un sogno. Ho l’abitudine di scrivere senza precisare il luogo in cui si svolgono le azioni. Ho l’abitudine di scrivere le cose in generale. Le cose accadono in generale, un po’ dappertutto. E non immagino nemmeno i personaggi in un tempo preciso. Può essere accaduto oggi. E anche ieri. Del prossimo romanzo forse esistono duecento pagine scritte a mano su alcuni quaderni. Quaderni che non tocco quasi più. Se dovessi tornarci lo farei con il procedimento abituale per arrivare all’opera definitiva, cioè rivedere tutto con un dizionario alla mano, riordinare i passaggi secondo coerenza narrativa, sopprimere gli scarti e finalmente battere a macchina, forse rimarrà ben poca cosa. Ma in una recente intervista ho speso tuttavia un titolo possibile, Aglaé dans les champs, la storia di una bambina che s’innamora di un adulto. Come feci io con lo zio Guéza, un amico di mio padre, pastore del villaggio. Avevo sei anni. Fu il mio primo amore. Ero certa che ci saremmo sposati, quando fossi cresciuta. Ma chissà se questa storia la scriverò davvero. Un saggio molto dettagliato sulla mia opera è D’un exil, l’autre, un saggio nel quale l’autrice parla molto di menzogna, di mio auto esilio anche attraverso la scrittura.
Autoesilio, d’ un exil, l’autre … Non amo certe cose che scrivono su di me. Non sempre c’è qualcosa da spiegare e comunque non si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio non c’è molto da dire. Sono fatti. Tutto qui.
Ho ceduto da tempo la gran parte dei miei manoscritti all’Archivio Nazionale di Berna. Quelli dell’Analfabeta sono testi di vent’anni fa. Ho dato tutto quanto all’Archivio perché non avevo alcuna intenzione di pubblicare i vecchi testi. Per me sono finiti, come se li avessi gettati via. Qualcuno, editori italiani, li ha trovati, gli sono sembrati interessanti, li ha richiesti. L’archivista della biblioteca è una signora adorabile che tiene tutto in perfetto ordine e classifica i miei scritti, che siano o non siano terminati. Se li avessi tenuti io non li avrei mai ritrovati. Ho così tanta carta in casa e c’è un tale disordine …
Si trattava di testi sia autobiografici sia letterari, racconti. C’est égal, venticinque brevi racconti, alcuni di nemmeno due paginette. Si tratta di esercizi di stile, saggi di realismo e di surrealismo, diversi tra loro per stile e lunghezza.
Ci sono molti testi che avevo già scritto in una prima versione ungherese. E poi quando ho iniziato a scrivere in francese li ho tradotti. Alcuni erano poesie in origine. Allora non ero capace di farli diventare poesie francesi e allora li ho trasformati in racconti: ‘Non mangio più’, ‘La scure’, ‘Casa mia’, ad esempio”. E’ vero: in alcuni di questi racconti sembra ci sia persino un metro, se li si legge in francese. Alla fine sono rimasti poesie, quelle che scrivevo in fabbrica, appena arrivata a Neuchâtel. Perché la fabbrica, per scrivere poesie, va benissimo. Si può pensare ad altro, e le macchine hanno ritmi regolari che scandiscono i versi.
I 25 racconti risalgono alla prima metà degli anni Sessanta, quando, grazie a una borsa di studio, frequentavo i corsi estivi per stranieri all’Università di Neuchâtel, dove mi ero stabilita con la famiglia dal 1957. Al professore di allora, che mi chiedeva perché mi fossi iscritta ai corsi per principianti, dato che parlavo già bene il francese, ho risposto: «Perché non so né leggere né scrivere. Sono analfabeta». Il mio rapporto con la lingua? E’ stato sempre una sfida, la sfida di un’analfabeta, come mi definisco. La lingua è un’ossessione, più dei sensi che dei sentimenti, affrontata usando come arma i dizionari. Ho lasciato in Ungheria il mio diario dalla scrittura segreta, e anche le mie prime poesie. Ho lasciato là i miei fratelli, i miei genitori, senza avvisarli, senza dir loro addio, o arrivederci. Ma soprattutto, quel giorno, quel giorno di fine novembre 1956, ho perso definitivamente la mia appartenenza a un popolo. All’inizio, non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano quella lingua. Non avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua, che un essere umano potesse pronunciare parola che non sarei riuscita a capire. Perché avrebbe dovuto farlo? Per quale motivo?
