
Quando ti ho abbracciato/ la prima volta/ non mi ero ancora chiesto/ il senso di quell’abbraccio.
Kikuo Takano nato a Sado nel 1927, laureato all’università di Utsunomiya. L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da Ryuichi Tamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo, e adesso esce per Passigli questo Il senso del cielo, 2017.

Guarda questa scatola vuota/ che io chiudo con un piccolo coperchio.
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
«Scrivere poesie vuol dire innanzitutto soffermarci con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste. Accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri. Fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle». E ancora: «Sulla terra, quello che non siamo riusciti a sciogliere e a congiungere, viene di giorno in giorno accumulato e gettato. Per capire il senso di questa Terra, che per noi è unica, dobbiamo anzitutto interrogare il senso fondamentale del nostro essere e del nostro nascere».
Parole di Kikuo Takano che rivelano un poeta che procede per interrogazione delle cose, dalle più umili alle più complesse, una continua interrogazione sui misteri che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi.
La poesia di Kikuo Takano è simile a una pittografia e come la pittografia è silenziosa. Tutto intorno al tratto si rivela il vuoto, ma è il tratto l’elemento fondamentale, senza il tratto non ci sarebbe il vuoto. Nella poesia di Takano un grande ruolo è rivestito dal silenzio, un silenzio che proviene da lontano, dalla liberazione dall’egoità, dalla distanza dell’essere dall’io, dalla distanza dell’io dalle cose, dalla distanza tra io ed io, dalla distanza insormontabile tra le cose e dalla scoperta che questa distanza altro non è che il vuoto. La poesia di Takano ha una velocità costante, non ci sono accelerazioni o rallentamenti, le parole si diramano in pensieri con la naturale consequenzialità dell’acqua che scorre in un laghetto producendo acciottolio di sillabe e di fonemi. Takano amava ripetere l’assioma di Heiddegger «pensare sull’essere è scrivere poesie», infatti, non è un caso che la musa di Takano parta dalla auscultazione dell’essere dell’ente uomo, e non è un caso nemmeno che il poeta giapponese se ne sia stato per venti anni in silenzio, negli anni Sessanta e Settanta quando qui da noi in Europa imperversava la moda dello sperimentalismo. L’invasione delle parole superflue dello sperimentalismo lo aveva infastidito e reso muto.
Ed ecco la scoperta più stupefacente, la scoperta del vuoto:
Guarda questa scatola vuota
che io chiudo con un piccolo coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. È così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.
Esauritasi la moda dello sperimentalismo, Takano ha ripreso a scrivere poesie. Una poesia che proviene dal Vuoto e dal Silenzio. Takano nomina sempre direttamente la «cosa», l’esperienza che proviene o dal passato remoto o dal presente, perché il tempo cronometrico per lui è una convenzione buona per regolare la vita degli esseri umani. I suoi temi sono il tempo, i gesti, le cose dentro di noi, le cose fuori di noi, un burattino che agita le braccia, «un pazzo di mezza età», un giocattolo sventrato, un ferro ricurvo, un aquilone spezzato, la solitudine del cigno, le mani, una bambina morta che ritorna nel sogno, i bambini che salutano da un torpedone agitando le mani, etc., quanto di più prosaico e quotidiano vi possa essere, ma quello che fa la differenza è il trattamento degli oggetti e dei personaggi, un trattamento diretto che ricorda le linee dei maestri zen, un tracciare con dei gesti precisi e improvvisi delle linee sulla carta. Linee significative, piene di senso, ancorché di un senso povero e tribolato, che coglie di sorpresa il lettore. E poi, il dolore, anche il dolore è come circonfuso dalla prosaicità e dalla facilità con cui avviene nel mondo, in modo inconsapevole, improvviso, senza ragione. Ma è dall’esperienza del dolore e dall’esperienza del vuoto, dall’esperienza della seconda guerra mondiale e della successiva società di massa del Giappone moderno, che proviene questa poesia così flebile e fragile, ancorché temprata nel tempo e nel dolore.
Forse, ad un lettore di oggi la poesia di Takano potrà sembrare fuori moda o fuori tempo o fuori degli schemi, ma sono il tempo e la moda ad essere fuori dal mondo, non certo la poesia di Takano.
