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Robert Frost, Fuoco e ghiaccio, Adelphi, 2022, a cura di Ottavio Fatica, traduzione di Silvia Bre, pp. 547 € 30, Nota di lettura di Marie Laure Colasson

Robert frost

circa 1960: American poet and 1924 Pulitzer Prize winner Robert Lee Frost (1874 – 1963) holds a stick in both hands at arms length in a forest. (Photo by Hulton Archive/Getty Images)
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Stopping by Woods on a Snowy Evening
di ROBERT FROST

Whose woods these are I think I know.
His house is in the village though;
He will not see me stopping here
To watch his woods fill up with snow.

My little horse must think it queer
To stop without a farmhouse near
Between the woods and frozen lake
The darkest evening of the year.

He gives his harness bells a shake
To ask if there is some mistake.
The only other sound’s the sweep
Of easy wind and downy flake.

The woods are lovely, dark and deep,
But I have promises to keep,
And miles to go before I sleep,
And miles to go before I sleep.

Sostando presso dei boschi in una sera di neve

Credo di sapere di chi siano questi boschi;
Ma la sua casa è al villaggio.
Egli non mi vedrà fermo qui
A guardare i suoi boschi riempirsi di neve.

Deve sembrare strano al mio cavallo
Sostare qui dove non c’è una casa,
Tra i boschi ed il lago ghiacciato
La sera più scura dell’anno.

Scuote i campanellini dei finimenti
Per chiedere se non c’è sbaglio.
Non c’è altro suono che il fruscio
Dolce del vento e dei soffici fiocchi.

I boschi sono belli, scuri e profondi;
Ma io ho tante promesse da mantenere,
E tante miglia da fare prima di poter dormire
E tante miglia da fare prima di poter dormire.

Acquainted with the Night

I have been one acquainted with the night.
I have walked out in rain—and back in rain.
I have outwalked the furthest city light.
 
I have looked down the saddest city lane.
I have passed by the watchman on his beat
And dropped my eyes, unwilling to explain.
 
I have stood still and stopped the sound of feet
When far away an interrupted cry
Came over houses from another street,
 
But not to call me back or say good-bye;
And further still at an unearthly height,
One luminary clock against the sky
 
Proclaimed the time was neither wrong nor right.
I have been one acquainted with the night.
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In confidenza con la notte

Sono stato uno in confidenza con la notte.
Sono uscito sotto la pioggia – e sotto la pioggia son rientrato.
Ho camminato oltre le più lontane luci della città.

Ho guardato in fondo al vicolo più triste.
Ho incrociato il guardiano di ronda
E ho abbassato lo sguardo, senza voler spiegare.

Sono rimasto in piedi, immobile, fermando il suono dei passi
Quando da lontano un grido interrotto
Giungeva dalle case di un’altra via,

Ma non per chiamarmi indietro o dire addio;
E più lontano ancora, ad un’altezza ultraterrena,
Un orologio splendente contro il cielo

Annunciava che l’ora non era giusta né sbagliata.
Sono stato uno in confidenza con la notte.

The Vantage Point

If tired of trees I seek again mankind,
Well I know where to hie me—in the dawn,
To a slope where the cattle keep the lawn.
There amid lolling juniper reclined,
Myself unseen, I see in white defined
Far off the homes of men, and farther still
The graves of men on an opposing hill,
Living or dead, whichever are to mind.

And if by noon I have too much of these,
I have but to turn on my arm, and lo,
The sunburned hillside sets my face aglow,
My breathing shakes the bluet like a breeze,
I smell the earth, I smell the bruisèd plant,
I look into the crater of the ant.

L’osservatorio

Se stanco d’alberi di nuovo cerco gli uomini,
bene io so dove affrettarmi – nell’alba,
a un pendio dove pascola la mandria.
Là in mezzo a pigri ginepri adagiato,
non visto io vedo nitide nel bianco
lontano le case di uomini e, più ancora
lontano, le tombe di uomini su un’opposta collina,
vivi o morti, ma tutti da ricordare.

E se per mezzogiorno anche mi stanco
di loro, non ho che da voltarmi sul fianco
e l’assolata collina mi illumina in viso,
il mio respiro è una brezza al fiordaliso che trema,
odoro la terra, la piantina ferita,
guardo dentro il cratere della formica..

(Trad. di Roberto Sanesi)

Wallace-Stevens-Walk-Blackbird-1

versi di Wallace Stevens

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Robert Frost è stato il poeta preferito di John Fitzgerald Kennedy, è nato a San Francisco nel 1874 ed è morto a Boston il 29 gennaio 1963. È il poeta della natura vista in rapporto di estraneità e di rigetto istintivo verso la civiltà urbana e l’ideologia del progresso storico; è un poeta isolazionista, sostanzialmente astorico, anti sistemico, è il poeta del versante rurale del modernismo americano, di qui il suo linguaggio e le sue tematiche: è un poeta elementare, ripetitivo, isolazionista, regressivo. Nel 1922 escono The Waste Land  di Eliot, l’Ulisse di Joyce, le Elegie duinesi di Rilke, Il castello di Kafka, Sodoma e Gomorra di Proust;  nel 1923 esce La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Ha inizio il modernismo europeo, il 15 giugno del 1925 esce a Torino, per il tramite di Piero Gobetti, Ossi di seppia di Eugenio Montale; nel 1914 esce L’incendiario di Palazzeschi, nel 1930 il primo volume de L’uomo senza qualità di Robert Musil, nel 1923 Wallace Stevens esordisce con la raccolta Harmonium, che contiene la famosa poesia “Sunday Morning”, dove il poeta americano raggiunge un perfetto balancement tra la natura e la civiltà delle macchine; nello stesso anno escono Spring and All di W. C. Williams e New Hampshire di Robert Frost (1874-1963). Non ci possono essere due poeti più distanti tra loro. Il modernismo americano differisce da quello europeo, il primo è erede della lezione di Ralph Emerson e di Leaves of grass di Walt Whitman, oscilla tra sentimento della natura e vitalismo panico, il secondo si orienterà verso la rappresentazione della crisi esistenziale dell’uomo  occidentale prigioniero della tecnica e del progresso. Continua a leggere

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Charles Simic, Poesie, Il mondo non finisce, The world doesn’t end, La storia è un libro di ricette, I dittatori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina, traduzione, Intervista e una glossa a cura di Giorgio Linguaglossa, La macchia di Marie Laure Colasson, acrilico su legno 30×30 cm. 2020

Marie Laure Colasson Struttura ignea 30x30 2021Marie Laure Colasson, Macchia, 30×30 cm acrilico, 2020

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La macchia è la «materia-immagine» della disintegrazione, l’idea della de-figurazione stessa del soggetto e dell’oggetto nel testo, tanto che a realizzare opere di de-figurazione attraverso una lingua-corpo è stato anche il già Antonin Artaud, in testi e disegni dove la de-figurazione non è una banale lacerazione sanguinante né un puro e semplice annientamento della figura. Al contrario, essa è la forza di destabilizzazione che intacca la figura, la forza che mette la figura in movimento e le imprime una rotazione vertiginosa, un ilinx, che è la risposta alla percezione che vede germinare sciami di corpuscoli e striature laddove dovrebbe esistere un solo volto, una sola riconoscibile figura. Ci sono in atto delle forze, invisibili alla percezione quotidiana, che minano alle fondamenta la figuralità della immagine e la distorcono in macchia abnorme. Si tratta delle forze storiche della de-figurazione che agiscono nel profondo dell’inconscio del capitalismo cognitivo e dell’inconscio di ogni individuo, esse sono in azione da un bel pezzo, sono le forze della de-valorizzazione e della de-figurazione.

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«La storia è un libro di ricette. I dittatori sono i cuochi.
I filosofi quelli che scrivono il menu.
I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori.
Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina»
(Charles Simic)

Charles Simic

The world doesn’t end (Il mondo non finisce)

Part I

We were so poor I had to take the place of the bait in the mousetrap. All alone in the cellar, I could hear them pacing upstairs, tossing and turning in their beds. “These are dark and evil days,” the mouse told me as he nibbled my ear. Years passed. My mother wore a cat-fur collar which she stroked until its sparks lit up the cellar.

*

The flies in the Arctic Circle all come from my sleepless nights. This is how they travel: The wind takes them from butcher to butcher; then the cows’ tails get busy at milking time.

At night in the northern woods they listen to the moose, the lion…  The summer there is so brief, they barely have time to count their legs.

“Brave as a postage stamp crossing the ocean,” they drone and sigh, and already it’s time to make snowballs, the little gray ones with stones in them.

Parte I

Eravamo così poveri che ho dovuto prendere il posto dell’esca nella trappola per topi. Tutto solo in cantina, li sentivo camminare su e giù per le scale, rigirandosi e rigirandosi nei loro letti. “Questi sono giorni bui e malvagi”, mi disse il topo mentre mi mordicchiava l’orecchio. Passarono gli anni. Mia madre portava un collare di pelliccia di gatto che accarezzava finché le sue scintille non illuminavano la cantina.

*

Le mosche nel Circolo Polare Artico provengono tutte dalle mie notti insonni. Ecco come viaggiano: il vento li porta da macellaio in macellaio; poi le code delle mucche si danno da fare al momento della mungitura.

Di notte nei boschi del nord ascoltano l’alce, il leone… Lì l’estate è così breve che hanno appena il tempo di contare le gambe.

“Coraggioso come un francobollo che attraversa l’oceano”, borbottano e sospirano, ed è già ora di fare le palle di neve, quelle piccole grigie con i sassi dentro.

Part II

A poem about sitting on a New York rooftop on a chill autumn evening, drinking red wine, surrounded by tall buildings, the little kids running dangerously to the edge, the beautiful girl everyone’s secretly in love with sitting by herself. She will die young but we don’t know that yet. She has a hole in her black stocking, big toe showing, toe painted red…And the skyscrapers… in the failing light… like new Chaldeans, pythonesses, Cassandras…because of their many blind windows.

*

Dear Friedrich, the world’s still false, cruel and beautiful…

Earlier tonight, I watched the Chinese laundryman, who doesn’t read or write our language, turn the pages of a book left behind by a costumer in a hurry. That made me happy. I wanted it to be a dreambook, or a volume of foolishly sentimental verses, but I didn’t look closely.

It’s almost midnight now, and his light is still on. He has a daughter who brings him dinner, who wears short skirts and walk with long strides. She’s late, very late, so he has stopped ironing and watches the street.

If not for the two of us, there’d be only spiders hanging their webs between the street lights and the dark trees.

*

The dead man steps down from the scaffold. He holds his bloody head under his arm.

The apple trees are in flower. He’s making his way to the village tavern with everybody watching. There, he takes a seat at one of the tables and orders two beers, one for him and one for his head. My mother wipes her hands on her apron and serves him.

It’s so quiet in the world. One can hear the old river, which in its confusion forgets and flows backwards.

*

My guardian angel is afraid of the dark. He pretends he’s not, sends me ahead, tells me he’ll be along in a moment. Pretty soon I can’t see a thing. “This must be the darkest corner of heaven,’ someone whispers behind my back. It turns out her guardian angel is missing too. “It’s an outrage,” I tell her. “The dirty little cowards leaving us alone,” she whispers. And of course, for all we know, I might be a hundred years old already, and she’s just a sleepy little girl with glasses.

*

Once I knew, then I forgot. It was as if I had fallen asleep in a field only to discover at waking that a grove of trees had grown up around me.

“Doubt nothing, believe everything,” was my friends idea of metaphysics, although his brother ran away with his wife. He still bought her a rose every day, sat in the empty house for the next twenty years talking to her about the weather.

I was already dozing off in the shade, dreaming that the rustling trees were my many selves explaining themselves all at the same time so that I could not make out a single word. My life was a beautiful mystery on the verge of understanding, always on the verge! Think of it!

My friend’s empty house with every one of its windows lit. The dark trees multiplying all around it.

Parte II

Una poesia circa il sedersi su un tetto di New York in una fredda sera d’autunno, mentre beviamo vino rosso, circondato da edifici alti, i bambini che corrono pericolosamente al limite, la bella ragazza di cui tutti sono segretamente innamorati seduti da sola. Morirà giovane, ma non lo sappiamo ancora. Ha un buco nella calza nera, l’alluce in vista, la punta dipinta di rosso… E i grattacieli… nella luce fioca… come nuovi caldei, pitone, cassandre… a causa delle loro numerose finestre cieche.

*

Caro Friedrich, il mondo è ancora falso, crudele e bello…

Stanotte ho visto il lavandaio cinese, che non legge né scrive la nostra lingua, girare le pagine di un libro lasciato da un cliente in fretta e furia. Questo mi ha reso felice. Volevo che fosse un libro dei sogni, o un volume di versi stupidamente sentimentali, ma non ho guardato da vicino.

È quasi mezzanotte ormai e la sua luce è ancora accesa. Ha una figlia che gli porta la cena, che indossa gonne corte e cammina a grandi falcate. È in ritardo, molto in ritardo, quindi ha smesso di stirare e guarda la strada.

Se non fosse per noi due, ci sarebbero solo ragni che appendono le loro tele tra i lampioni e gli alberi scuri.

*

Il morto scende dal patibolo. Tiene la testa insanguinata sotto il braccio.

I meli sono in fiore. Si sta dirigendo verso la taverna del villaggio con tutti a guardare. Lì si siede a uno dei tavoli e ordina due birre, una per lui e una per la testa. Mia madre si asciuga le mani sul grembiule e lo serve.
È così tranquillo nel mondo. Si può sentire il vecchio fiume che nella sua confusione dimentica e scorre all’indietro.

*

Il mio angelo custode ha paura del buio. Fa finta di no, mi manda avanti, mi dice che arriverà tra un momento. Ben presto non riesco a vedere nulla. “Questo deve essere l’angolo più buio del paradiso”, sussurra qualcuno alle mie spalle. Si scopre che anche il suo angelo custode è scomparso. “È un oltraggio”, le dico. “I piccoli sporchi codardi che ci lasciano soli”, sussurra. E ovviamente, per quanto ne sappiamo, potrei avere già cent’anni, e lei è solo una bambina assonnata con gli occhiali.

*

Una volta che lo sapevo, poi l’ho dimenticato. Era come se mi fossi addormentato in un campo solo per scoprire al risveglio che un boschetto di alberi era cresciuto intorno a me.

“Non dubitare, credi a tutto”, era l’idea della metafisica dei miei amici, anche se suo fratello era scappato con sua moglie. Le comprava ancora una rosa ogni giorno, rimase seduto nella casa vuota per i successivi vent’anni a parlarle del tempo.

Stavo già sonnecchiando all’ombra, sognando che gli alberi fruscianti erano i miei tanti io che si spiegavano tutti insieme in modo da non riuscire a distinguere una sola parola. La mia vita era un bellissimo mistero sul punto di capire, sempre sull’orlo! Pensaci!

La casa vuota del mio amico con tutte le finestre illuminate. Gli alberi scuri che si moltiplicano tutt’intorno.

Part III

The time of minor poets is coming. Good-by Whitman, Dickinson, Frost. Welcome you whose fame will never reach beyond your closest family, and perhaps one or two good friends gathered after dinner over a jug of fierce red wine… while the children are falling asleep and complaining about the noise you’re making as you rummage through the closets for your old poems, afraid your wife might’ve thrown them out with last spring’s cleaning.

It’s snowing, says someone who has peeked into the dark night, and then he, too, turns toward you as you prepare yourself to read, in a manner somewhat theatrical and with a face turning red, the long rambling love poem whose final stanza (unknown to you) is hopelessly missing.

After Aleksandar Ristović

O the great God of Theory, he’s just a pencil stub, a chewed stub with a worn eraser at the end of a huge scribble.

Parte III

Il tempo dei poeti minori sta arrivando. Arrivederci Whitman, Dickinson, Frost. Ti diamo il benvenuto la cui fama non andrà mai oltre la tua famiglia più vicina, e forse uno o due buoni amici si sono riuniti dopo cena davanti a una brocca di vino rosso feroce… mentre i bambini si addormentano e si lamentano del rumore che fai mentre frughi nel armadi per le tue vecchie poesie, temendo che tua moglie possa averle buttate via con le pulizie della scorsa primavera.

Nevica, dice qualcuno che ha sbirciato nella notte oscura, e poi anche lui si volta verso di te mentre ti prepari a leggere, in maniera un po’ teatrale e con il viso che diventa rosso, la lunga e sconclusionata poesia d’amore la cui strofa finale (a te sconosciuto) manca irrimediabilmente.

Dopo Aleksandar Ristović

O il grande Dio della teoria, è solo un mozzicone di matita, un mozzicone masticato con una gomma consumata alla fine di un enorme scarabocchio.

Aforismi

da Il mostro ama il suo labirinto, Monster Loves His Labyrinth 2008

Dove il conformismo è considerato un ideale, la poesia non è la benvenuta.

Faccio parte di quella minoranza che si rifiuta di far parte di qualsiasi minoranza ufficialmente definita.

Gli orrori del nostro tempo ci faranno provare nostalgia di quelli del passato. Non credo in Dio, però evito di aprire l’ombrello in casa.

I nostri ricchi sono più bravi a rubare dei nostri ladri comuni.

Il miglior argomento a favore del vino, del tabacco, del sesso e dei discorsi a vanvera consiste nel fatto che ogni maggioranza cosiddetta morale li condanna.

Il nazionalismo è amore per l’odore della nostra merda collettiva.

Il poeta vede quello che il filosofo pensa.

L’ambizione segreta di ogni opera letteraria è quella di obbligare dèi e diavoli ad accorgersi di lei.

L’utopia: una sostanziosa torta al cioccolato protetta dalle mosche sotto una campana di vetro.

La bellezza di un attimo fuggente è eterna.

La gentilezza di un essere umano verso un altro in tempi di odio e violenza di massa merita maggior rispetto delle prediche di tutte le chiese dall’inizio del tempo.

La stupidità sta conoscendo un revival nazionale. Basta accendere la TV per vedere il suo largo bonario sorriso.

Le fotografie ci mostrano quello che non abbiamo le parole per dire.

Notte d’autunno fredda e ventosa. Sull’angolo, una barbona parla con Dio; lui, come al solito, non ha niente da dire.

Qualunque cosa è uno specchio, a guardarla abbastanza a lungo.

Qualunque ideologia o fede che non sia insaporita dall’odio non ha alcuna possibilità di successo popolare. Per essere veri credenti bisogna essere campioni d’odio.

Reading di poesia. I quattro poeti continuarono a urlare per tutta la sera: «Il mio dolore è più grande del tuo».

Tra la verità che si sente dire e la verità che si vede, preferisco la verità silenziosa di ciò che viene visto

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Charles Simic è nato a Belgrado nel 1938. Nel 1990 è stato insignito del premio Nobel. Dal 1953 risiede negli Stati Uniti, dove insegna Letteratura inglese all’università del New Hampshire. Nel 1967 è apparsa la sua prima raccolta di poesie, What the Grass Says. Da allora ha pubblicato un cospicuo numero di opere fra cui ricordiamo Prose Poems (1990), che gli è valso il Premio Pulitzer, e Jackstraws (1999), insignito dal «New York Times» del titolo di «Notable Book of the Year». Ha tradotto in inglese poeti serbi, croati, macedoni, sloveni, francesi.

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In una intervista Simic dichiara:

“A pagina uno del mio libro dei sogni/ è sempre sera/ in un paese occupato./ L’ora prima del coprifuoco./ Una cittadina di provincia./ Le case tutte al buio./ I negozi sventrati”. Ricordi certo non nostalgici. Quando aveva tre anni giocava alla guerra come tutti i ragazzini quando all’improvviso fu sbalzato da una bomba tedesca; “Le mie agenzie di viaggio sono state Hitler e Stalin” ha dichiarato, caustico, parlando del suo arrivo in America. “I tedeschi e gli alleati mi bombardavano a turno, mentre giocavo, sul pavimento della mia stanza, con la mia collezione di soldatini”. Un’immagine che è finita in una sua poesia: “Giocavamo alla guerra durante la guerra,/ Margaret. I soldatini erano molto richiesti,/il tipo in terracotta./ Quelli di piombo finivano sciolti a far pallottole,/ immagino”. Humor balcanico?

Domanda:

A proposito della lingua serba, lei spesso racconta un aneddoto divertente e surreale. Di quando, con suo zio Boris, mentre discutevate animatamente in un bar americano, una signora si è avvicinata per chiedere in che lingua parlavate. E voi…

Risposta:

“Noi abbiamo risposto che eravamo gli unici due superstiti di una tribù di africani bianchi, che parlava una lingua ormai estinta. Ci ha creduto. Gli americani del resto hanno un’idea molto vaga della geografia mondiale, nonché della storia, quindi sono sempre tentato di prenderli in giro. Una volta – ero su un treno che attraversava l’Ohio – ho raccontato a una giovane donna che ero un principe russo in esilio, e le ho descritto, minuziosamente, tutti i palazzi che possedeva un tempo la mia famiglia. Lei era incantata”.

charles simic photo

il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.
(Vincenzo Vitiello)

Glossa di Giorgio Linguaglossa

Non sorprende che Charles Simic, poeta intellettualissimo ma che ama presentarsi al pubblico come illetterato, se non trasandato, abbia sostenuto che «il vero poeta è specializzato in una sorta di metafisica della camera da letto e della cucina» e che il poeta è «il mistico della padella e dei piedi rosa del [suo] amore». Il suo gusto per i dettagli è legato all’apprezzamento per la semplicità e la brevità della poesia che non deve mai superare per lunghezza una pagina e non più di sedici versi. «I musicisti blues sanno che poche note giustamente posizionate toccano l’anima, e anche i poeti lirici». Simic, da poeta post-lirico, si è espresso anche mediante la metafora culinaria: «L’idea è che è possibile preparare piatti sorprendentemente gustosi con gli ingredienti più semplici». Alcuni dei migliori cuochi lo hanno osannato. Escoffier ha preso come motto la sua frase «Faites simple», un’ingiunzione che è anche un principio compositivo.
La dizione e la sintassi sono quelle dell’inglese di base. Si legge sulla sovracoperta di un suo libro che «il suo lavoro è apparso in traduzione in tutto il mondo». Un altro retro di copertina ci dice che il libro «evocherà una varietà di ambientazioni e immagini… [e] soggetti», ma in realtà le sue poesie trattano una serie di motivi strettamente correlati: l’oscurità, i senzatetto, impiegati, cinesi, slums, edifici vuoti e fatiscenti, macelli, pompe funebri, cimiteri… È la varia umanità del capitalismo che popola le sue poesie, senza etichette, senza sovraesposizioni ideologiche né retorica, il lessico ed il tono sono crudi, diretti, come se si dovessero dire cose impellenti ma non importanti.

La poesia è una forma d’arte anteriore alla alfabetizzazione. Nelle civiltà pre-letterate, la poesia era impiegata come mezzo di registrazione di storia orale, narrazione, ovvero, poesia epica. Le svariate forme di espressione presso le società moderne sono sempre state trattate tramite la prosa. Il Ramayana, un poema epico in sanscrito, fu probabilmente scritto nel 3 ° secolo a.C. in un linguaggio descritto da William Jones come “più perfetto del latino, più abbondante del greco e più squisitamente raffinato di entrambi.” La poesia nasce e si sviluppa con la liturgia presso le civiltà arcaiche pre-letterarie, in quanto la natura formale della poesia la rende più facile da ricordare sotto forma di incantesimi sacerdotali o di profezie. La maggior parte delle scritture sacre in tutte le antiche civiltà sono rese tramite la poesia piuttosto che tramite la prosa.
Dispositivi retorici come similitudine e metafora sono frequentemente utilizzate in poesia fin dai tempi più antichi. Infatti, Aristotele scrisse nella sua Poetica che “la cosa più grande in assoluto è quella di essere un maestro della metafora”. Tuttavia, in particolare dopo l’ascesa del modernismo, alcuni poeti hanno optato per l’uso ridotto di questi dispositivi, preferendo piuttosto di tentare la presentazione diretta delle cose e delle esperienze. Altri poeti del XX e XXI secolo, tuttavia, in particolare i surrealisti, hanno spinto i dispositivi retorici ai loro limiti, facendo uso frequente di catacresi.
Non mi meraviglia dunque che un poeta del tardo modernismo come Charles Simic utilizzi il verso libero come strumento chirurgico per veicolare il suo peculiarissimo parlato misto a perifrasi gnomiche nel bel mezzo della forma-racconto; in tal modo rivitalizza la forma-racconto della poesia. È paradossale ma vero che oggi la poesia nelle civiltà tecnologicamente evolute se vuole sopravvivere a se stessa debba riprodurre in qualche modo le forme di espressione delle antiche civiltà pre-letterarie. La forma-racconto in poesia aveva già mostrato tutti i suoi limiti ne La ragazza Carla (1959) di Pagliarani, il lungo poema narrativo con epicentro la dattilografa Carla alla lunga mostra tutti i suoi punti deboli. La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi non può fare a meno di riappropriarsi delle forme di espressione del parlato, con annesso tutto il bagaglio de il colloquiale, il soliloquio, il monologo, il dialogo, il non detto, i pensieri inespressi, i retro pensieri, il linguaggio dell’inconscio.
La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi è questa di cui stiamo parlando.

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John Taylor, Cinque Appercezioni, The Presence of Things Past, La presenza delle cose passate, Trovare un linguaggio poetico, Traduzione a cura di Marco Morello

Foto Miriam Mayer autoritratto

Vivian Mayer, Autoritratto

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Le mie “Appercezioni”

All’inizio degli anni ’80, dopo la morte di mia madre (nell’ottobre 1981), ho messo da parte la poesia in versi e ho iniziato a scrivere i testi in prosa che avrebbero riempito il mio primo libro, The Presence of Things Past (La presenza delle cose passate). Ripensando a quella “svolta”, riesco a percepire alcune delle motivazioni letterarie che mi hanno guidato. Avevo lavorato sotto l’influenza delle poesie storiche di Konstantinos Kavafis e stavo tentando di evocare le vite dei miei antenati puritani, cercando un verso libero conciso e melodioso in cui potevo esprimere la mia “petite musique” (come si dice in francese). Aggiungo che nell’ottobre 1981 vivevo in Europa dal 1975, prima come studente ad Amburgo, poi nell’isola di Samos, e infine a Parigi.

Ma con la morte di mia madre, il compito di trovare un linguaggio poetico mi ha impegnato molto meno della profonda necessità interiore di evocare quell’evento, così come altri eventi o persone risalenti alla mia infanzia a Des Moines, una città di medie dimensioni del Midwest americano. Infatti, la nozione stessa di “bellezza poetica” mi è diventata sospetta. Inoltre, mentre scrivevo le prime bozze di quei ricordi d’infanzia, cercando di essere il più fedele possibile a quello che mi stavo in realtà ricordando, e rifiutando tutto ciò che la mia mente sembrava aggiungere o modificare per ragioni letterarie, tutto ciò che ho trovato nei miei taccuini erano frammenti: racconti non dettagliati, poco sviluppati, con personaggi quasi spettrali e raramente una cronologia chiara. Parti sostanziali delle mie memorie mi sembravano non finite, incomplete, lacunose – e autenticamente così, in quanto questo è come mi richiamava tale evento, tale persona. I miei primi testi in prosa quindi a volte non hanno avuto nessun inizio vero o, ancora più spesso, nessun finale definitivo; e ho evocato, non ho descritto, i miei personaggi con i relativamente pochi dettagli a mia disposizione. Non volevo inventare, aggiungere della “malta” fittizia per trasformare i miei testi frammentari in solidi racconti anglo-americani. Se dovessi inventare dettagli, non mi allontanerei dalla “verità”, già sfuggente, di un ricordo? Con questo intendo un ricordo che non sarebbe necessariamente rigorosamente “fedele alla vita”, cioè “vero” a ciò che è realmente accaduto in passato (poiché nessuna mente, foto, film, registratore o rilevatore di bugie può recuperare il passato nella sua esattezza), ma piuttosto una memoria alla quale non avrei consapevolmente aggiunto nulla per migliorare le sue qualità letterarie. Non si trattava di inventare un finale per una storia: tante cose che erano successe nella mia vita mi sembravano non avere fine; i sentimenti non erano conclusivi, né conclusi. Il passato (e il futuro) erano presenti nella mia mente quanto il presente.

Naturalmente, quello che ho abbozzato qui sulla mia metodologia deve essere qualificata. Durante la revisione delle mie prime bozze, avrei necessariamente cancellato una parola inutile o cercato un sinonimo che individuasse più precisamente un’immagine. Correggevo un’ambiguità sintattica. Ma la mia regola generale è rimasta costante: nessuna invenzione, nessuna finzione, o il meno possibile. È stato solo all’ultimo minuto, prima che i racconti fossero pubblicati, che ho cambiato i nomi veri in nomi fittizi, creando nuovi nomi per mezzo di permutazioni fonetiche.

All’epoca stavo traducendo i racconti di Elias Papadimitrakopoulos, uno scrittore greco che rievoca la sua infanzia negli anni ‘30 a Pyrgos, una città del Peloponneso. Il suo stile di prosa breve, come lui lo mostrò nei suoi primi due libri, Dentifricio con clorofilla Bagni caldi al mare, mi ha liberato dal racconto anglo-americano classico. Anche Papadimitrakopoulos si concentra sui pochi dettagli rivelatori e lascia molto all’immaginazione del lettore, non però a causa di una strategia letteraria, ma perché anche lui non sa o non ricorda necessariamente quello che realmente è accaduto prima o dopo l’evento chiave, o perché non ha conoscenza di alcuni degli elementi che lo costituiscono. Come la mia infanzia, la sua, come si esce nella sua prosa, è piena di frammenti e lacune, insieme a una grande tragedia: la morte prematura di suo padre.

Mentre stavo lavorando sulle mie traduzioni dei racconti di Papadimitrakopoulos e scrivendo i miei testi in prosa, un altro problema è emerso. Forse perché molti dei miei testi trattavano della morte, quella di mia madre e di alcuni vicini e di un compagno di scuola indimenticabile, ho iniziato a esaminare come io, il narratore in prima persona, stavo spontaneamente annotando le percezioni, i pensieri e i sentimenti associati con i miei ricordi di quelle persone quando erano vive e di me stesso quando ero in mezzo a loro, a osservarli. Senza inizialmente pensare a preoccupazioni stilistiche, stavo usando spesso nelle mie prime bozze una sorta di formula: mi sento sentire, ho la sensazione di pensare, mi rendo conto che sto vedendo, sentendo, toccando, e così via. Ero attratto, come scrittore autobiografico, non sempre dalle percezioni in sé stesse ma spesso dalle “appercezioni”, quegli stati di accresciuta consapevolezza durante i quali si percepisce che si sta per avere un’impressione sensoriale, di sperimentare un’emozione, o di nutrire un pensiero. Questi sono i momenti privilegiati durante i quali si sente di essere vivi; ci permettono di sentire quello che significa essere vivi: non solo una serie di sensazioni, anche di sensazioni forti, ma piuttosto sensazioni che sono accompagnate dalla consapevolezza del soggetto che lui sta vivendo le sensazioni: la coscienza del sé proprio come soggetto ricevente le sensazioni. Non passò molto tempo prima che mi rivolgessi a Leibniz, a Kant e soprattutto a Maine de Biran.

John Taylor The Presence of Things Past-new edition 2Leibniz definisce l’“appercezione” come la percezione di un oggetto come un “non sé” e tuttavia come in relazione con il sé. Kant vede l’“appercezione trascendentale” come una percezione (di un oggetto) che coinvolge la coscienza del sé puro come il soggetto: “la coscienza pura, originale, immutabile che è la condizione necessaria della esperienza e il fondamento ultimo dell’unità della esperienza”. Kant definisce un secondo tipo di appercezione, l’“appercezione empirica”, come la coscienza del soggetto degli stati mutevoli del suo sé: questo è il “senso interiore”. Nel suo libro De l’aperception immédiate (1807), il filosofo francese Maine de Biran analizza questi fenomeni cognitivi in dettagli sottili. Il suo approccio mi ha aiutato a capire come stavo cercando a tentoni passaggi tra il mondo esterno e il mio mondo interiore, tra un’altra persona e io, tra la mia mente e il mio corpo. Durante la mia infanzia avevo visto, anzi sperimentato “separazioni” su numerosi livelli dell’esperienza umana, compresi i livelli più privati, più intimi. La nozione di “appercezione” mi ha permesso di capire come stavo cercando di colmare alcune di quelle lacune.

Ho finito per pensare ai miei testi in prosa più brevi come “appercezioni”. I testi non sono poesie in prosa; né sono storie. Tentano di catturare un momento da ricordare in cui io sono consapevole del fatto che mi sto ricordando. In ogni caso, il termine “appercezioni” sottolinea il perseguimento delle domande cruciali: cosa significa, cosa implica essere vivi in un’esistenza circondata dal nulla e dalla morte?

Quando è arrivato il momento di mettere insieme tutti i miei testi per comporre il mio primo libro, ho deciso di non separare in modo categorico questi brevi testi dai testi un po’ più lunghi che avevo anche scritto; ho inoltre usato le appercezioni come elemento integrante del loro approccio narrativo. Ho finalmente trovato un ordine per tutti i testi, lunghi o corti, basando le mie scelte su criteri diversi dalla lunghezza: di solito un’emozione che avrebbe ceduto ad una seconda emozione, un po’ diversa, nel racconto che segue. Ho finito per raggruppare tutti questi testi in prosa sotto un titolo che rimanda a uno dei concetti di sant’Agostino: The Presence of Things Past (La presenza delle cose passate).

(John Taylor)

Konstantinos Kavafis, Tutte le poesie, A cura di Paola Maria Minucci, Collezione Poesia, Roma, Donzelli, 2019.
Elias Papadimitrakopoulos, Toothpaste with Chlorophyll & Maritime Hot Baths, Asylum Arts, 1992 / second edition: Coyote Arts, 2020.
Maine de Biran, De l’aperception immédiate (Mémoire de Berlin, 1807), Oeuvres, tome IV, Librairie Philosophique Vrin, 1995.
John Taylor, The Presence of Things Past, Story Line Press, 1992 / second edition: Red Hen Press, 2020.

John Taylor
Cinque Appercezioni

Il Primo Ostacolo

Il primo ostacolo della mia vita, o almeno il primo di cui fui pienamente consapevole, fu quello sfioratore della diga al Parco Statale Springbrook. Era una struttura di cemento, scivolosa e coperta di schiumaccia, che sorgeva improvvisamente di sbieco. Dell’acqua viscida gocciolava giù sull’intera superficie. L’aria ci stazionava greve, brumosa, fetida e fredda.
Il Signor Ryder e i suoi due figli, entrambi più grandi di me, iniziarono a salire sullo sfioratore. Allargando le braccia come degli acrobati sul filo, posavano un piede tremolante dopo l’altro.
Poi anche mio padre iniziò a salirci.
Solo io indugiavo più indietro, incapace di fare il primo passo. Ogni volta che bilanciavo il piede, il mio coraggio svaniva. Quando guardai in su cercando gli altri, c’era solo la scivolosa, nuda parete dello sfioratore incombente.
Mio padre si voltò e ritornò indietro per aiutarmi.
E questo è tutto ciò che ricordo del primo ostacolo della mia vita. So che più tardi pranzammo intorno a un fuoco da campeggio. So che il giorno dopo giocammo a baseball coi ragazzi Ryder. Che in seguito stavamo su un ponticello di legno e tiravamo sassi alle esperie. Che poi ci fu la tenda da smontare e la macchina da riempire.
Mio padre ed io trovammo un passaggio intorno allo sfioratore ? Tornammo indietro lungo il letto del fiume fin dove poter scalare la riva ? Oppure strinsi i denti e, a quattro zampe, ce la feci fino in cima ?
Mio padre mi telefonò l’altro giorno e dopo tutti questi anni infine glielo chiesi.
Lui disse che avevo camminato fino in cima allo sfioratore. Uno dei ragazzi Ryder era scivolato ed era caduto, ma lo sfioratore non era poi così ripido.
Ma allora perché questo ricordo infantile di difficoltà e fallimento, in realtà un’invenzione della mia immaginazione, ritorna di tanto in tanto a tormentarmi, al punto di farmi perdere tutta la fiducia in me stesso ?

Le Pagine Intonse

Non ho mai letto i racconti brevi di George Bernard Shaw, che un amico straniero diceva che i miei gli ricordavano. Ma nella vecchia casa un ripiano dello scaffale dei libri nel seminterrato conteneva numerose opere di Shaw: libri appartenuti a un lontano cugino, Leon Hook, poi a sua madre, poi a mia nonna paterna. Sfogliavo spesso i libri di Shaw, iniziando a leggerne qualcuno, ma non ne trovai mai uno che mi interessasse abbastanza da finirlo.
Qualche anno prima che mia nonna morisse arrivarono i libri di Shaw, insieme ad altri blocchi, di Oliver Wendell Holmes, di Herbert Spencer, di Ralph Waldo Emerson. Thomas Carlyle e Lord Macauley erano stati tra gli autori preferiti da mio cugino; e c’erano diverse opere tradotte dal tedesco. Fuori in garage mio padre ed io costruimmo lo scaffale, poi lo dipingemmo del blu che mia madre aveva scelto per noi.
Quelle scatole di cartone non contenevano sorprese. Il baule di legno egiziano che avevamo ereditato insieme al resto raccontava solo la storia sentita dalla nonna: che Leon Hook l’aveva comprato al Cairo nel suo viaggio di ritorno dall’India.
“Dall’India ?” chiesi.
“Credo di sì,” rispose mia nonna.
Leon Hook era stato in India, a Hong Kong, diverse volte in Sud America. Anche quell’imitazione di calendario azteco di pietra su un ripiano nel salotto dei nonni doveva essere appartenuta a Leon Hook, ma quando lei me la regalò per il compleanno mi dimenticai di chiederglielo.
“Lui lavorava solo sei mesi all’anno,” diceva lei. “Viaggiando.”
“E gli altri sei mesi ?”
“Suppongo che leggesse libri,” rispose.
Se anche Leon Hook scrisse poesie o tenne un diario, niente si era salvato. Mia nonna aveva qualche fotografia: pipa di radica in mano, un cespuglio di capelli pettinati all’indietro, la testa voltata di lato, gli occhi che fissavano un’invisibile finestra. Lui aveva studiato ad Harvard: filosofia, pensava qualcuno; altri, che doveva essere qualche scienza naturale.
“Mi ricordo le sue collezioni di coleotteri e di farfalle,” disse mia nonna. “Dopo la guerra la zia Nina deve averle spostate. Come sai, lei non si riprese mai.”
Approdato da qualche parte in Europa Leon Hook, trentunenne, cadde vittima della spagnola.
“Puoi immaginare,” disse una volta mio padre, “il dolore che la sua morte deve aver causato in famiglia: tutte le donne lo adoravano.”
Poi indicò lo scaffale dei libri e disse: “Molti libri hanno le pagine intonse.”
Rimasi seduto là per un bel pezzo dopo che lui era andato di sopra.
Solo più tardi mi accorsi di quanto facesse freddo, dell’odore di chiuso, dell’aria umida, dei passi di sopra, del ronzio dell’umidificatore nella stanza accanto.

Foto Vivian mayer in ascensore metallico

Vivian Mayer, In ascensore

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Un Sogno

Mi trovavo nel mio vecchio liceo a Des Moines, stavo percorrendo il lungo corridoio che portava alla Scuola Media Meredith. Alla fine del corridoio mi imbattevo in una stazione del Métro, una di quelle vecchie entrate con decorazioni Art Nouveau, e scendevo le scale. C’erano poche persone. Sulla banchina, in attesa del treno, toccai qualcosa e un pezzo di chewing gum mi si appiccicò al dito. Cercai di grattare via la gomma sul fianco di un cestino dei rifiuti; mentre torcevo e rigiravo il dito sollevai lo sguardo: Billy Bowers mi stava osservando.
“Billy !” dissi. “Quanto tempo è passato !”
Billy pronunciò il mio nome con un tono di voce che faceva sembrare il nostro incontro normale e previsto.
Lui sembrava aver acquistato fiducia in sé stesso.
Parlò di sua sorella, che stava per sposarsi per la seconda volta, con un uomo più vecchio, divorziato e con tre figli. Lei faceva la veterinaria.
Lo guardavo parlare: solo la sua pelle era invecchiata, fragile, traslucida come la pergamena. Portava i capelli biondi con la riga laterale, vestiva ancora in blue jeans e una maglietta bianca che faceva sembrare le sue braccia magrissime. Adesso si faceva la barba; scuri puntini di peli rasati gli coprivano le guance e il mento. Gli chiesi:
“Billy, vivi ancora coi tuoi genitori ?”
(Si scherzava spesso in famiglia ricordando che dopo essersi diplomato Billy Bowers viveva ancora dai suoi, né lavorando, né andando al college.)
Al che Billy scomparve, ma la sua presenza indugiava, come un’emozione, invisibile. Pensai:
“Dopo tutti questi anni ho di nuovo ferito i sentimenti di Billy Bowers.”
L’autobus si fermò all’angolo della 48ma con Urbandale Avenue.
Scesi, risalii la collina e mi svegliai. Continua a leggere

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Louise Glück, Premio Nobel per la poesia 2020, Poesie varie, Dialogo e valutazioni, La inadeguatezza della giuria svedese del Premio Nobel

Louise-Gluck

Louise Glück

Mario M. Gabriele

Giorgio,

che ne dici del Nobel dato a Louise Glück? Hanno premiato la poesia tradizionale confermando che altre strade non sono percorribili, mentre in Italia noi proponiamo la NOE con la Poetry Kitchen, la Poesia buffet, Pop-Spot, Pop-Bitcoin, e Pop-Jazz? Siamo da considerarci fuori gioco ? o siamo arrivati a frantumarci con i frammenti e a rivedere ogni cosa asfissiati da molti detrattori alcuni dei quali nei loro Blog non fanno che inquinare la nostra poesia?. Se la Nuova ontologia estetica è tutto questo bisogna stare attenti nel proporre testi decerebrali dando più risorse alla nostra poesia.