A nove anni la protagonista comprende che esistono diverse lingue. Si imbatte nel tedesco, parlato da una parte della popolazione che vive nella città di frontiera in cui la sua famiglia si è trasferita. Per noi ungheresi si trattava di una lingua nemica, poiché faceva venire in mente la dominazione austriaca, ed era anche la lingua dei soldati stranieri che in quel periodo occupavano il nostro paese. E lo stesso si dica del russo, il cui insegnamento viene imposto a scuola, ma recepito senza troppo entusiasmo sia da insegnanti che da allievi. L’imposizione crea rifiuto, attiva “un sabotaggio intellettuale nazionale, una resistenza passiva naturale, non concordata, che si mette in moto da sé. Lingua nemica è anche il francese, parlato nella città svizzera del rifugio da adulta. Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l’aiuto di un dizionario da consultare di frequente. È per questa ragione che definisco anche la lingua francese una lingua nemica. Ma ce n’è un’altra, di ragione, ed è la più grave: questa lingua sta uccidendo la mia lingua materna. La differenza con la Ugrešic risiede nel fatto che il rapporto con la lingua straniera può divenire fonte di riscoperta e di rinascita. La protagonista nel capitolo conclusivo si definisce “analfabeta”, ma ha anche la volontà di impossessarsi della nuova lingua e così, in un certo senso, si può assistere ad un lieto fine. Qualche giorno fa, sono ritornata a Zurigo. Vi recitano una mia pièce teatrale. Continuo a non conoscere la città, né la lingua tedesca, ma non ho più paura di perdermi. Ho dei soldi, posso prendere un taxi, e conosco il nome del teatro. Quell’ungherese smarrita e senza soldi che ero, è diventata una scrittrice.
Come sarebbe stata la mia vita se non avessi lasciato il mio paese? Più dura, più povera, penso, ma anche meno solitaria, meno lacerata, forse felice. La cosa certa è che avrei scritto, in qualsiasi posto, in qualsiasi lingua.”
Testi di Ágota Kristóf
Chiodi
Sopra le case e la vita
nebbia grigia lieve
con le foglie a venire
degli alberi nei miei occhi
aspettavo l’estate
più di tutto
dell’estate amavo la polvere la bianca
calda polvere
insetti e rane vi morivano soffocati
se non cadeva la pioggia
per settimane
un prato e piume viola sul prato
crescono
gli uccelli il collo dei pozzi
il vento stende sotto una sega
chiodi
puntuti e smussati
chiudono porte montano grate
tutt’attorno sulle finestre
così si edificano gli anni così si edifica
la morte
Qualche parola
Sono tornati i monti della primavera ma ormai
non assomigliano più a nulla in fondo
al lago non c’è altro che melma
vengono uomini dietro di loro non c’è nulla
guardano si avvicinano e fanno ritorno
a loro stessi
le città lentamente strangolano i loro
gracili giardini squarciano il corpo dei paesaggi
le strade
un uccello prova ancora a sollevarsi
risuona qualche parola qualche campana d’allarme
e cadono le pietre
Ti aspettavo
Ti aspettavo in fondo alla strada nella pioggia
andavo a capo chino ti vedevo lo stesso
ma non riuscivo a sfiorarti la mano
Ti aspettavo su una panchina le ombre degli alberi
cadevano sulla ghiaia fresca
come anche la tua ombra mentre ti avvicinavi
Ti aspettavo una volta di notte sul monte
crepitavano i rami quando li hai scostati
dal tuo viso e mi hai detto che non potevi restare
Ti aspettavo a riva con l’orecchio incollato
a terra sentivo il tonfo dei tuoi passi
sulla sabbia morbida poi si fece silenzio
Ti aspettavo quando arrivavano i treni lontani
e le persone tornavano tutte a casa
mi hai fatto un cenno da un finestrino il treno non si è fermato
( da Chiodi, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2018, pp.112, Eu 16,00 Prefazione di Fabio Pusterla. Traduzione di Vera Gheno e Fabio Pusterla)
(gino rago)
5/6/7 novembre 2019
Notizie Bio-bibliografiche