La poesia di Takano è una grande poesia perché in ogni momento egli si chiede: “perché scrivo?”, “che cosa voglio dire che non può essere detto se non in poesia?”; e si interroga in ogni istante non su che cos’è questo o quello (per questo compito ci sono i sociologi e i tuttologi, i bravi giornalisti, i talk show, gli opinionisti), ma sulla domanda fondamentale. Ora, può sembrare un atto di arbitrio e di arroganza da parte mia, nella città del minimalismo disossato, porre la questione della domanda fondamentale.
Una volta su un blog un interlocutore mi chiese: «E allora dicci tu qual è la domanda fondamentale».
I lettori capiranno come davanti a questa rozza domanda io sia rimasto senza parole, ammutolito. Come potevo far capire al mio rozzo interlocutore che se fosse stato possibile parlare della domanda fondamentale come si fa con 2 + 2 = 4, l’avrei fatto?
Bene, la poesia che va di moda oggi in Italia è questo 2 + 2 = 4, né più né meno, è una “poesia dell’impronta digitale”, dizione di Magrelli, una tautologia del senso comune; quella di Takano è una poesia della domanda fondamentale, quella domanda che tu lettore non ti saresti mai posto prima di leggere una poesia di Takano. È per questo che si leggono i libri di poesia, per sapere qualcosa di più su questa misteriosa entità che è la domanda fondamentale. È per questo che esistono i poeti.

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927
Intervista a Kikuo Takano di Renato Minore
Takano, nella sua poesia risuona quella schiettezza lucida e distaccata che si legge nei versi di Eliot: un suo maestro?
«Sì, lo considero un maestro della mia poesia. Ho letto le sue poesie tradotte in giapponese, La terra desolata e I quattro quartetti. Soprattutto questi ultimi mi hanno dato una profonda emozione. Ricordo ancora i quattro versi del Little Godding: “Mai cesseremo di esplorare/ e alla fine dell’intera esplorazione/ arriveremo dove siamo partiti/ e conosceremo per la prima volta quel luogo”».
Quanto ha influito la tradizione Zen nel suo lavoro?
«Da noi si dice che ci siano una trentina di modi per definire lo Zen. Io penso che lo Zen sia una modalità di attesa molto fervida per rinunziare a se stessi. Quando viene annullato l’ego, il vuoto è riempito dalla saggezza di Buddha. Mi ha sempre affascinato la parola di un maestro: “Se batto le mani giunte, emettono suono. Da quale mano è prodotto questo suono e quale produrrà quello generato da una sola mano?”».
E le letture di Heidegger e Montale?
«Per quanto riguarda Heidegger, mi ha sempre emozionato il modo con cui egli tentava di dirci, senza scegliere, il silenzio sulle cose inesprimibili. Ho avuto la spinta dalla sua parola “pensare sull’essere è scrivere poesie”. Di Montale vorrei ricordare, Crisalide. Il poeta parla del tempo doloroso della crisalide avvizzita. In realtà è essenziale il tempo in cui scorre la vita, i giorni in cui la vita muta. Sembra di sentire in questi versi come un’eco: continuiamo a porci la domanda sul nostro “dove anche se ci troviamo immersi nel dolore più profondo”».
La musica è stata una componente importante del suo lavoro. Quanto e in che misura ha influito sulla sua poesia?
«Per Valéry “la poesia dovrebbe aspirare allo stato della musica”. Nel mio caso non è stato così. Tra chi amava la mia poesia c’erano musicisti che hanno composto musica vocale e corale con i miei versi. La musica mi ha dato le ali invisibili che mi hanno permesso di volare, confortandomi con dolcezza in un difficile momento quando non potevo andare avanti con le parole».

Silenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce
Lei ha adottato il verso libero, abbandonando gli schemi tradizionali, haiku e tanka. Si è sentito iconoclasta, antitradizionalista? Quanto deve alla cultura occidentale questa sua scelta?
«Amo i versi come quelli dell’ Imperatore Sutodu e di Matsuo Bashò quando scrive “Silenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce”. Tuttavia non mi sono mai avvicinato consapevolemente alla poesia in schemi fissi come lo haiku e il tanka. Ho iniziato con la massima naturalezza a scrivere poesie con il verso libero. Era un inevitabile atto espressivo per sopportare la realtà così dolorosa da affrontare dopo la seconda guerra mondiale. Sembrava che soltanto il vuoto tra i frantumi del senso perduto potesse essere accettato con tenerezza nella mia poesia. Poi lo ho abbandonato per scrivere poesie dove più forte è il senso di ricerca sull’essere. Era passato del resto poco meno di mezzo secolo da quando nel 1945 furono tradotte in Giappone le poesie occidentali di ventinove poeti, da Dante a d’Annunzio. Noi giovani siamo corsi dietro ad ogni giardino di poesia europea per cogliere fiori di grande fragranza esotica».