Giorgio Linguaglossa

caro Mario Gabriele,

che vuoi che ti dica? Il Nobel alla americana Louise Glück era nell’ordine delle cose dopo il passo falso del Nobel conferito a «Bob Dylan (poeta sui generis)», come scrive giustamente Guido Galdini. Inoltre, la giuria del Nobel è composta da persone che hanno una media di 85 anni, e a quell’età non c’è più voglia di rischiare, i gusti si sono consolidati e sedimentati, ogni novità viene vista con grande sfiducia se non con sospetto, e il risultato finale è questa immobilità del gusto complessivo della giuria; questa scontatezza delle sue scelte era ampiamente prevedibile, e pensare che negli Stati Uniti c’è un poeta che per diapason è cento volte superiore alla mite e timida voce di Louise Glück, un certo Charles Simic. Ma si sa che Simic è un poeta scomodo, visto come un protestatario, un intellettuale non propriamente allineato con l’idea di poesia che hanno i membri della giuria del Nobel che è quella un po’ vecchiotta e ammuffita di una ontologia poetica che vede la poesia come lirica un po’ sliricizzata quanto basta, una lirica che ha il suo focus sulle vicende dell’amore tradito e della umanità infingarda e fasulla.

Cosa vuoi che ti dica della poesia di Louise Glück? Mi sembra una poesia un po’ telefonata, certo ben scritta, con giri di frasi professionali ma con alcune cadute, anzi, con frequenti tonfi come quel verso:

Nessuna disperazione è come la mia disperazione…

che fa oggettivamente ridere. Si tratta di una vecchia e antiquata concezione della poesia, che comunque ci può stare, Louise Glück scrive le sue cose migliori negli anni ottanta e novanta, è una poesia che vuole essere esistenzial-quotidiana, una poesia d’amore (mi vengono i brividi…). Certo, in confronto Charles Simic è un gigante, ma si sa che i giganti danno fastidio, sono ingombranti, troppo ingombranti per l’attempata giuria del Nobel. Ma non mi sorprende questa incapacità, questa inadeguatezza, questo non essere all’altezza dei membri della giuria del Nobel ad esprimere dei verdetti sulla poesia contemporanea; il messaggio che si vuole dare con questa assegnazione nobiliare mi sembra molto ovvio ed evidente: la completa ininfluenza della poesia nel mondo contemporaneo, l’inadeguatezza della poesia ufficiale a parlarci dei problemi del nostro mondo; e leggendo le poesie di Louise Glück questo aspetto risulta evidente.

I cittadini del capitalismo globale sono consapevoli del fatto che la visione del mondo che abbiamo è distorta e dunque siamo tutti diventati dei «soggetti cinici». Questa nozione di soggetti come cinici la riprendiamo dal pensiero di Peter Sloterdijk, il quale avanza l’ipotesi secondo cui l’ideologia dominante sia essenzialmente cinica, ciò che rende inoperoso l’orientamento critico ideologico classico. Secondo Sloterdijk il «soggetto cinico» è consapevole e cosciente della distanza che c’è tra la maschera ideologica e la realtà sociale in cui vive, ma ciò non è sufficiente per far sì che non rimanga fedele alla maschera stessa. Allora, la formula marxista classica che definiva l’ideologia (non sanno quello che fanno ma lo fanno), deve essere corretta: «sanno benissimo quello che fanno, e tuttavia continuano a farlo». La differenza in gioco risiede nel fatto che la ragione di cui parliamo non è più ingenua poiché rappresenta il paradosso di una «falsa coscienza illuminata» (dizione di Slavoj Zizek); i soggetti della ragione cinica infatti sono del tutto consapevoli degli interessi particolari che si celano dietro l’universalità ideologica, cioè del fatto che l’ideologia della disperazione senza disperazione alcuna è l’ideologia dominante del nostro mondo post-ideologico e post-globale, l’ideologia che ci consente la falsa contezza della realtà delle cose, e tuttavia di agire in favore di questa falsa contezza; nonostante questo, nessuno di noi è disposto a rinunciare ai privilegi e ai vantaggi che una tale falsa visione delle cose implica. Ecco il punto. Ecco spiegata  l’ideologia dominante della disperazione senza disperazione alcuna che intride la poesia della Glück e le masse mediatizzate post-globali di oggi in pieno capitalismo globale in crisi. È l’ideologia del nostro tempo che si cura a base di aperitivi e di Roipnol. Siamo quindi giunti in un momento storico in cui dovremmo parlare di post-ideologia? Per rispondere  dobbiamo fare un passo indietro e ritornare al concetto di «fantasia ideologica», affinché si possa dimostrare come la ragione cinica, con il suo distacco ironico e istrionico, lasci comunque intatto il livello fondamentale della fantasia ideologica cioè il livello sul quale l’ideologia organizza la realtà sociale. È necessario quindi ritornare alla definizione marxista «non sanno di far ciò, ma lo fanno» per poi chiedersi se il luogo dell’illusione ideologica sia nel fare o nel sapere all’interno della realtà. Il che poi è la stessa cosa in quanto il cittadino del mondo globale agisce nella realtà a dispetto della sua parziale o totale contezza dell’ideologia che lo acceca. Questa ideologia della falsa disperazione è presente in amplissima misura nei romanzi omiletici e nelle poesie omiletiche che si fanno oggi in Occidente.
.

Ma tutto ciò non significa che noi non dobbiamo continuare nel nostro lavoro di svecchiamento della poesia delle «società signorili di massa» del mondo occidentale, come sono state brillantemente definite da un economista italiano. La poesia di Louise Glück è il miglior ornamento che la società signorile di massa di oggi si può agghindare sul petto a mo’ di trofeo, è una poesia decorativa e funzionale alle attese del pubblico benestante mediatizzato e atrofizzato e in falsa coscienza che fa pubbliche donazioni ai poveri e agli orfanelli degli orfanotrofi e che vuole essere confortato, corroborato e consolato della propria falsa coscienza e del proprio squallore. Questa poesia corrisponde perfettamente al canone delle buone maniere e del buon apprentissage, come dire, della figura del poeta nell’organizzazione delle strutture della persuasione delle società signorili di massa.

La poetry kitchen è ovviamente un’altra cosa, la nostra poesia non ha nulla a che vedere con questo reliquiario di tematiche liturgiche, non abbiamo altra scelta che proseguire nel nostro lavoro, ben sapendo che troveremo ferree resistenze da parte della poesia istituzionale. Ma questo lo sapevamo già.

Poesie di Louise Glück

Mattutino

Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa… Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne…
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore. Continua a leggere

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Sonia Raiziss (1906–1994), Poesie scelte, da A caduta libera, Mimesis Hebenon, 2018, pp. 140 € 12 con uno scritto di Alfredo de Palchi e traduzione di Elisa Biagini, un Appunto di Giorgio Linguaglossa

 

Foto Eliot Elisofon La vita come ripetizione infinita

Eliot Elisofon, La vita come ripetizione infinita

Postfazione di Alfredo de Palchi

Sonia Raiziss Giop de Palchi nel testamento lasciò le sue carte personali a me, amico ed ex marito, Alfredo Giop de Palchi in qualità di esecutore. Da scrittrice usava il nome di famiglia. Sonia Raiziss si presentava tanto signorile, generosa a ‘imprestare’ denaro a chi chiedeva, e mai pretendeva la restituzione contro il mio parere che imprestare soldi significa essere considerati dei nemici. Infatti, accadeva che l’amica, ora ‘nemica”, venisse anche derubata dalle persone che aiutava e che da quel momento evitavano d’incontrarla. Dalla sua signorilità si captava una modestia inconcepibile, nonostante io la caricassi di entusiasmo per il contrario. Non sparlava di nessuna persona. Se aveva qualcosa da ridire lo confessava a me, e basta.
Si comportava in tutta quella manifestazione perché di grande animo, non per timori. Non ne aveva.
Politicamente socialista, evitò di farsi intrappolare dal mccartismo dei tardi anni ’40 e primi anni ’50 trasferendosi a Parigi dove, nell’autunno del 1951, la incontrai al “Café de Flore”, e restò amica di comunisti ed ex comunisti in carcere negli Stati Uniti oppure in esilio, come il romanziere Richard Wright.
Figlia di un padre scienziato e professore di chimica alla University of Pennsylvania, dove creò il dipartimento di chimica e dove tuttora esiste un laboratorio in nome di George Raiziss, e di una madre che, come pioniera della professione medica, non poteva allora praticare perché donna, da adolescente iniziò a comporre versi. La sua prima silloge Through a Glass Darkly, apparve a Parigi con le Editions du Phare; con la Mercure de France, 1948, uscì una raccolta di brevi studi critici su La poésie americaine “moderniste” (1910-1940); con la University of Pennsylvania Press, 1952, il volume di critica The Metaphysical Passion: Seven Modern American Poets and the Seventeenth–Century Tradition, ristampato nel 1970 da Greenwood Reprinting; e con New River Press, 1977, la seconda raccolta di poesie Bucks County Blue.
Molto in succinto ho descritto la personalità complessa e la bibliografia di Sonia Raziss, decessa all’entrata primaverile del 19 marzo 1994.
Dal materiale ereditato, già in deposito negli archivi della “Beinecke Rare Book & Manuscript Library, Yale University”, ho tratto la scelta della presente raccolta A caduta libera. Ho creduto e deciso di soffermarmi sui testi degli ultimi suoi venticinque anni di attività, basandomi su quelli editi in varie riviste e su quelli che mi chiese di leggere nel periodo della composizione. È una raccolta che il tempo trascorso giudica valida. Quando incoraggiata da me a scartare la sua modestia, a mostrare invece grinta e arroganza verso chiunque, Sonia mi ascoltava sorridendo con devozione ma anche con soppresso sarcasmo che spiegava tutto: “I’m not you, crazy”, diceva. Io ho ancora entusiasmo per la sua figura, assente, rispetto per il suo lavoro sulla pagina che lei stessa ha trascurato, per dedicare trentaquattro anni alla direzione della rivista “Chelsea”, e per la signorilità completa che è stata in persona.

Sonia Raiziss 2

Sonia Raiziss

Appunto di Giorgio Linguaglossa

Io parafraserei le poesie di Sonia Raiziss così:

La poesia di Sonia Raiziss nasce da un percorso cosmopolita. Direi che la sua poesia può nascere quando all’orizzonte si spegne il linguaggio poetico di Carver. Quando un orizzonte di parole viene illuminato a piena luce, un secondo orizzonte non è ancora visibile, c’è ma non è visibile. Bene ha fatto dunque Alfredo de Palchi a raccogliere il meglio delle poesie di Sonia Raiziss degli ultimi 35 anni, adesso forse la sua poesia può trovare un lettore. A me la sua poesia piace, apprezzo in particolare il suo tentativo di parlare un’altra lingua, non più quella del minimalismo americano ma una lingua ricca di cose e di affettività e di perplessità psicologiche, perché non è mai troppo tardi per pensare in un altro linguaggio.

Non è troppo presto
per essere così tardi?

Poesie dei Sonia Raiziss

Kitchen clock

All along you had been yearning
for what––skeletal dial
mockup of ritual
moving in the same solo dance
with one skinny bone inviting
me into a wall of silence

Every day you pulled a hair
from my head I gave no sign
from the dreadful preoccupation
of living

Only last night in a strange eclipse
I thought to wait at the door
to surprise your implacable face
swimming in moonlight

Your finger points to no more numbers
moon sun
the flower hangs straight down
by the rigor of its stopped stem.

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Orologio da cucina

Fin dal principio avevi desiderato
questo––quadrante scheletrico
simulacro di rituale
che si muove al solito assolo
con un magro osso che mi invita
dentro un muro di silenzio

Ogni giorno che hai strappato un capello
dalla mia testa io non ho dato segno
della terribile preoccupazione
del vivere

Solo la notte scorsa in una strana eclisse
ho pensato di aspettare alla porta
per sorprendere la tua implacabile faccia
che nuota nella luce lunare

Il tuo dito non punta più nessun altro numero
luna sole
il fiore pende giù reso dritto
dalla rigidità del suo gambo bloccato.

.

For those who died too early too late

The wind twists its watch.
The leaves fly in flocks,
hesitate, spiral down singly, are lost or
huddle. Birds hit from ambush
shudder down in doubt
if the aim is devious
and the throe ends elsewhere.
They sigh, hushed, resigned.

How easy to submit, to let the days
peel off the barked calendar. It’s
different in the killing fields,
forms shoveled under hills into holes
all over the pockmarked planet.
A dirty rag––surrender
is not the flushed leaf.

In the rafters
committees of blackbirds confer
in the dark for the next passage,
consult compasses. But if the needle
in the piled bones forgets, the compost of flesh
still stinks and the sifting
of the ashes hisses.

Around my amazed shoes,
the unconscious earth munches.
Berries or parsley will come up,
barely. The youngest dead have no next year;
most are childless.

Perpetual exiles in their own land,
expatriates in the round corners
of the globe, some get dug up,
deported in long boxes.

Per quelli che sono morti troppo presto troppo tardi

Il vento torce il suo orologio.
Le foglie volano in stormi,
esitano, scendono a spirale una ad una, sono perdute o
ammucchiate. Uccelli colpiti da un’imboscata
rabbrividiscono in giù dubbiosi
se il fine è equivoco
e lo spasmo si conclude in altro luogo.
Sospirano zittiti, rassegnati.

Come è semplice sottomettersi, lasciare che i giorni
sbuccino lo scorticato calendario. È
diverso nei campi di morte,
forme sospinte sotto colline dentro buchi
ovunque sul pianeta butterato.
Un straccio sporco – la resa
non è la foglia andata giù con l’acqua.

Sulle travi
comitati di merli conferiscono
nel buio per il prossimo viaggio,
consultano bussole. Ma se l’ago
nelle ossa ammucchiate dimentica, la concimaia di carne
ancora puzza e il vaglio
delle ceneri sibila.

Intorno alle mie stupite scarpe
l’ignara terra mastica.
Bacche o prezzemolo, radi, verranno fuori.
I morti più giovani non hanno un prossimo anno;
la maggior parte sono senza figli.

Esuli perpetui sulla loro stessa terra,
espatriati ai tondi angoli
del globo, alcuni sono riesumati,
deportati in lunghe bare. Continua a leggere

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Ezra Pound, l’Imagismo americano – Thomas Ernest Hulme e la “nuova poesia” – Richard Aldington, D. H. Lawrence, James Joyce, Allen Upward, Amy Lowell, J. G. Fletcher, W. C. Williams, F. S. Flint, Hueffer

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ezra pound

  Nel gennaio 1913 il Pound, presentando ai lettori di “Poetry” l’imagismo, riteneva opportuno precisare che “appartenere a una scuola non significa affatto scrivere versi conformi a una teoria. Uno scrive versi quando, dove, perché e come si sente in vena di scriverli. Una scuola sorge quando due o tre giovani convengono in linea di massima nel definire buone certe cose; quando, delle loro poesie, preferiscono quelle che hanno determinate qualità a quelle invece che ne sono prive”.

1 Queste parole chiariscono come sotto la comune etichetta di “imagismo” si possano trovare poeti mossi da esigenze e aspirazioni profondamente diverse, quali H. D. (Hilda Doolittle), Ezra Pound, Richard Aldington, D. H. Lawrence, James Joyce, Allen Upward, Amy Lowell, J. G. Fletcher, W. C. Williams, F. S. Flint, Hueffer (Ford Madox Ford) e persino W. B. Yeats e Emily Dickinson: quest’ultima più di una volta considerata la più genuina anticipazione del nuovo movimento.

  Come  fu possibile che personalità poetiche tanto diverse potessero riunirsi e dare vita a un movimento, a una scuola? Di solito, quando sotto un programma poetico comune si rintracciano tendenze a aspirazioni tanto diverse, il rischio è quello di definire dei confini labili e generici. Di veramente rivoluzionario il movimento non ebbe alcunché; ma allora perché il significato e l’importanza della nuova corrente assume oggi un così marcato rilievo? Di fatto, scorrendo il calendario, l’imagismo è posteriore agli imagisti; la scuola sorse dopo le idee, e gli imagisti si conquistarono il diritto ad esser chiamati tali perché decisero per motivi puramente contingenti, di costituirsi in gruppo. Ma anche senza quell’etichetta, anche senza la costituzione in gruppo l’imagismo sarebbe egualmente esistito. La costituzione ufficiale dell’imagismo favorì piuttosto ed accelerò la diffusione del nuovo “cenacolo”, contribuì a compattare in una posizione comuni idee e aspirazioni diverse e contrastanti. Oltre alla Dickinson, gli imagisti si rifacevano a Villon, Catullo, Saffo, Coleridge, Shekespeare etc.

  Yeats iniziò a collaborare a “Poetry” nell’aprile 1913 con “The Grey Rock”, cui seguirono nell’ottobre 1913 e nell’aprile 1914 alcuni dei suoi componimenti più noti, quali “Beggar to Beggar Cried”, “The Magi”, “When Helen Lived”, etc. La collaborazione del poeta irlandese alla rivista d’avanguardia si protrae per molti anni, le sue poesie vengono discusse e approfondite, tanto che nel 1914 Pound scrive: “Yeats è un imagista? No, Yeats è un simbolista, ma ha scritto des images come hanno fatto molti grandi poeti prima di lui”, il Pound sottolineava poi la maggior “hardness” dell’ultima maniera yeatsiana, parlando anche di una “quality of hard light” presente in certi versi del poeta irlandese. Pound insomma riconosceva in Yeats una presenza imagista in una poesia sostanzialmente simbolista, una sensibilità almeno parzialmente imagista.

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

 Nel gennaio 1914 Yeats invia a Pound una lettera in cui rinuncia a un premio conferitogli dalla rivista in favore del poeta americano per le seguenti ragioni: “Faccio il suo nome perché, pur non provando davvero una grande simpatia per gli esperimenti metrici da lui fatti per voi, ritengo che codesti esperimenti rivelino un vigoroso spirito fantastico. Pound ha certo una singolare personalità creativa (…) I suoi esperimenti sono forse errori; ma è sempre meglio premiare errori vigorosi che un’ortodossia non ispirata”. 2

L’amicizia e la stima tra i due poeti ne uscì fortificata; il giudizio positivo di Yeats conferito a Pound, valse a conferirgli, in America, un’aura e un prestigio destinati a riflettersi anche sul nuovo movimento d’avanguardia. Certo, l’imagismo si presenta anche con tratti “conservatori”, ritorna a un certo tipo di classicismo in opposizione a certa maniera di romanticismo esasperato in auge negli States. La poesia della Doolittle, quella del primo Aldington e aparte della poesia del Fletcher è ancora contagiata dalla sensibilità romantica, ma il programma del nuovo movimento, così come viene enunciato, è tendenzialmente classicistico. In quegli anni Flint, Pound, H. D., Aldington e Fletcher vivevano a Londra e l’abitazione di T. E. Hulme divenne un salotto letterario e una fucina culturale. Le aspirazioni ancora vaghe degli imagisti trovarono nel filosofo inglese una enunciazione chiara, logica e coerente; Hulme tradusse le loro aspirazioni in un pensiero filosofico, in una vera e propria estetica.

  Analoghe considerazioni si possono fare a proposito dei rapporti intercorsi tra Pound (e gli altri imagisti) e Fenollosa: la dottrina fenollosiana fu accolta perché attraverso di essa le idee del Pound potessero trovare uno “zoccolo” filologico e filosofico di primissimo piano. Il Fenollosa anticipava certe conclusioni cui era giunto Pound per proprio conto in un momento in cui quest’ultimo era interessato alla poesia bengali e a Rabindranath Tagore, alla dottrina dell’immagine e alla moderna poesia simbolista francese. Il Fenollosa gli aprì le porte della poesia cinese consentendogli di passare dall’imagismo all’ideogramma. Pound accolse e sviluppò i principi del Fenollosa proprio perché ad essi l’avevano condotto (o lo avrebbero condotto di lì a poco)  i suoi esperimenti. Pound fu l’unico, tra gli imagisti, a capire fino in fondo la portata rivoluzionaria delle ricerche dell’orientalista di Boston, nonostante i presunti studi orientalisti del Fletcher, della Lowell e di altri imagisti; essi compresero solo superficialmente la teoria dell’immagine (da loro intesa semplicisticamente come “pittura visiva), così come non compresero affatto l’ideogramma e le acute intuizione del Fenollosa. Dall’imagisme poundiano era derivato l’amygism lowelliano. Dopo il 1914, questa inconciliabilità di posizioni sfociò in una rottura. La Lowell subentrò al Pound, il quale si trasse in disparte con lo Upward, il Williams e altri; Fletcher e Lawrence aderirono al partito lowelliano. H. D. e Richard Aldington non presero una netta posizione, assorti a restituirci una mitica Ellade. Dapprima, gli imagisti, grazie ai versi pubblicati da H. D. e Richard Aldington nei primi numeri di “Poetry”, furono considerati degli “ellenisti”. In seguito, con l’intervista del Flint e i Few Dont’s poundiani, ci si avvide che l’ellenismo era solo un aspetto, non l’essenziale, della nuova avanguardia.

Eliot Portrait of T.S. Eliot by Wyndham Lewis (1938).

Eliot Portrait of T.S. Eliot by Wyndham Lewis (1938).

Il legame degli imagisti con il mondo ellenico illumina il sostanziale classicismo e tradizionalismo del nuovo movimento. L’imagismo non solo non aspira ad alcuna novità, il suo obiettivo è una rivoluzione conservatrice, reagire contro certe degenerazioni romantiche che avevano condotto ad un vacuo accademismo. Sotto questo aspetto, la differenza tra l’imagismo e altre avanguardie dell’epoca come il futurismo, il vorticismo e il post-simbolismo, divenne sempre più netta e marcata, ribadita e chiarita più volte dagli stessi imagisti.

  Nel manifesto imagista del 1915, in aperta polemica con il manifesto dei futuristi, troviamo: “Non è buona arte scrivere malamente sugli aeroplani e sulle automobili; né è necessariamente arte cattiva scrivere bene sul passato. Noi crediamo appassionatamente nel valore artistico della vita moderna, ma vogliamo far notare come nulla ispiri di meno e sia più sorpassato d’un aeroplano del 1911”. L’imagismo non ostenta alcun culto del modernismo, non condivide la nuova retorica degli aeroplani da combattimento e delle automobili da corsa, è alieno da ogni impegno diretto nel politico e nel sociale, ma si attiene rigorosamente al campo specifico delle arti e della poesia in particolare.

T.H. Hulme

T.H. Hulme

Thomas Ernest Hulme e la “nuova poesia”

   Personalità eclettica, dotato di una inesauribile curiosità intellettuale, gentleman, scapigliato, conservatore con la fama di dongiovanni, fu definito “poliziotto intellettuale” e “philosophic amateur”, discuteva di filosofia senza professarne alcuna, gran parlatore, conosceva il valore inimitabile della conversazione: sceglieva un argomento e poi lasciava agli altri il compito di discuterlo, salvo intervenire al momento opportuno. La sua morte prematura durante la prima guerra mondiale contribuì a rafforzare il mito hulmiano. Nella premessa a Speculations – raccolta dei saggi hulmiani a cura di J. Epstein (Londra, 1958) – il curatore scrive: “Non teneva in alcun conto la fama o la notorietà personale, e pensava che la sua opera appartenesse tutta al futuro (…) Con un gruppo di imagisti compose alcune brevi poesie con le quali se avesse seguitato per quella via, avrebbe ottenuto un cosiddetto successo letterario. Ma ciò gli pareva troppo facile. Come Socrate e Platone, attirò intorno a sé i giovani intellettuali del suo tempo. Non c’è nessuno che sia proprio come lui, oggi, in Inghilterra.” Continua a leggere

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Charles Simic  (1938) Poesie scelte, Traduzioni di Andrea Molesini, Damiano Abeni con uno stralcio di intervista. Con una glossa di Giorgio Linguaglossa, il vero poeta è specializzato in una sorta di metafisica della camera da letto e della cucina

Foto Vivian Mayer dallo scompartimento

foto di Vivian Mayer

Charles Simic è nato a Belgrado nel 1938. Nel 1990 è stato insignito del premio Nobel. Dal 1953 risiede negli Stati Uniti, dove insegna Letteratura inglese all’università del New Hampshire. Nel 1967 è apparsa la sua prima raccolta di poesie, What the Grass Says. Da allora ha pubblicato un cospicuo numero di opere fra cui ricordiamo Prose Poems (1990), che gli è valso il Premio Pulitzer, e Jackstraws (1999), insignito dal «New York Times» del titolo di «Notable Book of the Year». Ha tradotto in inglese poeti serbi, croati, macedoni, sloveni, francesi.

 In una intervista Simic dichiara:

“A pagina uno del mio libro dei sogni/ è sempre sera/ in un paese occupato./ L’ora prima del coprifuoco./ Una cittadina di provincia./ Le case tutte al buio./ I negozi sventrati”. Ricordi certo non nostalgici. Quando aveva tre anni giocava alla guerra come tutti i ragazzini quando all’improvviso fu sbalzato da una bomba tedesca; “Le mie agenzie di viaggio sono state Hitler e Stalin” ha dichiarato, caustico, parlando del suo arrivo in America. “I tedeschi e gli alleati mi bombardavano a turno, mentre giocavo, sul pavimento della mia stanza, con la mia collezione di soldatini”. Un’immagine che è finita in una sua poesia: “Giocavamo alla guerra durante la guerra,/ Margaret. I soldatini erano molto richiesti,/il tipo in terracotta./ Quelli di piombo finivano sciolti a far pallottole,/ immagino”. Humor balcanico? 

Domanda:

A proposito della lingua serba, lei spesso racconta un aneddoto divertente e surreale. Di quando, con suo zio Boris, mentre discutevate animatamente in un bar americano, una signora si è avvicinata per chiedere in che lingua parlavate. E voi…

Risposta:
“Noi abbiamo risposto che eravamo gli unici due superstiti di una tribù di africani bianchi, che parlava una lingua ormai estinta. Ci ha creduto. Gli americani del resto hanno un’idea molto vaga della geografia mondiale, nonché della storia, quindi sono sempre tentato di prenderli in giro. Una volta – ero su un treno che attraversava l’Ohio – ho raccontato a una giovane donna che ero un principe russo in esilio, e le ho descritto, minuziosamente, tutti i palazzi che possedeva un tempo la mia famiglia. Lei era incantata”.

Foto Miriam Mayer autoritratto

Vivian Mayer autoritratto

Glossa di Giorgio Linguaglossa

Non sorprende che Simic, poeta intellettualissimo ma che ama presentarsi al pubblico come illetterato, se non trasandato, abbia sostenuto che «il vero poeta è specializzato in una sorta di metafisica della camera da letto e della cucina» e che il poeta è «il mistico della padella e dei piedi rosa del [suo] amore». Il suo gusto per i dettagli è legato all’apprezzamento per la semplicità e la brevità della poesia che non deve mai superare per lunghezza una pagina e non più di sedici versi. «I musicisti blues sanno che poche note giustamente posizionate toccano l’anima, e anche i poeti lirici». Simic, da poeta post-lirico, si è espresso anche mediante la metafora culinaria: «L’idea è che è possibile preparare piatti sorprendentemente gustosi con gli ingredienti più semplici». Alcuni dei migliori cuochi lo hanno osannato. Escoffier ha preso come motto la sua frase «Faites simple», un’ingiunzione che è anche un principio compositivo.

La dizione e la sintassi sono quelle dell’inglese di base. Si legge sulla sovracoperta di un suo libro che «il suo lavoro è apparso in traduzione in tutto il mondo». Un altro retro di copertina ci dice che il libro «evocherà una varietà di ambientazioni e immagini… [e] soggetti», ma in realtà le sue poesie trattano una serie di motivi strettamente correlati: l’oscurità, i senzatetto, impiegati, cinesi, slums, edifici vuoti e fatiscenti, macelli, pompe funebri, cimiteri… È la varia umanità del capitalismo che popola le sue poesie, senza etichette, senza sovraesposizioni ideologiche né retorica, il lessico ed il tono sono crudi, diretti, come se si dovessero dire cose impellenti ma non importanti.

La poesia è una forma d’arte anteriore alla alfabetizzazione. Nelle civiltà pre-letterate, la poesia era impiegata come mezzo di registrazione di storia orale, narrazione, ovvero, poesia epica. Le svariate forme di espressione presso le società moderne sono sempre state trattate tramite la prosa. Il Ramayana, un poema epico in sanscrito, fu probabilmente scritto nel 3 ° secolo a.C. in un linguaggio descritto da William Jones come “più perfetto del latino, più abbondante del greco e più squisitamente raffinato di entrambi.” La poesia nasce e si sviluppa con la liturgia presso le civiltà arcaiche pre-letterarie, in quanto la natura formale della poesia la rende più facile da ricordare sotto forma di incantesimi sacerdotali o di profezie. La maggior parte delle scritture sacre in tutte le antiche civiltà sono rese tramite la poesia piuttosto che tramite la prosa.

Dispositivi retorici come similitudine e metafora sono frequentemente utilizzate in poesia fin dai tempi più antichi. Infatti, Aristotele scrisse nella sua Poetica che “la cosa più grande in assoluto è quella di essere un maestro della metafora”. Tuttavia, in particolare dopo l’ascesa del modernismo, alcuni poeti hanno optato per l’uso ridotto di questi dispositivi, preferendo piuttosto di tentare la presentazione diretta delle cose e delle esperienze. Altri poeti del XX e XXI secolo, tuttavia, in particolare i surrealisti, hanno spinto i dispositivi retorici ai loro limiti, facendo uso frequente di catacresi.

Non mi meraviglia dunque che un poeta del tardo modernismo come Charles Simic utilizzi il verso libero come strumento chirurgico per veicolare il suo peculiarissimo parlato misto a perifrasi gnomiche nel bel mezzo della forma-racconto; in tal modo rivitalizza la forma-racconto della poesia. È paradossale ma vero che oggi la poesia nelle civiltà tecnologicamente evolute se vuole sopravvivere a se stessa debba riprodurre in qualche modo le forme di espressione delle antiche civiltà pre-letterarie. La forma-racconto in poesia aveva già mostrato tutti i suoi limiti ne La ragazza Carla (1959) di Pagliarani, il lungo poema narrativo con epicentro la dattilografa Carla alla lunga mostra tutti i suoi punti deboli. La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi non può fare a meno di riappropriarsi delle forme di espressione del parlato, con annesso tutto il bagaglio de il colloquiale, il soliloquio, il monologo, il dialogo, il non detto, i pensieri inespressi, i retro pensieri, il linguaggio dell’inconscio.

La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi è questa di cui stiamo parlando.

Gli amici di Eraclito

Il tuo amico è morto, quello con cui
giravi per le strade
a tutte le ore, parlando di filosofia.
Perciò, oggi sei andato solo,
fermandoti spesso per scambiarti di posto
con il tuo compagno immaginario,
e ribattere a te stesso
sul tema delle apparenze:
il mondo che vediamo nella testa
e il mondo che vediamo ogni giorno,
così difficili da distinguere
quando dolore e sofferenza ci piegano.

Voi due spesso vi siete fatti trascinare
tanto da trovarvi in quartieri strani
persi tra gente ostile,
costretti a chiedere indicazioni
proprio sul ciglio di una suprema rivelazione,
a ripetere la domanda
a una vecchia o a un bambino
che potrebbero essere entrambi sordi e muti.

Qual era quel frammento di Eraclito
che stavi cercando di ricordare
quando sei inciampato nel gatto del macellaio?
Nel frattempo, tu stesso ti eri perso
fra la scarpa nera nuova di qualcuno
abbandonata sul marciapiedi
e il terrore improvviso e l’ilarità
alla vista di una ragazza
abbigliata per una notte di ballo
che sfreccia sui pattini.

The Friends of Heraclitus

Your friend has died, with whom
You roamed the streets,
At all hours, talking philosophy.
So, today you went alone,
Stopping often to change places
With your imaginary companion,
And argue back against yourself
On the subject of appearances:
The world we see in our heads
And the world we see daily,
So difficult to tell apart
When grief and sorrow bow us over.

You two often got so carried away
You found yourselves in strange neighborhoods
Lost among unfriendly folk,
Having to ask for directions
While on the verge of a supreme insight,
Repeating your question
To an old woman or a child
Both of whom may have been deaf and dumb.

What was that fragment of Heraclitus
You were trying to remember
As you stepped on the butcher’s cat?
Meantime, you yourself were lost
Between someone’s new black shoe
Left on the sidewalk
And the sudden terror and exhilaration
At the sight of a girl
Dressed up for a night of dancing
Speeding by on roller skates.

Domando al piombo

Domando al piombo
perché ti sei lasciato
fondere in pallottola?
Ti sei forse scordato degli alchimisti?
Hai perso qualsiasi speranza
di diventare oro?

Nessuno mi risponde.
Pallottola. Piombo. Con nomi
del genere
il sonno è lungo e profondo.

I say to the lead

I say to the lead
Why did you let yourself
Be cast into a bullet?
Have you forgotten the alchemists?
Have you given up hope
In turning into gold?

Nobody answers.
Lead. Bullet. With names
Such as these
The sleep is deep and long.

Prodigio

Sono cresciuto chino
su una scacchiera.

Amavo la parola scaccomatto.

Il che sembrava impensierire i miei cugini.

Era piccola la casa,
accanto a un cimitero romano.
I suoi vetri tremavano
per via di carri armati e caccia.

Fu un professore di astronomia in pensione
che m’insegnò a giocare.

L’anno, probabilmente, il ’44.

Lo smalto dei pezzi che usavamo,
quelli neri,
era quasi del tutto scrostato.

Il re bianco andò perduto,
dovemmo sostituirlo.

Mi hanno detto, ma non credo che sia vero,
che quell’estate vidi
gente impiccata ai pali del telefono.

Ricordo che mia madre
spesso mi bendava gli occhi.
Con quel suo modo spiccio d’infilarmi
la testa sotto la falda del soprabito.

Anche negli scacchi, mi disse il professore,
i maestri giocano bendati,
i campioni, poi, su diverse scacchiere
contemporaneamente.

Prodigy

I grew up bent over
a chessboard.

I loved the word endgame.

All my cousins looked worried.

It was a small house
near a Roman graveyard.
Planes and tanks
shook its windowpanes.

A retired professor of astronomy
taught me how to play.

That must have been in 1944.

In the set we were using,
the paint had almost chipped off
the black pieces.

The white King was missing
and had to be substituted for.

I’m told but do not believe
that that summer I witnessed
men hung from telephone poles.

I remember my mother
blindfolding me a lot.
She had a way of tucking my head
suddenly under her overcoat.

In chess, too, the professor told me,
the masters play blindfolded,
the great ones on several boards
at the same time.

Molti Zero

Senza voce l’insegnante si alza davanti a una classe
di pallidi bambini dalle labbra serrate.
La lavagna alle sue spalle tanto nera quanto il cielo
che dista anni luce dalla terra.
È il silenzio che l’insegnante ama,
il gusto dell’infinito che trattiene.
Le stelle come le impronte di denti sulle matite
dei bambini.
Ascoltatelo, dice felice.

Many Zeros

The teacher rises voiceless before a class
Of pale, tight-lipped children.
The blackboard behind him as black as the sky
Light-years from the earth.

It’s the silence the teacher loves,
The taste of the infinite in it.
The stars like teeth marks on children’s pencils.
Listen to it, he says happily.

*

Hotel Insomnia

I liked my little hole,
Its window facing a brick wall.
Next door there was a piano.
A few evenings a month
a crippled old man came to play
My Blue Heaven.

Mostly, though, it was quiet.
Each room with its spider in heavy overcoat
Catching his fly with a web
Of cigarette smoke and revery.
So dark,
I could not see my face in the shaving mirror.

At 5 A.M. the sound of bare feet upstairs.
The “Gypsy” fortuneteller,
Whose storefront is on the corner,
Going to pee after a night of love.
Once, too, the sound of a child sobbing.
So near it was, I thought
For a moment, I was sobbing myself. Continua a leggere

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John Taylor, Poesie da L’oscuro splendore, Mimesis Hebenon, 2018 pp. 88 € 10, traduzione di Marco Morello, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

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il vestito strappato che è la tua vita

John Taylor, poeta, scrittore e traduttore, e Caroline François-Rubino, pittore, lavorano insieme dal 2014. Il loro primo libro, Boire à la source / Drink from the Source, è pubblicato da Éditions Voix d’encre in marzo 2016. Il loro secondo libro, Hublots / Portholes, sarà pubblicato questa estate da Éditions L’Œil ébloui. John Taylor è anche autore di altre sei opere di racconti, di prose brevi e di poesie, di qui The Apocalypse Tapestries (2004) e If Night is Falling (2012). The Apocalypse Tapestries è stata pubblicata in italiano con il titolo Gli Arazzi dell’Apocalisse (Hebenon) et la sua raccolta di prose brevi, If Night is Falling, con il titolo Se cade la notte (Joker), i due libri nella traduzione di Marco Morello. John Taylor è editor e co-traduttore d’una ampia raccolta dei testi del poeta italiano Alfredo de Palchi, Paradigm: New and Selected Poems (Chelsea Editions, 2013). Ha ottenuto nel 2013 una borsa notevole dell’Academy of American Poets per il suo progetto di tradurre le poesie di Lorenzo Calogero — libro che è stato pubblicato: An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960 (Chelsea Editions). Sito di John Taylor http://johntaylor-author.com/

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Ogni linguaggio poetico ha una propria Grundstimmung (tonalità emotiva dominante), e ogni linguaggio poetico designa incessantemente «le rien du je que je suis» (R.Barthes); ogni linguaggio poetico rende evidente che il linguaggio non è il predicato di un soggetto ma è esso stesso il soggetto di questa soggettività che è assenza, e l’assenza è produzione di forme significanti che prendono il luogo della parola. Il soggetto è un vuoto che pulsa, vuoto che respinge il pieno nel momento medesimo che lo produce. Ogni poesia nasce da una mancanza di senso e di pieno e dal negativo del vuoto e dal tentativo di trovare un senso del vuoto per il tramite del pieno delle parole. È impossibile per la poesia moderna partire da un pieno, perché il pieno si dà sempre nella configurazione del vuoto. Possiamo anche dire così: ogni poesia ha una propria tonalità  e direzione di senso. Ogni poesia ha, come dire, una sorta di auto coscienza, ogni poesia pone una distanza tra l’io del poeta e il poetatum, questa distanza è appunto la tonalità dominante: una vibrazione di elementi sonori che sono prima della parola.

Proviamo a dirlo in altri termini: noi tutti sperimentiamo ogni giorno il grado di estraneità a noi stessi, e questa estraneazione ha la sua ubicazione nel linguaggio poetico che adottiamo. Possiamo dire che ogni poeta espropria questa estraneità per trasferirla nel proprio linguaggio poetico? Se sì, allora questo libro di John Taylor manifesta questo fenomeno ben visibile nella disseminazione, nella discontinuità, nella frammentarietà, nella frantumazione della versificazione; si tratta quindi di espropriazione, e non di una riappropriazione di alcunché. Il linguaggio poetico è lo specchio ustorio che ci mostra il vero volto della nostra estraneità a noi stessi, è un simulatore di senso anche e soprattutto quando il senso non c’è, un simulatore di senso che scalda i motori a far luogo da una assenza, da un vuoto. Nella simulazione non è possibile «mentire» e non è neanche possibile dire la «verità», la simulazione non è un predicato di un soggetto ma è il linguaggio stesso in azione; menzogna e simulazione sono due aspetti della stessa procedura.

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Il nostro abitare spaesante il linguaggio è la precondizione affinché vi sia linguaggio poetico

Il nostro abitare spaesante il linguaggio è la precondizione affinché vi sia linguaggio poetico, giacché non v’è possibilità di adire al linguaggio poetico senza questa pre-condizione soggettiva. C’è un esercizio dell’«abitare poeticamente il mondo» che è la precondizione affinché vi sia un linguaggio poetico, ma noi non sappiamo in cosa consista questo «abitare poeticamente il mondo» e non potremo mai scoprirlo se non mediante la poesia stessa. In questo «abitare spaesante» il linguaggio si ha un abbandono e un ritrovarsi, un trovarsi che è un abbandonarsi in ciò che non potrà mai essere né abbandonato né ritrovato, perché se lo trovassimo cesserebbe l’abbandono e se lo abbandonassimo lo potremmo sempre ritrovare per davvero, e non c’è maieutica che lo possa ricondurre dalle profondità in cui questa condizione è sepolta. Non c’è maieutica che ci possa garantire l’ingresso nel portale del «poetico», giacché esso non è un dato, né un darsi, ma semmai è un ritrarsi, un oscurarsi.

L’entrata in questa radura di oscurità apre all’Ego la dimensione illusoria e simulatoria del linguaggio poetico, essendo l’illusorietà il parente più prossimo al dire originario in quella linea genealogica che collega il linguaggio poetico al «dire originario» del quale abbiamo smarrito per sempre il filo conduttore e la chiave del senso. Allora, non resta che accettare tutto il peso del gravame di cui ci diceva Nietzsche per gettarlo a mare come inutile zavorra e alleggerirci alla massima potenza, accettare di impiegare i resti e gli scampoli, gli stracci e i frantumi quali elementi consentanei alla nostra condizione esperienziale.

La poesia di John Taylor è sensibilissima nel recapitare questa dis-connessione di tutte le cose, la frammentazione delle parole e del senso; ciò che resta è «solo il passaggio di una mano// il suo coinvolgimento// il suo coinvolgimento di allora/ nella tua vita».

è ciò che fu abbandonato

ciò che rimane in piedi
benché perduto.

Come un sensibilissimo sismografo John Taylor procede a tentoni con uno stile de-materializzato con una metratura rarefatta e pericolante che accetta il rischio di sbriciolarsi definitivamente all’atto della lettura, di assottigliarsi come scrittura per fare ingresso nel nulla dalla quale la poesia proviene nella sua linea genealogica e nel suo DNA. La poetica di Taylor ha qui il suo punto fondante: che si fonda sulla impermanenza della scrittura stessa, come un oggetto «abbandonato// l’impalcatura/ che cede la sua forma/ rivetto dopo rivetto/ sbarra dopo sbarra/ all’inevitabile inondazione…».

Taylor inserisce una distanza tra un verso e l’altro, tra una strofa e l’altra, e questa distanza è propriamente l’estraneazione di cui la poesia si fa carico, e non può non farsene carico se è poesia, quella medesima estraneazione che ci separa da noi stessi per adire un linguaggio più interno a noi stessi. Abitare una condizione esperienziale e abolirla subito dopo averla esperita è la risultanza paradossale del nostro essere nel mondo. È questo il nocciolo credo della esperienza poetica di questo libro: l’aver scoperto che in questo grattacielo di dis-connessioni e di disseminazione della sintagmazione frastica non v’è certezza se non nella «perdita» e nella avulsione.