Agota Kristof è nata a Csikvánd, in Ungheria il 30 0ttobre del 1935 ed è morta in Svizzera nel 2011. Rifugiata nel Cantone svizzero francofono nel 1956, all’epoca dei moti di Ungheria, è stata cittadina svizzera ed ha vissuto a Neuchâtel fino alla sua morte. Ha avuto tre figli, una figlia dal primo marito ungherese e due maschi dal secondo, svizzero. La Kristof è scrittrice notissima in Francia e ancor più nota nella Svizzera romanda, sua terra di adozione. Ha scritto, in francese, tra il 1986 e il ’91 tre romanzi: Il grande quaderno (1986); La prova (1988); La terza menzogna (1991), usciti in traduzione italiana con Einaudi nel 1998 sotto il titolo di La trilogia di K., seguiti da Ieri del 1995 (ed. italiana, Einaudi, 1997), da cui Silvio Soldini ha tratto il film Brucio nel vento, verso il quale la Kristof espresse un giudizio negativo. Sono note anche le sue pièces teatrali: John et Joe del 1972; La chiave dell’ascensore (77), L’ora grigia o l’ultimo cliente (queste due edite da Einaudi 1999) e Un rat qui passe del ’84. La Trilogia è diventata presto un classico della letteratura francofona, e soprattutto la prima parte, Il Grande Quaderno, ha ispirato anche molti adattamenti scenici. È tradotta, in 33 lingue: La Kristof, nella sua laconica riservatezza, ne sembra molto contenta: ha conservato pochissimi libri, dopo il divorzio, (il secondo a quanto si capisce), ma tiene con cura tutte le traduzioni del Grande Quaderno, o “dei Gemelli’, come le chiama la scrittrice.
(gino rago)
Caro Giorgio,
a una prima lettura, mi ritrovo concorde, con molto di ciò che dici. C’è la constatazione che la poesia si trovi su un terreno molto arduo, in una specie di “riserva indiana”, se si comporta bene. Se accetta anch’essa le regole mercantili di una società borghese che si sta ridefinendo spietatamente, ai danni dei più deboli. E’ possibile il colloquio in poesia? Forse sì, come dici tu, dentro a una finzione, come è sempre accaduto nell’arte. Ma attraverso la finzione, si mette in scena qualcosa di vitale e generativo, se ad agire è davvero quella forma-vita, rivelatrice e costruttrice di possibilità. Sul piano linguistico (e in potenza) possono essere molteplici le trascrizioni di quella forma, a mio modesto parere, tante quanti sono i poeti. Certo, sperimentiamo quanto comunicare sia difficile e attraente. Quanto siano presenti resistenze e pregiudizi. Non si può e non si vuole svelare mai tutto, e questa – penso sia – fortuna necessaria. “Il corvo”, il “violino”, la “stanza”, la “radura” sono nostri (in modi unici) e allo stesso tempo non ci apparterranno mai. Nella loro grande libertà, hanno viaggiato e viaggeranno chissà per quanto tempo ancora.
Fare poesia oggi, vuol dire uscire dalla melassa del tutto uguale. Può costare fatica e un certo coraggio (come è sempre stato). Può voler dire fare delle scelte, restando però in ascolto. Può smettere di scrivere, solo chi lo ha fatto significativamente, e come Agata Kristof, liberamente lo sceglie. Scrivere, scrivere, come pietra d’inciampo, come lotta per un’esistenza degna (non solo per se stessi) Meglio non farlo in solitudine, ma nel confronto.
Poesie di Tadeusz Różewicz tradotte da Paolo Statuti
Sono nessuno
the dogs leap on Actaeon
Fu condotto
al luogo di pena
il 24 maggio 1945
alle ore quindici
Ich bin Niemand
Mein Name ist Niemand
lo riconobbi dagli occhiali
e dai peli sulla faccia
aveva allora 60 anni
portava una rozza uniforme
scarponi militari
cintura e lacci
si toglievano alle persone
rinchiuse in gabbia
nei giorni afosi
sfoggiava verdi-oliva
mutande e maglietta
le stecche della gabbia furono rinforzate
diceva che dalla pazzia
lo salvava un’antologia di liriche
che aveva trovato nella latrina
that from the gates of death,
that from the gates of death:
Whitman or Lovelace found
on the jo – house seat at that
in cheap edition!