Takano ha lasciato il Giappone di recente: mi incuriosisce la tensione che la lega ai luoghi nati.
«La piccola isola dell’Estremo Oriente dove sono nato è una regione lontana dalla cultura e dall’arte. E anche la mia patria non è più quella di cui uno possa vantarsi. E’ il motivo per cui noi giapponesi sogniamo l’Italia, venendo in Italia. Sentiamo l’anima degli uomini che hanno compiuto il glorioso Rinascimento e continuano a farlo vivere tuttora magnificamente. C’è qui una patria di cui l’uomo può essere fiero. Io poi sono molto attratto da Vattimo, il teorico del pensiero debole. Ponendo l’attenzione sul concetto di “kenosis” egli considera ideale il modello della “debolezza”. Per lui il nucleo del pensiero cristiano è quello in cui la presenza di Dio non è stata integralmente messa dinanzi ai nostri occhi. E insiste sul fatto che si debba sviluppare il pensiero conforme alla debolezza, invece che vincere la debolezza».
Qualcuno ha scritto che lei riesce a far sembrare familiare una realtà così lontana e così diversa dalla nostra come quella giapponese. Ma è davvero così distante?
«Quando il mio traduttore Paolo Lagazzi ha visitato Tokyo ha detto: “E’ una piccola New York!”. Ahimé, il Giappone è ormai diventato una piccola America nella confusione e nella superficialità. La bomba atomica non ha distrutto solo Hiroshima e Nagasaki, ma ha distrutto l’anima del Giappone. Qui l’uomo comincia a distruggere se stesso, addirittura rischia di sparire».
Si parla di crescente Asian Power, una sorta di riscossa (economica e sociale) del vostro mondo nei confronti dello strapotere americano. Come considera questa tendenza?
«Quando ci penso, mi viene un’ansia profonda per la realtà in cui si sta incorporando il sistema strategico mondiale sullo sfondo di una grossa potenza militare-economica. Su questa strada il nostro secolo fallisce l’obbiettivo principale, quello per cui l’uomo ritrova l’uomo e approda alla vera causa di rappacificazione. Per svegliare la nostra coesistenza vorrei che questo secolo fosse chiamato “il nuovo secolo rinascimentale”.»
C’è un ruolo del poeta nel mondo di oggi che sembra sempre più lontano dall”‘ascolto” della poesia?
«Ha scritto Patrizia Cavalli: “qualcuno ha detto/ che certo le mie poesie/ non cambieranno il mondo/ Io rispondo che certo sì/ le mie poesie non cambieranno il mondo”. La poesia è sicuramente impotente a cambiare il mondo. Ma non dovrebbe perdere la domanda essenziale, chi siamo e chi dobbiamo essere nel mondo. Se la poesia è lontana dall’ascolto forse è perché troppo spesso è diventata un semplice rumore. Il ruolo del poeta nel mondo è in se stesso, nella domanda severa e autentica: “perché scrivo poesia?”.
E infine, che rapporto ha Takano con i mezzi di comunicazione di massa?
«Io non ho alcun rapporto. Ma credo che ciò che protegge la cultura di alta qualità e la consegna al mondo senza errore è proprio un lavoro altamente qualificato, si potrebbe dire coscienzioso, dei mezzi di comunicazione di massa, quando però questi superano la barriera dell’affarismo e dell’opportunismo».

Ma alla fine quest’anima/ è proprio una girandola
Poesie di Kikuo Takano da Il senso del cielo (Passigli, 2017)
Girandola
Ma alla fine quest’anima
è proprio una girandola,
spinge la propria pala
l’invisibile energia
che muove il suo asse
con la forza che cigola
e stride e gira, gira
a vuoto, con il suo vertiginoso
movimento, e senza mai
alcun inizio?
Soliloquio
«Siediti», ho detto proprio così
ma tu non c’eri.
In realtà parlavo tra me e me
e lo ripeto senza tentennamenti:
«Siediti».