Poesie da L’oscuro splendore

having left behind so much
except your first, your final weakness
persistent
like a forgotten heart

your only force left

—language, uncertain
fragments of faded homeland
(a homeland of sounds, of voiceless words) strands of stories
shreds of feelings from the greater cloth

you still imagine
with those voiceless words that do not fade into silence that beat like a heart
that sew and tear and resew

the torn garment that is your life

*

avendo lasciato indietro così tanto
tranne la tua prima e ultima debolezza
persistente
come un cuore dimenticato

come tua sola forza residua una lingua incerta

frammenti di patria sbiadita
(una patria di suoni, di parole afone) trefoli di storie
brandelli di sentimenti da un tessuto più grande

tu ancora immagini con quelle parole afone

che non si smorzano nel silenzio quel battito come un cuore
che cuce e strappa e ricuce

il vestito strappato che è la tua vita

 

The Five Languages

your five languages

like five streams five hills
inner landscape

*

you cup your hand to drink the water

ever something new anew
though it descends the same slope

*

words still emerge the womb unseen seen

they hesitate they doubt

motionless against the current dead branches
or trout
remembering the source

 

Le cinque lingue

le tue cinque lingue

come cinque ruscelli cinque colline paesaggio interiore

*

metti le mani a coppa per bere l’acqua

sempre qualcosa di nuovo da capo
anche se scende dallo stesso pendio

*

emergono ancora parole l’utero non visto
visto

esitano dubitano

immobili contro la corrente rami morti
o trote
che ricordano la sorgente

*

other words their flatness fits the thumb the first finger

you remember impossible fortune
skipping
across the rippled surface

*

where streams meet
you stand on the narrow bank
behind you is the endless wood sometimes you wish
for the silence of those trees windlessness

wish to walk away into the white shadows

*
imagining one language a cold current
another warm
from some deeper source

you are downstream from all the sources

*

altre parole
la loro piattezza s’adatta al pollice al primo dito

ti ricordi
che fortuna sfacciata saltellare
sulla superficie increspata

*

dove i ruscelli s’incontrano tu stai sulla stretta riva
dietro di te il bosco infinito a volte desideri
per il silenzio di quegli alberi assenza di vento

desideri incamminarti nelle ombre bianche

*

immaginando una lingua

una corrente fredda un’altra calda
da qualche sorgente profonda

tu sei a valle
di ogni sorgente

*

Foto Donna e metro 1

le tue cinque lingue/ come cinque ruscelli cinque colline paesaggio interiore

you know
those streambed stones they have been sheened
countless caresses of water

you must move on the sparkling
the whirlpools you must move on

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Da un Nobel all’altro: Bob Dylan. La musica leggera e i suoi rapporti con il testo poetico. La poesia accompagnata dalla musica o la musica accompagnata dalla poesia?

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Che Dylan [Bob Dylan, nato con il nome di Robert Allen Zimmerman (Duluth, 24 maggio 1941)], potesse vincere un Nobel era nell’aria da tempo ma in pochi avevano previsto che l’accademia potesse decidere di estendere il prestigioso riconoscimento a un genere come la musica ‘pop’. Nel 2015 il premio era stato assegnato alla bielorussa Svetlana Alexievich per aver creato polifonie che rappresentano “un monumento alla sofferenza e al coraggio del nostro tempo”. Quello per la letteratura è l’ultimo dei Nobel ad essere annunciato quest’anno. I sei premi saranno consegnati il 10 dicembre, anniversario della morte del fondatore Alfred Nobel, nel 1896.

Preciso che in merito ai «meriti» poetici delle canzoni di Bob Dylan non ho nulla da dire perché non ho mai ascoltato una canzone del cantante americano. Ammetto la mia ignoranza. Sicuramente, i suoi testi poetici sono stati scritti per la musica della canzone, e sicuramente nel suo genere di testi applicati alla musica di consumo Dylan si è rivelato  un grande innovatore. Ed è sicuro che dobbiamo rivedere le nostre categorie di musica di consumo e musica di profilo alto, quasi sempre quest’ultima aliena dal tollerare testi scritti. Di fatto, la poesia che si scrive oggi deve tendere l’orecchio alla musica leggera, e anche strizzare l’occhio ai generi leggeri… molto spesso, anzi, quasi sempre la poesia che si scrive oggi non ha nessuna possibilità di incontrare il lettore odierno. Dovremmo tutti chiederci come mai, perché, quali sono le cause di questa obblivione della poesia. In tal senso, una riflessione credo dovremmo farla tutti, dovremmo impegnarci a superare le categorie divisorie: aut aut, di qua la poesia, di là la non-poesia, di crociana memoria… Le cose sono molto più complesse.

Tra i molti riconoscimenti che sono stati conferiti a Dylan vanno menzionati almeno il Grammy Award alla carriera nel 1991, il Polar Music Prize (ritenuto da alcuni equivalente del premio Nobel in campo musicale nel 2000, il Premio Oscar nel 2001 (per la canzone Things Have Changed, dalla colonna sonora del film Wonder Boys, per la quale si è aggiudicato anche il Golden Globe), il Premio Pulitzer nel 2008, la National Medal of Arts nel 2009 e la Presidential Medal of Freedom nel 2012.

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16 TONNELLATE
parole e musica Merle Travis

Sono nato una mattina che il sole non splendeva
Raccolsi una pala e me ne andai alla miniera
Caricai sedici tonnellate di carbone
E il caposquadra mi disse: “Bene, che Dio mi benedica”

Hai caricato sedici tonnellate, e cosa hai ottenuto?
Sei più vecchio di un giorno e più indebitato
San Pietro non mi chiamare perchè non posso andare
La mia anima la devo dare alla compagnia mineraria

Hai caricato sedici tonnellate, e cosa hai ottenuto?
Sei più vecchio di un giorno e più indebitato
San Pietro non mi chiamare perchè non posso andare
La mia anima la devo dare alla compagnia mineraria

Sono nato una mattina che la pioggia cadeva leggera
Di secondo nome faccio Guai e Lotta
Una vecchia leonessa mi ha cresciuto in un canneto
E non c’è donna per quanto di alto rango che mi possa far rigare dritto

Hai caricato sedici tonnellate, e cosa hai ottenuto?
Sei più vecchio di un giorno e più indebitato
San Pietro non mi chiamare perchè non posso andare
La mia anima la devo dare alla compagnia mineraria

Quando mi vedi arrivare è meglio che ti sposti
Un sacco di gente non l’ha fatto ed un sacco ne è morta
Ho un pugno di ferro, l’altro invece è di acciaio
E se non ti becco con il destro lo farò col sinistro

Hai caricato sedici tonnellate, e cosa hai ottenuto?
Sei più vecchio di un giorno e più indebitato
San Pietro non mi chiamare perchè non posso andare
La mia anima la devo dare alla compagnia mineraria

Sono nato una mattina che il sole non splendeva
Raccolsi una pala e me ne andai alla miniera
Caricai sedici tonnellate di carbone
E il caposquadra mi disse: “Bene, che Dio mi benedica”

Hai caricato sedici tonnellate, e cosa hai ottenuto?
Sei più vecchio di un giorno e più indebitato
San Pietro non mi chiamare perchè non posso andare
La mia anima la devo dare alla compagnia mineraria

*
I was born one mornin’ when the sun didn’t shine
Picked up a shovel and I walked to the mine
I hauled Sixteen Tons of number 9 coal
And the straw-boss said, “Well, bless my soul”

You haul Sixteen Tons, whadaya get?
Another older and deeper in debt
Saint Peter don’t you call me cause I can’t go
I owe my soul to the company store

You haul Sixteen Tons, whadaya get?
Another older and deeper in debt
Saint Peter don’t you call me cause I can’t go
I owe my soul to the company store

Born one morning it was drizzle and rain
Fightin’ and Trouble are my middle name
I was raised in a canebrake by an old mama lion
And no high-toned woman make me walk the line

You haul Sixteen Tons, whadaya get?
Another older and deeper in debt
Saint Peter don’t you call me cause I can’t go
I owe my soul to the company store

See me comin’ better step aside
A lot of men didn’t and a lot of men died
I got one fist of iron and the other of steel
And if the right one don’t get ya, the left one will

You haul Sixteen Tons, whadaya get?
Another older and deeper in debt
Saint Peter don’t you call me cause I can’t go
I owe my soul to the company store

Born one mornin’ when the sun didn’t shine
Picked up a shovel and I walked to the mine
I hauled Sixteen Tons of number 9 coal
And the straw-boss said, “Well, bless my soul”

You haul Sixteen Tons, whadaya get?
Another older and deeper in debt
Saint Peter don’t you call me cause I can’t go
I owe my soul to the company store

 

Se perdi il treno sul quale viaggio, saprai che sono andato,
puoi sentire il fischio sibilare per cento miglia
Cento miglia, cento miglia, cento miglia, cento miglia,
puoi sentire il fischio sibilare per cento miglia

Dio, sono uno, Dio, sono due, Dio, sono tre, Dio, sono quattro,
Dio, sono cinquecento miglia lontano da casa
Lontano da casa, lontano da casa, lontano da casa, lontano da casa,
Dio, sono cinquecento miglia lontano da casa

Non ho la camicia addosso, non ho un penny,
Dio, non posso tornare a casa in questo modo
In questo modo, in questo modo, in questo modo, in questo modo,
Dio non posso tornare a casa in questo modo

Se perdi il treno sul quale viaggio, saprai che sono andato,
puoi sentire il fischio sibilare per cento miglia
Cento miglia, cento miglia, cento miglia, cento miglia,
puoi sentire il fischio sibilare per cento miglia

Puoi sentire il fischio sibilare per cento miglia

traduzione di Michele Murino
500 Miles
traditional

If you miss the train I’m on, you will know that I am gone,
you can hear the whistle blow a hundred miles.
A hundred miles, a hundred miles, a hundred miles, a hundred miles,
you can hear the whistle blow a hundred miles.

Lord, I’m one, Lord, I’m two, Lord, I’m three, Lord, I’m four,
Lord, I’m five hundred miles a way from home.
Away from home, away from home, away from home, away from home,
Lord, I’m five hundred miles away from home.

Not a shirt on my back, not a penny to my name.
Lord, I can’t go back home this-a way.
This-a way, this-a way, this-a way, this-a way,
Lord, I can’t go back home this-a way.

If you miss the train I’m on, you will know that I am gone,
you can hear the whistle blow a hundred miles.
A hundred miles, a hundred miles, a hundred miles, a hundred miles,
you can hear the whistle blow a hundred miles.

You can hear the whistle blow a hundred miles.

 

ADELITA
canzone messicana tradizionale

Se Adelita se ne andasse con un altro
La inseguirei per terra e per mare
Se per mare in una nave da guerra
Se per terra in un treno militare

E se Adelita desiderasse esser la mia ragazza
E se Adelita fosse la mia donna
Le comprerei un vestito di seta
Per portarla a ballare alla cantina

Se Adelita se ne andasse con un altro
Seguirei le sue tracce per terra e per mare
Se per mare in una nave da guerra
Se per terra in un treno militare

traduzione di Michele Murino

 

bob-dylan-2

ADELITA
traditional mexican song

Si Adelita se fuera con otro
Le seguiría por tierra y por mar
Si por mar en un buque de guerra
Si por tierra en un tren militar

Y si Adelita quisiera ser mi novia
Y si Adelita fuera mi mujer
Le compraría un vestido de seda
Para llevarla a bailar al cuartel

Si Adelita se fuera con otro
Le seguiría por tierra y por mar
Si por mar en un buque de guerra
Si por tierra en un tren militar

*

SONO IL TUO FIGLIASTRO?
(presentata anche come “Stepchild” e “You Treat Me Like A Stepchild” – “Figliastro”, “Mi tratti come un figliastro”) parole e musica Bob Dylan

Versione eseguita da Bob Dylan il 12 Ottobre 1978 al Maple Leaf Gardens di Toronto, Ontario, Canada

Reperibile sul bootleg “I was young when I left home”

Mi tratti male ragazza
e poi mi tratti anche peggio
Io ti do tutto il mio amore
ma non è mai abbastanza
Mi tratti come un figliastro
Oh Signore, sono il tuo figliastro
Vorrei voltarmi e andarmene via
Ma il mio cuore mi dice “Lasciala stare”

Io attraverso il deserto per te ragazza
e ti porto tutti i diamanti della miniera
E invece scopro che la tua porta è chiusa
Mi tratti come un figliastro
Oh Signore, sono il tuo figliastro
Vorrei voltarmi e andarmene via
Ma il mio cuore mi dice “Lasciala stare”

Lavoro ogni giorno e ogni notte per te ragazza
E non ho nemmeno un momento libero
Lo sai che non mi importa nemmeno di uccidere per te tesoro
E non ho paura di morire
Mi tratti come un figliastro
Oh Signore, sono il tuo figliastro
Vorrei voltarmi e andarmene via
Ma il mio cuore mi dice “Lasciala stare”

traduzione di Michele Murino

AM I YOUR STEPCHILD?
words and music Bob Dylan

You treat me mean girl
And then you treat me rough
I give you all my loving
And it’s never quite enough
You treat me like a stepchild
Oh Lord, am I your stepchild
I wanna turn and walk all over you
But my heart says, “No, just let her be.”

I crawl across the desert for you girl
Bring you all the diamonds from the mine
And I find that your door is shut
You treat me like a stepchild
Am I your stepchild
I wanna turn and walk away from you
But my heart just says, “No, let her be.”

I work every day and night for you girl
And I don’t even have the time
You know I don’t mind killing for you honey
And I ain’t afraid to die
You treat me like a stepchild
Am I your stepchild
I wanna turn and walk all over you
But my heart says, “No, just let her be.”

*

BABY, COSA VUOI CHE FACCIA?
parole e musica Jimmy Reed

Eseguita da Bob Dylan agli Universal Studios di Los Angeles, California, il 19 Settembre 1985, durante le prove per il Farm Aid (con The Queens Of Rhythm – Debra Byrd, Queen Esther Marrow, Madelyn Quebec, Elisecia Wright – alle seconde voci). Il brano faceva parte del repertorio di Elvis.

Andiamo su, andiamo giù.
Andiamo su, su e giù.
Fai tutto quello che vuoi e balla.
Oh sì, oh sì, oh sì.
Mi fai fare quel che vuoi tu.
Oh, baby, cosa vuoi che faccia?

Mi fai spiare, mi fai nascondere.
Mi fai spiare, nascondere, nascondere, spiare.
Fai tutto quello che vuoi e balla.
Oh sì, oh sì, oh sì.
Mi fai fare quel che vuoi tu.
Oh baby, cosa vuoi che faccia?

traduzione di Michele Murino
Clicca qui per il video di Bob

E qui per la versione di Elvis: http://it.youtube.com/watch?v=x163y1MQLic

BABY, WHAT YOU WANT ME TO DO?
words and music Jimmy Reed

Were goin up, were goin down
Were goin up, down down up.
Any way you wanna let it roll
Yeah, yeah, yeah
You got me doin what you want me
Oh baby what you want me to do

You got me peepin you got me hidin
You got me peep hide hide peep
Any way you wanna let it roll
Yeah yeah yeah
You got me doin what you want me
Baby what you want me to do

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BALLATA DI UN UOMO SOTTILE
parole e musica Bob Dylan

Cammini nella stanza
con la tua matita in mano
vedi qualcuno nudo
e dici “Chi è quell’uomo?”
provi in tutti i modi ma
non capisci proprio
quello che stai dicendo
quando torni a casa

perchè qui sta succedendo qualcosa
ma tu non sai cos’è
vero, mister Jones?

Alzi la testa
e domandi “E’ questo il posto?”
e qualcuno ti indica e dice
“E’ suo!”
e tu dici “Cosa è mio?”
e qualcun altro dice “Dov’è cosa?”
e tu dici “Oh mio Dio!
Sono proprio solo qui!”

Ma qui sta succedendo qualcosa
e tu non sai cos’è
vero, mister Jones?

Porgi il tuo biglietto
e vai a vedere il fenomeno da baraccone
che subito viene verso di te
quando ti sente parlare
e dice: “Come ci si sente
ad essere un tale mostro?”
e tu dici “Impossibile!”
quando ti porge un osso

E qui sta succedendo qualcosa
ma tu non sai cos’è
vero, mister Jones?

Hai molti contatti
tra i taglialegna
per ottenere i tuoi fatti
quando qualcuno attacca la tua immaginazione
ma nessuno ha alcun rispetto
e comunque tutti si aspettano che tu dia
un assegno deducibile dalle tasse
ad organizzazioni di carità

Sei stato con i professori
e sei piaciuto a tutti
hai discusso con grandi uomini di legge
di lebbrosi ed imbroglioni
hai letto tutti
i libri di F. Scott Fitzgerald
sei un uomo molto istruito
è risaputo

Ma qui sta succedendo qualcosa
e tu non sai cos’è
vero, mister Jones?

Il mangiatore di spade
viene da te e poi si inginocchia
si fa il segno della croce
poi sbatte i suoi tacchi alti
e senza avviso
ti chiede come ti senti
e dice: “Eccoti la gola indietro
grazie per il prestito!”

E tu sai che qui sta succedendo qualcosa
ma non sai cos’è
vero, mister Jones?

Ora vedi questo ometto orbo
che grida la parola “ORA!”
e dici: “Per quale motivo?”
e lui dice: “Come?”
e tu dici: “Cosa significa questo?”
e lui ti urla dietro che sei una vacca
“Dammi del latte
oppure vai a casa!”

E tu sai che qui sta succedendo qualcosa
ma non sai cos’è
vero, mister Jones?

Cammini nella stanza
come un cammello e poi aggrotti la fronte
ti metti gli occhi in tasca
e il naso sul pavimento
dovrebbe esserci una legge
che ti impedisca di circolare
dovrebbero farti
indossare auricolari

Perchè sta succedendo qualcosa
e tu non sai cos’è
vero, mister Jones?

traduzione di Michele Murino

BALLAD OF A THIN MAN
words and music Bob Dylan

You walk into the room
With your pencil in your hand
You see somebody naked
And you say, “Who is that man?”
You try so hard
But you don’t understand
Just what you’ll say
When you get home

Because something is happening here
But you don’t know what it is
Do you, Mister Jones?

You raise up your head
And you ask, “Is this where it is?”
And somebody points to you and says
“It’s his”
And you say, “What’s mine?”
And somebody else says, “Where what is?”
And you say, “Oh my God
Am I here all alone?”

Because something is happening here
But you don’t know what it is
Do you, Mister Jones?

You hand in your ticket
And you go watch the geek
Who immediately walks up to you
When he hears you speak
And says, “How does it feel
To be such a freak?”
And you say, “Impossible”
As he hands you a bone

Because something is happening here
But you don’t know what it is
Do you, Mister Jones?

You have many contacts
Among the lumberjacks
To get you facts
When someone attacks your imagination
But nobody has any respect
Anyway they already expect you
To just give a check
To tax-deductible charity organizations

You’ve been with the professors
And they’ve all liked your looks
With great lawyers you have
Discussed lepers and crooks
You’ve been through all of
F. Scott Fitzgerald’s books
You’re very well read
It’s well known

Because something is happening here
But you don’t know what it is
Do you, Mister Jones?

Well, the sword swallower, he comes up to you
And then he kneels
He crosses himself
And then he clicks his high heels
And without further notice
He asks you how it feels
And he says, “Here is your throat back
Thanks for the loan”

Because something is happening here
But you don’t know what it is
Do you, Mister Jones?

Now you see this one-eyed midget
Shouting the word “NOW”
And you say, “For what reason?”
And he says, “How?”
And you say, “What does this mean?”
And he screams back, “You’re a cow
Give me some milk
Or else go home”

Because something is happening here
But you don’t know what it is
Do you, Mister Jones?

Well, you walk into the room
Like a camel and then you frown
You put your eyes in your pocket
And your nose on the ground
There ought to be a law
Against you comin’ around
You should be made
To wear earphones

Because something is happening here
But you don’t know what it is
Do you, Mister Jones?

bob_dylan_anni-sessanta

NERO FIUME FANGOSO
Parole di Robert Hunter, musica di Jerry Garcia
Come eseguita da Bob Dylan a Melbourne, Australia, il 6 Aprile 1992

Quando l’ultima rosa dell’estate mi pungerà il dito
ed il caldo sole mi farà gelare fino alle ossa
Quando non riuscirò più a sentire la canzone
E non riuscirò a distinguere il mio cuscino da una pietra

Camminerò da solo accanto al nero fiume fangoso
e canterò una canzone da solo
Camminerò da solo accanto al nero fiume fangoso
e sognerò un sogno tutto da solo

Quando l’ultimo riverbero della luce del sole colpirà la montagna
e le stelle cominceranno a baluginare nel cielo
Quando la luna taglierà l’orizzonte a sud ovest
con lo stridio di un’aquila in volo

Camminerò da solo accanto al nero fiume fangoso
ed ascolterò le rapide gemere
Camminerò da solo accanto al nero fiume fangoso
e canterò una canzone da solo

Nero fiume fangoso
possa tu scorrere per sempre
Non importa quanto profondo o ampio
Se tu hai un altro lato
scorri fiume fangoso
scorri fiume fangoso
scorri nero fiume fangoso

Quando sembrerà che la notte duri in eterno
e non c’è nulla altro da fare che contare gli anni
Quando le corde del mio cuore cominceranno a spezzarsi
e cadranno pietre dai miei occhi invece che lacrime

Camminerò da solo accanto al nero fiume fangoso
e sognerò un sogno tutto da solo
Camminerò da solo accanto al nero fiume fangoso
e canterò una canzone da solo
e canterò una canzone da solo

traduzione di Michele Murino

BLACK MUDDY RIVER
Words by Robert Hunter; music by Jerry Garcia
As performed by Bob Dylan in Melbourne, Australia, Apr 6 1992

When the last rose of summer pricks my finger
And the hot sun chills me to the bone
When I can’t hear the song for the singer
And I can’t tell my pillow from a stone

I will walk alone by the black muddy river
And sing me a song of my own
I will walk alone by the black muddy river
And dream me a dream of my own

When the last bolt of sunshine hits the mountain
And the stars start to splatter in the sky
When the moon splits the southwest horizon
With the scream of an eagle on the fly

I will walk alone by the black muddy river
And listen to the ripples as they moan
I will walk alone by the black muddy river
And sing me a song of my own

Black muddy river
Roll on forever
Don’t care how deep or wide
If you got another side
Roll muddy river
Roll muddy river
Black muddy river roll

When it seems like the night will last forever
And there’s nothing left to do but count the years
When the strings of my heart start to sever
And stones fall from my eyes instead of tears

I will walk alone by the black muddy river
And dream me a dream of my own
I will walk alone by the black muddy river
And sing me a song of my own
And sing me a song of my own

bob-dylan-and-the-beatles-anni-sessanta

MARCHIATO
parole e musica Merle Haggard

Registrata da Bob Dylan ai Sunset Sound Studios di Hollywood, Los Angeles, California, il 23 e 11 Aprile 1987, durante le sessioni di registrazione dell’album “Down In The Groove”.

Mi piacerebbe andare a testa alta ed essere orgoglioso di chi sono
ma non permetteranno che il mio segreto resti celato
Ho pagato il mio debito ma non sono ancora soddisfatti
Ora sono marchiato, un uomo con un marchio al freddo

Quando mi hanno fatto uscire di prigione, avevo la testa alta
Ero deciso a risollevarmi sopra la vergogna
Ma non importa quanto io viva, il marchio nero mi segue
Sono marchiato, il mio nome è un numero

Mi piacerebbe andare a testa alta ed essere orgoglioso di chi sono
ma non permetteranno che il mio segreto resti celato
Ho pagato il mio debito ma non sono ancora soddisfatti
Ora sono marchiato, un uomo con un marchio al freddo

Se vivo per essere un numero, credo che non ripulirò mai il mio nome
Perchè tutti sanno che sono stato in prigione
Non importa dove io viva, dovrò dire loro dove sono stato
O mi rispediranno in prigione se non lo faccio

Mi piacerebbe andare a testa alta ed essere orgoglioso di chi sono
ma non permetteranno che il mio segreto resti celato
Ho pagato il mio debito ma non sono ancora soddisfatti
Ora sono marchiato, un uomo con un marchio al freddo
Ora sono marchiato, un uomo con un marchio al freddo

traduzione di Michele Murino

BRANDED MAN
words and music Merle Haggard

I’d like to hold my head up and be proud of who I am
But they won’t let my secret go untold
I paid the debt I owed them,but they’re still not satisfied
Now I’m a branded man out un the cold

When they let me out of prison,I held my head up high
Determined I would rise above the shame
But no matter where I’m living,the black mark follows me
I’m branded with a number on my name

I’d like to hold my head up and be proud of who I am
But they won’t let my secret go untold
I paid the debt I owed them,but they’re still not satisfied
Now I’m a branded man out un the cold

If I live to be a hundred,I guess I’ll never clear my name
‘Cause everybody knows I’ve been in jail
No matter where I’m living,I’ve got to tell them where I’ve been
Or they’ll send me back to prison if I fail

I’d like to hold my head up and be proud of who I am
But they won’t let my secret go untold
I paid the debt I owed them,but they’re still not satisfied
Now I’m a branded man out un the cold
Now I’m a branded man out un the cold

*

CITTA’ D’ORO
parole e musica Bob Dylan

da “RISE AGAIN”

C’è una città d’oro
Lontano da questa corsa al successo
E’ nella tua anima
Lontano dalla confusione
E dalle sbarre che imprigionano
C’è una città d’oro

C’è un paese di luce
Innalzato nella gloria
Gli angeli vestono di bianco
Non esiste malattia
Non esiste notte
C’è un paese di luce

C’è una città d’amore
Lontano da questo mondo
e dalla materia di cui son fatti i sogni
oltre il tramonto
oltre le stelle nel cielo
c’è una città d’amore

C’è una città di speranza
dove non servono dottori
non servono nemmeno droghe
Sono pronto e disposto
a gettar giù una corda
C’è una città di speranza

C’è una città d’oro
lontano da questa corsa di topi
e da queste sbarre che imprigionano
Pace per il tuo spirito
Riposo per la tua anima
C’è una città d’oro

CITY OF GOLD
words and music Bob Dylan

There is a city of gold
Far from this rat race
It’s in your soul
Far from the confusion
And the bars that hold
There is a city of gold.

There is a country of light
Raised up in glory
The angels wear white
Never know sickness
Never know night
There is a country of light.

There is a city of love
Far from this world
And the stuff dreams are made of
Beyond the sunset
Beyond the stars high above
There is a city of love.

There is a city of hope
Don’t need no doctor
Don’t even need dope
I’m ready and willing
Throw down a rope
There is a city of hope.

There is a city of gold
Far from this rat race
And these bars that hold
Peace for your spirit
Rest in your soul
There is a city of gold.

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POESIE inedite di John Taylor “It Was Not Yet Night” (Non era ancora notte) traduzione di Marco Morello con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

foto fumetto

Fumetto design Diabolik ed Eva Kant

John Taylor, poeta, scrittore e traduttore, e Caroline François-Rubino, pittore, lavorano insieme dal 2014. Il loro primo libro, Boire à la source / Drink from the Source, è pubblicato da Éditions Voix d’encre in marzo 2016. Il loro secondo libro, Hublots / Portholes, sarà pubblicato questa estate da Éditions L’Œil ébloui. John Taylor è anche autore di altre sei opere di racconti, di prose brevi e di poesie, di qui The Apocalypse Tapestries (2004) e If Night is Falling (2012). The Apocalypse Tapestries è stata pubblicata in italiano con il titolo Gli Arazzi dell’Apocalisse (Hebenon) et la sua raccolta di prose brevi, If Night is Falling, con il titolo Se cade la notte (Joker), i due libri nella traduzione di Marco Morello. John Taylor è editor e co-traduttore d’una ampia raccolta dei testi del poeta italiano Alfredo de Palchi, Paradigm: New and Selected Poems (Chelsea Editions, 2013). Ha ottenuto nel 2013 una borsa notevole dell’Academy of American Poets per il suo progetto di tradurre le poesie di Lorenzo Calogero — libro che è stato pubblicato: An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960 (Chelsea Editions).

Sito di John Taylor (http://johntaylor-author.com/)
Sito di Caroline François-Rubino (http://www.caroline-francois-rubino.com/)

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Sono convinto che Antonio Sagredo sbaglia quando paragona la poesia di Timothy Houghton a quella di Pasternak, Un errore che fa spesso la critica è quella di leggere la poesia contemporanea con gli occhi rivolti al passato, e invece è l’esatto opposto ciò che noi dobbiamo fare, leggere la poesia di oggi con gli occhi rivolti al futuro. E poi non possiamo addebitare a un poeta di oggi la colpa di utilizzare nella sua poesia i simboli e gli oggetti della vita di oggi. Ogni poesia è figlia del proprio tempo, nel bene e nel male, e ciò che ci accomuna è molto più forte di ciò che ci divide.
Per tornare alla poesia di John Taylor che qui presentiamo in alcune poesie, noi lo conosciamo quale bravissimo traduttore della poesia italiana in inglese, le sue traduzioni delle poesie di Lorenzo Calogero hanno riscosso il plauso e l’ammirazione di un poeta traduttore come Steven Grieco-Rathgeb, e non era affatto facile rendere in inglese i modi ellittici tipici della lingua letteraria italiana in inglese. Voglio dire che non deve trarre in inganno l’apparente semplicità del lessico e della sintassi di John Taylor, la sua icasticità è massima, è quasi scultorea, punta all’essenziale di un dettaglio, di un oggetto per metterli in evidenza. In fin dei conti il fine della poesia è questo: mettere in evidenza certi scorci linguistici che rimandano ad altro. John Taylor non mette mai in evidenza gli scorci linguistici per se stessi, per fare una poesia bella o eufonica, ma per qualcosa d’altro che sta dietro e sotto il testo letterario. E questo per me è già sufficiente, vuol dire che Taylor ha ben digerito la lezione di Un William Carlos Williams e di un Wallace Stevens, un po’ meno, mi si conceda, quella di un Lorenzo Calogero il quale di frequente gira intorno all’oggetto linguistico con le sue onde foniche concentriche. Qui, in Taylor, non abbiamo onde concentriche ma direi uno stato di quiete apparente interrotto dal susseguirsi di brevissime scosse telluriche. Mi chiedo quanti tra i poeti italiani sono capaci di fare altrettanto?, di essere rastremati fino all’eccesso come in Taylor?. Certo, se mettiamo a confronto la poesia di John Taylor con quella di Pasternak non rendiamo un buon servizio né all’uno né all’altro, ogni poeta vale per sé e per quello che può portare alla poesia universale progressiva (o regressiva) dell’Occidente. Si presti attenzione agli incipit delle poesie di John Taylor, sembrano accadere quasi per caso, o per rimozione di un precedente verso, di un ricordo, o per amnesia di qualcosa d’altro. E questa non è una caratteristica precipua della migliore poesia contemporanea?

Parafrasando le parole di un critico russo Boris Groys: «la vittoria del materialismo in Occidente ha portato alla totale scomparsa della materia… sicché è diventato evidente che la materia come tale è nulla. Sembra che sia giunta l’ora dell’apocalisse…», e invece nulla, non è accaduto nulla qui in Occidente, tutto continua come prima e meglio di prima. A causa della Crisi e grazie alla crisi.

  • B. Groys Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale Garzanti, 1992 p. 28
  • Disegni nei testi di Caroline François-Rubino.
John Taylor

John Taylor

John Taylor

It Was Not Yet Night

sometimes / for a while
you no longer know

this dusk will be darkness
at the end

an absence of light

not this soothing twilight

over the snow
Non era ancora notte
a volte / per un po’
non sai neanche più

che questo crepuscolo diventerà oscurità
alla fine

un’assenza di luce

non questa distensiva penombra
sopra la neve
*

sometimes it is
thicker haze

every slope almost imaginary

a slope
a plain
as it happens

they are there

*

a volte è nebbia
più spessa

ogni pendìo quasi immaginario

un pendìo
una pianura
guarda caso

eccoli là

 

sometimes so much light
what must pass
can be seen

not what must
remain

later

the night unclothes
what is constant

envelops the momentary
in a black shroud

a not entirely black shroud

that also must vanish

.
*

a volte in così tanta luce
si può vedere
ciò che deve passare

non cosa deve
rimanere

più tardi

la notte spoglia
ciò che è costante

avvolge il momentaneo
in un nero sudario

un sudario non completamente nero

che anch’esso deve svanire

Alfredo De Palchi e John Taylor Firenze 2012

Alfredo De Palchi e John Taylor Firenze 2012

 

bands of haze
fingers across a field

if darkness could caress you

sometimes

this caress
mere thickening twilight
a handful of light
soon scattered

beyond any desire

*

sciarpe di nebbia
dita attraverso un campo

se il buio potesse accarezzarti

talvolta

questa carezza
semplice crepuscolo che infittisce
una manata di luce
presto dispersa

oltre ogni desiderio

*

talvolta persistono alberi
più vicini a te
di quanto avessi immaginato

emergono

anche i più scuri
recano luce
un’improvvisa rassicurazione buia

*

sometimes trees persist
closer to you
than you had thought

they emerge

even the darkest
bear light
a sudden dark reassurance

 

sometimes
in daylight
it is ever going to be night

in your heart

light laced
with black

in whatever brightness

when sunlight warms
with its gentle embers of coal
remember this

every
day
night
the dark warm brightness

*

a volte
anche in pieno giorno
sta comunque per farsi notte

nel tuo cuore

luce venata
di nero

in qualsiasi splendore

quando la luce solare riscalda
con le sue gentili braci di carbone
ricorda questo

ogni
giorno
notte
la scura calda luminosità

*

where twilight hovers blue
over the valley
where a moment
seems ever-changing
then motionless

sometimes

blurred trees
bushes hedges
patches of darkness
in the leftover light

recall
the brighter
missing light

*

dove il crepuscolo si libra blu
sopra la valle
dove un momento
sembra cangiante
poi immobile

talvolta

alberi offuscati
cespugli siepi
chiazze di buio
nella luce rimasta

ricordano
la più luminosa
luce mancante

Marco Morello

Nasce a Torino nel 1956. Si laurea in inglese nell’80 e lo insegna da allora nelle superiori. Scrive poesie liriche dal ’72 al ’79, virando successivamente verso lidi ludolinguistici, attestati da fitta collaborazione con il Bartezzaghi di “Tuttolibri”, Accavallavacca, Anno sabbatico, ”Lessico e nuvole”. Pubblica tre raccolte di versi: Semplicità (’76), Quartine per ‘Lù (’01), e 111 haiku (‘05). Dirige per anni l’aperiodico “Poesia nella Strada” e collabora come critico e traduttore a “Hebenon”, rivista internazionale di  letteratura. Sue punzecchiature letterarie, oltre a giochi di parole e poesie, sono ospitate dal foglio elettronico “il giornalaccio”.

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Timothy Houghton POESIE SCELTE da The internal distance Selected poems (1989-2012) Introduzione di Luigi Fontanella traduzione di Annalisa Macchia e Luigi Fontanella Mimesis, 2015 pp. 160 € 14

roy lichtenstein interior with Built in Bar

roy lichtenstein interior with Built in Bar

Timothy Houghton è nato a Dayton, Ohio, USA. I suoi precedenti libri sono High Bridges (Stride Press, England, 1939) e Below Two Skies (1993), Riding Untouched (1998), Drop Light (2005), The Height in Between (2012), tutti editi da Orchises Press. Ha pubblicato su numerose riviste internazionali. Insegna letteratura e scrittura alla Loyola University in Maryland dove vive con sua moglie e due bambini. Per trent’anni è stato un avido osservatore di uccelli e per la maggior parte di quel tempo ha condotto escursioni per Audubon e altre organizzazioni.

  da Introduzione al libro di Luigi Fontanella

Due parole per presentare Houghton, la cui conoscenza devo all’amico Alfredo de Palchi, forse e senza forse il maggior poeta italiano espatriato negli States, già fondatore (con Sonia Raiziss) della storica rivista Chelsea e attuale direttore della casa editrice Chelsea Editions di New York.

Nativo di Dayton (Ohio), Timothy Houghton si è formato culturalmente presso l’università di Denver, Colorado, ottenendo numerosi riconoscimenti e borse di studio tra cui la prestigiosa MacDowell. Timothy vive attualmente nel Maryland con sua moglie e due figli, e insegna “Creative Writing” presso la Loyola University.

La sua poesia si caratterizza immediatamente per un tono complessivamente riflessivo, con una straordinaria capacità osservativa, diciamo pure un’attenzione capillare verso la realtà (benché sia spesso “indecifrabile”), dalla quale trarre segni e indicazioni sul senso o sui sensi ad essa profondamente sottesi.

In questa storia di anamnesi, ch’è prima di tutto introspettiva, un ruolo fondamentale giocano gli affetti familiari (in primis la figura del padre, spesso ricorrente per lampi e improvvise epifanie) ri-percepiti o ri-evocati come presenze che hanno lasciato e ancora lasciano segni duraturi, indelebili, sui quali e con i quali confrontare i propri passi. Due versi fortemente suggestivi recitano così: «I morti che ho amato / Costruiscono la loro casa».

Dunque, la memoria: fonte attiva d’ispirazione; da un lato fonte d’indagine e di rivisitazione della quotidianità e, dall’altro, come dimensione autoanalitica. Ed è sempre questa memoria, spesso intrecciata con l’immaginazione, che permette a Houghton di scandagliare il coacervo della realtà in cui egli si muove, le sue contraddizioni, la sua storia, le sue insensatezze («È sempre tardi quando le cose accadono… / nuove tubature / strappano le radici, s’incrociano con i pozzi»).

L’innata capacità osservativa di Houghton si è andata arricchendo, nelle raccolte più recenti, di striature oniriche; forti squarci visionari che possono scaturire dal rimbalzo visivo di un oggetto o di una situazione che richiama subito un’altra (si legga, a tal proposito, la bella poesia Their Laughter). Squarci e segni che vanno oltre l’immediata percezione dei sensi. Significativamente, nella poesia Perseid, dirà: «I segni sono chiari stasera, decisamente, / non adducono pretesti – / possiamo andare oltre a ciò che siamo».

Da qui, infine, una certa dilatazione dello scrutare di Houghton fino a raggiungere, in certi componimenti, come degli straripamenti epici, benché esplorati sempre con una disposizione intimista, perfino vagamente crepuscolare, densa, tuttavia, di aperture, contaminazioni e oniriche meditazioni alla Sergio Leone, l’indimenticato regista di C’era una volta il Woest, del resto, puntualmente evocato da Houghton nella sua più recente raccolta (The Height in Between).

Timothy Houghton

Timothy Houghton

Poesie di

Timothy Houghton

 Sanctuary

Sometimes during visits
we see our mother pretending to bustle

in the quiet of her bedroom
that’s used for storage now –

where she’s kept the windows
swollen shut for over thirty years

for fear that loosening them
will break the glass. The unwashed panes

are giant laboratory slides
preserving a soup of grit and oils

from children’s fingertips:
a history of touches

between herself and the birches
which line our street. The whole warmth

of sunlight coming free of a cloud
and coming in – not here. Lately

my brothers and I discovered
one of our father’s coats

still hanging in the closet
and stood there trading memories

of seeing different aspects of him
in that herring-bone brown.

This means we’ve stopped teasing her
about the room. We keep quiet.

.
Santuario

A volte in occasione di visite
vediamo nostra madre trafficare con falsi pretesti

nella calma della sua vecchia camera da letto,
ora usata come ripostiglio-

dove lei tiene le finestre
ingrossate, chiuse da oltre trent’anni,

per paura che nell’aprirsi
si rompa il vetro. I vetri non lavati

sono vetrini giganti di laboratorio
che proteggono l’attaccaticcio di sporco e di unto

di ditate di bambini:
un passato di strusciate di mano

tra lei e le betulle
che fiancheggiano la nostra strada. Tutto il calore

della luce del sole sfuggito a una nuvola
entra – non qui. Ultimamente

i miei fratelli ed io abbiamo scoperto
uno dei cappotti di nostro padre

ancora appeso nell’armadio
e siamo rimasti lì davanti, scambiandoci ricordi

e ritrovando ogni lato del suo carattere
in quello spigato marrone.

Così abbiamo cessato di prenderla in giro
per quella stanza. Restiamo in silenzio.
timothy houghton_copTheir Laughter

When the hornet finally died
its blue wings –

                               translucent and sturdy
                               as mica –

crossed themselves and covered the body
as it lay on the sill,

and I was surprised
to find myself thinking of water,

how it comes up blue
                                 after wind blows away
                                 the floating seaweed –

when black-crowned terns
hover above fish –

                                 and remembered a story
                                 I heard from my father,

one of many troops swimming
at a Philippine beach
                                  as lobsters boil
                                  in a metal drum.

Planes come swooping low
from jungle canopy,
                              strafing the diving men
                              whose stomachs are filled

with white meat, and the miracle is no one
gets hit,
                              that it’s one

pass only. They surface with shouts,
with fists raised

but dissolved in spindrift – and laughter,
violent laughter
                                                       like glare
                                                         and white water on the blue.

.

La loro risata

Quando infine il calabrone morì
le sue ali blu –

translucide e resistenti
come mica –

s’incrociarono tra loro e coprirono il corpo
inerte sul davanzale,

e mi sono sorpreso a pensare all’acqua,

a come si ritorna al blu
                                        dopo che il vento ha soffiato via
                                        le alghe fluttuanti –

quando le rondini di mare
si librano sopra i pesci –

                                        e mi viene in mente un racconto
                                        di mio padre,

una delle tante truppe che nuotavano
in una spiaggia delle Filippine
                                                        mentre le aragoste bollivano
                                                        in un bidone di metallo.

Gli aerei arrivano in picchiata
dalla verde calotta della jungla,
                                                        a mitragliare gli uomini immersi,
                                                        dagli stomaci

sazi di polpa bianca, e il miracolo è che nessuno
viene colpito
                                        che si tratta

di un solo passaggio. Loro riemergono dal mare gridando
con i pugni alzati,
ma subito tutto si scioglie in spruzzo e risata,
una convulsa risata
                                     come un lampo
                                     e acqua bianca sul blu.

