
Wallace Stevens. Photo of Robert Frost and Stevens at the Casa Marina Hotel in Key West, ca. 1940
- ‘Prima idea’ e critica della ‘pathetic fallacy‘
La lingua, nel suo dire essenziale, intende far parlare le cose stesse, di cui “dice” anche il suono e il colore. Nelle poesie e nei saggi pubblicati in The necessary angel il nesso fra poesia, musica e pittura appare molto stretto ed è più volte ribadito. Scrive ad esempio Stevens: “in poesia le parole, più di ogni altra cosa, sono suoni” ( cfr. AN 107-8,114). E di “dimensione musicale del colore” si è parlato a proposito di Harmonium [1] . Giustamente Fusini, nel suo saggio introduttivo alle Notes , ha osservato che nel poeta americano l’arco acustico è a fondamento dell’arco semantico, “prevale un alfabeto di suoni, soglia preliminare a ogni costituzione in lingua” (N 9,11).
La poesia-immaginazione è “pensiero pulsante nel cuore” che “grazie al candore, ci dà sempre di nuovo la forza/ di ritrovare di ogni cosa l’immacolata natura” (N 62-3), dice le emozioni e i sentimenti di cui l’umanità è sempre stata povera (cfr. Large red man reading , H 512-3, AA 72-3) , non permette che le cose anneghino nell’indifferenza e nello squallore del mondo.
La poesia parte dal disincanto circa la nostra presunta centralità nel mondo: “Di qui sgorga la poesia: viviamo in un luogo/ che non è nostro, e, molto di più, non è noi,/ ed è cosa crudele malgrado i giorni di gloria” (N 64-5). Anziché la nostra centralità, troviamo il centro informe e fangoso, il “muddy center” da cui proveniamo e al quale siamo destinati.
Siamo sorpresi e sconcertati: “ La vita insensata ci trafigge coi suoi misteriosi rapporti” (N 62-3). Nella poesia Nuances of a Theme by Williams (compresa nella raccolta Harmonium , 1923), il poeta scrive contro ogni ipotesi di umanizzazione della natura, rivolto ad una “ancient star”: “Splendi sola, splendi nuda, splendi come il bronzo/ che non riflette il mio volto né alcuna interiorità / del mio essere, splendi come fuoco, che non riflette nulla./ Non partecipare ad alcuna umanità/ che ti soffonda della propria luce./ Non essere chimera del mattino,/ mezzo uomo, mezzo stella./ Non essere un’intelligenza,/ come l’uccellino di una vedova/ o un cavallo vecchio” (H 28-9, 615).
Come ha notato Fusini, v’è una nostalgia dell’origine in Stevens, ma in lui il principio non è logico e razionale, l’esperienza umana è sempre in riferimento al nulla d’esperienza e a quell’ arché alogos da cui dipende.
La mente non è all’origine della creazione dell’idea. Stevens vuole risalire alla “prima idea” che permetta l’apertura dello sguardo autentico sulle cose: “Com’è terso il sole se visto nell’idea,/ purificato nella remota chiarità di un cielo/ liberatosi delle nostre immagini e di noi…/ (…) C’era un progetto del sole e c’è ancora./ C’è un progetto del sole. Il sole, ghirigoro d’oro,/ non sopporta alcun nome, ma è/ nella difficoltà di ciò che essere è” (N 58-9).

wallace stevens
Guardando il sole nella sua nudità essenziale, il poeta trova finalmente il centro che cercava, la ragione del mondo. Pensando il mondo senza il superfluo delle maschere umanistiche, si diventa “a thinker of the first idea” (N 70-1, L 426).
L’astrazione consiste allora nell’accogliere il sole come “prima idea”, senza sovrapporre ad essa l’ “umano, troppo umano”. Il progetto del sole sovrasta, determina e condiziona ogni progetto umano. Ciò in cui noi siamo compresi, irrimediabilmente ci sfugge. Non viviamo in una terra cartesiana, il cielo non è il nostro specchio, come crede la pathetic fallacy degli uomini. Le nuvole, che “vennero prima di noi”, “sono parte di ciò che ci precede, parte del centro fangoso che c’era prima che respirassimo, parte del mito fisico prima che iniziasse il mito umano” (L 444): è questa l’ astrazione accessibile ai poeti.