«Siediti, siediti».
A dire il vero il soliloquio è dialogo
per il mio io inaccettabile
che non sopporta gli altri,
ma è ferito dalla solitudine.
È un forno che arde, il mio soliloquio!
UNDICI POESIE METAFISICHE di Kikuo Takano (1927-1998) da “L’infiammata assenza” Commento di Renato Minore
Tokyo Maison Hermes
Kikuo Takano nato a Sado nel 1927, laureato all’università di Utsunomiya.L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da RyuichiTamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo.
“Scrivere poesie vuol dire innanzitutto soffermarci con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste: Accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri. Fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle”. E ancora: “Sulla Terra, quello che non siamo riusciti a sciogliere e a congiungere, viene di giorno in giorno accumulato o gettato. Per capire il senso di questa Terra, che per noi è unica, dobbiamo innanzitutto interrogare il senso fondamentale del nostro essere e del nascere”. Queste sono parole di Kikuo Takano, un poeta che non ha mai smesso di interrogarsi non solo sull’essere e sul nascere, ma sul mondo intero. Perché il cielo è così sfuggente? Perché il mare è così rancoroso? Perché una trottola trova il suo equilibrio solo nel movimento? Perché dio si trova solo con le parole del cuore? E perché dio non risponde, quasi fosse un dio individuale, ad personam e non di tutti gli uomini?
ponte di legno tra i ciliegi in fiore
Takano è un poeta complesso, a dispetto dell’estrema semplicità stilistica e formale delle sue poesie. Si parte dal fiore, dalla farfalla, dal moto circolare che ogni giorno, quasi per inerzia, conduce il sole a nascere e a morire. Ma poi si arriva lontano e, quasi senza accorgersene, uno si ritrova a parlare dell’origine dell’universo, dell’amore, di dio. (…) È la visione della natura che ogni giorno combatte per uscire da sé e diventare altro. È un equilibrio sottile e impercettibile che lega le forze naturali in una lotta perenne, tra l’andare e il restare, tra il bene e il male, tra il nascere e il morire.
Takano parte dall’infinitamente piccolo, dall’osservazione delle forme più semplici. Una tradizione giapponese che sopravvive da almeno sei secoli e che, dopo la II guerra mondiale, ha preso forma in Giappone con gruppo raccolto intorno alla rivista ‘Arechi’. Ma Takano va oltre: non è più soltanto osservazione e identificazione con la natura. È un’interrogazione continua sul ‘senso’ della natura. Sul senso della nostra esistenza. Evangelica, oserei dire. O meglio, biblica: è il feroce punto di domanda dell’uomo davanti all’immensità, prima di disperare.
Tokyo
Potremmo dire che anche l’amore, per Takano, si inserisce in questa visione panteistica dell’universo. Il prato che si distende e accoglie le sagome degli amanti; il cielo che continua il suo giro idiota, indifferente alle lacrime di una donna abbandonata; la farfalla che punta verso un confine visibile solo ai suoi occhi miopi e non si accorge del dramma di un uomo sconfitto. Sono parte del tutto e, quindi, anche del sentimento. Entrano in quella vertiginosa girandola di identità nascoste, che solo l’osservazione del tutto restituisce. Il mondo è visto da Takano come un dono non richiesto. Come un bimbo che si veda ricevere un giocattolo del quale sa poco o nulla e si chiede cosa farne. Ma poi comincia a osservarlo, a sventrarlo, a scardinarne le parti… E in questo si ritrova gran parte della filosofia del Tao, di Lao-Tsu: «Il grave è radice del leggero, / il quieto è signore dell’irrequieto. / Per questo il santo viaggia tutto il giorno / senza discostarsi dal bagaglio, / anche se possiede palazzi regali / placidamente se ne sta distaccato».