 

Roy Lichtenstein 1993 – LARGE INTERIOR WITH THREE REFLECTIONS – Tape, painted and pirnted paper on board (87 x 233 cm)

Roy Lichtenstein 1993 – LARGE INTERIOR WITH THREE REFLECTIONS – Tape, painted and pirnted paper on board (87 x 233 cm)

Classical vs. Quantum

Kids jump through each other and crowd the room
—giant quarks, a frenzied physics at play—
then stomp my belly below the lunch tray.
“Careful!” I shout. They exit my couch but soon

fly, arms locked, from coffee table to rug,
heads banging, tongues out. It’s tumult to tears,
so I click the volume up – my trick for years.
“Turn it off!” my boy yells. I’m the big slug,

glad my tray’s empty now – they pounce once more.
I melt into their heat and glue their limbs
into a popeyed machine, holding a gin
and tonic above it all. There’s the door…

but nails dig into me and keep me down.
Quantum faces laugh above my frown.

.
Classica contro Quantistica

– Giganteschi quark, pazza fisica in gioco
l’uno sull’altro i bimbi affollano la stanza
mi pestano lo stomaco sotto il vassoio del pranzo.
“Attenti!” grido. Scendono dal sofà ma da lì a poco

dal tavolo al tappeto volano giù in picchiata
e battono la testa, lingua fuori. È caos fino al pianto,
così alzo il volume – un trucco ormai da tanto.
“Spegni!” grida mio figlio. Son proprio una patata,

ora a vassoio vuoto, felici – saltano un’altra volta.
Mi sciolgo in quel calore e i loro corpi incollo
a un automa dagli occhi sgranati, ma controllo
soprattutto il mio gin & tonic. C’è la porta…

ma resto giù bloccato da unghie ad artiglio.
I volti della Quantistica ridono al mio cipiglio.

.
Ice Elf

Where a foot-high helper
spent the night
sleeping –

                            there’s compression and
                            voice of mine

                            partly buried in powder snow:

a quartz-like tower beside the wall
where pipe vents furnace.
                                                     One night my son
                                                     recreates it,

shaping air without precision
before the fireplace, but I see it,

the ice elf in his manic hands. He believes me
when I tell him
                              it doesn’t leave tracks
                                when the body runs away.

His small hands are God, his talk behind them is God.
This immortality will live two more years,

maybe three. Yet I believe, too, angry
with innocence and angry at it.

I live in a family tightly packed
within a living room of worn furniture.

We watch TV at night. We sit in the air of light bulbs
and enjoy our smiles.

The hippie Christ adds dimension above the fireplace
with His soft beige shirt.

.

Elfo di ghiaccio

Ecco dove un elfo alto un piede
ha trascorso la notte
dormendo –

                                 c’è una piccola depressione e
                                  la mia voce

                                  suona ovattata dalla neve fresca:

come una torre di quarzo accanto al muro
dove sono convogliati gli sfiati del bruciatore.
                                                        Una sera mio figlio
                                                         lo ricrea,

vagamente modellandolo in aria
davanti al caminetto, ma io, l’elfo di ghiaccio, lo vedo

tra le sue mani fantasiose. Mi crede
quando gli racconto
                         lui non lascia tracce
                          quando il corpo fugge via.

Le sue piccole mani sono Dio, le sue chiacchiere su di lui, sono Dio.
Questa fede assoluta durerà ancora due anni,

forse tre. Eppure io credo, anche con rabbia
con innocenza e rabbia a tutto ciò.

Vivo in una famiglia saldamente unita
dentro le mura d’un logoro salotto.

Alla sera guardiamo la TV. Ci sediamo alla luce di semplici lampadine
e ci godiamo i nostri sorrisi.

Il Cristo hippie sopra il caminetto completa l’atmosfera
con la Sua leggera tunica beige.

roy-lichtenstein-interior-series-the-living-room

roy-lichtenstein-interior-series-the-living-room

Machine

autism

1. Hikari

An earthmover planes a muddy square
in the distance.

Riding his father’s shoulders, he watches and hears,

properties
of distribution
at work in his mind. Machines

settle him down,
but sometimes a voice
takes part
in design:

his father’s
bird tape, the monotone, the
parallel syntax:

this is, this is – and the bird
is named.

A song

jolts him,
matching the tape
exactly,

and he speaks
as the narrator had:

“This is a water rail”
—for himself
to hear,
that planar
symmetry.

2. His Father

Those words: a Doppler turnabout, red
to blue
coming toward him

from reaches of space
in the split second of disbelief.

The weight on his shoulders is real, like wings folding in
upon landing,
stunning him
with presence,

the appearance
of affect.

And then it sings again, the same bird
a shade
different

this time – off,
equivalent
to chaos
for the boy, who gives no response.

3.

The shade is a wall.
One head turns
followed by the other –

to the machine on the muddy square.

Ruspa

autismo

1. Hikari

Una ruspa spiana una piazza fangosa
in lontananza.

A cavalluccio del padre, vede e sente,

proprietà
distributive
in attività nella sua mente. Le macchine

lo calmano,
ma talvolta una voce
prende parte
al disegno:

il nastro registrato di suo padre
con canti di uccello, la ripetitività del suono,
la parallela sintassi:

questo è, questo è – e l’uccello
è identificato.

Un canto

lo riscuote
in perfetta corrispondenza
con la registrazione,

e lui parla
come fa il narratore aveva detto:

“Questo è il porciglione”
—Per se stesso
per sentire
questa parallela
simmetria.

2. Suo padre

Qulle parole: un Ecodoppler, dal rosso
al blu
attraverso il suo corpo

da remoti spazi
nell’incredula frazione di un secondo.

Il peso sulle sue spalle è reale, come ali che si ripiegano
all’atterraggio,
lo sbalordiscono
con la prontezza,

l’apparenza
di una partecipazione.

E poi canta di nuovo, lo stesso uccello
con tonalità
diversa

questa volta – alterata,
in sintonia
con il caos
del bambino, che non dà risposta.

3.

Questa tonalità è un muro.
Una testa si volta
seguita dall’altra –

verso la ruspa sulla piazza fangosa.

The Remaining Warmth

The twelve-foot fraction of tentacle
lay on the shore

like a thick whip – like a tool
used by dangerous, benthonic

orders. Children who touched it
studied their fingertips

before running from this proof
of giants, of still-living

never-seen monsters
of concealment and wonder.

At great depths
below the apprehension of light

there’s a remaining warmth
where unnerving work gets done –

and slowly the good fears rise up
to be with our days

like hail banging on windshields
of moving cars

with sheets of rain
waving at us from the road ahead.

.
Il residuo calore

I quattro metri di tentacolo
sono riversati sulla riva

come una massiccia frusta – un’arma
a disposizione di pericolose, abissali

specie marine. I bambini che lo toccavano
si osservavano la punta delle dita

prima di correre via da quella tangibile certezza
di giganti, di ancora-esistenti

mai -svelati mostri
di un mondo segreto e fantastico.

Nella profondità degli abissi
sotto ogni percezione di luce

resta un residuo calore
in cui si svolgono attività snervanti –

e lentamente affiorano sane paure
per tenerci compagnia

come grandine che picchia sui parabrezza
di vetture in corsa

scrosci di pioggia
che salutano dalla strada innanzi a noi.

Luigi Fontanella foto

Luigi Fontanella vive tra New York e Firenze. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica. Fra i titoli più recenti: L’angelo della neve. Poesie di viaggio (Mondadori, Almanacco dello Specchio, 2009), Controfigura (romanzo, Marsilio, 2009), Migrating Words (Bordighera Press, 2012), Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Premio Prata, Premio I Murazzi), Disunita ombra (Archinto, RCS, 2013), L’adolescenza e la notte Passigli, Firenze, 2015. Dirige, per la casa editrice Olschki , “Gradiva”, rivista internazionale di poesia italiana (Premio per la Traduzione, Ministero dei Beni Culturali, e Premio Catullo) e presiede la IPA (Italian Poetry in America). Nel 2014 gli è stato assegnato il Premio Nazionale di Frascati Poesia alla Carriera. luigi.fontanella@stonybrook.edu

annalisa macchia

annalisa macchia

Annalisa Macchia è nata a Lucca nel 1950 e vive a Firenze  dove ha insegnato lingua e letteratura francese. Studiosa di letteratura per l’infanzia, poeta, narratrice e traduttrice, ha pubblicato vari libri, tra cui La luna di Cézanne (poesia, Kairos, 2008); A scuola di poesia (saggistica, Florence Art Ed. 2009); Il portone di via Ghibellina (prosa, puntoacapo Editrice, 2011); Interporto Est (poesia, Moretti &Vitali, 2014); Come si cucina un sonetto (poesia, Florence Art Ed., 2015). Ha tradotto poesie di John Ciardi, Timothy Houghton e Mark Strand. Collabora con alcune associazioni culturali e riviste  ed è nella redazione fiorentina della rivista internazionale Gradiva.

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DIECI POESIE DELLA POETESSA PALESTINESE-AMERICANA HALA ALYAN A CURA DI STEVEN GRIECO-RATHGEB “RADICE, TU, COSA MICROSCOPICA, ASTUTA” – TRADUZIONI DI TRINITA BULDRINI E STEVEN GRIECO-RATHGEB – Prima traduzione in italiano

Hala Alyan

Hala Alyan

Hala Alyan è una poetessa palestinese-americana e psicologa clinica. I suoi lavori letterari sono apparsi in diverse riviste, quali Guernica, The Missouri Review, Prairie Schooner. Atrium, edito da Three Rooms Press, ha conseguito il Arab American Book Award. E’ uscito recentemente Four Cities, edito da Black Lawrence Press. La sua raccolta più recente, Hura, ha vinto il premio della Sezione Poesia del Crab Orchard Series 2015, e sarà pubblicato dalla Southern Illinois University Press.

POESIE di HALA ALYAN

Birthday Art

Not jungle, but pastel, the color
of the first bruise paled
beneath the second. Mama,
I want to be a woman of dusklit
mosques, of ginger prickly in tea,
steam netted for a lover. Sky
becomes circular, spans itself
like hair. Hair, thickets, copper
with pollen: the mouth is a
key in the shape of echo. Rouge,
coral, center the suns. He
terraces bones for invisible
gods, blackening with
shale. And then a stream,
chromophilous water. Rinsing
the form, nipples dark as
coins hidden in a silk purse.
The backcloth is spent, another
flimsy dream about a doll
factory in Beirut, sirens lighting
the empty birdcage. My dream
self tastes the Turkish coffee:
graphite. Some treetop
ornaments with paper cranes
dangling from wires until wind
rustles all that white into a
froth like steam or cresting wave.
Like something spilled.
On a bed. Where bodies dance.

Arte di compleanno

Non giungla, ma pastello, il colore
del primo livido impallidiva
sotto il secondo. Mama,
voglio essere una donna di moschee illuminate
dal crepuscolo, di zenzero che pizzica nel tè,
vapore raccolto per un amante. Il cielo
diventa un cerchio, si allunga
come capelli. Capelli, boschetto, rame
con polline: la bocca è una
chiave in forma d’eco. Rossetto,
corallo, centrano i soli. Egli
mette ossa a terrazza per invisibili
dèi, annerisce con
scisto. E poi un getto,
acqua cromofila. Sciacquando
la forma, capezzoli scuri come
monete nascoste in una borsa di seta.
Il fondale è esaurito, un altro
sogno inconsistente di una fabbrica
di bambole a Beirut, le sirene illuminano
la gabbia per uccelli vuota. Il mio sé
sognato assaggia caffè turco:
grafite. Qualche decorazione
per la punta dell’albero con gru di carta
penzolanti da fili finché il vento
non fa frusciare tutto quel bianco fino
ad essere schiuma come vapore o cresta d’onda.
Come qualcosa di versato.
Su un letto. Dove danzano i corpi.

You, Bonsai Girl

Blue was always
yours,

jazzing its way onto your buttons
and eyelids.

Some women dream of hurricane.

I think you are a pier,
filmed, wooden planks beneath sheets of rain.

Or some jungle canopy,

wolfing light while, below,
creatures twist in the murk. Anyways,

what remains of that hunting is inland.

Some gourd,
emptied, your September ancestors

howling on Delancey. Stale Nile water in your mouth,

dark as sunflowers. (The heart, not the petal.)
I hear you, ghost,

your voice minnowing the sag of mattress

even in America. Prophecy,
how you held your body still in his bed

like you were no woman, but object.
A tooth,

long and
yellow, pulled from a witch’s

garden and oh
sister it was real. That sky. Those streets full of men

applauding your legs.

.
Tu, ragazza bonsai

L’azzurro è sempre stato
tuo,

elettrizzava i tuoi bottoni
e le sopracciglia.

Alcune donne sognano l’uragano.

Penso tu sia un molo,
filmata, assi di legno sotto lenzuola d’acqua.

O qualche copertura di giungla,

divorando luce mentre, più giù,
esseri si torcono nelle tenebre. E comunque,

ciò che rimane di quella caccia sta all’interno.

Qualche zucca,
svuotata, i tuoi avi di settembre

urlanti su Delancey. Acqua stantia del Nilo in bocca,

scura come girasoli. (Il cuore, non il petalo.)
Ti sento, fantasma,

la tua voce piccola dove sprofonda la buca del materasso

anche in America. Profezia,
come tenevi il tuo corpo immobile nel suo letto

come tu non fossi donna, ma oggetto.
Un dente,

lungo e
giallo, estratto dal giardino

di una strega, oh
sorella, com’era vero. Quel cielo. Quelle vie piene di uomini
che applaudivano le tue gambe.

Icon

While the moon stoops in the early April sky,
I fold paper into a tragic crane. One magician
burns sand, another palms a tree. My crane
flickers her lovely neck and weeps. After the fire,
everything smelled of chartreuse, a red that
guttered in the neighbor’s dreams. A piano
turns bodies magnetic with music. I want to break
myself like egg for you, to pool in gold and lost.

Icona

Mentre la luna fa la gobba nel primo cielo d’aprile,
io piego la carta per farne una tragica gru. Un mago
brucia la sabbia, un altro crea dalla palma un albero. La mia gru
tremola il suo collo aggraziato e piange. Dopo l’incendio,
tutto aveva odore di liquore, un rosso che
si spegneva nei sogni del vicino. Un pianoforte
magnetizza i corpi con la musica. Per te voglio rompermi
come un uovo, raccogliermi in oro liquido e persa.

Narcissus

The clouds owl-eye the sky,
gaped at by moon. Yes,

I dreamt we wed. A priest
fed us rice and sugar,

the cathedral was locked.
Trees litter Brooklyn streets

with blossoms. I wake to Iraq,
to neighbors kissing.

I am a ghost ship
smothered by Neruda’s stars.

Is that what you wanted?
To hear me say I ache? I ache.

Narciso

Le nuvole fanno occhi da gufo al cielo,
osservate da una luna a bocca aperta. Sì,

ho sognato che ci sposavamo. Un prete
ci dava riso e zucchero,

la cattedrale era serrata.
Alberi spargono fiori per le vie

di Brooklyn. Mi sveglio all’Iraq,
ai vicini che si baciano.

Sono una nave fantasma
soffocata dalle stelle di Neruda.

E’ questo che volevi?
Sentirmi dire che fa male? Fa male.

Ya Bint

It was Lyra peeking through the trees
in Berlin, a smattering of needlepoint lights
above the spiked leaves. You spoke of Io, steam-
plumes grainy as past. Of the past, keep the echo,
the blankness on a crested sand dune. I never
called you beautiful, though you are, starlet
lips and curls like earth, as though Baghdad
never forgot you. In the bowels of Gaza my father
counted chicks on a road. I am always pirating
his memories. You pointed to the brightest dot,
silver upon your wrist. Before your mother died,
she would extract fish bones, one after the
other, giving you the good, clean meat. I do not
remember the name of that star or the trees or
the man who bought us gin in a dank Irish
pub. The star was clear. I still think of your lips
and those glistening bones. All that almost-malice.

Ya Bint – Ehi, ragazza

Era la Lira che sbirciava tra gli alberi
a Berlino, uno sfuocarsi di spilli di luci
sopra le foglie a punta. Hai parlato di Io, pennacchi
di vapore granulosi come passato. Del passato, conserva l’eco,
il bianco sulla cresta di una duna di sabbia. Non t’ho mai
detto che eri bella, anche se lo sei, labbra da attricetta
e riccioli come la terra, quasi Baghdad
non ti avesse mai dimenticata. Nelle viscere di Gaza mio padre
contava i pulcini su una strada. Sto sempre rapinando
i suoi ricordi. Hai indicato il punto più luminoso,
argento sopra il tuo polso. Prima di morire, tua madre
estraeva le lische dal pesce, una dopo
l’altra, per darti la buona carne pulita. Non
ricordo il nome di quella stella né gli alberi né
l’uomo che ci ha portato del gin in un oscuro pub
irlandese. La stella era limpida. Ancora penso alle tue labbra
e a quelle lische luccicanti. Tutta quella quasi-malignità.

After Thunderstorms in Oklahoma

The sky becomes sickly,
unripe mango rind dappled
with flecks of green. Air opens
and closes like trachea. This
was the sky I dreamt in Ramallah,
a false awakening in the hotel room.
I pulled at curtains against the
whistling storm. But the curtains
swarmed into wood splintering my
fingers. I spun the wood into glass
and played it like a sitar. Outside
the sky roared and a forest sprouted,
abruptly, on the tiny bed. I crept
into the spruces and lay flat
on the rug. Cicadas rustled
inside a pear. The storm became
a militia. They jangled with chimes,
coming for my teeth. I woke
and it was sun and I forgot.

Dopo le tempeste in Oklahoma

Il cielo si fa malato,
buccia di mango acerbo maculata
di chiazze di verde. L’aria si apre
e si chiude come una trachea. Questo
il cielo che ho sognato a Ramallah,
un falso risveglio nella camera d’albergo.
Ho tirato le tende contro il
fischio della tempesta. Ma le tende
sono sciamate in legno scheggiandomi
le dita. Ho filato il legno in vetro
e l’ho suonato come un sitar. Fuori
il cielo ruggiva e una foresta è germogliata,
bruscamente, sul lettino. Sono entrata carponi
fra gli abeti, mi sono appiattita
sul tappeto. Le cicale frusciavano
dentro una pera. La tempesta è diventata
una milizia. Tintinnavano con sonagli,
volevano i miei denti. Mi sono svegliata
ed era sole e ho dimenticato.

Laleh

The night of the knives
Jupiter slung low
and silver in the sky.
A second moon,
the aunts said, rolling
rice into spheres.
The fighting crackled
outside our window
with the legs of a
hurricane. The aunts cut
lemons from Tabriz
for juice. The men
returned ruined and
we scoured the blood
from their shirts and
kissed them asleep.
That was lunging—
the welting of skin and
pockmarking, the reeds
glistening in river water,
a seashell stolen from
the Gulf on the mantle,
pearly, beautiful,
reminding us of what
we could not touch.

Laleh

La notte dei coltelli
Giove appeso basso
e argento nel cielo.
Una seconda luna,
hanno detto le zie, facendo
sfere di riso.
Il combattimento crepitava
fuori dalla nostra finestra
con le gambe di un
uragano. Le zie tagliavano
limoni di Tabriz
per il succo. Gli uomini
sono tornati a pezzi
abbiamo strofinato via il sangue
dalle loro camicie e
dato il bacio per dormire.
Quello era un affondo –
il lividore della pelle e
butterarla, le canne
luccicanti nell’acqua del fiume,
una conchiglia rubata dal
Golfo sul caminetto,
perlacea, bellissima,
ricordandoci ciò che
non potevamo toccare.

.
Even Fevers Make Bodies

Jerusalem springs forth like a violence
and I
                    audacious sashay

her gulfing streets with twin wings on my shoulder.

                    Mouth,
I have skin soft enough to catch you

and the pink below the needle—
rot, rot.

Pinned beneath opium eyes I pitched
myself across

                    the Atlantic. Celtic music kept pace of our lungs.

Root, you microscopic, sly thing.

Even teethed by a lover my organs pulse for certain cities.

I saw a woman on a porch once. Her hair, silver as tusks,
                    swung

polished in the simple Vienna light.

She said comets spin on these July
                    evenings

because Allah loves to dance in their
lovely glow.

Anche le febbri fanno corpi

Gerusalemme balza incontro come una violenza
ed io
                    audace ancheggio

le sue vie sboccanti con ali gemelle sulla mia spalla.

                    Bocca,
ho pelle morbida a sufficienza per acchiapparti

e il rosa sotto l’ago –
marciume, marciume.

Fissata sotto occhi di oppio mi sono
catapultata di là

                    dall’Atlantico. Musica celtica andava al passo con i nostri polmoni.

Radice, tu, cosa microscopica, astuta.

Perfino addentati da un amante i miei organi pulsano per certe città.

Una volta ho visto una donna su una veranda. I suoi capelli, argento di zanne,
                    oscillavano

lucidi nella semplice luce di Vienna.

Disse le comete vorticano in queste sere
di luglio

perché Allah ama danzare nel loro
                    incantevole brillio.

.
Fruit

You of the moist
eyes and rough mouth.
I glitter like dew for
your gaze and write
Morocco in dust
with fingertips. Sun
finds you flung
across an orchard of
music tapping along
with bare feet in rain
and grass. I never
weep and neither
should you: The birds
know nothing of greed
or the love we
splintered together
in urban streets.
Undressing makes
confetti of the night
and I am a slowly lit
Roman candle that all
the neighborhood
children— sleepy, tipsy
with August— have
gathered to watch burn.

Frutta

Tu dagli umidi
occhi e bocca ruvida.
Io brillo come rugiada per
il tuo sguardo e scrivo
Marocco nella polvere
con le punte delle dita. Il sole
ti trova scagliato
in mezzo ad un frutteto di
musica battendo al ritmo
coi piedi nudi fra pioggia
ed erba. Non
piango mai e nemmeno
tu dovresti: gli uccelli
non conoscono l’avidità
né l’amore che
abbiamo frantumato insieme
nelle vie cittadine.
Spogliarsi trasforma
la notte in coriandoli
ed io sono la fiamma accesa pian piano
di una candela romana che tutti
i bambini
del vicinato – assonnati, brilli
d’agosto – si sono
riuniti a veder bruciare.

.
For Lent

S, I dreamt we draped fairy lights around the Coliseum,
roping the tangled wires into snakelike piers. God

whispered from a wasp nest. You ate the candy
skull. Later, it was water rising in scarlet waves,

a shark speaking your name. Firewood or lace or rifle,
I house the timid of you in my mouth, seven languages

before steeple. Our passports are soaked, and ruined.
Budapest glows and snowflakes frame the false memory:

we swam in an ocean of pollen, yellow so thick it trembled
against our bodies. You tapped the gold from my hair.

Per la Quaresima

S, ho sognato che avvolgevamo luci fatate intorno al Coliseum,
fasciando con fili aggrovigliati i moli a serpente. Dio

sussurrava da un nido di vespa. Tu hai mangiato
il cranio candito. Più tardi era acqua che saliva in onde scarlatte,

un pescecane diceva il tuo nome. Legna da ardere o merletto o fucile
accolgo la tua timidezza in bocca, sette lingue

prima di guglia. I nostri passaporti sono fradici, e rovinati.
Budapest risplende e fiocchi di neve incorniciano il falso ricordo:

nuotavamo in un oceano di polline, giallo così fitto che tremava
contro i nostri corpi. Tu hai scosso via l’oro dai miei capelli.

.
In the City of Fire

The years pass. We leave the wreckage for the birds
and live in skyscrapers now,
hang paintings of glaciers mid-thaw.

When the city meets her tombs,
we pour whiskey into tumblers and sigh. We say
this country makes you hard. Even the dead starve.

The mothers march parades through the cemetery.
Joy is for the afterlife, they say,
and drape the headstones with myrrh and lace.

The keys hang between the breasts of our daughters now.
They palm cigarettes and speak of revolution.

We tell them the prophets have been dead for ages,
the flags crumbled in the riots.

Our hands fill like volcanos at the dying cities
but we tore the atlas into psalms.

In our houses we leave every light bulb burning,
keep the music cranked up loud and fast
for the god we will never let sleep.

Nella città di fuoco

Gli anni passano. Le macerie le lasciamo agli uccelli
e ora abitiamo in grattacieli,
appendiamo quadri di ghiacciai a metà disgelo.

Quando la città incontra le sue tombe,
versiamo whisky nei bicchieri e sospiriamo. Diciamo,
questo paese ti indurisce. Perfino i morti patiscono la fame.

Le madri sfilano in processione attraverso il cimitero.
La gioia è per l’aldilà, dicono,
e coprono le lapidi con mirra e trine.

Ora le chiavi pendono tra i seni delle nostre figlie.
Nascondono le sigarette in mano e parlano di rivoluzione.

Gli diciamo che i profeti sono morti da tanto,
le bandiere sbriciolate nei tumulti.

Le nostre mani si riempiono come vulcani alle città morenti
ma abbiamo strappato l’atlante per farne salmi.

Nelle nostre case lasciamo accesa ogni lampadina,
teniamo la musica a tutto volume e veloce,
per il dio che non lasceremo mai dormire.

.
Retrieval

Rapture in tunnels, in that radiant fever
of black dahlias flinging their sex
into the heavy air, gods and their wild-eyed
saints, a sea that whips itself into a
plunging dark. From the shipwreck they pulled

pyrite, instruments that shroud their
lost music. Rapture in chalky stars slung into
the rib cages of magnolia trees, windows mottled
milky with children diving for bottles. O grief,
when the owls begin their slow, gentle croon,
may we climb onto the highest pillar and
gather ourselves for the first wind like mammals.

Recupero

Estasi nelle gallerie, in quella febbre radiosa
di dalie nere che scagliano il loro sesso
nell’aria pesante, gli dèi e i loro santi dagli occhi
folli, un mare che mulina in un buio
precipitando. Dal naufragio hanno estratto

pirite, strumenti che celano la loro
musica scordata. Estasi nelle stelle biancastre infilate
nei costati delle magnolie, finestre
chiazzate di latte con bambini che si tuffano per i biberon. O dolore,
quando dei gufi inizia il richiamo sommesso,
saliamo sulla colonna più alta
per radunarci come mammiferi al primo vento.

cinema maniINTERVISTA A HALA ALYAN

DOMANDA 1: Il tuo sito Web contiene pochi dettagli autobiografici: dice soltanto che sei una poetessa palestinese-americana, specializzata in psicologia clinica, e che a presente vivi a Manhattan. Nelle dieci poesie che hai scelto per L’Ombra delle Parole, leggiamo di uomini feriti che tornano a casa, esperienze di incendi, Gaza, Beirut, Baghdad; e poi anche L’Oklahoma, Budapest, Berlino. Talvolta i riferimenti sono espliciti, talvolta allusivi. In entrambi i casi, sfuggenti. A tratti, si ha l’impressione che chi scrive questi versi viva la propria unità corpo-mente come i pezzi smembrati di un essere umano (cosa che ci dà anche modo di intravedere la sua condizione di donna nel mondo di oggi, ma per questo rimando alla domanda 4); e che spesso è solo questa persona dis-membrata, non l’unità umana nella sua interezza, che si muove, scorre attraverso luoghi lontani l’uno dall’altro. Gli altri “pezzi” di quella unità stanno “altrove”, forse in quelle zone crepuscolari dove ciascuno di noi appartiene solo a se stesso. Sogno e realtà sono spesso difficili da tenere separati. La post-modernità ha profondamente trasformato molti di noi, rubandoci i luoghi, le stesse famiglie in cui siamo nati, rubandoci le radici sociali, culturali, linguistiche. In cambio abbiamo ricevuto in dono un mondo inquietante, entusiasmante, apparentemente interconnesso, eppure frammentato. Senti calzante questa descrizione della persona poetica che emerge dalla tua poesia?

RISPOSTA 1: Trovo questa una descrizione squisita di ciò che cerco di fare nel mio lavoro poetico, che spesso viene sopraffatto dall’atto del ricordare, dal “remembering” nel senso di ri-membrare: vuoi gli antenati, o la terra, o l’amore… molte cose; e nel corso di questo lavorio, l’attenzione si concentra sulla parte rispetto alla persona intera, come hai detto tu. È così che appaiono “le aree crepuscolari” a cui alludi, ed è lì, secondo me, che entra anche il lettore: insieme perveniamo ad una frammentata ma più ricca visione di quello che vorremmo dire.

DOMANDA 2: Le tue poesie ci lasciano capire che nel corso della tua vita hai viaggiato molto in tutto il Medio Oriente, in Europa, gli USA. Immagino che alcuni di questi viaggi li hai scelti tu, altri ti sono stati imposti dalle circostanze.

RISPOSTA 2: Certo, alcuni di questi viaggi li ho scelti io di mia iniziativa. Quando mi imbatto in una città che sento subito vicina – New Orleans, Jaffa, Siviglia – quel luogo rimane nel mio pensiero, anche se non ci tornerò più. Mi piace vedere il viaggio come l’inizio di un rapporto con lo spazio, una collaborazione: la città forse ricambierà il tuo amore, forse no. La città ti darà un senso di riposo, o non te lo darà. I luoghi che mi ricambiano con un qualche affetto o con un qualche cuore, li sento subito vicinissimi a me.
Alcuni viaggi, come dici, mi sono stati imposti dalle circostanze. Quando avevo quattro anni, Saddam invase il Kuwait, e la mia famiglia fu costretta a fuggire. Prima in Siria per un breve periodo, poi verso il Mid-West degli Stati Uniti. Nel 2006, mi trovavo a Beirut quando scoppiò la guerra fra Hezbollah e Israele, e questo ci costrinse dopo del tempo a salire a bordo di una nave per sfollati diretta a Cipro. In seguito a ciò il mio rapporto con Beirut, la città in cui avevo passato gli anni di liceo, cambiò moltissimo. Mi sono resa conto del mio sentimento di grande amore e profonda diffidenza verso questa città. Sento forte l’appartenenza al Medio Oriente – un luogo che può esserti tolto nello spazio di un battito del cuore. Eppure è lì che esprimo più la mia autenticità.

DOMANDA 3: Le poesie generalmente dicono tutto quello che devono dire, non hanno bisogno di essere spiegate. Nel tuo caso, quello di una poetessa che attraversa le lingue e i continenti, qualche spiegazione in più può aiutare il lettore a capire meglio. Prendo come esempio la mia esperienza personale. Io impiego materiali nella mia scrittura che pur essendo simili e presenti simultaneamente in diverse lingue e culture, acquistano sfumature e suggestioni diverse, inedite, quando vengono rimescolati, costretti ad attraversare le barriere che quelle culture ancora innalzano una contro l’altra. La ricchezza-diversità del nostro mondo globalizzato non è così “seamless”, interconnessa, come si pensa: le cuciture e le interruzioni, la incomunicabilità culturale ci sono, eccome. Questo è soprattutto vero nella poesia, che almeno qui in Europa punta spesso alla conservazione di moduli testati – il cosiddetto bagaglio della tradizione letteraria – e non alla innovazione e alla ricerca di nuove possibilità espressive. Insomma, la poesia bene o male ancora oppone resistenza al mondo contemporaneo, che pure ci è davanti agli occhi, che subiamo e viviamo quotidianamente. Ecco perché aspetti di cultura esistenti in una zona e in una lingua hanno difficoltà ad essere recepite, anche solo tradotte, in un’altra zona o un’altra lingua senza subire una forte distorsione dei contenuti. Questo difficile processo di “comunicare”, “veicolare” i contenuti in modo “puro”, è proprio l’argomento di molte mie poesie. Mi sembra che una dinamica simile possa applicarsi alla tua scrittura.

RISPOSTA 3: E’ una domanda difficile. Comunque sia, sì, sono molto in sintonia con te quando dici che è arduo comunicare la nostra esperienza (che per me in ogni caso è fortemente connessa alla cultura e al luogo) e allo stesso tempo salvare quella esperienza dall’atto della traduzione-comunicazione, diciamo così.
Secondo me, i lettori leggono la poesia e la contestualizzano secondo il loro proprio immaginario. Ad esempio, trovo spesso che lettori occidentali cercano l’elemento arabo nella mia poesia, mentre gli uomini vi cercano tutto quello che è femmina. Sono certa che un background cosiddetto “complicato” tende a sviare il lettore, il quale allora sente di doversi mettere alla ricerca della traccia di briciole di pane dell’esperienza del poeta: dove è vissuto, chi ha amato, e via dicendo. Quando ero più giovane, mi preoccupavo molto di come dovevo “rappresentare” le varie realtà alle quali mi sentivo legata: la Palestina, essere donna, per dirne due. Ultimamente il mio concetto della “privacy” , della sfera intima, è cambiato e così anche il senso di responsabilità nei confronti dei lettori: cerco di spiegare meno nella mia scrittura. Parto con l’assunto che molto probabilmente il lettore non sarà in grado di immedesimarsi nella mia pulsazione emotiva, e quindi scrivo con la consapevolezza (e quindi con maggiore abbandono) che i lettori introdurranno se stessi, le loro vite, i desideri e le paure, in qualsiasi testo. In questa consapevolezza trovo un enorme senso di liberazione.

DOMANDA 4: In alcune tue poesie – ad esempio “Tu, ragazza bonsai” e “Arte di Compleanno” – riusciamo a intravedere la poetessa come donna che necessariamente vive fra realtà “tradizionali” e “moderne”. D’altronde è questo il destino di milioni e milioni di donne in tutto il mondo oggi. C’è qualcosa che vuoi dirci a tal riguardo?

RISPOSTA 4: Lo faccio, io penso, inconsapevolmente: quello di trovare un modo per scorrere attraverso il tradizionale e il moderno. Nella vita quotidiana, sono talvolta vagamente cosciente del fatto che mi trovo a praticare un delicato atto di equilibrismo, particolarmente quando torno in Medio Oriente. Sia some psicologa che come scrittrice, credo fermamente nella potenza della testimonianza, sia del vissuto degli altri, sia del vissuto che è nostro. Questo, in particolare per le donne, può essere galvanizzante al massimo: la scrittura come catarsi, che ci aiuta a capire i sistemi di oppressione e di occupazione che viviamo oggi nel mondo.

COMMENTO DI CHIUSURA di Steven Grieco-Rathgeb

Mentre in tandem traducevamo le poesie di Hala Alyan, poetessa palestinese-americana, ci siamo trovati più volte a dover separare, distinguere fra i molti strati di vissuto che emergono dalla sua poesia come fitto intrico di significati e allusioni. Sorgono subito alle labbra parole come “spodestamento”, “diseredazione”, “esilio”, e questo è evidente dalle domande che le ho posto. Ma in queste cose è necessario andare con i piedi di piombo. Dopo il primo periodo d’infanzia, come apprendiamo, la poetessa è passata da un paese all’altro, e forse non ha mai sentito di appartenere interamente a nessuno di questi, seppur vivendo con virile distacco e lucida intelligenza questo trascorrere, questo scivolare senza peso attraverso i luoghi, le persone e le situazioni.
Vi è un sottile, allucinato vibrare nella sua poesia, come se il suo comune quotidiano vivere fosse insidiato da una mascherata estraneità. Nei soggetti che hanno una esperienza esistenziale di rottura, frammentazione e separazione, la irriducibile alterità delle cose spesso si presenta così, con un volto familiare, conosciuto, perfino sorridente.
Certo è che le sue poesie rivelano una vita onirica ricchissima. Anche questa è forse una difesa dalla consapevolezza che il tessuto del reale è stato più volte lacerato. Ma tale situazione, diciamo pericolosa, che può chiudersi su se stessa e diventare balbettio, si trasforma qui in una capacità di controllo del mezzo espressivo: ed ecco la stratificazione dei contenuti, ecco la volontà complessa di giungere ad un qualche seppur labile equilibrio, una qualche armonia fatta di dissonanze: ecco questa ricca, talvolta inscrutabile densità di scrittura.
In un primo momento ho chiesto a Hala Alyan di darmi qualche informazione biografica in più – cosa che prontamente lei ha fatto: poi invece ho capito che una delle cifre della sua poesia è proprio la reticenza riguardo al dato biografico, facilmente manipolato e frainteso. Il pericolo è che il lettore sminuisca queste poesie accomunandole semplicisticamente al dramma mediorientale che ogni giorno si svolge davanti ai nostri occhi mediatizzati.
Qui invece siamo in presenza di una poetessa che è sì – sicuramente – vittima di forti dislocazioni geografico-umano-temporali dovute almeno in parte alla conflagrazione della sua terra d’origine: ma che usa la propria esperienza per fini poetici che vanno oltre il dato umano, soggettivo. E qui la cosa diventa sottile, complicata. Siamo in presenza di un tentativo di forgiare l’esperienza umana in poesia pura, distaccata dal dato soggettivo. Ciò è soprattutto sorprendente data la sua età. Si dice che il vuoto poetico nel mondo di oggi faccia di poeti sessantenni e settantenni dei “giovani” in pieno sviluppo artistico: in modo simile, vediamo i giovanissimi talvolta maneggiare lo strumento espressivo con consumata maestria, un tempo più tipico del poeta maturo.
Non solo le poesie, ma anche la posizione teorica che emerge dalle ultime battute della Risposta 3, sembrano porre questa poetessa all’avanguardia poetica oggi. Mi riferisco alla sua precisa volontà di praticare una scrittura non-invasiva, una scrittura che abbia come presupposto la “libertà” del lettore. Il che sembrerebbe necessariamente implicare anche il non-controllo da parte dell’autore del suo testo. Siamo di fronte ad una questione delicata. C’è da chiedersi in quale modo l’autore riesca a dare piena libertà al suo testo: e forse la risposta può soltanto stare in questo: nel rigore del linguaggio. In fondo, ogni opera artistica si basa su un linguaggio: di conseguenza, più è coerente il linguaggio, più facilmente recepibile ne sarà la suggestione, o il “messaggio”. Oggi rigore di linguaggio e libertà espressiva sono i due pezzi perfettamente corrispondenti dello stesso symbolon: l’opera artistica.
Nelle sue composizioni musicali, Iannis Xenakis crea dissonanze forti, “creative” proprio all’interno di un linguaggio di assoluta coerenza: fino ad evocare, a suggerire, alquanto stranamente, una remotissima, stupefacente armonia.
Indispensabile requisito: che il fruitore abbia familiarità con il linguaggio usato. Senza questa, tutta l’arte moderna – dagli espressionisti, cubisti e dodecafonisti in poi – è solo rumore.
Queste poesie di Hala Alyan dunque ci chiedono di avvicinarci con passo lieve, senza eccessive contestualizzazioni che depistino invece di illuminare. Piuttosto con quell’approccio che Mani Kaul, regista indiano, usava con i suoi studenti alla Harvard University e alla Scuola d’Arte di Rotterdam: veniva loro mostrato un frammento di una immagine, un pezzo totalmente anonimo, indecifrabile ma non insensato, sul quale si chiedeva loro di concentrare l’attenzione per evincerne un senso, una suggestione: e di esplorarla nella sua nuda semplicità, al fine di usarla eventualmente per un loro proprio percorso creativo.
Forse è così che i poeti agiscono gli uni sugli altri: non per imitazione, ma con una mano che appena ti sfiora la spalla.

Steven Grieco a Paestum

Steven Grieco a Paestum, 2013

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in  Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. 10 sue poesie sono apparse nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo Progetto Cultura, Roma, 2016 pp. 352 € 18, a cura di Giorgio Linguaglossa. È in corso di stampa un libro di poesie presso Mimesis editore. indirizzo email:protokavi@gmail.com

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OTTO POESIE di Marianne Moore (1887-1972) presentazione di Alfonso Berardinelli Traduzione di Lina Angioletti e Gilberto Forti

Marianne Moore Undated photograph of (left to right) unknown man, Monroe Wheeler, Ann Laughlin, Gertrude Vanderbilt Whitney, Marianne Moore, and James Laughlin at Shea

Marianne Moore Undated photograph of (left to right) unknown man, Monroe Wheeler, Ann Laughlin, Gertrude Vanderbilt Whitney, Marianne Moore, and James Laughlin at Shea

(da “Panorama”, 23 giugno 1991)
Marianne Moore
Che cosa sono gli anni

Che cos’è la nostra innocenza,
che cosa la nostra colpa? Tutti
sono nudi, nessuno è salvo. E donde
viene il coraggio: la domanda senza risposta,
l’intrepido dubbio, –
che chiama senza voce, ascolta senza udire –
che nell’avversità, perfino nella morte,
ad altri dà coraggio
e nella sua sconfitta sprona

l’anima a farsi forte? Vede
profondo ed è contento chi
accede alla mortalità
e nella sua prigionia ti leva
sopra se stesso, come
fa il mare dentro una voragine,
che combatte per essere libero
e benché respinto
trova nella sua resa
la sua sopravvivenza.

Così colui che sente fortemente
si comporta. L’uccello stesso,
che è cresciuto cantando, tempra
la sua forma e la innalza. È prigioniero,
ma il suo cantare vigoroso dice:
misera cosa è la soddisfazione,
e come pura e nobile è la gioia.
Questo è mortalità,
questo è eternità.

da Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi, 1991

Perché nelle poesie di Marianne Moore si parla tanto di animali? Perché l’autore si ostina a descrivere il loro corpo, come sono fatti, come si muovono? Perché decifra e trascrive il messaggio muto che viene emesso dal loro modo di essere? Marianne Moore ha una convinzione (o possiamo chiamarla fede?): che nella forma fisica, nel corpo animale, che è «stile di vita» e modo di essere dettato dalla Natura (o da Dio), sia depositata una saggezza, un senso della realtà immediata e cosmica che noi non possediamo o che in noi è labile. Quando Marianne Moore si sprofonda nella contemplazione di un animale, tutte le sue facoltà più forti e più sottili si risvegliano, si animano. Le sue frasi e i suoi versi (versi molto prossimi alla prosa), tutto il suo linguaggio virtuale, assopito nei depositi della memoria, entra con trionfale destrezza nel cerchio di luce dell’esistere. E le sue poesie si allungano e si contraggono come forme viventi.