Whitman liked oysters
stringo alleanza con te
Walt Whitman
Ti ho detestato
troppo a lungo
vengo da Te
come bambino adulto
che aveva un caparbio
padre
sono Nessuno
conoscete Nessuno?
il poeta è una bestia
affogata nel mondo
per questo è così insicura
di fronte al mondo
und schritt im Käfig
auf und ab
ohne einen Blick
nach draussen zu werfen
poi lo lasciarono andare
nel serraglio
calcò nell’erba
un sentiero circolare
che non conduceva
all’abbeveratoio
il ballo dell’intelletto
tra le parole
trovò il manico
di una vecchia scopa
il manico si trasformò
nelle sue mani
in spada
racchetta da tennis
stecca da biliardo
bastone da passeggio
Interrogatorio
nel tribunale di stato
del distretto di Columbia
13 febbraio 1946
Mister Pound è qui
Voglia alzarsi e mostrarsi
Alla corte
Grazie
– Qualcuno conosce Mister Pound?
– Io lo conosco
– La poesia che lei ha letto era buona?
– Penso che quello che ho letto fosse in regola
– Il fatto che avesse mania di grandezza
e una buona opinione di sé
è una cosa singolare, anormale?
– Non nel caso di un poeta
– Ed egli è uno dei più illustri
poeti
– Sì
– Capisce egli di aver commesso un tradimento?
– L’accusato ritiene di possedere la chiave
della pace mondiale
tramite la comprensione e la spiegazione di Confucio
– Soffre di psicosi?
– Sì. Penso che soffra di mania di grandezza
e di manie di persecuzione…
Entrambe tipiche degli stati
Paranoici
Dalla cella della morte
fu trasferito
alla “Gorillakäfig”
il poeta è una bestia
affogata nel mondo
per questo è così insicura
di fronte al mondo
the dogs leap on Actaeon
stava nella gabbia
delle bestie feroci
di giorno
accucciato in un angolo della gabbia
di notte
nella luce dei riflettori
i guardiani tacevano
a volte un soldato passando
si fermava
osservava il curioso esemplare
poeta bestia traditore
“padre della letteratura contemporanea”
gettava nella gabbia
sigarette coccolata frutta
passava oltre
il vecchio bofonchiava
Usura usura usura
Rothschild Roosewelt Morgenthau
Usura usura usura
lodava le stragi hitleriane
il miglior fabbro
Ich bin Niemand
mein Name ist Niemand
the dogs leap on Actaeon
l’amore verso il prossimo lo praticavano Quelli
che respingevano la lettera della legge
sempre ho commesso soltanto errori
le parole per me non avevano più senso
risvegliato
mi stupisco
*
Elpenore come hai raggiunto questa buia riva?
Sei venuto a piedi? Precedendo i Naviganti?
Ed egli in risposta:
Triste sorte e molto vino. Dormivo nel focolare di Circe…
Uomo senza fortuna e senza nome.
Poeta, drammaturgo, novelliere e saggista, Tadeusz Różewicz (1921-2014) – da qualcuno definito “specchio e sismografo della realtà contemporanea” – è senza dubbio il più illustre scrittore polacco della generazione cui la guerra tolse la prima giovinezza. E’ nato il 9 ottobre 1921 a Radomsko. Durante il periodo dell’occupazione si mantenne dando lezioni private e lavorando saltuariamente come operaio e corriere. Nel 1942 terminò la scuola clandestina per sottufficiali. Negli anni 1943-44 combatté nei reparti partigiani dell’Armata Nazionale.
Il primo volume di poesie, uscito nel 1947, è intitolato non a caso “Niepokój” (Inquietudine, 1947). E’ l’inquietudine dell’uomo scampato allo sterminio, che lotta affinché le atroci esperienze che ha vissuto non si ripetano più. Ancora più incisive, da questo punto di vista, sono le due successive raccolte “Czerwona rękawiczka” (Il guanto rosso, 1948) e “Pięć poematów” (Cinque poemi, 1950). Il poeta penetra sempre più profondamente nelle questioni che lo travagliano, e sempre più faticosamente cerca la salvezza nell’osservazione dei mutamenti che avvengono nel suo paese. L’inquietudine morale continuerà a tormentare il poeta anche nei poemi “Równina” (La pianura, 1954) e “Srebrny kłos” (La spiga d’argento, 1955), nonché nel successivo volume “Rozmowa z księciem” (Colloquio con il principe, 1960). Il moralista non può permettere alla sua coscienza di quietarsi davanti a un mite quadretto della natura o in un pacifico idillio. Różewicz risveglia incessantemente le coscienze, perché la coscienza inquieta determina la ricerca della verità, e la ricerca della verità porta alla ricerca del bello. Różewicz è concreto e misurato. Cerca di cogliere l’essenza di un fatto, di un fenomeno, mette a fuoco ciò che vede e ne evidenzia gli elementi essenziali.