Ora, il concetto di un Dio antropomorfo è al centro della “fallacia patetica”: “Un Dio antropomorfo è semplicemente una proiezione di se stessa fatta da una razza di egoisti, che è per loro naturale considerare sacra” ( cfr. L 349-350, 444; H 214-5, 630-1). Un “Dio troppo, troppo umano” impedisce di godere e di misurare la vita per quella che è (cfr. H 370-1). Se un Dio ci dev’essere, “deve dimorare quietamente”, “essere incapace di parlare”, muoversi silenzioso, come il sole o la luna, scrive Stevens nella poesia Less and Less Human, O Savage Spirit (1944, H 392-3), già dal titolo di sapore nietzscheano. Dio va piuttosto identificato con l’immaginazione che aiuta l’uomo a vivere meglio (cfr. Final Soliloquy of the Interior Paramour , H 570-1).
La metafisica ha completamente stravolto e capovolto le cose: “The adventurer/ In humanity has not conceived of a race/ Completely physical in a physical world” (H 386-7). La povertà maggiore è della metafisica, nonostante il suo solenne richiamo agli alti ed eterni valori. “La più grande povertà – scrive il poeta in questa stessa pagina di Esthétique du mal – è non vivere in un mondo fisico”, rappresentarsi un mondo dietro il mondo, rimanere irretiti nella pathetic fallacy .
All’inizio, però, il venir meno del mondo metafisico provoca sgomento e disperazione: “Che freddo baratro/ quando i fantasmi sono spariti e il realista turbato/ vede per la prima volta la real tà” (H 378-9). Ciò avviene soltanto all’inizio, non si resta paralizzati dal turbamento ; tutta la poesia di Stevens è un invito forte e costante ad andare oltre il “freddo baratro” per vivere in modo più ricco la realtà, anche e soprattutto grazie all’aiuto dell’immaginazione.
[1] Cfr. R.S. Crivelli, Stevens, grande poeta della luce e del colore ,ne “il sole-24 ore”, 9 ottobre 1994.


The Emperor Of Ice-Cream
Call the roller of big cigars,
The muscular one, and bid him whip
In kitchen cups concupiscent curds.
Let the wenches dawdle in such dress
As they are used to wear, and let the boys
Bring flowers in last month’s newspapers.
Let be be finale of seem.
The only emperor is the emperor of ice-cream.
Take from the dresser of deal.
Lacking the three glass knobs, that sheet
On which she embroidered fantails once
And spread it so as to cover her face.
If her horny feet protrude, they come
To show how cold she is, and dumb.
Let the lamp affix its beam.
The only emperor is the emperor of ice-cream.
from « Harmonium »
L’imperatore del sorbetto
All’arrotolatore di sigari giganti,
quel tutto muscoli, digli di sbattere
in tazze da cucina concupiscenti panne.
Si gingillino le donnette nella veste
che usano indossare e rechino i ragazzi
fiori avvolti in giornali del mese passato.
Sia l’essere il finale dell’aspetto.
Il solo imperatore è l’imperatore del sorbetto.
Prendi dalla cassettiera di abete, senza più
i tre pomelli di vetro, quel lenzuolo
dove una volta lei ricamò delle colombe
e stendilo fino a ricoprirle la faccia.
Se ne spuntano piedi e calli, sarà
per mostrare com’è fredda, com’è muta.
E che affissi la lampada il suo getto.
Il solo imperatore è l’imperatore del sorbetto.
da « Harmonium », traduzione di Giovanni Giudici


Notes Toward a Supreme Fiction
to Henry Church
And for what, except for you, do I feel love?
Do I press the extremest book of the wisest man
Close to me, hidden in me day and night?
In the uncertain light of single, certain truth,
Equal in living changingness to the light
In which I meet you, in which we sit at rest,
For a moment in the central of our being,
The vivid transparence that you bring is peace.
from « Transport to Summer »
Note per una finzione suprema
a Henry Church
E per cosa, se non per te, proverei amore?