Anche quando deve dichiarare le proprie idee sulla poesia, ecco che Marianne Moore pensa a un animale. Per esempio a una lumaca lodata in un breve componimento per la sua capacità di contrarsi, di ridurre con sagace modestia le proprie dimensioni: il che è fondamentale per uno scrittore, se è vero che «la concisione è la prima grazia dello stile». Senso della misura e rispetto del limite, perché niente di vivo e di reale può accedere all’esistenza e può essere percepito se non dentro quel preciso limite di spazio che lo accoglie e che è suo: la poesia non è altro che questo. E in questo il suo valore è elementare, sfida ogni dichiarazione di ostilità e disinteresse. In un prezioso epigramma di morale poetica intitolato Poesia, leggiamo: «Neanche a me piace. – A leggerla, però, con totale disprezzo, vi si scopre, – dopo tutto, uno spazio per l’autentico». La poesia nasce piuttosto da un non crederci che da una fede a priori.

Marianne Moore with her mother, Mary Warner Moore, at home

Marianne Moore with her mother, Mary Warner Moore, at home

È alla vita della mente, alla sua cura, che Marianne Moore prima di ogni altra cosa si interessa. Il linguaggio della poesia è vita della mente, è esercizio e igiene della mente che si protende verso il mondo, verso la vita esterna, la sua varietà piena di meraviglia. Per questo il linguaggio della poesia di Marianne Moore è dotato di una forza così sobria, è animato da una così fisica moralità, la moralità delle bestie, che vivono elaborando e perfezionando con eroica perseveranza e intelligenza la forma corporea migliore per essere quello che sono. La forma delle poesie di Marianne Moore è anch’essa colma di arguzia e di vitalità: sovrappone l’attitudine descrittiva e la riflessione, fonde il vedere e il ricordare, la ricerca di una verità enunciabile in stile aforistico e il gusto del puro esercizio dei sensi. Ogni verità, prima di essere pensabile deve essere visibile. È dalla visione attenta, dalla descrizione precisa che si sviluppa un pensiero integro. E questa integrità non è altro che la nuda onestà dei corpi, il loro essere mortali. Accedere all’eternità, come viene detto in questa poesia, è accedere alla mortalità. Innocenza, colpa, coraggio hanno senso solo nella lotta con il limite e nell’accettazione del limite. La sconfitta «sprona l’anima a farsi forte», arrendersi è saper sopravvivere. Questo è l’eroismo della forza che sa levarsi sopra se stessa: come quella dell’uccello, che ha bisogno della più abile e tenace energia per cantare e vedere.

Marianne Moore (Kirkwood, Missouri 1887 – New York 1972) fu molto legata alla madre, abbandonata dal padre malato di nervi. Bibliotecaria, collaborò a riviste. Tradusse le Favole di La Fontaine. Pubblicata in Italia da [Guanda, Rusconi, poi] Adelphi e Rizzoli (Unicorni di mare e di terra). [prima Rizzoli, poi Adelphi]

Marianne Moore 1953

Marianne Moore 1953

I pesci

A guado,
vanno per nera giada.
dei mitili blu-corvo, uno continua
a rasettare i cumuli di cenere;
e si apre e si chiude come fosse
un
ventaglio ferito.
I cirripedi che incrostano il fianco
dell’onda non possono nascondersi
laggiù gli strali sommersi del
sole,
franti come vetro
folato, si muovono con la rapidità di riflettori
giù nei crepacci,
dentro e fuori, illuminando
il
mare turchese
di corpi. L’ACQUA sospinge
un cuneo di ferro entro lo spigolo ferrigno
dello scoglio; sopra il quale le stelle,
rosei
chicchi di riso, meduse
imbrattate d’inchiostro, granchi simili a verdi
gigli,e velenosi funghi
sottomarini scivolano dondolando uno sull’altro.
TUTTI
i segni
esterni dell’oltraggio sono presenti in questo
temerario edificio-
tutti gli aspetti fisici dell’accidente-mancanza
di cornice, solchi di dinamite, bruciature
e colpi d’ascia, queste cose spiccano
sulla sua superficie; la parete del baratro
è morta
RIPETUTE
prove hanno dimostrato che lo scoglio può vivere
di ciò che non potrà resuscitare
la sua giovinezza.
E DENTRO AD ESSO SI FA VECCHIO IL MARE.

Marianne Moore con tigri

Marianne Moore

A una lumaca

“Se la concentrazione è il primo dono dello stile,
tu la possiedi. La contrattilità è una virtù,
così come modestia è una virtù.
Non già l’acquisizione di una cosa qualsiasi
capace di adornare,
o la qualità incidentale che per avventura
si accompagni a qualcosa di ben detto,
non questo apprezziamo nello stile,
ma il principio nascosto:
nell’assenza di piedi, un metodo di conclusioni;
una conoscenza di princìpi,
nel curioso fenomeno della tua antenna occipitale”.
Dopo, ti senti un genio. Ti senti felice.

Marianne Moore by Esther Bubley, 1953

Marianne Moore by Esther Bubley, 1953

Nei giorni del colore prismatico

non nei giorni di Adamo ed Eva, ma quando Adamo
era ancora solo; quando il fumo non c’era, e il colore
era bello, non per l’affinamento
di un’arte primitiva, ma per la sua stessa
originalità; e nulla c’era a modificarlo se non la
nebbia che saliva, e l’obliquo era una variante
del perpendicolare, semplice a vedersi e
a spiegarsi: non è
più così; né la fascia blu-rosso-gialla
di incandescenza che era il colore ha serbato il suo schema: è
anch’essa una
di quelle cose in cui si può immettere e scoprire molto di
peculiare;
la complessità non è un delitto, ma se la portate
fino alla soglia dell’oscurità,
più nulla sarà semplice. La complessità,
poi, che sia stata affidata alle tenebre, invece
di dichiararsi per quella peste che è in realtà, si agita intorno
come per confonderci con la tetra
illusione che l’insistenza
è la misura di ogni risultato e che ogni
verità dev’essere caligine. Gutturale com’è principalmente
la sofisticazione è quel che è sem-
pre stata – agli antipodi delle iniz-
iali grandi verità. “Parte strisciava, parte
si accingeva a strisciare, il resto
stava torpido nella tana”. Nel procedere lento, sussul-
tante, nel gorgogliare e in tutte le minuzie – noi abbiamo la
classica moltitudine di piedi. A quale scopo! La verità non è l’Apollo
del Belvedere, non è cosa formale. L’onda potrà
sommergerla, se vuole.
Sappi però che ci sarà se dice:
“Ci sarò quando l’onda se n’è andata”.

Marianne Moore sorride

In questa età di aspra ambizione giova la noncuranza e

“in verità, non è
affare degli dèi cuocere vasi d’argilla”. Non lo fecero
in questa circostanza. Alcuni
rotarono sull’asse del proprio valore,
come se l’eccessiva popolarità potesse essere un vaso;
non si avventurarono
in una professione di umiltà. Il cuneo levigato
che poteva spaccare il firmamento
era ammutolito. Infine si buttò via da se stesso
e ricadendo conferì ad un povero sciocco un privilegio.
“Superiore in altezza a tutti gli altri
di quanto può esser lunga una conversazione
di cinquecento anni”, ci fu uno che raccontava cose
che non avrebbero potuto mai essere vere –
ed erano migliori le sue storie di tutta l’insocievole, senile
filastrocca che parla di certezza;
il suo recitare in sordina era più tremendo, nella sua
efficacia,
del più feroce assalto a viso aperto.
Il bastone, la sacca, la finta incoerenza
dei modi sono i segni che rivelano quell’arma, la
salvaguardia di se stessi.

All’arte di governo imbalsamata

Non c’è nulla da dire in tuo favore. Difendi
il tuo segreto. Tienilo nascosto sotto la dura
scorza di piume, negromante.
O uccello, le cui tende sono state “grandi teli di canapa
egiziana”, la pallida iscrizione zigzagante della Giustizia –
reclina come una danzatrice – potrà mostrare mai
il polso della sua sovranità, un tempo così vivida?
Tu neghi, e trasmigrando fuori dal sarcofago
intessi un silenzio di neve intorno a noi,
e con il tuo linguaggio moribondo,
zoppo a metà e a metà altero,
incedi qua e là. Ibis, noi non troviamo più
alcuna traccia di virtù in te – vivo ma così muto.
La discrezione ora non è la somma
del buon senso che onora lo statista.
E se fosse l’incarnazione di una grazia morta?
Come se una maschera mortuaria potesse sostituire
l’imperfetta eccellenza della vita!
Lento
a scoprire la dimensione ripida e severa
del tuo trono, tu vedrai la forzata distorsione
dei sogni suicidi
andare
vacillando verso se stessa e con il suo becco
aggredire la sua stessa natura, fino a quando
sembri amico il nemico e l’amico sembri
nemico.

Marianne Moore 1958

Marianne Moore 1958

L’argonauta

Forse per i potenti che affidano
le speranze a mani mercenarie?
O per scrittori presi nella trappola
della gloria mondana e degli agi
del fine-settimana? Non per costoro
l’argonauta femmina
fabbrica il suo sottile guscio vitreo.
Offrendo il suo precario
souvenir di speranza, una superficie
bianco-opaca all’esterno
e di contorni morbidi all’interno,
lucente come il mare, la prudente
artefice lo veglia
giorno e notte; e mangia appena
finché le uova non siano schiuse.
Otto volte sepolta nelle sue
otto braccia, poiché in un certo senso
è anche lei una piovra,
la teca vitrea e cornea della culla
è ben nascosta, ma non stritolata;
se Ercole, addentato
da un granchio fedele all’Idra,
si vide impedito nell’impresa,
le uova vigilate
intensamente, nell’uscire dal guscio,
lo liberano quando sono esse stesse liberate –
nel lasciare le rughe di quel favo,
bianco su bianco, e le fitte pieghe –
simili a quelle di un chitone ionico,
o alle righe nella criniera
di un cavallo del Partenone –
intorno cui le braccia
si erano avvolte come se sapessero
che l’amore è l’unica fortezza
tanto salda da offrire affidamento.

Luce è linguaggio

Della luce del sole si può dire
più di quanto si dica del linguaggio: ma linguaggio
e luce, a vicenda
aiutandosi – francese l’uno e l’altra –
non han disonorato un aggettivo
che rimane ancora radicato.
Sì, luce è linguaggio. Libera franca
imparziale luce di sole, luce di luna,
luce di stelle, luce di faro,
sono linguaggio. E il faro
di Creach’h d’Ouessant,
sulla sua indifesa
scaglia di roccia, è il discendente di Voltaire,
la cui giustizia fiammeggiante andò
a raggiungere un uomo già colpito:
dall’inerme
Montaigne, il cui equilibrio,
conservato malgrado la durezza
del bandito, accese la scintilla
salvatrice del rimorso; di Émile Littré,
mosso dalla passione filologica,
ammaliato dagli otto volumi
d’Ippocrate, il suo
autore. Era
un uomo di fuoco, uno scienziato
della libertà, questo tenace Maximilien
Paul Émile Littré. Se l’Inghilterra
è difesa dal mare,
noi, con la consolidata Libertà
di Bartholdi, che regge alta
la torcia accanto al porto, udiamo
l’ingiunzione della Francia: “Ditemi
la verità, e specialmente quando
sia spiacevole”. E noi,
noi possiamo rispondere soltanto:
“Questa parola Francia vuole dire
affrancamento: vuole dire una
che “rianima chiunque pensi a lei”.

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POESIE SCELTE di Jorge Debravo (1938-1967) a cura di Tomaso Pieragnolo

 

costa rica ponte nella foresta

costa rica ponte nella foresta

 Jorge Debravo nacque a Guayabo de Turrialba, in Costa Rica, il 31 gennaio 1938 e morì a San José, la capitale, nel 1967, a soli 29 anni, a causa di un incidente stradale; un autista ubriaco a bordo di una jeep lo investì mentre viaggiava sulla sua moto. La morte fu istantanea. Debravo nacque in una famiglia molto povera: il padre e la madre erano campesinos e lui il maggiore e unico maschio di cinque figli. Fin da piccolo aiutò i genitori nel lavoro dei campi, alzandosi alle tre del mattino e lavorando spesso fino alle due del pomeriggio. Non essendoci scuola nel suo villaggio, Jorge frequentò saltuariamente quella più vicina nel paese di Santa Cruz, a quattro ore di cammino da casa, fino a che la maestra non conseguì per lui una borsa di studio che gli permise di terminare le primarie a Turrialba e di iscriversi al liceo. A Turrialba, ospite della nonna paterna, pubblicò i suoi primi versi nel giornale locale; a causa delle forti ristrettezze economiche, decise però di abbandonare gli studi al terzo anno di liceo per impiegarsi presso il Seguro Social. A ventuno anni, nel 1959, conobbe Margarita, la donna che fu compagna della sua vita e che sposò dopo poche settimane. Dello stesso anno la pubblicazione del primo libro di versi Milagro abierto attraverso il “Circulo de poetas Turrialbeño”, di cui facevano parte altri poeti di spicco come Laureano Albán e Marcos Aguilar. Attraverso il “Circulo de poetas” approfondì la conoscenza dei suoi autori preferiti, Vallejo, Neruda, Becker, Withman, Dario, Hernández e la Bibbia, leggendo con insaziabile sete moltissimi testi letterari, quasi a colmare il ritardo culturale in cui si era trovato a vivere e la sua crescente inquietudine. Uomo dolce con tormenti improvvisi e profondi, trovò una delle sue maggiori fonti di ispirazione nel rapporto con la moglie Margarita, di cui fu molto innamorato e alla quale dedicò i versi migliori della sua produzione.

jorge debravo

jorge debravo

L’esperienza lavorativa gli permise inoltre di conoscere da vicino le miserie e le contraddizioni del suo paese, che spesso divennero l’assillo e il movente di un filone molto prolifico della sua poesia. Pur nelle grandi difficoltà quotidiane, Debravo ripose un costante impegno nella produzione e nell’apprendimento, sacrificando spesso il riposo notturno, stimolato da uno smisurato desiderio di conoscenza e dalla speranza di superare in qualche modo la limitazione culturale dell’epoca e della propria condizione in particolare, che gli facevano percepire la vita come deriva, senza risorse, né aiuto. Riuscì a terminare il liceo frequentando corsi serali; l’anno della morte, il 1967, fu l’anno in cui avrebbe dovuto iniziare l’università. Una morte precoce e tragica, di cui appaiono numerose premonizioni nella sua poesia. Nell’opera di Debravo si percepiscono il timore e il rispetto di fronte al mistero poetico che egli sente come motivo esistenziale e vive in modo intuitivo, cercando il massimo contatto con il mondo reale e quotidiano. I suoi versi sono privi di istanze ermetiche e surreali, anche quando l’influenza della natura poderosa del suo paese evoca in lui immagini di grande forza emotiva e quasi oniriche nel loro realismo; predilige così quel cammino artistico sentito come mezzo di conoscenza che cerca di fondere l’obbiettività e la soggettività, il realismo e il romanticismo, il limite umano e il suo superamento.

costa rica

costa rica

 Uno sforzo che Jorge intraprende e sviluppa nell’arco di tutta la sua esistenza, nella cui vasta materia sente la necessità di immergersi per onorare un dovere imprescindibile; e questo stimolo interiore, incessante e modellante, è strumento insostituibile per il poeta. La poesia di Debravo è sempre legata alla sua vita, perché cerca i temi d’ispirazione nella realtà che lo circonda; la famiglia, la natura, lo spettro vicino o lontano di qualunque ingiustizia, in una dialettica sempre antropocentrica. Il popolo, che conduce le sue battaglie più dure contro le difficoltà del vivere, l’abbandono e l’isolamento, è l’espressione in carne ed ossa della concretezza terrena. Nelle opere più mature, Jorge approda a una poetica che vuole essere espressione dell’animo umano, intima e viscerale, capace al tempo stesso di afferrare gli oggetti e i simboli del quotidiano con totale devozione; poetica in cui la vita e la morte, la solitudine e l’assenza (o un’immanente presenza) abitano un mondo doloroso e duro, ma mai vinto; in questo spazio tumultuoso, per mezzo della poesia, la fratellanza tra gli esseri, l’amore e il senso di una giustizia da ricreare che tutto trascenda, pur non riscattandola nell’immediato, rende comunque un’ampia materia erede del disincanto biblico e dell’amara ma lirica sapienza india, che tenta di recuperare il senso dell’esistenza e del ruolo del popolo latinoamericano nel mondo. Il valore intrinseco e prezioso della sua poesia, a distanza di molti anni dalla morte, si riscontra ancor oggi nel successo che i suoi libri continuano ad avere soprattutto tra i giovani, facendo di Debravo uno dei pochi poeti costaricani che si vendono e si leggono, figlio continuo della sua terra e della discendenza meticcia, portatore nella sua opera di tutto il peso delle aspettative, delle disillusioni, degli incanti ancestrali e dei timori storico-religiosi del continente latinoamericano.

(Tomaso Pieragnolo)

costa rica  autobus

costa rica autobus

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Amanti

Sono grandi, avventurosi, come fatti di luna nel
mezzo della notte.
Ardono come legno. Distillano un’acqua fresca e
deliziosa, come la linfa dei grandi alberi.
Non sembrano venire dalle rocce terrestri: li
immaginiamo germogliati dalle caverne più selvagge e
profonde. O saliti forse da un fosso oceanico
dove hanno appreso dalle sirene l’arte dell’abbraccio
fino ad avere braccia trasformate in serpenti.
Se non avessero nomi come i nostri, non li
crederemmo umani. Li penseremmo abitanti di
stelle sconosciute, di pianeti di frumento.
Nell’ombra si confondono, a volte, con gli
dèi. Scivolano e si spaventano come animali,
assomigliando oltremodo agli dèi.
Non osano la parola: usano il gemito e il sussurro. Le
parole più corte della terra e più parole, ciò
nonostante.
Quando torno a casa chiederò alla Morte che non
venga per loro. Sarebbe bello che li lasciasse liberi per
sempre e che uscissero per strada abbracciati, come
profeti di un rito vegetale e poderoso.
Noi gli canteremmo canzoni di allegria e gli
metteremmo collari di foglie fresche. Grandi collari
utili come guanciali quando si trovassero
senza cuscini in qualche luogo amaro della
terra.

Los amantes

Son grandes, venturosos, como hechos de luna en
medio de la noche.
Arden como maderas. Destilan un agua fresca y
deliciosa, como la savia de los grandes árboles.
No parecen llegar de la rochas terrestres: los
imaginamos brotados de la cuevas más salvajes y
profundas. O salidos tal vez de un foso oceánico
donde han aprendido da las sirenas el arte del abrazo
hasta lograr que los brazos se transformen en culebras.
Si no tuvieran nombres como nosotros, no los
creeríamos humanos. Los pensaríamos habitantes de
estrellas desconocidas, de planetas de trigo.
Entre la sombra se confunden, a veces, con los
dioses. Resbalan y se asustan como animales, que es
otra manera de parecerse a los dioses.
No osan la palabra: usan el gemito y el arrullo. Las
palabras más cortas de la tierra y más palabras, sin
embargo.
Cuando regrese a casa le pediré a la Muerte que no
venga por ellos. Bello sería que los dejara libres para
siempre y que salieran a la calle enlazados, como
profetas de un rito vegetal y poderoso.
Nosotros les cantaríamos canciones de alegría y les
pondríamos collares de hojas frescas. Grandes collares
que les sirvieran como almohadas cuando se hallaren
sin almohadas en algún sitio amargo de la
tierra.

Costa Rica 8Poesia d’amore inevitabile

Tu arrivasti alla mia anima quando era scordata:
le porte divelte, le sedie nel canale,
le tende cadute, il letto sradicato,
la tristezza curata come un vaso di fiori.
Con le tue piccole mani di donna laboriosa
ponesti tutte le cose in fila:
lo sguardo al suo posto, al suo posto la rosa,
al suo posto la vita, al suo posto la stuoia.
Lavasti le pareti con uno straccio bagnato
nella tua chiara allegria, nella tua fresca dolcezza,
collocasti la radio nel luogo appropriato
e pulisti la stanza di sangue e spazzatura.
Ordinasti tutti i libri dispersi
e stendesti il letto nel tuo enorme sguardo,
accendesti le povere lampade spente
e lucidasti i pavimenti di legno consumato.
Fosti d’un tratto enorme, ampia, potente, forte:
sudasti grandi fatiche lavando arnesi vecchi.
Apprendesti che nella mia anima d’avanzo era la morte
e la tirasti all’orto con pezzi di specchio.

Poema de amor inevitable

Tú llegaste a mi alma cuando estaba olvidada:
las puertas desprendidas, las sillas en reguero,
las cortinas caídas, la cama descuajada,
la tristeza cuidada lo mismo que un florero.
Con tus manos pequeñas de mujer trabajosa
fuiste ponendo todas las cosas en hilera:
la mirada en su sitio, en su sitio la rosa
en su sitio la vida, en su sitio la estera.
Lavaste las paredes con un trapo mojado
en tu clara alegría, en tu fresca ternura,
colocaste la radio en el sitio apropriado
y limpiaste la alcoba de sangre y basura.
Acomodaste todos los libros dispersados
y tendiste la cama en tu enorme mirada
encendiste los pobres bombillos apagados
y enceraste sus pisos de madera gastadas.
Fuiste de pronto enorme, ancha, potente, fuerte:
sudaste altas fatigas lavando trastos viejos.
Supiste que en mi alma de sobra era la muerte
y la tiraste al huerto con pedazos de espejos.

Costa Rica 7Resurrezione

In questa notte assetata mi sono chiesto
chi sei e chi sei.
Perché è triste la tua carne come un legno esaurito
e perché hai colma la bocca di spilli.
E lentamente, questa notte ti ho separata
come un albero d’amore dal resto delle donne
e facendo del mio sangue un’acqua ho battezzato
con essa le tue angustie e i tuoi piaceri.
E ho detto alla morte che non può uccidermi!
E ho detto alla vita che non può vincermi!
E ho detto alla terra che se riesce a seppellirmi
dovunque sia tu andrai a raccogliermi!
E ho detto al nulla che se riesce a spegnermi,
tu, con i tuoi grandi baci, tornerai a incendiarmi!

Resurrección

Esta noche sedienta yo me he preguntado
quién eres y quién eres.
Porque es triste tu carne como un leño apagado
y porque tienes llena la boca de alfileres.
Y despacio, esta noche yo te he separado
como un árbol de amor de las demás mujeres
y haciendo de mi sangre un agua he bautizado
con ella tus angustias y placeres.
Y le he dicho a la muerte que no puede matarme!
Y le he dicho a la vida que no puede vencerme!
Y le he dicho a la tierra que si logra enterrarme
a donde ella me entierre tú irás a recogerme!
Y le he dicho a la nada que si logra apagarme,
tú, con tus grandes besos, volverás a encenderme!

costa rica 5Gli annodati

Attraverso guanciali, lenzuola, vesti attorcigliate,
navigano; nuotano sudati, a bracciate enormi, come
naufraghi pazzi.
Non sanno dove vanno, però navigano; ruotano verso
qualunque isola nel mezzo della notte.
Un falò azzurrato li chiama come un faro: verso
di esso si lanciano bevendo a grandi sorsi il succo della
vita a cui vanno incontro come se rimanesse loro
un’ora sola e non oltre sulla terra.
E a volte non navigano: d’improvviso sognano, credono
d’essere terra matura e si arano. Uno all’altro si arano
come sinceri aratri lussuriosi. Si irrigano con
sudore come se fossero acqua fertilizzante e buona.
Fanno girare le mani come turbine; tremano,
diventano quasi liquidi e si seminano tormentate
sementi di speranza.
E si addormentano sfiniti, sognando d’essere alberi
tutti rappresi di mele mature e che il vento
li culla e si porta il loro grande odore, carnale. Il loro grande
odore di frutta e raccolto.

Los anudados

Por entre almohadas, sábanas, ropas torcidas,
navegan; bracean sudorosos, a brazadas enormes, como
náufragos locos.
No saben adónde van, pero navegan; ruedan hacia
cualquier isleta en medio de la noche.
Una hoguera azulada los llama como un faro: hacia
ella se lanzan bebiendo a grandes tragos el jugo de la
vida que se encuentra al paso como si les quedara
una hora de vida nada más en la tierra.
Y a veces no navegan: de pronto sueñan, creen que
son tierra madura y se aran. Uno al otro se aran
como verdaderos arados lujuriosos. Se riegan con
sudor como si fueran agua fertilizante y buena.
Hacen girar las manos como turbinas; tiemblan, se
vuelven casi líquidos y se siembran atormentadas
semillas de esperanza.
Y se duermen vencidos, soñando que son árboles
todos cuajados de manzanas maduras y que el viento
los mece y se lleva su olor grande, carnal. Su gran
olor a fruto y a cosecha.

costa rica 4

 

 

 

 

 

 

Appunto interiore

Oggi la mia vita non ha peso alcuno:
è una brezza, meno di un vento, meno
di un raggio di luce.
Ora nessuno
può essermi oneroso.
Non ci sono tormenti terreni sotto la mia anima.
Il mio sangue è una rossa armonia viva.
Sono in armonia con la brace e la calma,
con la voce amorosa e la voce vendicativa.
Pare che le mie mani non esistano, pare
che il mio corpo nuoti in un’acqua innocente.
Come un vento nudo il mio cuore si versa
e fa suonare le campane dolcemente.

Apunte interior

Hoy mi vida no tiene peso alguno:
es un viento, menos que un viento, menos
que una raya de luz.
Ahora ninguno
puede serme oneroso.
No hay terrenos resquemores debajo de mi alma.
Mi sangre es una roja armonía viva.
Estoy en armonía con la brasa y la calma,
con la voz amorosa y la voz vengativa.
Parece que mis manos no existieran, parece
que mi cuerpo nadara en un agua inocente.
Como un viento desnudo mi corazón se mece
y hace sonar campanadas dulcemente.

costa rica 2

 

 

 

 

 

Noi uomini

Vengo a cercarti, fratello, perché porto la poesia,
che è come portare il mondo sulle spalle.
Sono come un cane che ruggisce solo, latra
alle belve dell’odio e dell’angustia,
manda all’aria la vita nella metà della notte.
Porto sogni, tristezza, allegria, mansuetudini,
democrazie rotte come anfore,
religioni ammuffite fino all’anima,
ribellioni in germe che gettano lingue di fumo,
alberi che non hanno
sufficienti resine amorose.
Siamo senza amore, fratello mio,
ed è come essere ciechi in metà della terra.
Porto morti per impaurire tutti
coloro che giocano con le morti.
Vite per rallegrare i mansueti e i teneri,
speranze e uve per i dolenti.
Ma prima di tutto porto
un violento desiderio di abbracciare,
assordante e infinito
come una tormenta oceanica.
Voglio fare con le braccia
un solo lungo braccio
che circondi la terra.
E desidero che tutto, che la vita sia nostra
come l’acqua e il vento.
Che nessuno abbia altra patria che il vicino.
Che nessuno dica più la terra mia, la barca mia,
bensì la terra nostra, di Noi Uomini.

Nosotros los hombres

Vengo a buscarte hermano, porque traigo el poema,
que es traer el mundo a las espaldas.
Soy como un perro que ruge a solas, ladra
a las fieras del odio y de la angustia,
echa a rodar la vida en mitad de la noche.
Traigo sueños, tristezas, alegrías, mansedumbres,
democracias quebradas como cántaros,
religiones mohosas hasta el alma,
rebeliones en germen echando lengua de humo,
árboles que no tienen
suficientes resinas amorosas.
Estamos sin amor, hermano mío,
y esto es como estar ciegos en mitad de la tierra.
Traigo muertes para asustar a todos
los que juegan con muertes.
Vidas para alegrar a los mansos y tiernos,
esperanzas y uvas para los dolorosos.
Pero traigo ante todo
un deseo violento de abrazar,
atronador y grande
como tormenta oceánica.
Quiero hacer con los brazos
un solo brazo dulce
que rodee la tierra.
Y deseo que todo, que la vida sea nuestra
como el agua y el viento.
Que nadie tenga nunca más patria que el vecino.
Que nadie diga más la finca mía, el barco mío,
sino la finca nuestra, de Nosotros los Hombres.

Tomaso Pieragnolo

Tomaso Pieragnolo

Tomaso Pieragnolo è nato a Padova nel 1965 e da vent’anni vive tra Italia e Costa Rica. La casa editrice Passigli di Firenze ha pubblicato il suo ultimo libro, il poema “nuovomondo”, finalista al Premio Palmi, Metauro, Minturnae, rosa finale del Premio Marazza e vincitore del Saturo d’Argento – Città di Leporano. Fra le sue più recenti pubblicazioni: “Lettere lungo la strada” (2002, premiato al Città di Marineo e finalista al Guido Gozzano di Belgirate), “L’oceano e altri giorni” (2005, già finalista ai Premi Libero de Libero inedito 2003, edito Guido Gozzano di Belgirate e Ultima Frontiera di Volterra e vincitore del Premio Minturnae Giovani). Una selezione di poesie scelte è stata pubblicata in spagnolo dalla Editorial de la Universidad de Costa Rica e dalla Fundación Casa de Poesía (“Poesía escogida”, 2009). La sua attività di traduttore di poesia latinoamericana si è svolta dal 2007 al 2013 in collaborazione con la rivista Sagarana, nella quale ha proposto principalmente autori del Costa Rica e del Centro America, mai tradotti in Italia, e con alcune case editrici, che hanno pubblicato la prima traduzione italiana di Eunice Odio (“Questo è il bosco e altre poesie”, Via del Vento 2009, Menzione Speciale Camaiore per la traduzione) e la prima traduzione italiana di Laureano Albán, (“Gli infimi crepuscoli”, Via del Vento 2010 e “Poesie imperdonabili”, Passigli 2011, finalista Premio Internazionale Camaiore, rosa finale Premio Marazza per la traduzione). Ha pubblicato per La Recherche due ebook di traduzioni liberamente scaricabili: “Nell’imminenza del giorno” (2013) e “Ad ora incerta” (2014).

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POESIE SCELTE di Gary Geddes a cura di Angela D’Ambra – Prima pubblicazione in italiano

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

 Gary Geddes è nato a Vancouver, Columbia Britannica. Ha vissuto sulla costa ovest fino al 1963. Si è laureato in Inglese e Filosofia – U.B.C. Ha conseguito il diploma post laurea – Reading University, UK. Poi M.A. e Ph.D. in Inglese – Università di Toronto. Dal 1972 -1974 ha insegnato alla Victoria University. Ha insegnato scrittura creativa in varie università canadesi. In particolare, alla Concordia University, Montreal (1978-1998). In seguito, ha ottenuto l’incarico onorario per tre anni d’insegnamento come Professore Ospite col titolo di Professore Emerito di Cultura Canadese presso il Centro di Studi Canadesi-Americani della Western Washington University, a Bellingham. Le sue opere di poesia sono: Poems (1971), Rivers Inlet (1972), Snakeroot (1973), Letter of the Master of Horse (1973), War & other measures (1976), The Acid Test (1980),The Terracotta Army (1984; 2007); edizione francese, 2009, Changes of State (1986), Hong Kong (1987), No Easy Exit (1989), Light of Burning Towers (1990), Girl by the Water (1994), The Perfect Cold Warrior (1995), Active Trading: Selected Poems 1970-1995 (1996), Flying Blind (1998), Skaldance (2004), Falsework (2007); Swimming Ginger (2010), Poems New & Selected, di prossima pubblicazione, Red Hen Press, 2013. Fiction: The Unsettling of the West (1986). Non-Fiction: Letters from Managua: Meditations on Politics & Art (1990),,Sailing Home: A Journey through Time, Place & Memory (2001), Kingdom of Ten Thousand Things: An Impossible Journey from Kabul to Chiapas (2005; US edition, 2007), Drink the Bitter Root: A Writer’s Search for Justice and Redemption in Africa (2011; US edition, 2012). Teatro: Les Maudits Anglais (1984). Traduzione: I Didn’t Notice the Mountain Growing Dark (1986), poesie di Li Bai e Du Fu, tradotte con l’assistenza di George Liang. Opere di critica: Conrad’s Later Novels (1980), Out of the Ordinary: Politics, Poetry & Narrative (2009).

Gary Geddes (G) by Danielle Schaub

Gary Geddes (G) by Danielle Schaub

Antologie: 20th-Century Poetry & Poetics (1969, 1973, 1985, 1996, 2006), 15 Canadian Poets Times 3 (1971, 1977, 1988, 2001), Skookum Wawa: Writings of the Canadian Northwest (1975), Divided We Stand (1977), The Inner Ear (1983), Chinada: Memoirs of the Gang of Seven (1983), Vancouver: Soul of A City (1986), Compañeros: Writings about Latin America (1990), The Art of Short Fiction: An International Anthology (1993; edizione ridotta, 2000). Oltre alla stesura e all’editing di più di 35 libri di poesia, fiction, teatro, non-fiction, critica letteraria, traduzioni e antologie, Gary Geddes è stato attivo nel promuovere altri scrittori canadesi. È ideatore e direttore della collana di monografie critiche Studi di Letteratura Canadese (Copp Clark/ McGill-Queens). Ha recensito regolarmente poesia per il Globe&Mail, e ha dato avvio a diverse case editrici, fra cui Quadrant Editions e Cormorant Books, famosa per le sue pubblicazioni etniche e letterarie, inclusi Lives of the Saints di Nino Ricci, Lost Causes di José Leandro Urbina e When the World Burns: Modern Arabic Poetry in Translation di John Asfour. Le sue antologie più famose, 20th Century Poetry & Poetics e 15 Canadian Poets, entrambe per la Oxford, hanno avuto varie ristampe e un enorme impatto sull’insegnamento e la scrittura poetica in Canada. Geddes ha tenuto conferenze e presentato le sue opere in Cina, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Cile, Costa Rica, Nicaragua, Stati Uniti, Inghilterra, Irlanda, Scozia, Olanda, Belgio, Germania, Israele, e Palestina. Le sue opere sono state tradotte in Olandese, Cinese, Spagnolo, Portoghese, Italiano e Francese, trasmesse varie volte dalla CBN e da radio BBC, e rappresentate in teatro. I suoi premi nazionali e internazionali includono la E.J. Pratt Medal, il National Poetry Prize, l’Americas Best Book Award nel 1985, il Commonwealth Poetry Competition, il Writers’ Choice Award, National Magazine Gold Award, Poetry Book Society Recommendation, UK, l’Archibald Lampman Prize (twice), il Gabriela Mistral Prize in 1996. I suoi archivi sono stati acquistati e collocati alla National Library, Ottawa. Gary Geddes vive a French Beach, Vancouver Island. Il suo “ritorno” in British Columbia nel 1998 è stato celebrato nel suo floating memoir , libro non-fiction dal titolo Sailing Home: A Journey Through Time, Place and Memory (Harper Collins, 2001), bestseller in tutto il Canada. Altri libri sulla Columbia Britannica sono: Rivers Inlet (1972), Skookum Wawa: Writings of the Canadian Northwest (1975) e Vancouver: Soul of A City (1986).

 

jeff koons Balloons dog rosso

jeff koons Balloons dog rosso – Forgive me, I did not /
mean this to be my final / offering.

Letter of the Master of Horse

I was signed
on the King’s authority
as master of horse.
Three days
(I remember
quite clearly)
three days after we parted.
I did not really believe it,
it seemed so much the unrolling
of an incredible dream.

*

Bright plumes, scarlet tunics,
glint of sunlight on armour.
Fifty of the King’s best horses,
strong, high-spirited, rearing
to the blast of trumpets,
galloping
down the long avenida
to the waiting ships.
And me, your gangling brother,
permitted to ride with cavalry.

*

Laughter,
children singing
in the market, women
dancing, throwing flowers,
the whole street covered
with flowers.
In the plaza del sol
a blind beggar kissed my eyes.
I hadn’t expected the softness
of his fingers
moving upon my face.

*

A bad beginning.
The animals knew, hesitated
at the ramps, backed off,
finally had to be blindfolded
and beaten aboard.

Sailors grumbled for days
as if we had brought on board
a cargo of women.

*

But the sea smiled.
Smiled as we passed
through the world’s gate,
smiled as we lost our escort
of gulls. I have seen
such smiles on faces of whores
in Barcelona.

*

For months now
an unwelcome guest
in my own body.
I squat by the fire
in a silence broken only
by the tireless grinding
of insects.
I have taken
to drawing your face
in the brown earth
at my feet
(The ears are
never quite right).

*

You are waving,
waving. Your
tears are a river
that swells, rushes beside me.

I lie for days
in a sea drier than the desert
of the Moors
but your tears are lost,
sucked
into the parched throat of the sky.

*

I am watched daily.
The ship’s carpenter is at work
nearby, within the stockade,
fashioning a harness for me
a wooden collar. He is a fool
who takes no pride in his work,
yet the chips lie about his feet
beautiful as yellow petals.

*

Days melt
in the hot sun, flow
together. An order is given
to jettison the horses,
it sweeps like a breeze
over parched black faces.

*

I am not consulted, though
Ortega comes to me later
when it is over and says:
God knows, there are men
I’d have worried less to lose. Continua a leggere

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UNA POESIA di Adriano Corrales “Lettera al figlio” a cura di Tomaso Pieragnolo 

Giorgio De Chirico la metafisica

Giorgio De Chirico la metafisica

 Adriano Corrales è nato a San Carlos in Costa Rica nel 1958. Poeta, saggista e narratore, ha pubblicato Tranvía Negro (poesia, Editores Alambique, 1995, Ediciones Perro Azul 2001), La suerte del Andariego (poesia, Ediciones Perro Azul, 1999), Los ojos del antifaz (novella, Ediciones Perro Azul 1999,  Ediciones Piel de Leopardo, Buenos Aires, Argentina, 2002), Poesía de fin de siglo Nicaragua-Costa Rica (Antologia, Ediciones Perro Azul, 2001), Hacha encendida (poesia, Revista Fronteras, 2000, Ediciones El pez soluble, Caracas, Venezuela, 2002), Profesión u Oficio (Poesia, Ediciones Andrómeda 2002), Caza del poeta (Poesia, Ediciones Andrómeda, 2004), Balalaika en clave de son (novella, Editorial Costa Rica, 2005). Professore e ricercatore dell’ Instituto Tecnológico de Costa Rica, dirige riviste culturali e collabora con quotidiani  e case editrici. I suoi testi poetici sono generalmente pervasi da una attenta ricerca di linguaggio, con lunghi paragrafi discorsivi colmi di immagini, suoni immediati, metafore colorite in cui sembra che il poeta cerchi di canalizzare una energia difficile da contenere. Molte poesie oscillano tra il racconto, la relazione, il ritratto e l’aneddoto, ma non per questo la spinta poetica dell’autore perde il suo slancio, spesso conferendo al testo la necessaria intensità per rifondare la propria parola.

 

Adriano Corrales

Adriano Corrales

 

 

 

 

 

 

 

 

Carta al hijo

Sería difícil escribir esta carta sin evitar las justificaciones
digresiones de caída y vela hinchada hacia el poniente
en el fósforo del Báltico un amanecer de lluvia y lágrimas
con el rostro frente a las paredes blancas de un hospital invernadero

¿Será difícil inventariar las lunas los cruces de esquina
los caballos estivales galopando a ambos lados del transiberiano
las noches de vodka alrededor de la ausencia sin tus pasos?

Será duro el batallar de los acontecimientos
las visas los pasaportes los aeropuertos los desencuentros
las callosidades del alma la inutilidad de los abrazos

Será difícil anotar que he desvivido bebido huido
hacia los agujeros del tiempo en la marcha de las palabras

Más difícil aún revisar imágenes de un país imaginario
las bombas que caen en chorrillo sobre San Miguelito la luna
el desfile de gorilas amarillos desatando el istmo con su fuego homicida
sus fauces hediondas alimañas de carnicería
y vos bajo la telaraña de la cama en la habitación del miedo
asustado y sorprendido sin comprender porqué el imperialismo
los capitales la banda neoliberal los lamepies tropicales
la horda de paisanos como perfectos chacales
el paréntesis de este centro planetario atiborrado de compañías
comerciantes del reino usureros serruchadores de tus sueños
mis sueños de una sola patria matria nuestros sueños
los de tu madre con los muñecones del teatrillo callejero
por las selvas del Darién o en el Archipiélago donde las embarcaciones
llevan traen los cuentos de los fundadores elementales
los soles de la palma el brillo soberbio de las pieles
trasiegan el pasado contra el futuro en un eterno presente

Es difícil ocultarse hijo muy difícil
escribir todo esto sin que me tiemblen las manos
y un rumor de cadenas crepitaciones inexpresables
naveguen por dentro como una estampida de bisontes guerrilleros
y la mirada se nos pueble de nubes en el olvido de nuestros nombres

Harto difícil esta tarea de acercarte a mi otro yo
el de los ojos del antifaz con la suerte del andariego
en un tranvía negro que siempre retorna y retorna
con las hilachas nocturnas de los murciélagos
siemprevivo siempreamargo cautiverio de las páginas que se humedecen
como las lapidas con el rocío de los cementerios
o las bestias que huyen perseguidas por el amazónico incendio

Me es muy difícil decirte hijo decírtelo sin faltarle al recuerdo
que yo también me caigo me lluevo me abro me cierro
me ablo me tiemblo me tenso con los látigos los templos
del primer indicio la mediada caricia el último vuelo
para decirte así sencillamente hijo sin literatura
así al puro aire que todos somos viajantes y que por eso
y a pesar de todo lo que transcurre bajo el poema
a pesar de todo lo que muero te escribo y te quiero

.
Lettera al figlio

Sarebbe difficile scrivere questa lettera senza evitare le giustificazioni
digressioni di caduta e vela soffiata verso il ponente
nel fosforo del Baltico un’alba di pioggia e lacrime
con il volto davanti alle pareti bianche di un ospedale-serra

Sarà difficile inventariare le lune gli incroci all’angolo
i cavalli estivi che galoppano su entrambi i lati della transiberiana
le notti di vodka intorno all’assenza priva dei tuoi passi?