Negli anni ’50 lo scrittore, pur continuando ad esprimersi nella poesia, iniziò la sua attività di novelliere e di drammaturgo. Sono apparse così le sue raccolte di racconti “Opadły liście z drzew” (Sono cadute le foglie dagli alberi, 1955), “Przerwany egzamin” (L’esame interrotto, 1960), “Wycieczka do muzeum” (Gita al museo, 1966) e “Śmierć w starych dekoracjach” (Morte tra le vecchie scene, 1970). Caratteristica specifica delle novelle di Różewicz è l’ostinata ricerca dell’umanità in ogni frammento di vita. E’ una prosa incredibilmente condensata, dai molti sottotesti, che scava il realismo dalle vicissitudini umane. Lo scrittore diventa maestro di una nuova prosa, che si può definire realismo poetico. Spesso intreccia elementi occasionali, brandelli di conversazione, il balbettìo di un ubriaco, annunci, frammenti di trasmissioni radiofoniche e televisive, di giornali e di libri. Tutto gli serve come materiale da costruzione, tutto si amalgama nel crogiolo della sua arte.
Sono partito da queste parole di Ágota Kristóf:
«Non ho ancora trovato la parola per qualificare ciò che è capitato. Potrei dire dramma, tragedia, catastrofe, ma nella mia mente chiamo tutto questo semplicemente “la cosa” per la quale non c’è parola» e dalla chiosa di Giorgio Linguaglossa che qui riporto
“[…]la poesia dell’esperienza ha bisogno di un universo simbolico, una «patria linguistica delle parole» nel quale prendere dimora e di un rapporto di inferenza tra il piano simbolico e l’iconico, ovvero, di una «patria linguistica»”
per decidere l’allestimento dell’AUTORITRATTO di Ágota Kristóf come esempio linguistico-poetico-umano-letterario-esistenzial-antropologico, oltre che psicologico, religioso, geopolitico, economico, ecc., del grande fenomeno del Translinguismo, legato ai fenomeni massicci delle migrazioni, delle erranze, delle dislocazioni, dell’esilio, dei dismatriati, che già da tempo ha fatto il suo ingresso nella storia della letteratura non soltanto italiana.
Cito un passo da L’analfabeta di Ágota Kristóf, (nell’ambito del tema, più volte lanciato e trattato diffusamente su L’Ombra delle Parole, della lingua come forma di esilio, la «condizione di esilio» nel grande gelo linguistico):
Ágota Kristóf, da L’analfabeta:
«“Ich bin müde”, dico a Fred. Il suo viso pallido e malinconico si stira in un sorriso. “Ich bin müde” è l’unica frase tedesca che per ora conosco. In questo momento non voglio nemmeno imparare altro. Imparare altro significa aprirsi. E io voglio restare chiusa ancora per qualche tempo».
Potremmo dedurne che il doversi mettere in gioco dal punto di vista linguistico può essere faticoso. Così come il desiderio di chiudersi dentro sé stessi, che per la Kristóf è chiudersi nella propria lingua madre, è uno dei modi più diffusi ma forse non sempre efficaci di proteggersi. In molti scrittori, il ricorso ad una lingua straniera rappresenta una forma d’esilio. Lo scrivere in un’altra lingua può essere vissuto perfino come una conquista, ma anche e soprattutto come una perdita[…]
La questione linguistica è centrale in Agota Kristof. Appare in tutta la sua lacerante portata proprio ne L’Analfabeta, un lungo racconto autobiografico nel quale l’esilio è sì lasciare la propria terra, ma è anche seppellire la propria lingua, come fu anche per altri scrittori, in seguito alla fuga di moltissimi ungheresi dopo i fatti d’ Ungheria del 1956…
Altri scrittori, poeti, artisti, intellettuali, che hanno segnato il Novecento (Tzvetan Todorov e George Steiner, Salman Rushdie e Jacques Derrida, per citarne alcuni), e che in prima linea hanno vissuto la condizione dell’esilio, hanno seguito altri percorsi rispetto alla lingua materna, come Hannah Arendt che ripudiò tanto il francese, quanto l’inglese, rimanendo fedele alla lingua tedesca, anche se era la lingua dei carnefici del suo popolo.