L’uomo che si trova, suo malgrado, dentro un disegno oscuro, complesso, immenso quasi. L’uomo che non riesce a capire perché mai in quel momento lui e solo lui può e deve trovarsi in quel determinato punto, a dire quelle determinate parole. Ecco le domande che maggiormente assillano Takano; un determinismo del presente che inscatola la natura umana e sembra definirla. Ma poi questa muta forma, come in un quadro di Picasso: diventa uccello, farfalla, pistole, diamante, rana o portafogli. Impossibile inscatolarla, aveva insegnato Jaspers, uno dei maestri del poeta. Non resta che la distanza: protési verso l’obiettivo, ma con la testa rivolta indietro, in una specie di Angelus Novus improvvisato. O come insegnava Lao Tsu: se vuoi raggiungere una cosa prendi la direzione opposta. Forse nessuno capirà mai queste parole ma quando leggiamo Takano che scrive: «Per entrare più a fondo l’uomo deve fare il contrario, allontanarsi», ecco che si srotola una immagine bellissima. Quella di un uomo che rinuncia a se stesso, si spoglia delle sue convenzioni i ridiventa puro. Bambino. Assoluto.
Tokyo paesaggio urbano “Per entrare più a fondo l’uomo deve fare il contrario, allontanarsi”
Non è un caso che Kikuo Takano abbia rinunciato a produrre verso nel trentennio che va dagli anni Settanta ai Novanta. In quegli anni infatti la poesia stava attraversando quella temperie che passerà alla storia come sperimentale (…) E non a caso il suo lavoro è stato spesso paragonato a poeti quali Eliot, a cui è accomunato da un vocabolario asciutto e metafisico, scabro e essenziale. Il silenzio dei cieli muti di Takano è il contrappeso dei mondi spogli di Eliot…
Un oscuro senso di desiderio insoddisfatto percorre tutta la produzione di Takano: da una parte l’aspirazione a essere uomo, a imporre la propria umanità scabrosa, dall’altra la consapevolezza che l’unica salvezza è l’assenza di passioni. Si gioca su questi due registri il filo che tiene insieme le poesie: l’assenza e il desiderio. E, in mezzo, un dio che si fa negare… Il silenzio di dio è bergmaniano, ha un che di tragico perché è il silenzio dell’uomo: nessuna risposta a nessuna domanda ma in fondo che cos’è la vita se non aspettare invano?… Come due specchi che vengono messi l’uno di fronte all’altro e insieme rispecchiano un vuoto infinito, per usare le parole del poeta.
(Renato Minore)
Kikuo Takano L’infiammata assenza Edizioni del Leone, 2005 pp106 € 9,30 cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore
Kikuo Takano
Burattino
Nulla può il burattino, che pure è mosso da fili;
nulla può perché non saprà mai reciderli,
e può soltanto, mosso dalla disperazione,
abbrancare l’aria con inutili piroette.
Il treno
Mi capita talora di prendere un treno
e di andare volentieri verso un luogo
del tutto sconosciuto,
e lì capita che bambini senza nome
in fila sull’argine ignoto, ci salutano,
sventolano le mani senza che nessuno risponda
al saluto subito dimenticato.
Ed io penso:
“Ma le mani non dimenticano”.
Non dimenticano quelle mani d’essere mani,
e dunque parto ancora una volta,
voglio ancora incontrarle
con le guance rosse per la mia età.
Ma cosa è questa mano?
Compro il biglietto con questa mano misteriosa.
E cosa è quella mano?
Corro a scovare quelle mani misteriose
per aver certezza di incontrare ogni altra mano
e di vergognarmi di queste mie mani.
.
Il gancio
Dentro di me si muove
un gancio di ferro
chissà da quando, chissà perché,
lasciato chissà da chi,
appeso così, è un gancio proprio pauroso.
E speravo davvero che, con la ruggine,
mai dovessi provarlo.
Ma ora desidero
vedere me capovolto
a quel gancio dove non c’è
proprio nulla da appendere.
Il cigno
«Osserva bene il cigno,
valuta tutto grazie al cigno»,
un tempo era questo
il mio severo proposito.
Ma quanto è dura la vita del cigno:
con le sue ali bianche
egli rifiuta la luce
e dentro alimenta la tenebra.
.
Corda
«Lascia andare le mani, abbandonale».
Qualcuno me lo bisbiglia all’orecchio.
All’improvviso lo ho ascoltato
mentre stringevo una temibile corda,
più la tiro da ogni parte
e più diventa lunga.
Davvero inutile maneggiarla,
ben me ne accorgo,
ma se non la toccassi
sarei tutto soffocato
da quella corda.
tokyo paesaggio urbano “Lao Tsu: se vuoi raggiungere una cosa prendi la direzione opposta”
Due giochi di prestigio
“Ecco uno spago
e ne prendo i capi,
li annodo, ne faccio un anello:
di che si tratta?”