Sarà duro il lottare degli eventi
i visti i passaporti gli aeroporti i non incontri
le callosità dell’anima l’inutilità degli abbracci

Sarà difficile annotare che ho patito bevuto sono fuggito
verso gli aghi del tempo nel cammino delle parole

Più difficile ancora ripassare immagini di un paese immaginario
le bombe che cadono a fiotti sopra San Miguelito la luna
la sfilata di gorilla gialli che sciolgono l’istmo con il loro fuoco omicida
le loro fauci fetide animali da macelleria
e tu sotto la ragnatela del letto nell’abitazione della paura
spaventato e sorpreso senza comprendere perché l’imperialismo
i capitali la banda neoliberale i leccapiedi tropicali
l’orda di paesani come perfetti sciacalli
la parentesi di questo centro planetario inzuppato di compagnie
commercianti del regno usurai segatori dei tuoi sogni
dei miei sogni di una sola patria matria dei nostri sogni
quelli di tua madre con le marionette del teatrino di strada
attraverso le selve del Darién o sull’Arcipelago dove le imbarcazioni
sopportano portano i racconti dei fondatori elementari
i soli della palma il brillio superbo delle pelli
agitano il passato contro il futuro in un eterno presente

È difficile occultarsi figlio molto difficile
scrivere tutto questo senza che mi tremino le mani
e un rumore di catene crepitazioni inesprimibili
navighino dentro come uno scoppio di bisonti guerriglieri
e lo sguardo si popoli di nubi nell’oblio dei nostri nomi

Fin troppo difficile questo compito di avvicinarti al mio altro io
quello degli occhi della maschera con la sorte del fuggiasco
in un tram oscuro che sempre ritorna e ritorna
con le filacce notturne dei pipistrelli
semprevivo sempreamaro prigionia delle pagine che si inumidiscono
come lapidi con la rugiada dei cimiteri
o delle bestie che fuggono perseguite dall’amazzonico incendio

Mi è molto difficile dirti figlio dirtelo senza venir meno al ricordo
perché anch’io cado piovo mi apro mi chiudo
mi parlo mi tremo mi tendo con le sferzate dei templi

del primo indizio la mezza carezza l’ultimo volo
per dirti così semplicemente figlio senza letteratura
così nella pura aria che tutti siamo viaggiatori e che per questo
malgrado tutto ciò che trascorre sotto la poesia
malgrado tutto ciò che muoio ti scrivo e ti amo

(dall’antologia ebook a cura e traduzione di Tomaso Pieragnolo “Ad ora incerta” – La Recherche, 2014)

 

tomaso pieragnolo

tomaso pieragnolo

Tomaso Pieragnolo è nato a Padova nel 1965 e da vent’anni vive tra Italia e Costa Rica. La casa editrice Passigli di Firenze ha pubblicato il suo ultimo libro, il poema nuovomondo, finalista al Premio Palmi, Metauro, Minturnae, rosa finale del Premio Marazza e vincitore del Saturo d’Argento – Città di Leporano. Fra le sue precedenti pubblicazioni: Il silenzio del cuore (1985), “La lunga notte” (1987, Premio Giovani Città di Palermo), Lettere lungo la strada (2002, premiato al Città di Marineo e finalista al Guido Gozzano), L’oceano e altri giorni (2005). Una sua selezione di poesie scelte è stata pubblicata in spagnolo dalla Editorial de la Universidad de Costa Rica e dalla Fundación Casa de Poesía (Poesía escogida, 2009). La sua attività di traduttore di poesia latinoamericana si è svolta in collaborazione con la rivista “Sagarana”, nella quale dal 2007 al 2013 ha proposto principalmente autori del Costa Rica e del Centro America, mai tradotti in Italia, e con alcune case editrici, che hanno pubblicato le sue traduzioni di Eunice Odio (Questo è il bosco e altre poesie, Via del Vento 2009, Menzione Speciale Camaiore per la traduzione) e di Laureano Albán, (Gli infimi crepuscoli, Via del Vento 2010 e Poesie imperdonabili, Passigli 2011, finalista Premio Internazionale Camaiore, rosa finale Premio Marazza per la traduzione).  Ha pubblicato per La Recherche due ebook di traduzioni di poeti ispanoamericani, Nell’imminenza del giorno (2013) e Ad ora incerta (2014).

 

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POESIE SCELTE di Mark Strand (1934-2014) “L’enigma dell’assenza nel quotidiano” da Dormendo con un occhio aperto e l’altro chiuso (1964) da Motivi per muoversi (1968) Traduzioni di Damiano Abeni e Natàlia Castaldi con un Appunto di Giorgio Linguaglossa

 

Mark Strand aprile 1992

Mark Strand aprile 1992

Il 29 novembre 2014 è morto il poeta americano Mark Strand. Questo post è un atto di stima verso la sua poesia.

Mark Strand (11 aprile 1934 – 29 novembre 2014) è un canadese-americano nato poeta, saggista e traduttore. Dal 2005-06, è stato un professore di inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University. Mark Strand è nato nel Summerside Prince Edward Island, Canada.  I suoi primi anni sono stati spesi in Nord America, mentre gran parte della sua adolescenza è stata trascorsa in Sud e Centro America.  Nel 1957, ha conseguito la laurea,  ha poi studiato pittura con Josef Albers presso la Yale University , nel 1959 tramite una borsa di studio Fullbright , ha studiato la poesia italiana dell’Ottocento in Italia durante il 1960-1961. Ha frequentato i workshop Writers Iowa presso la University of Iowa e l’anno successivo  ha conseguito un Master of Arts nel 1962. Nel 1965 ha trascorso un anno in Brasile come Fulbright Lecturer.

 Appunto

 Scrive Rosanna Warren:

«il protagonista di Strand è un “io”, un personaggio che si sottrae al paesaggio. È una poesia semplice come un teorema, eppure inesauribilmente misteriosa. Come interpretare la reiterata auto asserzione […] che cancella il sé? Forse l’“io” è incorporeo come l’aria di cui prende il posto […] nel suo connubio di astrazione filosofica e linguaggio americano contemporaneo, il poema modula e incarna la riduzione che onora, spostandosi da un “campo” a “campo”, operando espansioni e contrazioni minime alla lunghezza dei versi e consegnando il proprio vuoto all’aria, perché lo riempia dopo ogni strofa».

 Strand osserva il quotidiano con un occhiale mitologico, con un occhio strabico osserva il rovescio che abita l’altro luogo dello spazio; l’io che afferma è lo stesso che nega e rinuncia, che esce da sé e si arresta sui detriti di ciò che resta dell’io: «Mi svuoto dei nomi degli altri. / Mi svuoto le tasche. / Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada»; e ancora: «Adagio esco ballando dalla cassa in fiamme della mia testa. / E chi non è nato e rinato di continuo in paradiso?».

L’io che sta «diventando orizzonte» è una illusione ottica: «lei guardava fisso… / non me, ma oltre me, uno spazio / che poteva essere colmato da qualcuno / che ancora doveva arrivare». (Specchio)

In un’intervista, Strand resta sul piano di una prosaica sobrietà:

 «Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte. […]».

 Altrove, su “Il sole 24ore” del 3 luglio 2011, con un elzeviro dal titolo Ritrovarsi sull’isola dei poeti, Strand scrive: «È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. […]».

Il Mangiaparole rivista n. 1 Scrive Luigi Sampietro su “Il sole 24ore” del 17 luglio 2011, in una interessante recensione alle poesie del poeta americano apparse qualche anno fa per Mondadori: Strand «è un detective metafisico che si sofferma sulle tracce di chi — o di ciò– che ora, qui, è assente e non si vede, ma che deve pur esserci o esserci stato. V’è un lato enigmatico, per non dire enigmistico — oltre che, ben inteso, umoristico, — in taluni momenti della sua poesia».

Con le parole di Strand: «Da qui sgorga la poesia: abitiamo in un posto / che non è nostro, e, soprattutto, non è noi». Sempre con le parole di Strand, veniamo a conoscenza del perché e del quando un poeta cessa di scrivere:

 «Cara Henrietta, visto che sei stata tanto gentile da chiedermi perché non scrivo più, farò del mio meglio per risponderti. Ai vecchi tempi, i miei pensieri sfavillavano come minuscole scintille nel buio quasi assoluto della consapevolezza e io li trascrivevo, e pagina dopo pagina risplendeva di una luce che dichiaravo tutta mia. Sedevo alla scrivania, sbalordito da ciò che era appena successo. E perfino mentre guardavo le luci affievolirsi e i miei pensieri divenire piccoli mausolei senza alcun senso nel lucore residuo di tanta promessa, restavo ancora sbalordito. E quando scomparivano, com’era inevitabile, io ero pronto a ricominciare, pronto a restare seduto al buio per ore ad aspettare anche un’unica scintilla, nonostante sapessi che non avrebbe quasi per nulla emesso luce. Quello di cui non mi ero reso conto allora, ma di cui mi rendo conto fin troppo bene adesso, è che le scintille portano dentro di sé il desiderio di essere sollevate dal fardello della lucentezza. Ed è per questo che non scrivo più, e che il buio è la mia libertà e la mia contentezza» (Una lettera da Tegucigalpa).

 (Giorgio Linguaglossa)

mark strand quote

From Sleeping with One Eye Open (1964)

Sleeping with One Eye Open

Unmoved by what the wind does,
The windows
Are not rattled, nor do the various
Areas
Of the house make their usual racket —
Creak at
The joints, trusses and studs.
Instead,
They are still. And the maples,
Able
At times to raise havoc,
Evoke
Not a sound from their branches’
Clutches.
It’s my night to be rattled,
Saddled
With spooks. Even the half-moon
(Half man,
Half dark), on the horizon,
Lies on
Its side casting a fishy light
Which alights
On my floor, lavishly lording
Its morbid
Look over me. Oh, I feel dead,
Folded
Away in my blankets for good, and
Forgotten.
My room is clammy and cold,
Moonhandled
And weird. The shivers
Wash over
Me, shaking my bones, my loose ends
Loosen,
And I lie sleeping with one eye open,
Hoping
That nothing, nothing will happen.

When the Vacation Is Over for Good

It will be strange
Knowing at last it couldn’t go on forever,
The certain voice telling us over and over
That nothing would change,

And remembering too,
Because by then it will all be done with, the way
Things were, and how we had wasted time as though
There was nothing to do,

When, in a flash
The weather turned, and the lofty air became
Unbearably heavy, the wind strikingly dumb
And our cities like ash,

And knowing also,
What we never suspected, that it was something like summer
At its most august except that the nights were warmer
And the clouds seemed to glow,

And even then,
Because we will not have changed much, wondering what
Will become of things, and who will be left to do it
All over again,

And somehow trying,
But still unable, to know just what it was
That went so completely wrong, or why it is
We are dying.

Mark Strand

Mark Strand

Dormendo con un occhio aperto

Imperturbate dal vento con le sue orchestre,
le finestre
non sono scosse, né dell’abitazione
le zone
più diverse emettono il solito stridore
alle giunture,
capriate, travi portanti,
montanti.
Invece sono mute. E l’acero, capace
a volte di strepitare come un ossesso,
adesso non un suono dalle fronde
diffonde.
Tocca a me stanotte essere scosso,
con addosso
un carico di spettri. Persino la mezzaluna (metà
uomo, metà tenebra), sull’orizzonte,
si distende
su un fianco e getta una luce equivoca
che gioca
sul pavimento, e cala altezzosa
la sua morbosa
sembianza su di me. Oh, mi sento morto,
composto
fra le mie coperte per un tempo interminato,
e dimenticato.
La mia camera è umida e algente,
trattate rudemente
dalla luna, e strana. I brividi
mi di-
lavano, squassano le ossa, ciò che è incerto
in me si fa più incerto,
e io giaccio e dormo con un occhio aperto,
e spero che non accada nulla, nulla davvero.

Mark Strand

Mark Strand

da Motivi per muoversi (1968)

The Man in the Tree

I sat in the cold limbs of a tree
I wore no clothes and the wind was blowing
You stood below in a heavy coat
The coat you are wearing

And when you opened it, baring your chest
White moths flew out and whatever you said
At that moment fell quietly onto the ground
The ground at your feet

Snow floated down from the clouds into my ears
The moths from your coat flew into the snow
And the wind as it moved under my arms
Under your chin, whined like a child

I shall never know why
Our lives took a turn for the worse, nor will you
Clouds sank into my arms and my arms rose
They are rising now

I sway in the white air of winter
And the starlings cry…lies down on my skin
A field of ferns covers my glasses; i wipe
Them away in order to see you

I turn and the tree turns with me
Things are not only themselves in this light
You close your eyes and your coat
Falls from your shoulders

The tree withdraws like a hand
The wind fit into my breath yet nothing is certain
The poem that has stolen these words from my mouth
May not be this poem.

Mark Strand

Mark Strand

L’uomo sull’albero

Sedevo tra i rami freddi si un albero.
Ero senza vestiti, soffiava vento.
Tu eri lì sotto, con un cappotto pesante,
il cappotto che hai adesso.

E quando l’apristi, scoprendoti il petto,
tarme bianche presero il volo, e ciò che dicesti
in quel momento cadde a terra in silenzio,
la terra ai tuoi piedi.

La neve scendeva dalle nuvole fin nelle mie orecchie.
Le tarme del tuo cappotto volarono nella neve.
E il vento, sotto le mie braccia, sotto il mento,
piangeva come un bambino.

Non saprò mai perché
le nostre vite volsero al peggio, e neanche tu.
le nubi mi affondarono nelle braccia e le braccia
si sollevarono. si sollevano ora.

Oscillo nell’aria bianca invernale
e lo strido dello storno mi si stende sulla pelle.
Un campo di felci mi copre gli occhiali: li pulisco
per poterli vedere.

Mi giro e le foglie mutano colore con me.
Le cose non sono solo se stesse in questa luce.
Tu chiudi gli occhi e il cappotto
ti cade dalle spalle,

l’albero si ritrae come una mano,
ilo vento si adatta al mio respiro, ma nulla è certo.
La poesia che mi ha rubato queste parole dalla bocca
potrebbe non essere questa poesia.

Eating Poetry

Ink runs from the corners of my mouth.
There is no happiness like mine.
I have been eating poetry.
The librarian does not believe what she sees.
Her eyes are sad
and she walks with her hands in her dress.
The poems are gone.
The light is dim.
The dogs are on the basement stairs and coming up.
Their eyeballs roll,
their blond legs burn like brush.
The poor librarian begins to stamp her feet and weep.
She does not understand.
When I get on my knees and lick her hand,
she screams.
I am a new man.
I snarl at her and bark.
I romp with joy in the bookish dark.

.
Mangiare poesia

Cola inchiostro dagli angoli della mia bocca.
Non c’è felicità pari alla mia.
Ho mangiato poesia.
La bibliotecaria non crede ai suoi occhi.
Ha gli occhi tristi
e cammina con le mani chiuse nel vestito.
Le poesie sono scomparse.
La luce è fioca.
I cani sono sulle scale dello scantinato, stanno salendo.
Gli occhi ruotano le orbite,
le zampe chiare bruciano come stoppia.
La povera bibliotecaria comincia a battere i piedi e a piangere.
Non capisce.
Quando mi inginocchio e le lecco la mano,
urla.
Sono un uomo nuovo.
Le ringhio, abbaio.
Scodinzolo di gioia nel buio libresco.

(Traduzione di Natàlia Castaldi, 2009)

Moon

Open the book of evening to the page
where the moon, always the moon appears
between two clouds, moving so slowly that hours
will seem to have passed before you reach the next page
where the moon, now brighter, lowers a path
to lead you away from what you have known
into those places where what you had wished for happens,
its lone syllable like a sentence poised
at the edge of sense, waiting for you to say its name
once more as you lift your eyes from the page
close the book, still feeling what it was like
to dwell in that light, that sudden paradise of sound.

.
Luna

Apri il libro della sera alla pagina
in cui la luna, sempre la luna, ancora appare
lì tra due nuvole, muovendosi piano, così piano che sembrerà
siano trascorse ore prima che possa voltare alla pagina seguente
lì dove la luna, più luminosa ora, fa approdare un sentiero
che ti conduca via da ciò che hai appreso
dentro i luoghi in cui tutto quello che avevi sperato si avvera,
la sua sillaba solitaria come un bisbiglio penzoloni
al margine del senso, ad aspettare che sia tu a pronunziarne il nome
ancora una volta staccando lo sguardo dalla pagina
chiudendo il libro, ancora sentendolo così com’era
quel sospendersi nella sua luce, quell’inatteso paradiso del suono.

(Traduzione di Natàlia Castaldi, 2009)

Mark Strand

Mark Strand

The Man in the Mirror

I walk down the narrow,
carpeted hall.
The house is set.
The carnation in my buttonhole

precedes me like a small
continuous explosion.
The mirror
is in the living room.

You are there.
Your face is white, unsmiling, swollen.
The fallen body of your hair
is dull and out of place.

Buried in the darkness of your pockets,
your hands are motionless.
You do not seem awake.
Your skin sleeps

and your eyes lie in the deep
blue of their sockets,
impossible to reach.
How long will all this take?

I remember how we used to stand
wishing the glass
would dissolve between us,
and how we watched our words

cloud that bland,
innocent surface,
and when our faces blurred
how scared we were.

But that was another life.
One day you turned away
and left me here
to founder in the stillness of your wake.

Your suit floating, your hair
moving like eel grass
in a shallow bay, you drifted
out of the mirror’s room, through the hall

and into the open air.
You seemed to rise and fall
with the wind, the sway
taking you always farther away, farther away.

Darkness filled your sleeves.
The stars moved through you.
The vague music of your shrieking
blossomed in my ears.

I tried forgetting what I saw;
I got down on the floor,
pretending to be dead.
It did not work.

My heart bunched in my rib-cage like a bat,
blind and cowardly,
beating in and out,
a solemn, irreducible black.

The things you drove me to!
I walked in the calm of the house,
calling you back.
You did not answer.

I sat in a chair
and stared across the room.
The walls were bare.
The mirror was nothing without you.

I lay down on the couch
and closed my eyes.
My thoughts rose in the dark
like faint balloons,

and I would turn them over
one by one and watch them shiver.
I always fell into a deep and arid sleep.

Then out of nowhere late one night
you reappeared,
a huge vegetable moon,
a bruise coated with light.

You stood before me,
dreamlike and obscene,
your face lost
under layers of heavy skin,

your body sunk in a green
and wrinkled sea of clothing.
I tried to help you
but you refused.

Days passed
and I would rest
my cheek against the glass,
wanting nothing but the old you.

I sang so sadly
that the neighbors wept
and dogs whined with pity.
Some things I wish I could forget.

You didn’t care,
standing still while flies
collected in your hair
and dust fell like a screen before your eyes.

You never spoke
or tried to come up close.
Why did I want so badly
to get through to you?

It still goes on.
I go into the living room and you are there.
You drift in a pool
of silver air

where wounds and dreams of wounds
rise from the deep
humus of sleep
to bloom like flowers against the glass.

I look at you
and see myself
under the surface.
A dark and private weather

settles down on everything.
It is colder
and the dreams wither away.

You stand

like a shade
in the painless glass,
frail, distant, older
than ever.

It will always be this way.
I stand here scared
that you will disappear,
scared that you will stay.

L’uomo nello specchio

Cammino sulla passatoia dell’ingresso.
La casa è pronta.
Il garofano all’occhiello

mi precede come una minuscola
esplosione perenne.
Lo specchio
è in soggiorno.

Tu sei lì,
bianco in volto, serio, gonfio.
La voluminosità sciolta della tua chioma
è opaca e fuori luogo.

Sepolte nella tenebra delle tasche,
le mani sono immobili.
Non sembra che tu sia sveglio.
La tua pelle dorme

e gli occhi giacciono nel blu
abissale delle orbite,
impossibili da raggiungere.
Quanto tempo ci vorrà?

Ricordo come restavamo lì in iedi
a desiderare che la lastra
si dissolvesse tra di noi, e come
guardavamo le nostre parole

appannare quella superficie
melliflua e innocente,
e quanto ci spaventammo
quando i nostri volti s’offuscarono.

Ma era un’altra vita.
Un giorno mi hai voltato le spalle
e mi hai lasciato qui ad affondare
nell’immobilità della tua scia.

Con l’abito che fluttuava, la chioma
che si muoveva come le alghe
in una baia poco profonda, andasti
alla deriva dalla stanza dello specchio,

poi in ingresso, e quindi all’aria aperta.
Pareva ti sollevassi e ricadessi
con il vento, e l’ondeggiare
ti portava sempre più lontano, più lontano.

Il buio ti riempiva le maniche.
Le stelle ti solcavano
La musica vaga dei tuoi gemiti
mi fioriva nelle orecchie.

Cercai di dimenticare ciò che vedevo;
mi lasciai andare sul pavimento,
fingendomi morto.
Non servì a niente.

il mio cuore, stretto nella gabbia toracica
come un pipistrello, cieco e codardo
scandiva dentro e fuori
un solenne, irriducibile nero.

Le cose che mi hai costretto a fare!
Camminavo nella calma della casa,
richiamandoti.
Tu non mi rispondevi.

Seduto su una sedia,
fissavo a vuoto la stanza.
Le pareti erano spoglie.
Lo specchio non era niente senza di te.

Mi sono sdraiato sul divano
e ho chiuso gli occhi.
I miei pensieri decollavano al buio
come languide mongolfiere,

e a uno a uno e li guardavo rabbrividire.
Immancabilmente cadevo in un arido
sonno profondo.

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POESIA di Iosif Brodskij “Odisseo a Telemaco” POESIA di Mark Strand “Marsyas” POESIA di Wistan Hugh Auden “Musée des Beaux Arts POESIE di Bertolt BrechtIl ladro di ciliege” “Mio fratello aviatore” “Generale, il tuo carro armato è una macchina potente SUL TEMA DEI PERSONAGGI STORICI MITICI O IMMAGINARI

Iosif brodskij 5

Iosif brodskij a Venezia

 

 Iosif Brodskij

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.

Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.

Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(1972, traduzione di Giovanni Buttafava)

ОДИССЕЙ ТЕЛЕМАКУ

Мой Tелемак,
Tроянская война
окончена. Кто победил – не помню.
Должно быть, греки: столько мертвецов
вне дома бросить могут только греки…
И все-таки ведущая домой
дорога оказалась слишком длинной,
как будто Посейдон, пока мы там
теряли время, растянул пространство.

Мне неизвестно, где я нахожусь,
что предо мной. Какой-то грязный остров,
кусты, постройки, хрюканье свиней,
заросший сад, какая-то царица,
трава да камни… Милый Телемак,
все острова похожи друг на друга,
когда так долго странствуешь; и мозг
уже сбивается, считая волны,
глаз, засоренный горизонтом, плачет,
и водяное мясо застит слух.
Не помню я, чем кончилась война,
и сколько лет тебе сейчас, не помню.

Расти большой, мой Телемак, расти.
Лишь боги знают, свидимся ли снова.
Ты и сейчас уже не тот младенец,
перед которым я сдержал быков.
Когда б не Паламед, мы жили вместе.
Но может быть и прав он: без меня
ты от страстей Эдиповых избавлен,
и сны твои, мой Телемак, безгрешны.

 

Mark_Strand april 1992

Iosif brodskij a Venezia

 

Mark Strand

Marsyas

Something was wrong
Screams could be heard
In the morning dark
It was cold

Screams could be heard
A storm was coming
It was cold
And the screams were piercing

A storm was coming
Someone was struggling
And the screams were piercing
Hard to imagine

Someone was struggling
So close, so close
Hard to imagine
A man was tearing open his body

So close, so close
The screams were unbearable
A man was tearing open his body
What could we do

The screams were unbearable
His flesh was in ribbons
What could we do
The rain came down

His flesh was in ribbons
What could we do
The rain come down

His flesh was in ribbons
What could we do
The rain came down

His flesh was in ribbons
And nobody spoke
The rain come down
There were flashes of lightning

And nobody spoke
Trees shook in the wind
There were flashes of lightning
Then came thunder

Marsia

Qualcosa non andava
si sentivano urla
nel buio del mattino
faceva freddo
le urla erano laceranti

S’appressava un temporale
qualcuno si dibatteva
le urla erano laceranti
qualcosa di inaudito

Qualcuno si dibatteva
così vicino, così vicino
qualcosa di inaudito
un uomo si squarciava il corpo

Così vicino, così vicino
le urla erano insostenibili
un uomo si squarciava il corpo
cosa potevamo fare

le urla erano insostenibili
la carne era in lacerti
cosa potevamo fare
cadde la pioggia

La carne era in lacerti
e nessuno parlava
cadde la pioggia
apparvero i lampi

E nessuno parlava
alberi scossi dal vento
apparvero i lampi
poi venne il tuono

(traduzione di Damiano Abeni)

W.H. Auden

W.H. Auden

 

Wistan Hugh Auden

Musée des Beaux Arts

About suffering they were never wrong,
The old Masters: how well they understood
Its human position: how it takes place
While someone else is eating or opening a window or just walking dully along;
How, when the aged are reverently, passionately waiting
For the miraculous birth, there always must be
Children who did not specially want it to happen, skating
On a pond at the edge of the wood:
They never forgot
That even the dreadful martyrdom must run its course
Anyhow in a corner, some untidy spot
Where the dogs go on with their doggy life and the torturer’s horse
Scratches its innocent behind on a tree.
In Breughel’s Icarus, for instance: how everything turns away
Quite leisurely from the disaster; the ploughman may
Have heard the splash, the forsaken cry,
But for him it was not an important failure; the sun shone
As it had to on the white legs disappearing into the green
Water, and the expensive delicate ship that must have seen
Something amazing, a boy falling out of the sky,
Had somewhere to get to and sailed calmly on.

*

Sul dolore la sapevano lunga,
gli Antichi Maestri: quanto ne capivano bene
la posizione umana; come avvenga
mentre qualcun altro mangia o apre una finestra o se ne va a zonzo spensierato;
come, quando gli anziani aspettano riverenti, con fervore,
la miracolosa nascita, debba sempre esserci
qualche bambino che non l’avrebbe voluta e pattina
su un laghetto alle soglie del bosco:
non dimenticavano mai
che anche l’orrendo martirio deve compiere il suo corso
comunque in un angolo, in un sudicio luogo
dove i cani fanno la loro vita da cani e il cavallo del torturatore
si gratta l’innocente didietro contro un albero.

Nell’Icaro di Bruegel, per esempio: come ogni cosa ignora
serena il disastro! L’aratore può
aver udito il tonfo, il grido desolato,
ma per lui non era una perdita grave; il sole splendeva
come doveva sulle bianche gambe inghiottite dalle verdi
acque; e la ricca ed elegante nave che doveva aver visto
una cosa incredibile, un ragazzo cadere dal cielo,
aveva una meta e via passava placida.

(in Another time, 1940 traduzione di Nicola Gardini)

 

Bertolt Breht  LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

Bertolt Breht LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

 

Bertolt Brecht

Il ladro di ciliege

Una mattina presto, molto prima del canto del gallo,
mi svegliò un fischiettio e andai alla finestra.
Sul mio ciliegio – il crepuscolo empiva il giardino –
c’era seduto un giovane, con un paio di calzoni sdruciti,
e allegro coglieva le mie ciliegie. Vedendomi
mi fece cenno col capo, a due mani
passando le ciliegie dai rami alle sue tasche.
Per lungo tempo ancora, che già ero tornato a giacere nel mio letto,
lo sentii che fischiava la sua allegra canzonetta.

 

Mio fratello aviatore

Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.

Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio. E prendersi terre su terre,
da noi, è un vecchio sogno.

E lo spazio che si è conquistato
sta sulla Sierra di Guadarrama.
È di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.

 

 il binario che porta ad Auschwitz

 

il binario che porta ad Auschwitz

 

 

Generale, il tuo carro armato è una macchina potente

Spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.

Generale, il tuo bombardiere è potente.
Vola più rapido di una tempesta e porta più di un elefante.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un meccanico.

Generale, l’uomo fa di tutto.
Può volare e può uccidere.
Ma ha un difetto:
può pensare.

(traduzione di Franco Fortini)

 

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POESIE SCELTE di Mark Strand – da “L’uomo che cammina un passo avanti al buio La metafisica del quotidiano, traduzione di Damiano Abeni e nota introduttiva di Giorgio Linguaglossa

Il Mangiaparole rivista n. 1 Mark Strand (nato l’11 Aprile 1934) è un canadese-americano nato poeta, saggista e traduttore. Dal 2005-06, è stato un professore di inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University.

 Mark Strand è nato nel Summerside Prince Edward Island, Canada. His early years were spent in North America, while much of his teenage years were spent in South and Central America. I suoi primi anni sono stati spesi in Nord America, mentre gran parte della sua adolescenza è stata trascorsa in Sud e Centro America. In 1957, Nel 1957, ha conseguito la laurea. Strand ha poi studiato pittura con Josef Albers presso la Yale University , nel 1959 tramite una borsa di studio Fullbright , ha studiato la poesia italiana dell’Ottocento in Italia durante il 1960-1961. Ha frequentato i workshop Writers Iowa presso la University of Iowa e l’anno successivo  ha conseguito un Master of Arts nel 1962. Nel 1965 ha trascorso un anno in Brasile come lettore.

Molte delle poesie di Mark Strand sono incardinate nel tema della innominabile nostalgia dell’uomo contemporaneo, una nostalgia che non può essere detta o rivelata senza tradire la nominazione. L’Itaca dell’uomo contemporaneo è il senso di quella antica nostalgia che è stata dimenticata, la nostalgia che sta prima dell’estraneazione, in quella zona franca che non fa più parte della storia individuale e neanche della storia dei nostri sogni: una dimensione, appunto, innominabile, intransitabile a ritroso, ma neanche percorribile in avanti, circondati come siamo da un buio fitto che non consente di riconoscere una direzione. Nella  poesia di Strand si trova tutto ciò che il poeta ha frequentato nella sua vita: le baie, i campi, barche, gli appartamenti grigi e anonimi negli agglomerati urbani etc e i pini e i sogni della sua infanzia su Prince Edward Island. Strand è stato paragonato a Robert Bly per il suo uso del surrealismo, ma la vera origine del suo surrealismo del quotidiano gli deriva piuttosto dalla attenta lettura iconografica della pittura di Marx Ernst, Giorgio de Chirico e René Magritte. Una poesia dunque che si nutre dell’arte figurativa, una traduzione e una riconfigurazione di quella iconografia nella poiesis. Le poesie di Strand utilizzano un linguaggio diretto, colloquiale e concreto, una sintassi regolare, un verso ampio di origine narrativa privo di rime e di un metro riconoscibile ma non per questo meno musicale. In una intervista del 1971, Strand ha detto, «Mi sento molto una parte di un nuovo stile internazionale che ha molto a che fare con la semplicità di dizione, un certo affidamento sulle tecniche surrealiste, e un elemento narrativo forte.»

(Giorgio Linguaglossa)

da Mark Strand L’uomo che cammina un passo avanti al buio (Poesie 1964-2006) Oscar Mondadori, 2007, pp. 392 € 15 – traduzione di Damiano Abeni

Mark Strand

Mark Strand

 

The tunnel

A man has been standing
in front of my house
for days. I peek at him
from the living room
window and at night,
unable to sleep,
I shine my flashlight
down on the lawn.
He is always there.

After a while
I open the front door
just a crack and order
him out of my yard.
He narrows his eyes
and moans. I slam
the door and dash back
to the kitchen, then up
to the bedroom, then down.

I weep like a schoogirl
and make obscene gestures
through the window. I
write large suicide notes
and place them so he
can read them easily.
I destroy the living
room furniture to prove
I own nothing of value.

When he seems unmoved
I decide to dig a tunnel
to a neighboring yard.
I seal the basement off
from the upstairs with
a brick wall. I dig hard
and in no time the tunnel
is done. Leaving my pick
and shovel below,

I come out in front of a house
and stand there too tired to
move or even speak, hoping
someone will help me.
I feel I’m being watched
and sometimes I hear
a man’s voice,
but nothing is done
and I have been waiting for days.

.
Il cunicolo

Un uomo sta fermo
davanti a casa mia
da giorni. Lo spio
dalla finestra del
salotto e la sera,
non riuscendo a prendere sonno,
con la torcia elettrica
illumino il prato.
È sempre lì.
Dopo un po’
socchiudo appena
la porta e gli ingiungo
di andarsene dal giardino.
Strizza gli occhi
e geme. Sbatto
la porta e mi precipito
in cucina, poi su
in camera, poi di nuovo giù.
Piango come una scolaretta
e faccio gesti osceni
alla finestra. Scrivo
messaggi enormi sul proposito
di suicidarmi e li espongo
in modo che li legga facilmente.
Distruggo gli arredi
del salotto per dimostrare
che non posseggo nulla di valore.
Lui resta impassibile
e allora decido di scavare un cunicolo
che sbocchi nel giardino del vicino.
Separo lo scantinato
dai piani superiori
con un muro di mattoni. Scavo
come un matto e il cunicolo
è subito finito. Lascio sotto
il piccone e la pala,
sbuco davanti a una casa
e resto lì troppo stanco
per muovermi o parlare, sperando
che qualcuno mi aiuti.
So di essere osservato
e a tratti sento
la voce di un uomo,
ma non succede niente
e sono giorni che aspetto.
da “Dormendo con un occhio aperto”

(1964)

Mark Strand

Mark Strand

From the Long Sad Party
from “The Late Hour”

Someone was saying
something about shadows covering the field, about
how things pass, how one sleeps towards morning
and the morning goes.

Someone was saying
how the wind dies down but comes back,
how shells are the coffins of wind
but the weather continues.

It was a long night
and someone said something about the moon shedding its
white
on the cold field, that there was nothing ahead
but more of the same.

Someone mentioned
a city she had been in before the war, a room with two
candles
against a wall, someone dancing, someone watching.
We begin to believe

the night would not end.
Someone was saying the music was over and no one had
noticed.
Then someone said something about the planets, about the
stars,
how small they were, how far away.

 

Dal lungo party triste
da “The Late Hour”

Qualcuno stava dicendo
qualcosa riguardo ombre che coprono il campo, riguardo
lo scorrere dell’esistenza, di come ci si addormenti verso il mattino
ed il mattino passi.

Qualcuno stava dicendo
di come il vento muoia ma poi ritorni,
di come le conchiglie siano le bare del vento
ma il tempo continui.

Era una lunga notte
e qualcuno disse qualcosa riguardo a come la luna perdeva il suo
bianco
sul freddo campo, come non ci fosse nulla davanti a noi
oltre le solite cose.

Qualcuno menzionò
una citta in cui era stata prima della guerra, una stanza con due
candele
contro un muro, qualcuno che danzava, qualcuno che guardava.
Cominciamo a credere

che la notte non avrebbe avuto termine.
Qualcuno stava dicendo che la musica era finita e nessuno
se n’era accorto.
Allora qualcuno disse qualcosa riguardo i pianeti, riguardo le
stelle,
di quanto fossero piccole, quanto fossero lontane.

Mark Strand

Mark Strand

Keeping Things Whole
from “Sleeping with one eye open”

In a field
I am the absence
of field.
This is
always the case.
Wherever I am
I am what is missing.

When I walk
I part the air
and always
the air moves in
to fill the spaces
where my body’s been.

We all have reasons
for moving.
I move
to keep things whole.

Tenendo le cose assieme

da “Sleeping with one eye open”

In un campo
io sono l’assenza
di campo.
Questo è
sempre opportuno.
Dovunque sono
io sono ciò che manca.

Quando cammino
divido l’aria
e sempre
l’aria si fa avanti
per riempire gli spazi
che il mio corpo occupava.

Tutti abbiamo delle ragioni
per muoverci
io mi muovo
per tenere assieme le cose.

Mark Strand

Mark Strand

 

 

 

 

 

 

 

What it was
from “Blizzard of one”

I

It was impossible to imagine, impossible
Not to imagine; the blueness of it, the shadow it cast,
Falling downward, filling the dark with the chill of itself,
The cold of it falling out of itself, out of whatever idea
Of itself it described as it fell; a something, a smallness,
A dot, a speck, a speck within a speck, an endless depth
Of smallness; a song, but less than a song, something drowning
Into itself, something going, a flood of sound, but less
Than a sound; the last of it, the blank of it,
The tender small blank of it filling its echo, and falling,
And rising unnoticed, and falling again, and always thus,
And always because, and only because, once having been, it was…

II

It was the beginning of a chair;
It was the gray couch; it was the walls,
The garden, the gravel road; it was the way
The ruined moonlight fell across her hair.
It was that, and it was more. It was the wind that tore
At the trees; it was the fuss and clutter of clouds, the shore
Littered with stars. It was the hour which seemed to say
That if you knew what time it really was, you would not
Ask for anything again. It was that. It was certainly that.
It was also what never happened – a moment so full
That when it went, as it had to, no grief was large enough
To contain it. It was the room that appeared unchanged
After so many years. It was that. It was the hat
She’d forgotten to take, the pen she left on the table.
It was the sun on my hand. It was the sun’s heat. It was the way
I sat, the way I waited for hours, for days. It was that. Just that.

Cos’era da “Blizzard of one”

I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; il suo azzurro, l’ombra che proiettava,
che cadeva a riempire l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori di sé, fuori di qualsiasi idea
di sé descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto entro un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in sé, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo vuoto tenero, piccolo che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e così sempre,
e sempre perché, e solo perché, una volta essendo stato, era…

II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sui capelli.
Era quello, ed era più di quello; era il vento che sbranava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai più chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne andò, come doveva, nessun dolore era tanto grande
da contenerlo. Era la stanza che sembrava immutata
dopo così tanti anni. Era quello. Era il cappello
che s’era dimenticata, la penna lasciata sul tavolo da lei.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, giorni. Era quello. Solo quello.

mark strand quote

 

 

 

 

 

Black sea
from “Man and camel”

One clear night while the others slept, I climbed
the stairs to the roof of the house and under a sky
strewn with stars I gazed at the sea, at the spread of it,
the rolling crests of it raked by the wind, becoming
like bits of lace tossed in the air. I stood in the long
whispering night, waiting for something, a sign, the approach
of a distant light, and I imagined you coming closer,
the dark waves of your hair mingling with the sea,
and the dark became desire, and desire the arriving light.
The nearness, the momentary warmth of you as I stood
on that lonely height watching the slow swells of the sea
break on the shore and turn briefly into glass and disappear…
Why did I believe you would come out of nowhere? Why with all
that the world offers would you come only because I was here?

 

Mare nero
da “Man and camel”

Una notte chiara, mentre gli altri dormivano, ho salito
le scale fino al tetto della casa e sotto un cielo
fitto di stelle ho scrutato il mare, la sua distesa,
il moto delle sue creste spazzate dal vento, divenire
come pezzi di trina gettati in aria. Sono rimasto nella lunga
notte piena di sussurri, aspettando qualcosa, un segno, l’avvicinarsi
di una luce lontana, e ho immaginato che tu venivi vicino,
le onde scure dei tuoi capelli mescolarsi col mare,
e l’oscurità è divenuta desiderio, e desiderio la luce che approssimava.
La vicinanza, il calore momentaneo di te mentre rimanevo
su quell’altezza solitaria guardando il lento gonfiarsi del mare
rompersi sulla riva e in breve mutare in vetro e scomparire…
Perché ho creduto che saresti venuta uscita dal nulla? Perché con tutto
quello che il mondo offre saresti venuta solo perché io ero qui?

 

Mark Strand

Mark Strand

 

 

 

 

 

 

 

The Remains
from “Darker”

I empty myself of the names of others. I empty my pockets.
I empty my shoes and leave them beside the road.
At night I turn back the clocks;
I open the family album and look at myself as a boy.

What good does it do? The hours have done their job.
I say my own name. I say goodbye.
The words follow each other downwind.
I love my wife but send her away.

My parents rise out of their thrones
into the milky rooms of clouds. How can I sing?
Time tells me what I am. I change and I am the same.
I empty myself of my life and my life remains.

Ciò che resta

Mi svuoto del nome degli altri. Mi svuoto le tasche.
Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada.
Di notte metto indietro gli orologi;
apro l’album di famiglia e mi guardo bambino.

A che giova? Le ore hanno fatto il loro dovere.
Dico il mio nome. Dico addio.
Le parole si inseguono nel vento.
Amo mia moglie ma la caccio.

I miei genitori si alzano dai troni
nelle stanze delle nuvole. Come posso cantare?
Il tempo mi dice ciò che sono. Cambio e resto lo stesso.
Mi svuoto della mia vita e rimane la mia vita.

Mark Strand

A piece of the storm

from “Blizzard of one”

From the shadow of domes in the city of domes,
A snowflake, a blizzard of one, weightless, entered your room
And made its way to the arm of the chair where you, looking up
From your book, saw it the moment it landed. That’s all
There was to it. No more than a solemn waking
To brevity, to the lifting and falling away of attention, swiftly,
A time between times, a flowerless funeral.
No more than that
Except for the feeling that this piece of the storm,
Which turned into nothing before your eyes, would come back,
That someone years hence, sitting as you are now, might say:
It’s time. The air is ready. The sky has an opening.

Frammento di tempesta

Dall’ombra delle cupole nella città delle cupole,
un fiocco di neve, tormenta al singolare, implacabile,
è entrato nella tua stanza e si è fatto strada fino al bracciolo
della poltrona dove tu, alzando lo sguardo
dal libro l’hai scorto nel’attimo in cui si posava. Tutto qui.
Niente altro che un solenne svegliarsi
alla brevità, al sollevarsi e al cadere dell’attenzione, rapido,
un tempo tra tempi, funerale senza fiori. niente altro
se non per la sensazione che questo frammento di tempesta,
fattosi niente sotto i tuoi occhi, possa ornare,
che qualcuno tra anni e anni, seduta come adesso sei tu, possa dire:
«È ora. L’aria è pronta. C’è uno spiraglio nel cielo».

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POESIE INEDITE di John Taylor traduzione di Marco Morello

 John Taylor

John Taylor

Nato nel 1952 a Des Moines, lo scrittore americano John Taylor vive in Francia. È autore di sette opere di racconti, di prose brevi e di poesie. La raccolta The Apocalypse Tapestries (Xenos Books, 2004) è stata pubblicata in italiano con il titolo Gli Arazzi dell’Apocalisse (Hebenon, 2007) nella traduzione di Marco Morello. Il suo libro più recente, Se cade la notte (in inglese: If Night is Falling, Bitter Oleander Press, 2012), tradotto anche da Marco Morello, è ora disponibile presso le Edizioni Joker. Taylor ha tradotto le poesie di numerosi poeti francesi (Jaccottet, Jourdan, Dupin, Calaferte, Tappy e altri). È anche editor e co-traduttore d’un’ampia raccolta dei testi di Alfredo de Palchi, Paradigm: New and Selected Poems (Chelsea Editions, 2013). Taylor ha ricevuto del 2013 una borsa di studio importante dell’Accademia dei Poeti Americani per il suo progetto di tradurre in inglese il poeta italiano Lorenzo Calogero.