Infatti, alla domanda:«Cosa Le è rimasto dell’Europa pre-hitleriana…»,
la Arendt dava sempre la stessa risposta:«La lingua».
Il rapporto con la lingua tedesca, nonostante la fuga dalla Germania nazista, è dichiarato in un passaggio di una lunga intervista in cui la Arendt dichiara il suo attaccamento al tedesco:«Mi dicevo: che cosa si può fare? Non è la lingua tedesca ad essere impazzita! E poi, non esistono alternative alla lingua materna. Certo, la si può dimenticare, come ho potuto vedere. C’è gente che parla le lingue straniere meglio di me. Io parlo ancora con un forte accento, e non riesco a parlare in modo idiomatico. Tutti lo sanno fare. Ma in questo modo si parla una lingua, in cui un cliché non fa che sostituirne altri, perché la creatività linguistica viene amputata quando si dimentica la propria lingua».
Nel caso di Hannah Arendt appare chiara, nettissima la posizione nei confronti della propria madrelingua, benché si fosse trasferita in un paese anglofono (gli Stati Uniti) e benché scrivesse i suoi testi in inglese.
Il tedesco nella Arendt non viene cancellato dalle altre lingue, anzi queste, inglese e francese, conservano e portano tutte e due nell’accento il segno del tedesco.
Perdere la lingua madre si traduce in un limitare la propria creatività, sarebbe una sorta di amputazione che Hannah Arendt sente di non poter subire né accettare.
La condizione di esilio in Brodskij segue invece altre coordinate che qui e ora non è il caso di indagare.
(gino rago)
Vi svelo un segreto. È un segreto che ho capito leggendo la poesia di Rozewicz, e ho deciso di farne dono ai lettori.
Nella poesia di Rozewicz si entra subito dentro una stanza, dentro una situazione, dentro un personaggio. Rozewicz è il primo poeta del nuovo modernismo europeo che utilizza il discorso diretto (facilitato in ciò dalla sua lunga esperienza di scrittore di drammi), di qui l’impiego continuo di dialoghi… e il discorso indiretto, il correlativo oggettivo con il correlativo soggettivo (cioè lo spostamento del soggetto, lo spaesamento del soggetto, la dislocazione del soggetto). Rozewicz fa uso della sapienza antica e antichissima dei saggi cinesi, di Lao Tzu quando questi scrive:
«La via è vuota, ma usandola, non si riempie».
C’è qui l’esperienza della negazione e dell’affermazione, l’una accanto all’altra. L’esperienza del vuoto e del pieno, del vero e del falso. Gli opposti non si elidono ma si potenziano. In tal modo la poesia potenzia alla estrema potenza il proprio linguaggio, nega e afferma allo stesso tempo la medesima cosa. Voi direte, ma come è possibile? Come è possibile dire con il discorso poetico una cosa e, immediatamente dopo, negarla? C’è qui un esercizio di doppiezza, forse? – No, qui è in azione il pensiero poetico che dispone della sua autorità, che tratta tutto ciò che tratta con l’autorità che è riservata ad un sovrano assoluto. Soltanto la poesia ha questo attributo, di dire e di fare ciò che crede. Al contrario del romanzo il quale invece non può permettersi tanta e tale libertà, se non altro perché un cambio di marcia deve essere spiegato e accompagnato da una preparazione narrativa. In poesia, invece, non c’è bisogno di tutto ciò, la poesia è libera di fare i salti mortali che vuole, se lo desidera. La poesia di Rozewicz fa proprio questo principio compositivo (che è anche un principio epistemologico di poetica), entra subito dentro le situazioni e le illumina dall’interno con la lampada di Diogene di una nuova visione del fare poesia e di come leggere il mondo.