Ma è ormai banale
sentire cose simili.
“ecco, lo sciolgo,
ma da qualche parte
sarà pur finito l’anello”.
È un sempliciotto
chi me lo domanda.
“Di nuovo lo annodo,
compare l’anello,
torno a scioglierlo
e quello scompare,
ripeto il nodo,
spunta fuori l’anello,
ma se torno a snodarlo
l’anello non c’è più”.
*
Guarda questa scatola vuota
che io chiudo con un piccolo coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. È così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.
Tokyo
Lo specchio
Che oggetto triste
hanno inventato gli uomini!
Chiunque si specchia
sta di fronte a se stesso
e chi pone la domanda
è, al tempo stesso, l’interrogato.
Per entrare più a fondo
l’uomo deve fare il contrario,
allontanarsi.
.
In me
In me c’è qualcosa di rotto.
Sono come l’orologio che si ferma
poco dopo averlo caricato,
come il piatto incrinato ce non torna
nuovo se anche
lo incolli con cura.
In me c’è qualcosa di schiacciato.
Sono come il tubetto di dentifricio
quando nulla ne esce
se anche lo premi,
come la pallina da ping-pong ammaccata
che non può tenere più in gioco
nemmeno un buon giocatore.
Ci sono oggetti distrutti e schiacciati
dal principio, senza motivo, in me:
l’ombrello che non sta aperto, il violino
fuori uso e i sandali coi cinturini rotti,
il rubinetto intasato, il flauto
sfiatato, la lampada consumata.
Eppure non mi perdo d’animo,
l’ira non mi trascina, né mi tormento
come una volta, anzi mi auguro
di potermi riempire
di quelle cose inutili,
restando distrutto e schiacciato,
in questo trovando il mio orgoglio.
Sempre una voce
Sempre una voce
ti ha avvisato: “Se piangi
vai oltre il dolore.
E ti accorgi che nell’addio
c’è l’incontro”.
Così ti parlava Dio, sfiorandoti
con la mano la schiena.
Sempre una voce
ti ha avvisato: “Con pazienza
aspetta, e per meglio guardare
impara a chiudere gli occhi”.
Così ti parlava Dio, con una lieve
carezza sui capelli.
Quando nel dolore piangevi
senza poter far nulla
quel Dio lo avevi accanto,
a volte ti portava sulle sue spalle.
.
Se ti dico
Se ti dico che è la destra,
mi rispondi: “Anch’io la destra”,
se ti dico che è la sinistra
mi ripeti: “Anch’io la sinistra”.
E così insieme abbiamo atteso l’alba.
Solo l’addio che entrambi ci eravamo detti
era il desiderio dell’uno per l’altra
e assai fortemente stringeva l’uno all’altra
e noi, senza neppure toccarci,
eravamo stupiti da tanto desiderio.
“Siamo stati stupiti come bambini…”
E ora tu mi disprezzi
“sì, ti odio
perché l’hai contemplata come in estasi
senza svegliarmi con uno schiaffo
anch’io abbagliata da quella visione”.
Senza darti uno schiaffo.
un pesante schiaffo.
E noi, in quell’istante,
eravamo già oltre quella “domanda”;
tu avresti potuto pronunziare il tuo addio,
io avrei detto il mio
e con questi nostri addii
avremmo potuto iniziare
ogni notte e ogni mattina.
Ma ancora mi chiedi:
“Non poteva quell’addio
prender congedo dall’addio?”
Ed io ancora ti ripeto
quando diversa è la “domanda”,
che sparisca quella “domanda”.
Abbiamo fatto esperienza non d’amore
ma di tempo, il tempo vuoto,
e l’abbiamo accettata come un fatale contrassegno.
Avesti dovuto capirlo anche tu.
Ma alla fine che cosa vuol dire?
Se mi confronto con te,
scuoti il capo in modo banale
e banalmente mi rimproveri.
Erano inutili quei giorni,
inutili quelle lotte.
Oggi sentiamo come peccato
l’esperienza dopo aver recuperato
ciò che abbiamo vissuto.
Oh, la spola della tessitura!
È un terribile filo: più costruisce la trama
più si sfila l’altra parte del bandolo
E passano i giorni in cui mi capita
di dipanare sempre fil filo.
(da L’infiammata assenza Ediz del Leone, 2005 cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore)
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