Garnets in the Gravel

Alfredo De Palchi e John Taylor Firenze 2012

Alfredo De Palchi e John Taylor Firenze 2012

 

 

 

Well beyond the end of the old trail: a moraine to scale, then these sudden garnets.

*

Garnets in the gravel, water dripping from the glacier’s lip.

*

Amid the garnets, searching for the perfect dodecahedron.

*

Having circled around the dried-up alpine pond, but according to the map another one higher up.

*

Raise your eyes: the mountain peak above you unfolds ever upwards, into the blue and the clouds.

*

As glacial water drips on your hands, these garnets in the gravel, again and again.

Obergurgl, July 2004

Granati nella ghiaia

ben oltre la fine della vecchia pista: una morena da scavalcare, poi questi improvvisi granati.

*

granati nella ghiaia, acqua che stilla dalle labbra del ghiacciaio.

*

tra i granati, cercando il dodecaedro perfetto.

*

abbiamo girato intorno al laghetto alpino prosciugato, ma secondo la mappa ce n’era un altro più in alto.

*

solleva gli occhi: il picco montano si rivela sempre più su, nel blu e nelle nubi.

*

come l’acqua del ghiacciaio gocciola sulle tue mani, questi granati nella ghiaia, ancora e ancora.

Obergurgl, luglio 2004

alfredo de palchi grattacieli-new-york-7290226

grattacieli-new-york

Willow stick

Dead willow branch: a hard hiking stick, and the slope increased.

*

Above this alpine pasture an eagle soars out from the cliff; and as I look down, a viper crosses my path.

*

The waterfall inaccessible because of the moraine.

*

(“No symbols where none intended.”)

*

Enormous chamois-like shadows moving across the high meadows of the Ouille Allegra.

*

Not a soul coming down.

*

Hidden valley under the glacier: water flowing down in fingers, a fertile greenness in the pasture. High up, an eagle flies out from a dark rift that is like a secret passage.

*

Between two meadows, the sunken lane on which we often met the woodcarver, toward sunset. Toward the sunset.

*

Redstart alighting at the base of the village cross.

*

A cloud like a harrow in the air; and the next evening, another cloud-harrow; then continuous rain for days.

*

Deep-blue gentian flowers along a path so high that the last vegetation was ending and we were increasingly surrounded by stone. The stained-glass windows of Chartres.

*

La Dent Parachée: the candelabrum just below the peak has lost most of the eternal snow that had made each candlestick distinct, summer after summer. This candelabrum now a persistent memory.

*

A single upright stone in the meadow across the torrent. No cow or cowherd has ever pushed it down, rolled it over to the bank.

*

Some of the rain seemed to be the very cotton grass that was also sprinkled over the alpine marsh.

*

Of the pusatilla anemone I wanted to write: “With a score of arms reaching out.”

*

Hundreds of jackdaws jolting off the cliff, as if tossed like straw into the wind.

*

The same willow stick: not a divining rod.

*

Words rising in French: séneçon, circe, nigratelle.

*

Paradisia liliastrum, the paradise lily: a common mountain flower with a heavenly name.

*

At the end of dusk, when cloud and mountain had so blended that neither could be distinguished. But it was not yet night.

*

Above the fog, Charbonnel Peak and Mount Albaron not so faraway. The illusion of being close to them. Clouds of unknowing below. Humidity like a magnifying glass.

*

A tongue of fog coming down from the Mont Cenis Pass; and I would like this tongue to speak a language.

*

Bridging the rapids: stepping stones, yet well under water by midday when we returned.

*

The tractor’s headlights on the highway. The last load of mowed meadow grass. Heading home. 10 p.m. Soup. Alone ever since “the wife” (as he calls her affectionately) died.

*

Roots. This alder torn from its bank by the floodwaters of the Arc, swept downstream and then washed up, upside down, on a distant mudbar.

*

Tiny pale-violet colchicum flowers, as in the French song, constellating a meadow mowed only yesterday. Birth into bloom: the last surviving flowers before the first snow.

*

A flat stone (serpentine) left where we first found and examined it in the meadow. Our marker on the way back.

*

A path visible again, now that the meadow has been mowed. A centuries-old path.

*

A few more yards down the trail and you stop once again, look around. Every single mountain slope, every single perspective up valleys and between peaks, seems changed in significant ways. And has not changed significantly at all, of course.

*

Village in the hollow beneath its church and cemetery, beneath ancient moraines now covered with high grass and larches. Village above the rapids of the Arc.

*

August sunrise. But this time, night has left snow on the summits.

*

Soft larch needles grazing a hand: both unlasting.

*

Chaos of fog and sunset-lit clouds up the Avérole Valley. And patches of blue sky as well. Admire, but await a gentler, simpler evening.

*

The fog, I think, is moving faster across the green mountainside than I thought.

*

Early morning in late August: larch logs burning in every fireplace.

*

Drink from the source beneath the boulder, imagining it is something else. It is nothing else.

Bessans, August 2008

Bastone di salice

Un ramo di salice morto: un duro bastone da escursionismo, e la pendenza si accentuava.

*

Alta sul pascolo alpino un’aquila si libra dal dirupo; e mentre guardo giù, una vipera mi attraversa il cammino.

*

La cascata inaccessibile a causa della morena.

*

(“Niente simboli dove nessuno intendeva.”)

*

Enormi ombre a mo’ di camosci incrociano sugli alti prati della Ouille Allegra.

*

Non un’anima che scenda.

*

Valle celata sotto il ghiacciaio: l’acqua scorre giù come dita, una fertile verzura nel pascolo. Su in alto, un’aquila vola via da un’oscura fenditura che è come un passaggio segreto.

*

Tra due prati, la stradina infossata sulla quale incontravamo spesso l’intagliatore, verso tramonto. Verso il tramonto.

*

Un codirosso si posa alla base della croce del paese.

*

Una nuvola come una freccia nell’aria; e la sera dopo, un’altra nuvola-freccia; poi pioggia continua per giorni.

*

Fiori di genziana blu scuro lungo un sentiero così in alto che l’ultima vegetazione stava finendo ed eravamo sempre più circondati dalla pietra. Le vetrate cattedrale di Chartres.

*

Il Dent Parachée: il candelabro appena sotto il picco ha perduto la maggior parte della neve eterna che metteva in risalto ogni candela, un’estate dopo l’altra. Questo candelabro come memoria persistente.

*

Una sola pietra dritta nel prato oltre il torrente. Nessuna mucca o nessun pastore l’ha mai spinta giù, facendola rotolare fino alla riva.

*

Un po’ di pioggia sembrava essere proprio l’erioforo che era anche spruzzato sulla marcìta alpina.

*

Dell’anemone pulsatilla volevo scrivere: “Con una miriade di braccia protese.”

*

Centinaia di taccole che si scuotono oltre il dirupo, come paglia lanciata nel vento.

*

Lo stesso bastone di salice: non una bacchetta da rabdomante.

*

Parole che vengono dal francese: senecio, circe, nigritella.

*

Paradisia liliastrum, il giglio del paradiso: un comune fiore di montagna con un nome paradisiaco.

*

Sul finire del crepuscolo, quando nuvola e montagna si erano così mischiate da essere indistinguibili. Ma non era ancora notte.

*

Sopra la nebbia, il Picco Carbonella e il Monte Al barone non molto distanti. L’illusione di essergli vicini. Nubi della valle sconosciuta (inconsapevole ?). L’umidità come una lente d’ingrandimento.

*

Una lingua di nebbia che scende dal Passo del Moncenisio; e io vorrei che questa lingua parlasse una lingua.

*

Guadando le rapide: pietre per attraversare ma ben sommerse a mezzogiorno quando tornavamo.

*

Le luci alte del trattore sullo stradone. L’ultimo carico di fieno. Diretto a casa. Le dieci di sera. Minestra. Sempre solo, da quando “la moglie” (come la chiama affettuosamente) è morta.

*

Radici. Un ontano strappato via dalla riva dalla piena dell’Arc, trascinato a valle e poi gettato a riva su una remota barra di fango.

*

Minuscoli fiori di colchico viola pallido, come nella canzone francese, che punteggiano un prato falciato solo ieri. Nascita in fioritura: gli ultimi fiori sopravvissuti prima della prima neve.

*

Una pietra piatta (serpentina) lasciata dove l’avevamo trovata e già esaminata nel prato. La nostra pietra miliare sulla via del ritorno.

*

Un sentiero ancora visibile, ora che il prato è stato falciato. Un sentiero vecchio di secoli.

*

Altri pochi metri giù per la pista e ti fermi di nuovo, ti guardi attorno. Ogni singolo pendìo, ogni singola prospettiva su per le valli e tra i picchi sembrano mutati in modi significativi. E non sono mutati per niente in modo significativo, naturalmente.

*

Il paese nella conca sotto la chiesa e il cimitero, sotto antiche morene ora coperte di erbe alte e larici. Paese sopra le rapide dell’Arc.

*

Aurora d’agosto. Ma questa volta la notte ha lasciato neve sulle vette.

*

Soffici aghi di larice sfiorano una mano: entrambi effimeri.

*

Caos di nebbia e nuvole accese dal tramonto sulla Valle di Avérole. E pure chiazze di cielo blu. Ammira, ma aspetta una sera più gentile, più semplice.

*

La nebbia, penso, si sta muovendo sui fianchi verdi della montagna più veloce di quanto pensassi.

*

Mattina presto nel tardo agosto: ceppi di larice bruciano in ogni caminetto.

*

Bevi dalla sorgente sotto il masso, immaginando che sia qualcos’altro. Non è nient’altro.

Bessans, agosto 2008

alfredo de palchi Grattacieli di New York

John Taylor

 

The Thicket

fragments for Dimitris Souliotis

no paths; or paths; no chosen path

*

or both paths equally traveled by. where the wood had stood, and burnt, now high grasses, shrubs, scarred trees. signpost at this divergence. hazy sky on which i would have the same perspective, whether i veered southwest or southeast

*

sunlight in the high branches, among the blossoms, but this—mere eyesight. the dark path below

*

sunlight falling on the farthest field. here and now sown by the shadow of death

*

seeking winter, a leafless thicket that i can peer through

*

leaves, bony branches, doomed to drop

*

only the remembrance of leaves lifted up by the wind

*

eyes still drawn to those highest-reaching rooted trees

*

up trunks, onto branches; dangling, with an impression of levitation

*

better to venture willingly into what offers no immediate beauty, no obvious geometry

*

as if at dawn, an impenetrable thicket could suddenly comfort with its own hidden coherence

2010

Il boschetto

frammenti per Dimitris Souliotis

nessun sentiero, o sentieri: nessun sentiero scelto

*

o entrambi i sentieri egualmente percorsi. dov’era il bosco, e fu bruciato, ora erbe alte, cespugli, alberi cicatrizzati. indicatori di questa divergenza. cielo nebbioso sul quale vorrei avere la stessa prospettiva, sia che svolti a sudovest o a sudest

*

luce solare sui rami alti, tra i fiori, ma questo—una semplice vista. il buio sentiero sottostante

*

la luce solare cade sul campo più lontano. qui e ora seminato dall’ombra della morte

*

cercando l’inverno, un boschetto spoglio che posso penetrare con lo sguardo

*

foglie, rami ossuti, destinati a cadere

*

solo il ricordo di foglie portate via dal vento

*

occhi ancora trascinati a quegli alberi radicati che si protendono in alto

*

su per i tronchi, fino ai rami; dondolando, con un senso di levitazione

*

meglio avventurarsi volutamente verso ciò che non offre una bellezza immediata, o un’ovvia geometria

*

come se all’alba un boschetto impenetrabile potesse improvvisamente consolare la sua nascosta coerenza

2010

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Archiviato in poesia americana

LA POESIA DI WALLACE STEVENS  di Franco Toscani ‘Prima idea’ e critica della ‘pathetic fallacy’ (Parte II)

Wallace Stevens. Photo of Robert Frost and Stevens at the Casa Marina Hotel in Key West, ca. 1940

Wallace Stevens. Photo of Robert Frost and Stevens at the Casa Marina Hotel in Key West, ca. 1940

  1. ‘Prima idea’ e critica della ‘pathetic fallacy‘

La lingua, nel suo dire essenziale, intende far parlare le cose stesse, di cui “dice” anche il suono e il colore. Nelle poesie e nei saggi pubblicati in The necessary angel   il nesso fra poesia, musica e pittura appare molto stretto ed è più volte ribadito. Scrive ad esempio Stevens: “in poesia le parole, più di ogni altra cosa, sono suoni” ( cfr. AN 107-8,114). E di “dimensione musicale del colore” si è parlato a proposito di Harmonium [1] . Giustamente Fusini, nel suo saggio introduttivo alle Notes , ha osservato che nel poeta americano l’arco acustico è a fondamento dell’arco semantico, “prevale un alfabeto di suoni, soglia preliminare a ogni costituzione in lingua” (N 9,11).

La poesia-immaginazione è “pensiero pulsante nel cuore” che “grazie al candore, ci dà sempre di nuovo la forza/ di ritrovare di ogni cosa l’immacolata natura” (N 62-3), dice le emozioni e i sentimenti di cui l’umanità è sempre stata povera (cfr. Large red man reading , H 512-3, AA 72-3) , non permette che le cose anneghino nell’indifferenza e nello squallore del mondo.

La poesia parte dal disincanto circa la nostra presunta centralità nel mondo: “Di qui sgorga la poesia: viviamo in un luogo/ che non è nostro, e, molto di più, non è noi,/ ed è cosa crudele malgrado i giorni di gloria” (N 64-5). Anziché la nostra centralità, troviamo il centro informe e fangoso, il “muddy center” da cui proveniamo e al quale siamo destinati.

Siamo sorpresi e sconcertati: “ La vita insensata ci trafigge coi suoi misteriosi rapporti” (N 62-3). Nella poesia Nuances of a Theme by Williams (compresa nella raccolta Harmonium , 1923), il poeta scrive contro ogni ipotesi di umanizzazione della natura, rivolto ad una “ancient star”: “Splendi sola, splendi nuda, splendi come il bronzo/ che non riflette il mio volto né alcuna interiorità / del mio essere, splendi come fuoco, che non riflette nulla./ Non partecipare ad alcuna umanità/ che ti soffonda della propria luce./ Non essere chimera del mattino,/ mezzo uomo, mezzo stella./ Non essere un’intelligenza,/ come l’uccellino di una vedova/ o un cavallo vecchio” (H 28-9, 615).

Come ha notato Fusini, v’è una nostalgia dell’origine in Stevens, ma in lui il principio non è logico e razionale, l’esperienza umana è sempre in riferimento al nulla d’esperienza e a quell’ arché alogos  da cui dipende.

 La mente non è all’origine della creazione dell’idea. Stevens vuole risalire alla “prima idea” che permetta l’apertura dello sguardo autentico sulle cose: “Com’è terso il sole se visto nell’idea,/ purificato nella remota chiarità di un cielo/ liberatosi delle nostre immagini e di noi…/ (…) C’era un progetto del sole e c’è ancora./ C’è un progetto del sole. Il sole, ghirigoro d’oro,/ non sopporta alcun nome, ma è/ nella difficoltà di ciò che essere è” (N 58-9).

wallace stevens

wallace stevens

Guardando il sole nella sua nudità essenziale, il poeta trova finalmente il centro che cercava, la ragione del mondo. Pensando il mondo senza il superfluo delle maschere umanistiche, si diventa “a thinker of the first idea” (N 70-1, L 426).

 L’astrazione  consiste allora nell’accogliere il sole come “prima idea”, senza sovrapporre ad essa l’ “umano, troppo umano”. Il progetto del sole sovrasta, determina e condiziona ogni progetto umano. Ciò in cui noi siamo compresi, irrimediabilmente ci sfugge. Non viviamo in una terra cartesiana, il cielo non è il nostro specchio, come crede la pathetic fallacy  degli uomini. Le nuvole, che “vennero prima di noi”, “sono parte di ciò che ci precede, parte del centro fangoso che c’era prima che respirassimo, parte del mito fisico prima che iniziasse il mito umano”  (L 444): è questa l’ astrazione  accessibile ai poeti.

Ora, il concetto di un Dio antropomorfo è al centro della “fallacia patetica”: “Un Dio antropomorfo è semplicemente una proiezione di se stessa fatta da una razza di egoisti, che è per loro naturale considerare sacra” ( cfr. L 349-350, 444; H 214-5, 630-1). Un “Dio troppo, troppo umano” impedisce di godere e di misurare la vita per quella che è (cfr. H 370-1). Se un Dio ci dev’essere, “deve dimorare quietamente”, “essere incapace di parlare”, muoversi silenzioso, come il sole o la luna, scrive Stevens nella poesia Less and Less Human, O Savage Spirit  (1944, H 392-3), già dal titolo di sapore nietzscheano. Dio va piuttosto identificato con l’immaginazione che aiuta l’uomo a vivere meglio (cfr. Final  Soliloquy of the Interior Paramour , H 570-1).

La metafisica ha completamente stravolto e capovolto le cose: “The adventurer/ In humanity has not conceived of a race/ Completely physical in a physical world” (H 386-7). La povertà maggiore è della metafisica, nonostante il suo solenne richiamo agli alti ed eterni valori. “La più grande povertà – scrive il poeta in questa stessa pagina di Esthétique du mal  – è non vivere in un mondo fisico”, rappresentarsi un mondo dietro il mondo, rimanere irretiti nella pathetic fallacy .

All’inizio, però, il venir meno del mondo metafisico provoca sgomento e disperazione: “Che freddo baratro/ quando i fantasmi sono spariti e il realista turbato/ vede per la prima volta la real tà” (H 378-9). Ciò avviene soltanto all’inizio, non si resta paralizzati dal turbamento ; tutta la poesia di Stevens è un invito forte e costante ad andare oltre il “freddo baratro” per vivere in modo più ricco la realtà, anche e soprattutto grazie all’aiuto dell’immaginazione.

[1]   Cfr. R.S. Crivelli, Stevens, grande poeta della luce e del colore ,ne “il sole-24 ore”, 9 ottobre 1994.

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The Emperor Of Ice-Cream

Call the roller of big cigars,
The muscular one, and bid him whip
In kitchen cups concupiscent curds.
Let the wenches dawdle in such dress
As they are used to wear, and let the boys
Bring flowers in last month’s newspapers.
Let be be finale of seem.
The only emperor is the emperor of ice-cream.

Take from the dresser of deal.
Lacking the three glass knobs, that sheet
On which she embroidered fantails once
And spread it so as to cover her face.
If her horny feet protrude, they come
To show how cold she is, and dumb.
Let the lamp affix its beam.
The only emperor is the emperor of ice-cream.

from « Harmonium »

L’imperatore del sorbetto

All’arrotolatore di sigari giganti,
quel tutto muscoli, digli di sbattere
in tazze da cucina concupiscenti panne.
Si gingillino le donnette nella veste
che usano indossare e rechino i ragazzi
fiori avvolti in giornali del mese passato.
Sia l’essere il finale dell’aspetto.
Il solo imperatore è l’imperatore del sorbetto.

Prendi dalla cassettiera di abete, senza più
i tre pomelli di vetro, quel lenzuolo
dove una volta lei ricamò delle colombe
e stendilo fino a ricoprirle la faccia.
Se ne spuntano piedi e calli, sarà
per mostrare com’è fredda, com’è muta.
E che affissi la lampada il suo getto.
Il solo imperatore è l’imperatore del sorbetto.

da « Harmonium », traduzione di Giovanni Giudici

Wallace-Stevens-Quotes-1Wallace-Stevens-Quotes-2

Notes Toward a Supreme Fiction

to Henry Church

And for what, except for you, do I feel love?
Do I press the extremest book of the wisest man
Close to me, hidden in me day and night?
In the uncertain light of single, certain truth,
Equal in living changingness to the light
In which I meet you, in which we sit at rest,
For a moment in the central of our being,
The vivid transparence that you bring is peace.

from « Transport to Summer »

 

Note per una finzione suprema

a Henry Church

E per cosa, se non per te, proverei amore?
Terrei il libro più estremo dell’uomo più saggio
stretto, in me nascosto, giorno e notte?
Nella luce incerta della verità singola, certa,
eguale nella vitale mutevolezza alla luce
in cui t’incontro, in cui sediamo quieti,
per un momento nel centro del nostro essere,
la trasparenza vivida che tu porti è pace.

da « Trasporto all’estate », traduzione di Glauco Cambon

 

It Must be Astract

(…)

IV

The first idea was not our own. Adam
In Eden was the father of Descartes
And Eve made air the mirror of herself,

Of her sons and of her daughters. They found themselves
In heaven as in a glass; a second earth;
And in the earth itself they found a green –

The inhabitants of a very varnished green.
But the first idea was not to shape the clouds
In imitation. The clouds preceded us.

There was a muddy centre before we breathed.
There was a myth before the myth began,
Venerable and articulate and complete.

From this the poem springs: that we live in a place
That is not our own and, much more, not ourselves
And hard it is in spire of blazoned days.

We are the mimics. Clouds are pedagogues.
The air is not a mirror but bare board,
Coulisse bright-dark, tragic chiaroscuro

And comic color of the rose, in which
Abysmal instruments make sounds like pips
Of the sweeping meanings that we add to them.

(…)

from « Transport to Summer »

 

Deve essere astratta

(…)

IV.

L’dea prima non era nostra. Adamo
nell’Eden era già padre di Cartesio,
ed Eva rese l’aria di se stessa specchio,

e dei suoi figli e figlie. Si trovarono
in cielo come in uno specchio; una seconda terra;
e nella terra trovarono un verde –

abitanti di un verde lucidissimo.
Ma l’idea prima non era di foggiare
le nubi a imitazione. Le nubi ci precorsero.

C’era un centro fangoso prima che respirassimo.
C’era un mito prima che iniziasse i mito,
venerabile, esplicito e completo.

Da questo nasce la poesia: che viviamo
in un luogo non nostro, e che non siamo noi,
ed è arduo, ad onta dei giorni d’orifiamma.

Noi siamo i mimi. Le nubi pedagoghe.
L’aria non è uno specchio ma lavagna nuda,
quinta fra luce ed ombra, tragico chiaroscuro

e comico colore della rosa, in cui
istrumenti abissali riducono a scricchi
i vasti significati onde li esorniamo.

(…)

da « Trasporto all’estate », traduzione di Glauco Cambon

 

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Angel Surrounded by Paysans

One of the countrymen:
There is
A welcome at the door to which no one comes?

The angel:
I am the angel of reality,
Seen for a moment standing in the door.

I have neither ashen wing nor wear of ore
And live without a tepid aureole,

Or stars that follow me, not to attend,
But, of my being and its knowing,

I am one of you and being one of you
Is being and knowing what I am and know.

Yet I am the necessary angel of earth,
Since, in my sight, you see the earth again,

Cleared of its stiff and stubborn man-locked set
And, in my hearing, you hear its tragic drone

Rise liquidly in liquid lingerings,
Like watery words awash; like meanings said

By repetitions of half-meanings. Am I not,
Myself, only half a figure of a sort,

A figure half-seen, or seen for a moment, a man
Of the mind, an apparition apparelled in

Apparels of such lightest look that a turn
Of my shoulder and quickly, too quickly, I am gone?

from « The Auroras of Autumn »

 

Angelo circondato da paysans

Uno dei paesani:
C’è forse
un benvenuto alla porta a cui nessuno viene?

L’angelo:
Sono l’angelo della realtà,
visto un attimo affacciarsi sulla porta.

Non ho ala cinerea, né abito smagliante
e vivo senza una tiepida aureola

o stelle al mio seguito, non per servirmi,
ma, del mio essere e del suo conoscere, parti.

Sono uno come voi ed essere uno di voi
vale essere e sapere ciò che sono e so.

Eppure sono l’angelo necessario della terra,
poiché, nel mio sguardo, vedete la terra nuovamente,

spoglia della sua dura e ostinata maniera umana,
e, nel mio udire, udite il suo tragico rombo

liquidamente sollevarsi in liquidi indugi
come acquee parole nell’onda, come sensi detti

con ripetizioni e approssimazioni. Non sono forse,
anch’io, una sorta di figura approssimativa,

una figura intravista, o vista un istante, un uomo
della mente, un’apparizione apparsa in

apparenze tanto lievi a vedersi che se appena
volgo le spalle, subito, ahi subito, svanisco?

da « Le aurore d’autunno », traduz. di M. Bacigalupo

da Wallace Stevens, Harmonium, Poesie 1915 – 1955, a cura di Massimo Bacigalupo, Einaudi, Torino, 1994

 

Wallace Stevens

Wallace Stevens

  1. Un giro attorno al lago

In The Snow Man  (1921) l’uomo è l’ascoltatore del soffio del vento in un paesaggio invernale ; egli ha “a mind of winter” ,  “ascolta nella neve/ e, nulla in sé, vede/ nulla che non sia lì, e il nulla che è” (H 12-13). Ciò sembra molto nihilistico, ma non è così. Lo stesso Stevens rileva in una lettera del 1944 che The Snow Man  va interpretato in  senso  positivo “come un esempio della necessità di identificarsi con la realtà in modo da capirla e goderla” (cfr. L 464; H 12-13,XI; MD 122-3). Le “rupi erose torreggianti sull’Atlantico” di una poesia come  The Irish cliffs of Moher  ( in The Rock , MM 34-35, H 552-3) sono per il poeta “come una ventata di libertà, un ritorno al mondo spazioso e solitario in cui un tempo esistevamo” (L 760).

In The Auroras of Autumn  – ha osservato Fusini nella prefazione all’edizione italiana dell’opera, intitolata La passione del sì – le luci dell’aurora boreale sono “parte dell’innocenza della terra (…). Queste luci non vogliono nulla. Fanno parte, appunto, di una terra né benigna, né matrigna. Ma indifferente, di un’indifferenza che ci salva, tuttavia. Perché non vuole nulla da noi. Solo che stiamo raccolti in essa, come bimbi nel sonno. Il male e il bene non sono un’intenzione della terra” (cfr. AA 27-28,60-61; H 508-9,666, 368-9).[1]

Una volta liberato dalle pastoie metafisiche, “the pensive man” è  “connoisseur of Chaos”, consapevole dell’unità del complesso e della complessità dell’unità (cfr. H 290-3, 641), dell’interrelazione universale che regge tutte le cose e in cui forse si risolve ciò che enfaticamente chiamiamo verità.

Il problema della verità viene da Stevens radicalmente reimpostato in maniera felicemente provocatoria: “Perhaps/ The truth depends on a walk around a lake” (“Forse/ la verità dipende da un giro sul lago”, N 70-71). Così il poeta getta la sua provocazione e il suo sberleffo alla metafisica. La verità è pure in un giro attorno ad uno specchio d’acqua, nell’abitare fra terra e cielo, senza andare a cercare tanto lontano ciò che ci è da sempre molto vicino e che spesso non riusciamo a riconoscere per quello che è. Ci sfugge la misura, ma la misura sta proprio nell’abitare qui sulla terra, nello spazio fra terra e cielo, accettando tutto ciò che questa esposizione significa.

Wallace-Stevens QuotesL’esistenza umana è esposizione all’Aperto e nella sua essenza è rivolta alla cura della terra. La verità dell’uomo si risolve nel problema del suo abitare il mondo e morire. Data l’inseparabilità fra il conoscere e il vivere, decisiva si rivela la questione del luogo . In uno dei suoi Adagia  pubblicati in Opus posthumous , Stevens ha scritto: “La vita è affare di persone, non di luoghi; ma per me è affare di luoghi ed è questo il problema” (OP 158; MM 14).

Allora la poesia sarà, nella sua essenza misurante, individuazione del luogo dell’abitare e la verità “sarà – scrive Fusini nel saggio introduttivo alle Notes  –  conoscenza rivolta al luogo, coinciderà con la ‘cura del luogo’ – come si dice in The rock. Il luogo non è semplice (pre)posizione; quell’ ex  in cui l’uomo è esposto è la casa che dice la separazione, la differenza  in cui l’uomo abita. La ricerca della realtà è cura di questa differenza, di ‘questo luogo, le cose dintorno’” (N 37).

La critica della pathetic fallacy  conduce da un lato a un ridimensionamento dell’umano, a spodestare noi stessi dal trono del mondo che ci siamo arrogantemente costruiti; d’altro lato l’uomo, definito in Esthétique du mal   “the soldier of time” (H 376-7), è pure, in un mondo che mondeggia privo di Fondamento metafisico, misura delle cose, nell’antico senso greco protagoreo e non ancora umanistico. In questo senso, nel saggio The relations between poetry and painting  (compreso in The necessary angel  ), Stevens scrive: “La verità più alta a cui possiamo aspirare, in ogni campo, è che la verità dell’uomo è la risoluzione finale di ogni cosa” (AN 247).[2]

In Chocorua to Its Neighbor  (compresa in Transport to Summer ), la poesia tenta di dire l’umano, ma lo dice in un modo che sfugge completamente alle movenze e ai tratti caratteristici tanto dell’umanismo che assolutizza indebitamente l’uomo quanto di quell’anti-umanismo alla moda che finisce col dimenticare o trascurare ciò che è peculiare dell’uomo stesso, la sua essenziale dignità e povertà: “Dire cose più che umane con voce umana,/ non può essere; dire cose umane con voce/ più che umana, anche non può essere;/ parlare umanamente dall’altezza o dalla profondità delle cose umane, questo è il più acuto parlare” (H 354-5).

Sgombrato il campo dagli equivoci metafisici, ora “The imperfect is our paradise” ( The Poems of Our Climate , in Parts of a World , H 268-9), si ottiene “a new knowledge of reality” ( Not Ideas about the Thing but the Thing Itself , in The Rock , H 586-7, MM 112-3,220-1), il mondo non è più apparenza ingannevole, ma si risolve nella verità stessa (cfr. Landscape with Boat , in Parts of a World , H 310-3). Stevens si muove lungo la strada di un’integrale accettazione del mondo, compreso il suo dolore ineliminabile, sacro e verace (cfr. World without peculiarity , AA 148-151).

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  1. Le tracce dei poeti. Stevens e Char

In un aforisma apparso in  Opus posthumous  Stevens scrive: “La grande conquista è la conquista della realtà” (OP 168, N 59). Forse, a questo punto della nostra ricerca, possiamo capire un po’ meglio quanto qui viene detto. Le poesie di Stevens, come ha ben rilevato Hayden Carruth nel 1952, sono “duri confronti con il reale” (cfr. AN 55), soltanto un poco alleviati dalla bellezza e dall’incanto della parola poetica, “finzione suprema”, appunto. Bisogna, credo, abbandonarsi completamente alla bellezza e alla stupefacente ricchezza delle innumerevoli immagini, metafore, figure, suggestioni che popolano i testi difficili del Nostro, a quel suo peculiare turbinio estetico che insieme  rapisce il cuore e ci costringe a pensare radicalmente.

La poesia di Stevens si concepisce “parte della res”, ad esempio “parte del riverbero/ di una notte ventosa com’è”, vuole essere “poesia della pura realtà”, che cerca il “semplice vedere, senza riflessione. Non cerchiamo/ null’altro che la realtà. Dentro essa,/ tutto, comprese le alchimie/ dello spirito, compreso lo spirito che aggira/ e attraversa, non solo il visibile,/ il solido, ma il mobile, il momento,/ l’avvicendarsi delle feste e i costumi dei santi,/ l’ordito dei cieli e l’alta aria notturna” ( An Ordinary Evening in New Haven , in The auroras of autumn , H 532-5).

Il poeta è alla ricerca della realtà e in un tale compito, dissolte le nebbie metafisiche, l’apparenza si risolve nella realtà, il sembrare nell’essere: “E’ possibile che sembrare… sembrare è essere,/ come il sole è qualcosa che sembra ed è./ Il sole è un esempio. Ciò che sembra/ è, e in un tale sembrare tutte le cose sono” ( Description without Place , in Transport to Summer , H 400-1).

La poesia essenziale è l’ “armonia alta” che si pone “al centro delle cose”, in un rapporto strettissimo in cui, per così dire, la poesia diventa mondo e il mondo diventa poesia (cfr. AA 114-9). L’irreale della poesia deve essere creato a partire dal reale, tutta la forza e tutta la potenza dell’uomo immaginativo si sprigionano soltanto a partire dal reale stesso.

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La poesia è poesia della realtà nella sua piena libertà espressiva e formale; Stevens si premura di ribadire con forza l’autonomia dell’arte, la sua assoluta esigenza di non aderire acriticamente alla realtà, in particolare agli interessi e agli imperativi politici, sociali, ideologici, morali (cfr. L 402-3, AN 38-39, 103): “Il poeta rifiuta i compiti che altri gli hanno assegnato”,  la poesia va valutata essenzialmente con criteri estetici e formali (cfr. AN 109, 176). Ciò non impedisce che vi possa essere un rapporto fruttuoso fra poesia e praxis , dove la poesia – come ha rilevato René Char – si propone come sguardo in avanti, parola che introduce “una salva d’avvenire”, “la vita futura all’interno dell’uomo riqualificato”.[3]

Il poeta attua per tutti una vigilanza strenua, insonne e inquieta, lascia tracce (“Solo le tracce fanno sognare”, per Char) che vanno individuate e interpretate per consentire gli scatti in avanti (il “bel caos”, diceva Nietzsche) dell’esistenza. La “energia dislocante” della poesia consente di istituire un nesso fragile, sempre pronto ad essere spezzato, fra poesia e politica, un nesso che lascia tuttavia sussistere la piena autonomia di entrambe. Cogliere questo nesso e insieme quest’aria di libertà è qui il problema.

In riferimento alla carica utopica contenuta nella poesia, Char ha scritto mirabilmente che essa “è l’amore realizzato del desiderio rimasto desiderio”.[4] Ciò probabilmente vuol dire non che è condannata alla sterilità e all’impotenza, ma che vi è una reciproca necessità e un reciproco richiamo fra poesia e azione, per cui la prima spinge verso un rinnovamento e un arricchimento di senso del reale, la seconda è indispensabile al necessario farsi-mondo della parola.

In qualche modo la parola, nel suo stesso appartenere al mondo, è pure creatrice di mondo, come scrive Stevens in Description without Place (1945): “la parola è la creazione del mondo,/ il mondo ronzante e il firmamento balbettante./ E’ un mondo di parole da cima a fondo,/ in cui nulla di solido è solidamente se stesso” (H 410-1).

E ancora, nella poesia An Ordinary Evening in New Haven : “le parole del mondo sono la vita del mondo” (H 536-7). L’uomo è il suo linguaggio, gli uomini sono “fatti di parole”, “la vita consiste/ di proposizioni sulla vita” (Men Made out of Words , 1946, H 424-5). Tale essenzialità del linguaggio, oggi compromessa e svilita dal chiacchiericcio mass-mediatico imperante nella nostra “società dello spettacolo”, è propria della poesia se essa è, secondo una bella definizione di Ezra Pound, “l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato”.[5]

Dopo aver citato Rimbaud, per il quale “La poésie ne rythmera plus l’action. Elle sera en avant”[6]  , René Char ha scritto: “La poesia condurrà a vista l’azione, collocandosi avanti ad essa. L’essere-avanti presuppone tuttavia un allineamento angolare della poesia sull’azione, come un veicolo pilota aspira a breve distanza, grazie alla sua velocità, un secondo veicolo che lo segue. Gli apre la via, contiene la sua dispersione, lo nutre del suo slancio.”[7].

Per Char, la poesia è “un chant de départ” (“un canto di partenza”), “pensée chantée” (“pensiero cantato”), “tete chercheuse” (“testa ricercante”) che ha per suo corpo l’azione.[8]   La rifrazione della poesia nello “specchio ardente e offuscato” dell’azione apporterà “le signe plus (+) à la matière abrupte de l’action”.[9] La poesia rifonda l’abitare, “non ritma più l’azione, ma va avanti per indicarle il cammino mobile. E’ per questo che la poesia giunge sempre in anticipo. Essa prepara l’azione e, grazie al suo materiale, costruisce la Casa, ma mai una volta per tutte.”.[10]

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  1. Vigore della trasformazione e parola della povertà

Stevens canta l’indissolubile unità non statica, dinamica dell’io e della realtà: “Chi partecipa ha parte in ciò che lo muta” (N 86-87). Il radicale eraclitismo del poeta consiste nella convinzione secondo cui l’essere non si dà che nell’incessante divenire; tutto muta – le fanciulle, le colombe, le montagne -, il reale è costante metamorfosi, ogni staticità è relativa, tutto è incostante. Senza il mutamento che tutto distrugge e porta con sé non si dà vita umana, non si dà nuova nascita; morte e vita, creazione e distruzione sono inesorabilmente intrecciate, ma la vita tende sempre alla propria affermazione, ogni volta crea con la forza di chi deve lottare per sopravvivere, è sempre inizio, di cui la poesia come suprema finzione è parte.

Il poeta canta il vigore della trasformazione come vigore del mondo, forza dell’inizio che il tempo stimola, accresce e poi tradisce. Leggiamo ad esempio nelle Notes  (non a caso nella sezione  “It Must Change”) : “The freshness of transformation is/ The freshness of a world” (H 472-3). Il mutamento viene inteso in modo eracliteo come unione degli opposti: “ Due cose opposte sembrano dipendere/ l’una dall’altra, come l’uomo dalla donna,/ il giorno dalla notte, e dal reale/ l’immaginario. E’ qui l’origine del mutamento./ Inverno e primavera, freddi sposi, s’abbracciano,/ e ne sgorgano gli elementi della gioia” (H 462-3).

Nel suo stesso dar conto della realtà che incessantemente si trasforma, nel suo esprimere ciò che vediamo così come lo vediamo, la “finzione suprema” deve pure “dare piacere”. Per l’ “intelletto incandescente” di Stevens, la poesia è joie de vivre  particolare che ha come riferimento una joie de vivre  generale (cfr. L 404, AN 39, 134). “Alle fondamenta della poesia di S. – ha scritto Randall Jarrell sulla “Yale Review” nel 1955 – c’è meraviglia e diletto, la gioia del bambino o dell’animale o del selvaggio, la gioia dell’uomo nella sua stessa esistenza, e la gratitudine per essa” (cfr. H 671).

Siamo stranieri sulla terra, abitiamo un luogo che non è nostro, ma questo disincanto non è soltanto tragico. Lo spaesamento originario, preso sul serio, conduce a trovar casa in ogni luogo, permette l’abitazione dappertutto. Proprio il mancato possesso, l’impermanenza e la povertà originaria fanno sì che il viandante straniero trovi talvolta, nel suo errare, sollievo e conforto.

Nell’ultima fase della produzione di Stevens (specie in The Rock  e nelle composizioni raccolte in Opus Posthumous ), uno dei temi che ricorrono più frequentemente è quello della povertà, di cui scrive il Nostro  nella poesia To an Old Philosopher in Rome , dedicata a George Santayana, “negli ultimi anni agnostico ospite di un convento di suore a Roma” (H XVII) : “E’ la parola della povertà che più ci cerca./ E’ più antica della parola più antica di Roma” ( H 560-1, MM 54-55).

Coffee Oranges

Coffee Oranges

La poesia, come canto della necessità, del dire essenziale e più dicente, è canto dell’amore e del dolore, del passare del tempo, del nesso indissolubile vita-morte e il poeta, vecchio e vigile, è impegnato a imparare a morire, a scegliere le parole più appropriate per il distacco definitivo: “una lingua per un calmo addio a se stesso, addio, addio,/ le pacate, beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette” ( The Sick Man , H 590-1, MM 116-7). E’ questo il canto della buona morte, che sopravviene a una vita buona e giusta.

Il punto di partenza, ribadisce Stevens in The Sail of Ulysses , è la povertà, lo stato di mancanza e di bisogno, la necessità (cfr. MM 152-3). Qui viene attribuito alla povertà un senso positivo; solo nel riconoscimento della povertà e a partire da essa nasce la ricchezza autentica dell’uomo. Il senso genuino della praxis  va ricondotto alla povertà, allo stato di bisogno. “Need makes/ The right to use” (MM 152-3). Ecco perché Stevens scrive  in The Auroras of Autumn  che “La povertà s’addice al nocciolo saldo del cuore” (AA 78-79).

[1]   Qui sovvengono i versi di Hoelderlin in Stimme des Volks  (Voce del popolo ): “Indifferenti alla nostra saggezza/scroscian ben anche i fiumi, e tuttavia/ chi non li ama?”. Cfr. F. Hoelderlin, Poesie , cit., pp.64-65.

[2]   Mi sembra che questa peculiare considerazione della “ verità dell’uomo” possa  forse essere utilmente accostata a quella che si palesa nell’opera di Michel de Montaigne. Cfr. Sandro Mancini, Oh, un amico! In dialogo con Montaigne e i suoi interpreti, FrancoAngeli, Milano 1996.

[3]   Cfr. R. Char, Sulla poesia , a cura di Gianluca Manzi, in “lengua” n.13, Crocetti editore,Milano 1993,pp. 94-95.

[4]   Cfr. R. Char, Sulla poesia , cit.,p.94.

[5]   Cfr. Cristina Campo, La Tigre Assenza ,a cura di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi,Milano 1991,p.240.

[6]   Cfr. R. Char, “Réponses interrogatives à une question de Martin Heidegger”,in Oeuvres complètes , Gallimard, Paris 1983, pp.734-6.

[7]   Cfr. R. Char, “Risposte interrogative ad una domanda di Martin Heidegger”, trad. it. in Gino Zaccaria, L’etica originaria. Hoelderlin, Heidegger e il linguaggio , Egea, Milano 1992,p.213.

[8]   Cfr. G. Zaccaria, op. cit., pp.214, 216-7.

[9]   Ibidem.

[10]   Ibidem.

*

Franco Toscani, saggista e insegnante di Filosofia, vive e lavora a Piacenza, dove è nato nel 1955, è membro del comitato scientifico della sezione Emilia-Romagna dell’Istituto italiano di Bioetica, fa parte del consiglio di redazione della rivista “Testimonianze” ed è redattore della rivista “Filosofia e Teologia”.  Co-autore nel volume di AA.VV., Vita e verità. Interpretazione del pensiero di Enzo Paci , a cura di S. Zecchi, Bompiani, Milano 1991. Ha introdotto vari libri di poesia e con G. Zambianchi ha curato il volume postumo di poesie di N. Vegezzi, Terra e carne d’amore , Grafic Art, Piacenza 1995. Nel 2003 ha pubblicato, presso l’editrice Blu di Prussia di Piacenza, una plaquette di poesie, dal titolo La benedizione del semplice (“Prefazione” di C. Sini).Ha collaborato a riviste e a giornali come  “il manifesto”, “Quotidiano dei Lavoratori”,  “Libertà”, “Il Nuovo Giornale”, “Unità Proletaria”, “In-oltre”, “La Balena Bianca”, “La tribù”, “aut aut”, “Alfabeta”, “Nuova Corrente”, “AlfaZeta”,  “Studi Piacentini”, “Città in controluce”, ”dalla parte del torto”, “Qui – Appunti dal presente”,“Testimonianze”, “Filosofia e Teologia”, “Dharma”,”Odissea”, “Koiné”, “La clessidra”, “La Stella del Mattino”. E’ autore con S. Piazza del libro Cultura europea e diritti umani  (Cleup, Padova 2003). Un suo saggio è contenuto nel volume di AA.VV., Il tempo e il soggetto  (Cleup, Padova 2003), di cui è  curatore insieme a G. Olmi e S. Piazza ; tre suoi saggi compaiono in AA.VV., Sulla via della polis infranta , a cura di S. Piazza, Cleup, Padova 2004. Nel 2004 ha curato con G. Zambianchi il volume La rivolta e l’incanto. Poesia, pittura e scultura in Nello Vegezzi ,Editrice Kairos, Piacenza. Del 2010 è il volume (co-autore S. Piazza) Fede e pensiero critico nell’età globale. Testimonianze per una civiltà planetaria, Cleup, Padova. Nel 2011, per le edizioni Odissea di Milano, pubblica i saggi Gandhi e la nonviolenza nell’era atomica e Luoghi del pensiero. Heidegger a Todtnauberg. Del 2012 è il libretto ‘L’azzurro della scuola degli occhi’. Terra e cielo di Hölderlin e  di Heidegger, CFR, Piateda (So).

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Archiviato in poesia americana, recensione libri di poesia

WYSTAN HUGH AUDEN (1907-1973)O TELL ME THE TRUTH ABOUT LOVE” (Ditemi, vi prego, la verità sull’amore) – versione di Giorgio Linguaglossa con nota di Iosif Brodskij e un Commento di Alfonso Berardinelli

New York di notte

New York di notte

Questa poesia è la prima di dieci composizioni di Wystan Hugh Auden (New York 1907-Vienna 1973), composte fra il 1932 e il 1939. Molte di esse furono scritte per la musica di Benjamin Britten e per l’interpretazione del soprano Hedli Anderson; una prima versione di Funeral Blues venne musicata da Britten per The Ascent of F6, uno dei tre lavori teatrali che Auden scrisse in collaborazione con Christopher Isherwood.

Le dieci poesie che troverete sotto questa copertina sono state scritte quando la maggior parte di voi non era ancora tra i vivi: circa sessant’anni fa, negli anni Trenta. Nel mondo che si era appena riavuto dalla prima guerra mondiale e si stava avviando verso una carneficina anche più grande.

Tutti sapevano dell’una, pochissimi presentivano l’altra. Tra questi pochissimi era Wystan Hugh Auden, l’autore di queste poesie che, si può ben dire, portano in sé l’odore della guerra imminente. O, in ogni caso, l’odore del futuro.

I temi di queste poesie sono l’amore e la disonestà – i due poli tra i quali ci siamo trovati a soggiornare nel nostro secolo, pronti a gloriarci della loro occasionale divergenza ma bravissimi, anche quando siamo sfortunati, a conciliarli tra loro, a fonderli insieme. Ci sono buone ragioni se i versi del poeta oscillano tra la più intensa tenerezza e parossismi di indifferenza, e se da queste oscillazioni nasce uno stridente lirismo che non ha precedenti.

Non vi succederà un’altra volta di incontrare canzoni d’amore così cariche di apprensione. Contengono e trasmettono una sensibilità dissonante che si presterebbe facilmente a essere manipolata se non fosse per l’assoluta sobrietà che la sostiene. Inutile dire che non lasciano molte illusioni né a chi ama né a chi è amato; e meno ancora ne offrono al vostro prossimo e allo sconosciuto. Profondamente tragiche come sono, rimangono anche straordinariamente divertenti, perché la loro ironia è un risultato della desolazione.

W.H. Auden

W.H. Auden

 Riescono a sedurre e a temprare nello stesso tempo; in questo sta il loro potere e, insieme, la loro garanzia di durata. Ma ad accrescerne il vigore contribuisce la loro forma tradizionale: sono infatti, sostanzialmente, versioni moderne della folk ballad, e la ballata popolare è il «genere» che consola il lettore per la sua intonazione, se non con il suo contenuto narrativo. Una buona lirica è l’unica assicurazione che un soccombente riesce a riscuotere.

«Ballata» viene dal verbo «ballare»; e in una ballata, in un certo senso, tutto è danza, tutto balla e ammicca all’ascoltatore o al lettore: il tema, il significato e, più ancora, il metro. Poiché in generale ha per tema la violenza e la resa dei conti, la ballata è normalmente coincisa nell’esposizione e molto perentoria nel dénouement, nel suo scioglimento finale. Il nostro poeta, sovvertendo questo genere per piegarlo all’intento lirico, vi lascia vibrare l’eco sconvolgente di una danse macabre tudoriana. Quanto più forte è l’accento lirico, tanto più le dita del lettore sono portate a battere il tempo. Sono molto drammatiche, queste poesie; e non c’è da stupirsene, poiché spesso sono i frutti secondari, se così vogliamo chiamarli, della vasta attività teatrale cui Auden si dedicò negli anni Trenta in collaborazione con Christopher Isherwood. Ciò non toglie nulla alla loro autonomia, che è fuori questione, e al loro timbro, che è tagliente. Con l’asciutta precisione delle loro immagini e la semplicità della dizione, esse appartengono per natura al palcoscenico; ma l’intensità del sentimento era già un motivo più che sufficiente a metterle in corsa per la copertina di un libro.

Benché siano in effetti un diversivo rispetto ala sua attività principale, queste poesie offrono un’ottima occasione per dare una prima occhiata a colui che è stato, senza alcun dubbio, il più grande poeta inglese di questo secolo:  un’affermazione che si può fare con la coscienza tranquilla, ora che il secolo ha davanti a sé soltanto sei anni. Vi potrà capitare certamente, di sentire opinioni differenti, ma dovette fidarvi dei vostri occhi. La superiorità di Auden rispetto ai suoi contemporanei è ovvia nella sua maestria tecnica, nella sua cultura e nella sua capacità di penetrare a fondo nella condizione umana. ma è soprattutto evidente nell’enorme generosità del suo spirito e nell’intelligenza con cui viene incontro al lettore in ognuno (non è un’esagerazione) dei suoi versi.

Anche nei suoi momenti più bui Auden vi illumina e vi scalda il cuore. Per quanto il libro sia smilzo, nel chiuderlo sentirete e vi direte non quanto è grande questo poeta, ma quanto umani siete voi. Le sue poesie sono totalmente immuni da qualsiasi posa, e non vi parlano del poeta e dei suoi travagli ma vi dicono se potete farcela… le poesie di Auden rendono più accettabile questa vita. Il dono di creare un tale effetto è raro nel nostro mondo, e conviene approfittarne. Evidentemente, composto come noi «of Eros and of Dust, /Beleaguered by the same negation and despair» (di Eros e di Polvere, / assediato dalla stessa negazione e disperazione), egli era migliore di tutti noi, poeti e non poeti. Non c’è alcun motivo, per noi, di non sopportare ciò che egli sopportava. Merita di essere ascoltato, e non ve ne pentirete; e anzi, sì, se si può accettare la morte, è perché lui è morto.

dalla Prefazione di Iosif Brodskij a W.H. Auden La verità, vi prego, sull’amore Adelphi, 1995

 

W.H. Auden with Cecil Day-Lewis and Stephen Spender

W.H. Auden with Cecil Day-Lewis and Stephen Spender

 Ha scritto di Auden Alfonso Berardinelli: «L’opera poetica di Auden ha una fluidità a volte oratoria e a volte colloquiale che già di per sé segna una svolta rispetto allo stile “modernistico”, concentrato, ascetico, spesso orfico, ontologico, caratteristico della generazione dei poeti che ha preceduto la sua. Anche come poeta e non solo come saggista, Auden è soprattutto un uomo che “parla”. Si potrebbe dire che la sua stessa poesia è in larga misura saggistica versificata e animata dall’energica regolarità degli schemi metrici.

“La poesia non è magia”, ha affermato. “Se si può attribuire alla poesia o a qualsiasi altra forma d’arte, uno scopo ulteriore, questo consiste nel disincantare e disintossicare, dicendo la verità”.

Il linguaggio poetico di Auden non aspira a essere un sostituto, un surrogato fonosimbolico della realtà. È piuttosto, del tutto consapevolmente, un commento alla realtà, più osservata a distanza, da fuori e dall’alto, che direttamente vissuta. Auden non è un poeta dell’essere,  un poeta del pensare (…) Nella poesia di Auden le parole non vogliono essere cose, né influire sulle cose. la coscienza della separazione fa linguaggio e realtà è un presupposto che lo scrittore non dimentica mai. La poesia resta un evento del pensiero e del linguaggio; non cambia niente di esterno a sé. Pensieri e cose, lingua e mondo sono dimensioni parallele. (…) “i misconosciuti legislatori del mondo” scrisse “è una definizione che si attaglia ai membri della polizia segreta, non ai poeti”»

(A. B. in Casi critici Dal Post-moderno alla mutazione, Quodlibet, 2007,pp. 139.40)

 

W.H. Auden

W.H. Auden

O tell Me the Truth About Love

(Ditemi, vi prego, la verità sull’amore)

Some say that love’s a little boy,
And some say it’s a bird,
Some say it makes the world go round,
And some say that’s absurd,
And when I asked the man next-door,
Who looked as if he knew,
His wife got very cross indeed,
And said it wouldn’t do.

C’è chi dice che amore è un putto,
e altri che è un uccello,
altri dice che fa girare il mondo,
c’è chi dice sia un assurdo,
e quando ho chiesto a quello della porta accanto,
che sembrava ne sapesse,
a sua moglie andò di traverso
e disse che non ne sapeva niente.

Does it look like a pair of pyjamas,
Or the ham in a temperance hotel?
Does its odour remind one of llamas,
Or has it a comforting smell?
Is it prickly to touch as a hedge is,
Or soft as eiderdown fluff?
Is it sharp or quite smooth at the edges?
O tell me the truth about love.

Che assomiglia ad un pigiama,
o al salame in un hotel dabbene?
L’odore rammenterà il lama,
o avrà un odore confortevole?
Punge se lo tocchi come uno spino,
o è lieve come un abile piumino?
È affilato o liscio lungo gli orli?
Ditemi, vi prego, la verità sull’amore.

Our history books refer to it
In cryptic little notes,
It’s quite a common topic on
The Transatlantic boats;
I’ve found the subject mentioned in
Accounts of suicides.
And even seen it scribbled on
The backs of railway-guides.

I libri di storia ne parlano
in qualche criptica noticina,
ma è un argomento comune
a bordo delle navi da crociera;
ho visto dei cenni in qualche
cronaca dei suicidi,
e ci ho persino scritto sopra
sul retro degli orari ferroviari.

Does it howl like hungry Alsatian,
Or boom like a military band?
Could one give a first-rate imitation
On a saw or a Steinway Grand?
Is its singing at parties a riot?
Does it only like Classical stuff?
will it stop when one wants to be quiet?
O tell me the truth about love.

ulula come un cane alsaziano,
o come l’esplosione di una banda militare?
Si può farne una discreta imitazione
su una sega o uno Steinway da concerto?
È il suo canto alle feste un fracasso?
O amerà soltanto il classico?
Si fermerà quando si vuole stare in pace?
Ditemi, vi prego, la verità sull’amore.

I looked inside the summer-house;
It wasn’t ever there:
I tried the Thames at Maidenhead,
And Brighton’s bracing air.
I don’t know the blackbird sang,
Or what the tulip said;
But it wasn’t in the chicken-run,
Or underneath the bed.

Sono andato a sbirciare nel bersò;
non c’era mai stato lì;
l’ho cercato sul Tamigi e a Maidenhead,
e per l’aria frizzante di Brighton.
Non so che cosa cantasse il merlo,
o cosa dicesse il tulipano;
non era neanche nascosto nel pollaio,
o sotto il letto.

Can it pull extraordinary faces?
Is it usually sick on a swing?
Does it spend all its time at the races,
Or fiddling with pieces of string?
Has it views of its own about money?
Does it think Patriotism enough?
Are its stories vulgar but funny?
O tell me the truth about love.

Può fare smorfie strabilianti?
si sente sempre male su un’altalena?
Trascorre tutto il tempo alle corse,
o a strimpellare su corde scordate?
Avrà una sua opinione sul denaro?
Pensa da patriota, o no?
Sono le sue storie volgari o allegre?
Ditemi, vi prego, la verità sull’amore.

When it comes, will it come without warning
Just as I’m picking my nose?
Will it knock on my door in the morning,
Or tread in the bus on my toes?
Will it come like a change in the weather?
Will its greeting be courteous or rough?
Will it alter my life altogether?
O tell me the truth about love.

Quando viene, viene senza preavviso,
proprio quando ho le mani nel naso?
Busserà di mattina alla mia porta,
o mi schiaccerà il piede nel bus?
Verrà come un mutamento nel tempo?
Sarà cortese o rozzo il suo saluto?
Muterà il corso della mia vita?
Ditemi, vi prego, la verità sull’amore.

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TRE POESIE SUL VIAGGIO Iosif Brodskij (1940-1996) ” Odisseo a Telemaco” e Costantino Kavafis (1863-1933) “Itaca” Wystan H. Auden “Musée des beaux arts” (1907-1973)

Escher Maurits Cornelis passeggiata

Escher Maurits Cornelis passeggiata

Iosif Brodskij

Iosif Brodskij

Iosif Brodskij

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.

Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.

Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(1972, da Fermata nel deserto, traduzione di Giovanni Buttafava)

iosif brodskij sulla scrivania

ОДИССЕЙ ТЕЛЕМАКУ

Мой Tелемак,
Tроянская война
окончена. Кто победил – не помню.
Должно быть, греки: столько мертвецов
вне дома бросить могут только греки…
И все-таки ведущая домой
дорога оказалась слишком длинной,
как будто Посейдон, пока мы там
теряли время, растянул пространство.

Мне неизвестно, где я нахожусь,
что предо мной. Какой-то грязный остров,
кусты, постройки, хрюканье свиней,
заросший сад, какая-то царица,
трава да камни… Милый Телемак,
все острова похожи друг на друга,
когда так долго странствуешь; и мозг
уже сбивается, считая волны,
глаз, засоренный горизонтом, плачет,
и водяное мясо застит слух.
Не помню я, чем кончилась война,
и сколько лет тебе сейчас, не помню.

Расти большой, мой Телемак, расти.
Лишь боги знают, свидимся ли снова.
Ты и сейчас уже не тот младенец,
перед которым я сдержал быков.
Когда б не Паламед, мы жили вместе.
Но может быть и прав он: без меня
ты от страстей Эдиповых избавлен,
и сны твои, мой Телемак, безгрешны.

Costantino Kavafis

Costantino Kavafis

Costantino Kavafis
Itaca

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d’incontri
se il pensiero resta alto e il sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga
che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche aromi
penetranti d’ogni sorta, più aromi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca
– raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo,per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.

Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

Kavafis

Kavafis

 ΙΘΑΚΗ

Σα βγεις στον πηγαιμό για την Ιθάκη,
να εύχεσαι νάναι μακρύς ο δρόμος,
γεμάτος περιπέτειες, γεμάτος γνώσεις.
Τους Λαιστρυγόνας και τους Κύκλωπας,
τον θυμωμένο Ποσειδώνα μη φοβάσαι,
τέτοια στον δρόμο σου ποτέ σου δεν θα βρείς,
αν μέν’ η σκέψις σου υψηλή, αν εκλεκτή
συγκίνησις το πνεύμα και το σώμα σου αγγίζει.
Τους Λαιστρυγόνας και τους Κύκλωπας,
τον άγριο Ποσειδώνα δεν θα συναντήσεις,
αν δεν τους κουβανείς μες στην ψυχή σου,
αν η ψυχή σου δεν τους στήνει εμπρός σου.
.
Να εύχεσαι νάναι μακρύς ο δρόμος.
Πολλά τα καλοκαιρινά πρωϊά να είναι
που με τι ευχαρίστησι, με τι χαρά
θα μπαίνεις σε λιμένας πρωτοειδωμένους·
να σταματήσεις σ’ εμπορεία Φοινικικά,
και τες καλές πραγμάτειες ν’ αποκτήσεις,
σεντέφια και κοράλλια, κεχριμπάρια κ’ έβενους,
και ηδονικά μυρωδικά κάθε λογής,
όσο μπορείς πιο άφθονα ηδονικά μυρωδικά·
σε πόλεις Αιγυπτιακές πολλές να πας,
να μάθεις και να μάθεις απ’ τους σπουδασμένους.
.
Πάντα στον νου σου νάχεις την Ιθάκη.
Το φθάσιμον εκεί είν’ ο προορισμός σου.
Αλλά μη βιάζεις το ταξίδι διόλου.
Καλλίτερα χρόνια πολλά να διαρκέσει·
και γέρος πια ν’ αράξεις στο νησί,
πλούσιος με όσα κέρδισες στον δρόμο,
μη προσδοκώντας πλούτη να σε δώσει η Ιθάκη.
.
Η Ιθάκη σ’ έδωσε το ωραίο ταξίδι.
Χωρίς αυτήν δεν θάβγαινες στον δρόμο.
Αλλο δεν έχει να σε δώσει πια.
.
Κι αν πτωχική την βρεις, η Ιθάκη δεν σε γέλασε.
Ετσι σοφός που έγινες, με τόση πείρα,
ήδη θα το κατάλαβες η Ιθάκες τι σημαίνουν.
.  

Auden with Cecil Day-Lewis and Stephen Spender

Auden with Cecil Day-Lewis and Stephen Spender

Wystan H. Auden

Musée des Beaux Arts

About suffering they were never wrong,
The old Masters: how well they understood
Its human position: how it takes place
While someone else is eating or opening a window or just walking dully along;
How, when the aged are reverently, passionately waiting
For the miraculous birth, there always must be
Children who did not specially want it to happen, skating
On a pond at the edge of the wood:
They never forgot
That even the dreadful martyrdom must run its course
Anyhow in a corner, some untidy spot
Where the dogs go on with their doggy life and the torturer’s horse
Scratches its innocent behind on a tree.


In Breughel’s Icarus, for instance: how everything turns away
Quite leisurely from the disaster; the ploughman may
Have heard the splash, the forsaken cry,
But for him it was not an important failure; the sun shone
As it had to on the white legs disappearing into the green
Water, and the expensive delicate ship that must have seen
Something amazing, a boy falling out of the sky,
Had somewhere to get to and sailed calmly on.

W.H. Auden

W.H. Auden

Sul dolore la sapevano lunga,
gli Antichi Maestri: quanto ne capivano bene
la posizione umana; come avvenga
mentre qualcun altro mangia o apre una finestra o se ne va a zonzo spensierato;
come, quando gli anziani aspettano riverenti, con fervore,
la miracolosa nascita, debba sempre esserci
qualche bambino che non l’avrebbe voluta e pattina
su un laghetto alle soglie del bosco:
non dimenticavano mai
che anche l’orrendo martirio deve compiere il suo corso
comunque in un angolo, in un sudicio luogo
dove i cani fanno la loro vita da cani e il cavallo del torturatore
si gratta l’innocente didietro contro un albero.

Nell’Icaro di Bruegel, per esempio: come ogni cosa ignora
serena il disastro! L’aratore può
aver udito il tonfo, il grido desolato,
ma per lui non era una perdita grave; il sole splendeva
come doveva sulle bianche gambe inghiottite dalle verdi
acque; e la ricca ed elegante nave che doveva aver visto
una cosa incredibile, un ragazzo cadere dal cielo,
aveva una meta e via passava placida.

(in Another time, 1940)

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LA MEDITAZIONE POETICA DI WALLACE STEVENS (1879-1955). Due poesie da “Note verso la finzione suprema” PROGETTO UMANO E ‘PROGETTO DEL SOLE’ di Franco  Toscani

wallace stevens

wallace stevens

 da Note verso la finzione suprema, Titolo originale Notes toward a supreme fiction (1942)  trad. Nadia Fusini

IX

The poem goes from the poet’s gibberish to
The gibberish of the vulgate and back again.
Does it move to and fro or is it of both

At once? Is it a luminous flittering
Or the concentration of a cloudy day?
Is there a poem that never reaches words

And one that chaffers the time away?
Is the poem both peculiar and general?
There’s a meditation there, in which there seems

To be an evasion, a thing not apprehended or
Not apprehended well. Does the poet
Evade us, as in a senseless element?

Evade, this hot, dependent orator,
The spokesman at our bluntest barriers,
Exponent by a form of speech, the speaker

Of a speech only a little of the tongue?
It is the gibberish of the vulgate that he seeks.
He tries by a peculiar speech to speak

The peculiar potency of the general,
To compound the imagination’s Latin with
The lingua franca et jocundissima.

IX

Dal farfuglio del poeta al farfuglio
Del volgare va la poesia avanti e indietro.
Va e poi torna, o è insieme

In entrambi? E’ un lampo improvviso,
O il concentrato bagliore di un giorno piovoso?
Esiste una poesia che mai giunge alla parola

E una che vaneggia impaziente?
La poesia è sia particolare che generale?
C’è una riflessione qui, che appare

Come un’evasione, una cosa che non si comprende
O non si comprende bene. Ci sfugge forse
Il poeta, in un elemento che non s’afferra?

Ci sfugge, questo ardente, asservito oratore,
Il portavoce delle nostre barriere più ottuse,
Esponente per virtù di parola, l’attore

Di una parola solo in parte lingua comune?
E’ l’oscuro farfuglio del volgare che cerca.
Vorrebbe, grazie ad una parola speciale, dire

La speciale potenza del generale.
Combinare il latino dell’immaginazione
Con la lingua franca et jocundissima.

wallace stevens harmonium

X

A bench was his catalepsy, Theatre
Of Trope. He sat in the park. The water of
The lake was full of artificial things,

Like a page of music, like an upper air,
Like a momentary color, in which swans
Were seraphs, were saints, were changing essences.

The west wind was the music, the motion, the force
To which the swans curveted, a will to change,
A will to make iris frettings on the blank.

There was a will to change, a necessitous
And present way, a presentation, a kind
Of volatile world, too constant to be denied,

The eye of a vagabond in metaphor
That catches our own. The casual is not
Enough. The freshness of transformation is

The freshness of a world. It is our own,
It is ourselves, the freshness of ourselves,
And that necessity and that presentation

Are rubbings of a glass in which we peer.
Of these beginnings, gay and green, propose
The suitable amours. Time will write them down.

X

Una panca faceva da palco al suo trance, Teatro
Del Tropo. Sedeva nel parco. L’acqua
Del lago era piena di segni artificiali,

Come uno spartito, un’aria più rarefatta,
Un’atmosfera fugace, in cui cigni diventavano
Serafini, santi, mutevoli essenze.

Il vento d’occidente era la musica, il moto, l’energia che spingeva
I cigni in curve lente, una volontà di mutamento,
Una volontà di disegnare volute nel vuoto.

C’era una volontà di mutamento, una necessità,
Un’urgenza, un’offerta, una specie di mondo volatile,
Troppo coerente per essere negata,

L’occhio d’un vagabondo in metafore,
Che ci cattura. Ma il caso non basta.
Il vigore della trasformazione è

Il vigore di un mondo. È il nostro,
Siamo noi, il nostro stesso vigore,
E quella necessità e quell’offerta

Sono i graffi sul vetro appannato da cui spiamo.
Di questi inizi, ingenui e gioiosi, presenta
I confacenti amori. Il tempo li tradirà.

1. ‘Suprema finzione’ e incanto del mondo. Il romantico

Sugli uomini la pressione della realtà rischia di diventare talmente intollerabile e oppressiva da impedire ogni effettiva capacità di distacco, autonomia e contemplazione. Il poeta, come fratello e amico degli altri mortali (un amico particolarmente affettuoso e soccorrevole), deve essere in qualche modo capace di sottrarsi a tale pressione, alla sua cogenza e violenza, ma al tempo stesso egli è parte del reale, la grandezza della poesia non conduce certo a negare il valore e lo spessore della realtà. Anzi, come “ambasciatore dell’immaginazione”, il poeta ha un unico compito, scrive Wallace Stevens (1879-1955) nel saggio Imagination as value (1949): “i grandi poemi del paradiso e dell’inferno sono già stati scritti, ma rimane da scrivere il grande poema della terra” (AN 216).

????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????? Non si può dire che Stevens non avesse, anche come uomo e nel suo lavoro, un senso solido della realtà. Com’è noto, il grande poeta americano fece un’importante carriera dirigenziale ad Hartford nel Connecticut, in cui risiedette per tutta la vita e da cui si allontanò pochissimo, solo per motivi di lavoro, per brevi vacanze in Florida o per rapide scappate nelle librerie e gallerie di New Jork. Egli divenne vicepresidente di una delle massime compagnie di assicurazione americane, la “Hartford Accident and Indemnity Company” (il suo ramo specifico professionale era l’assicurazione del bestiame trasportato al mercato), dove lavorò sino agli ultimi anni di vita. A proposito del suo rapporto col denaro, c’è un epigramma dal significato inequivocabile: “Money is a kind of poetry” (OP 165, AN 16).

Wallace-Stevens-Walk-Blackbird-1 Ora, Stevens riuscì a coniugare questo suo pragmatismo tipicamente americano a una straordinaria, vitalissima e feconda passione poetica. Il senso della realtà, per non scadere a realismo cinico e opportunistico, non può non risolversi – pensiamo qui al Musil de L’uomo senza qualità – nel senso della possibilità: a questo serve, fra l’altro, l’immaginazione poetica.
Wallace-Stevens-Quotes-1 Stevens distingue tra l’“evasione in senso peggiorativo” o elusione (che si ha quando il poeta è slegato dalla realtà e l’immaginazione non aderisce ad essa) e l’ “illusione benigna” (la “suprema finzione” della poesia), che arricchisce il mondo e aiuta tutti gli uomini a pensare e a vivere (cfr.AN 38,104-7;CP 120,L 402-3). A questo proposito Massimo Bacigalupo ha osservato che la “suprema finzione” stevensiana può essere utilmente messa in relazione al grande tema leopardiano dell’ “illusione” (cfr. AN 26). Per Leopardi, tutto il bello e il buono di questo mondo sono “pure illusioni”, senza le quali però non vi può essere poesia e si afferma la barbarie tra i popoli . Egli scrive nello Zibaldone : “Pare un assurdo, e pure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni. (…) in ogni sentimento dolce e sublime entra sempre l’illusione, ch’è il più acerbo dolore il vedersi togliere e svelare” (Z 56). Per lui, il vero filosofo, che non è un illuso ed è lucido a proposito del reale, ama le illusioni, al contrario del falso filosofo che le disprezza (cfr. Z 477).

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 Se gli uomini credessero di più in “supreme illusioni” o “enti immaginari” come la generosità, la sensibilità, la giustizia, la fedeltà, la corrispondenza di amorosi sensi, etc., per Leopardi nel mondo vi sarebbe certamente meno infelicità; gli uomini sensibili continuerebbero a seguire delle illusioni, “perché nessuna cosa è capace di riempier l’animo umano, ma non è meglio una vita con molti piaceri illusorii, che senza nessun piacere? non si vivrebbe meglio se nel mondo si trovassero queste illusioni più realizzate, e se l’uomo di cuore non si dovesse persuadere non solo che sono enti immaginari, ma che nel mondo non si trovano più neanche così immaginari come sono? in maniera che manchi affatto il pascolo e il sostegno all’illusione. E dall’altro lato, non c’è maggiore illusione ovvero apparenza di piacere che quello che deriva dal bello dal tenero dal grande dal sublime dall’onesto. Laonde quanto più queste cose abbondassero, sebbene illusorie, tanto meno l’uomo sarebbe infelice.” (Z 113-4).

Wallace-Stevens-Quotes-2 Pur disilluso e amaro sulla nostra condizione, Leopardi così non cessa di invitarci con forza a una vita più ricca e felice. Con l’immaginazione l’uomo coglie una seconda dimensione degli oggetti: “All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione.” (Z 1196).

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 A queste fini osservazioni di Leopardi fa eco Stevens, in Esthétique du mal (pubblicata nel 1945 in plaquette e poi raccolta nel volume del 1947 Transport to Summer ), allorché si sofferma sui rischi di immiserimento della percezione e di perdita della sensibilità corsi dallo sguardo superficiale dei realisti incapaci d’incanto: “Perdere sensibilità, vedere quel che si vede,/ come se la vista non avesse le sue accortezze miracolose,/ udire solo ciò che si ode, un solo significato,/ come se il paradiso del significato cessasse/ di essere paradiso, questo vuol dire immiserirsi./ Questo è il cielo spogliato delle sue fontane” (H 378-9).
L’invito è qui esplicito al pieno dispiegamento e all’esercizio di quei sensi umani “educati e raffinati” che valorizzava Ludwig Feuerbach nel secolo XIX. Continua a leggere

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Wallace Stevens (1879-1955) “Sunday Morning”(Mattino domenicale, 1924) – Commento di Giorgio Linguaglossa, traduzione di Massimo Bacigalupo

wallace stevens sunny-breakfast

  In un articolo del 30 luglio 1992 apparso su la Repubblica Alfredo Giuliani scriveva: «Nei primi versi di Mattino domenicale l’autore ambienta la situazione e disegna uno stato d’animo. Ne deduciamo che lei quella mattina s’è compiaciuta di far tardi, non è andata in chiesa, e per un po’ si sente a suo agio, come se l’angoscia cristiana del rito della messa (“sacrificio e resurrezione”) si fosse dissipata. Ma poi comincia un intenso dialogo di toni alti, tra lei e lui, pro e contro la religione. L’attacco era stupendo:

Complacencies of a peignoir, and late
coffee and oranges in a sunny chair,
and the green freedom of a cockatoo…

Poggioli traduceva “Lusinghe di vestaglia”; bello ma una forzatura, si attribuiva al peignoir  un atteggiamento compiacente di colei che lo indossa. In seguito un altro traduttore cercò di cavarsela con un calco: “Compiacimenti del peignoir”. Ora, il carattere particolare di quell’attacco è nell’uso deliberato di due parole inglesi di stampo francese, e lo stretto accostamento produce un effetto irriproducibile in italiano».

Io, approfittando della parentela tra il lessico italiano con quello francese tenterei quest’altra traduzione:

Complacencies di un peignoir, e a tardo mattino
caffè ed arance su una sedia soleggiata
e la verde libertà di un pappagallo

Wallace Stevens Coffee Oranges

 Il poemetto ha inizio con alcuni indizi di una natura morta piena di colori: c’è un «pegnoir», una «sedia soleggiata», un verde pappagallo, «caffè ed arance», e la descrizione di una ricca signora di condizione borghese seduta nel suo giardino una domenica mattina colta mentre esprime felicità e benessere per il lusso e le belle cose che la vita le offre. Nella prima strofe è detto chiaramente della vita ricca e della bellezza naturale del luogo che dissipa «the holy hush of ancient sacrifice». La signora sta fantasticando, ed avverte tutta la mostruosità dell’interferenza da parte della morte nel processo della vita. Anche il fraseggio stilistico vuole accentuare la soddisfazione dello sguardo e dei pensieri della signora borghese nei confronti della bellezza della vita e della natura mediante una mal dissimulata onustà del dettato. Si evince la sua naturale ritrosia per  « The holy hush of ancient sacrifice» e per la assurde pratiche religiose ad esso connesse.

Wallace-Stevens-mind-Meetville-Quotes  Sunday Morning si presenta come una raffigurazione pittorica, come un polittico della borghese incredulità nell’ombroso dio colui che dispone del «Dominion of the blood and sepulchre». L’attrice del quadro è lì, colta all’improvviso, in un momento di distrazione, di indugio recalcitrante, forse. Ha fatto tardi a recarsi alla messa del mattino, una improvvisa e imprevista languidezza le ha fatto perdere tempo, forse il subconscio le detta questo ritardo inspiegabile rispetto agli obblighi societari borghesi del rito mattutino della messa. Pochi tocchi, pennellate essenziali: «caffè e arance su una sedia soleggiata», con quell’ammicco alla «verde libertà di un pappagallo» In questi primi tre versi abbiamo il quadro completo con i suoi colori primaverili e una inquietudine appena accennata e subito rimossa tra la «verde libertà» del pappagallo e la crisi della signora borghese alla ricerca di una « imperishable bliss» (da notare la raffinatissima coloritura ironica di quest’aggettivo). Lei sogna «She dreams a little, and she feels the dark / Encroachment of that old catastrophe»; «antica catastrofe» come tradurrei io, ma accettiamo «antico sacrificio» come traduce Bacigalupo. Si evince da subito la dicotomia antinomia tra la «verde libertà del pappagallo» e il «Dominion of the blood and sepulchre» (Dominio del sangue e del sepolcro).

 Wallace-Stevens Quotes Sunday morning è un poema in chiave meditativa su una figura femminile che consciamente rifiuta la credenza in una vita dell’al di là; è la vita di qua che ella desidera, anche se non «meaningful», anche se priva di  «imperishable bliss».

Nelle prime quattro strofe la signora borghese dichiara espressamente la sua propensione per le bellezze della vita, per la natura e la sua bellezza, e rigetta esplicitamente i dogmi della religione del sangue e della morte.

Wallace-Stevens-Quotes-2  A questo punto, però, interviene la voce narrante del poeta il quale interrompe la meditazione della signora per esporre la tesi secondo cui «beauty» è «death» e che la morte ha un ruolo supremo nel rivolgimento dell’essere. Ma l’argomentazione di Stevens è sibillina, è una confutazione della confutazione. Dapprima sembra voler confutare la meditazione della signora borghese, sembra parteggiare per  le ragioni che stanno alla base della religione della «morte» e del «sacrificio», ma in realtà il poeta si fa beffe del «heaven» e degli sforzi vani degli uomini per raggiungere quel luogo dove la vita non è più macchiata dalla morte, perché la vita è una buona cosa, e la morte, dalla quale la vita dipende, deve essere anch’essa una buona cosa, afferma con paradossale spirito umoristico Stevens. Cosa c’è nell’immaginario «paradiso»?, «no change of death», i fiumi scorrono verso nessun mare, i frutti maturi non cadranno mai dagli alberi, le immagini associate con la religione e la vita in un al di là, sono tristi e prive di vita.   Come si vede, una argomentazione dal duplice risvolto, che potrebbe apparire ambigua ma che in realtà è chiarissima ed esposta con un fraseggio colloquiale di grande compostezza e, direi, sostenutezza formale. In alcuni passaggi anche  il lessico di Stevens opta per il desueto e l’arcaico come per sottolineare l’austerità e l’importanza di quanto si viene dicendo. Per Stevens compito della poesia è quello di sostituire in qualche modo il ruolo svolto dalle religioni moderne nel fornire forma e significato alla vita umana («poetry and poets must take the place of religion and priests to provide form and meaning for human life»).

Faulkner, Others Get Book Awards

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 La terza strofe esalta la serena numinosità della religione pagana greco-romana attraverso la figura di Giove a fronte della più democratica religione cristiana; la quarta strofe segna invece il passaggio ad una maggiore consapevolezza: sia la religione pagana che quella cristiana sono opera del passato, sono tramontate per sempre. Nella quinta strofe di nuovo affiora il pensiero della morte e la signora è tentata dal bisogno di una duratura beatitudine. Ogni strofe introduce una variazione e una contraddizione rispetto alla precedente.

Uno dei punti più importanti della poetica di Stevens risiede nella convinzione che la bellezza è preda dell’attimo, della sua transitorietà. Tutti moriamo e tutto cambia, così l’idea della permanenza è una pessima e falsa idea, una illusione funesta che preannuncia l’altra grande illusione del «paradiso».  Cristianesimo, induismo e qualsiasi altra religione che si basi sulla permanenza è una illusione, frutto di un desiderio, una proiezione. La permanenza non è altro che il circolo di vita e morte. Religioni, miti, filosofie, culture sono tutte finzioni destinate ad essere dimenticate. Il poemetto vuole dirci qualcosa intorno alla gioia per la scoperta che l’uomo è un essere tendenzialmente e intimamente gioioso: « this happy creature-it is he that invented the Gods».

istevew001p1 Nella sesta stanza il poeta medita sul luogo chiamato «heaven»: “Is there no change of death in paradise? Does ripe fruit never fall?“. Se i fiumi scorrono ma non raggiungono gli oceani, se i frutti maturano ma non cadono dagli alberi, se c’è solo «beatitudine» e non il suo contrario che solo le darebbe significato e consistenza, ne dobbiamo dedurre che esso non sia propriamente questo luogo della eterna felicità, in esso sarebbe impossibile vivere, esistere, e sarebbe oltremodo noioso, insignificante soggiornarvi.

Wallace-Stevens-Quotes-1 Nella settima stanza Stevens descrive la religione del futuro, il nuovo paganesimo nel quale l’intero universo è fatto oggetto di adorazione, nel quale gli esseri umani saranno uniti in fratellanza, uniti nella convinzione che ogni uomo è transitorio, che anche Gesù  (Dio) è morto, è una figura storica e come tale anch’egli sottoposto alle leggi del mutamento e del ciclo vitale della natura. La conclusione è dichiaratamente panica, liberatoria, gioiosa: una voce si annuncia con queste parole alla signora borghese:

Lei ode, su quell’acqua senza suono,
una voce che annuncia: « La tomba in Palestina
non è un chiostro di spiriti indugianti,
ma la tomba di Gesù, in cui egli giacque ».
Viviamo in un vecchio caos del sole…

(Giorgio Linguaglossa)

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Sunday Morning (Mattino domenicale)

I.
Complacencies of the peignoir, and late
Coffee and oranges in a sunny chair,
And the green freedom of a cockatoo
Upon a rug mingle to dissipate
The holy hush of ancient sacrifice.
She dreams a little, and she feels the dark
Encroachment of that old catastrophe,
As a calm darkens among water-lights.
The pungent oranges and bright, green wings
Seem things in some procession of the dead,
Winding across wide water, without sound.
The day is like wide water, without sound.
Stilled for the passing of her dreaming feet
Over the seas, to silent Palestine,
Dominion of the blood and sepulchre.

I.
Compiacenze dell’accappatoio, caffè e arance,
a tarda mattina su una sedia al sole,
e la libertà verde di un cacatua
sul tappeto si coniugano per dissipare
la sospensione religiosa del sacrificio antico.
Lei sogna un poco, sente l’oscuro
peso dell’antica catastrofe, quasi
una bonaccia che oscura luci d’acqua.
Le arance pungenti e le ali luminose, verdi,
paiono oggetti in una processione di morti,
che s’inoltra su acque ampie, senza suono.
Il giorno è un’acqua ampia, senza suono,
calmata perché lei vada coi piedi sognanti
sopra i mari verso la silenziosa Palestina,
dominio del sangue e del sepolcro.

wallace stevens harmonium
II.
Why should she give her bounty to the dead?
What is divinity if it can come
Only in silent shadows and in dreams?
Shall she not find in comforts of the sun,
In pungent fruit and bright green wings, or else
In any balm or beauty of the earth,
Things to be cherished like the thought of heaven?
Divinity must live within herself:
Passions of rain, or moods in falling snow;
Grievings in loneliness, or unsubdued
Elations when the forest blooms; gusty
Emotions on wet roads on autumn nights;
All pleasures and all pains, remembering
The bough of summer and the winter branch.
These are the measure destined for her soul.

II.
Perché dovrebbe dare le sue sostanze ai morti?
Cos’è la divinità se giunge solo
nei sogni e in ombre silenziose?
Non troverà forse nel conforto del sole,
In frutti pungenti e ali verdi, luminose,
o in ogni balsamo e bellezza della terra
Cose da amare come il pensiero del cielo?
La divinità vivrà dentro di lei:
passioni di piogge, umori di nevicate,
dolori in solitudine o esaltazioni incontrollate
quando il bosco è in boccio; folate d’emozioni
su strade roride nelle notti autunnali;
tutti i piaceri e le pene, ricordando
la fronda estiva e il ramo dell’inverno.
Queste le misure destinate a lei, all’anima.

Portrait of Wallace Stevens Wearing a Suit
III.

Jove in the clouds had his inhuman birth.
No mother suckled him, no sweet land gave
Large-mannered motions to his mythy mind.
He moved among us, as a muttering king,
Magnificent, would move among his hinds,
Until our blood, commingling, virginal,
With heaven, brought such requital to desire
The very hinds discerned it, in a star.
Shall our blood fail? Or shall it come to be
The blood of paradise? And shall the earth
Seem all of paradise that we shall know?
The sky will be much friendlier then than now,
A part of labor and a part of pain,
And next in glory to enduring love,
Not this dividing and indifferent blue.

III.
Giove ebbe un parto inumano fra le nuvole.
Nessuna madre l’allattò, né terra dolce diede
movenze ampie alla sua mente mitica.
Passò fra noi, come un re bofonchiante,
magnifico, passerebbe fra i vassalli,
finché il nostro sangue, unendosi, virgineo,
al cielo esaudì il desiderio a tal punto
che anche i vassalli lo videro, in una stella.
Fallirà il nostro sangue? O diverrà
sangue del paradiso? E sembrerà
la terra tutto il paradiso che sapremo?
Il cielo sarà molto più amichevole che ora,
parte fatica e parte anche pena,
secondo in gloria all’amore duraturo:
non questo blu indifferente e divisorio. Continua a leggere

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