Terrei il libro più estremo dell’uomo più saggio
stretto, in me nascosto, giorno e notte?
Nella luce incerta della verità singola, certa,
eguale nella vitale mutevolezza alla luce
in cui t’incontro, in cui sediamo quieti,
per un momento nel centro del nostro essere,
la trasparenza vivida che tu porti è pace.
da « Trasporto all’estate », traduzione di Glauco Cambon
It Must be Astract
(…)
IV
The first idea was not our own. Adam
In Eden was the father of Descartes
And Eve made air the mirror of herself,
Of her sons and of her daughters. They found themselves
In heaven as in a glass; a second earth;
And in the earth itself they found a green –
The inhabitants of a very varnished green.
But the first idea was not to shape the clouds
In imitation. The clouds preceded us.
There was a muddy centre before we breathed.
There was a myth before the myth began,
Venerable and articulate and complete.
From this the poem springs: that we live in a place
That is not our own and, much more, not ourselves
And hard it is in spire of blazoned days.
We are the mimics. Clouds are pedagogues.
The air is not a mirror but bare board,
Coulisse bright-dark, tragic chiaroscuro
And comic color of the rose, in which
Abysmal instruments make sounds like pips
Of the sweeping meanings that we add to them.
(…)
from « Transport to Summer »
Deve essere astratta
(…)
IV.
L’dea prima non era nostra. Adamo
nell’Eden era già padre di Cartesio,
ed Eva rese l’aria di se stessa specchio,
e dei suoi figli e figlie. Si trovarono
in cielo come in uno specchio; una seconda terra;
e nella terra trovarono un verde –
abitanti di un verde lucidissimo.
Ma l’idea prima non era di foggiare
le nubi a imitazione. Le nubi ci precorsero.
C’era un centro fangoso prima che respirassimo.
C’era un mito prima che iniziasse i mito,
venerabile, esplicito e completo.
Da questo nasce la poesia: che viviamo
in un luogo non nostro, e che non siamo noi,
ed è arduo, ad onta dei giorni d’orifiamma.
Noi siamo i mimi. Le nubi pedagoghe.
L’aria non è uno specchio ma lavagna nuda,
quinta fra luce ed ombra, tragico chiaroscuro
e comico colore della rosa, in cui
istrumenti abissali riducono a scricchi
i vasti significati onde li esorniamo.
(…)
da « Trasporto all’estate », traduzione di Glauco Cambon

wallace-stevens-riceve-un-premio-1951.j
Angel Surrounded by Paysans
One of the countrymen:
There is
A welcome at the door to which no one comes?
The angel:
I am the angel of reality,
Seen for a moment standing in the door.
I have neither ashen wing nor wear of ore
And live without a tepid aureole,
Or stars that follow me, not to attend,
But, of my being and its knowing,
I am one of you and being one of you
Is being and knowing what I am and know.
Yet I am the necessary angel of earth,
Since, in my sight, you see the earth again,
Cleared of its stiff and stubborn man-locked set
And, in my hearing, you hear its tragic drone
Rise liquidly in liquid lingerings,
Like watery words awash; like meanings said
By repetitions of half-meanings. Am I not,
Myself, only half a figure of a sort,
A figure half-seen, or seen for a moment, a man
Of the mind, an apparition apparelled in
Apparels of such lightest look that a turn
Of my shoulder and quickly, too quickly, I am gone?
from « The Auroras of Autumn »
Angelo circondato da paysans
Uno dei paesani:
C’è forse
un benvenuto alla porta a cui nessuno viene?
L’angelo:
Sono l’angelo della realtà,
visto un attimo affacciarsi sulla porta.
Non ho ala cinerea, né abito smagliante
e vivo senza una tiepida aureola
o stelle al mio seguito, non per servirmi,
ma, del mio essere e del suo conoscere, parti.
Sono uno come voi ed essere uno di voi
vale essere e sapere ciò che sono e so.
Eppure sono l’angelo necessario della terra,
poiché, nel mio sguardo, vedete la terra nuovamente,
spoglia della sua dura e ostinata maniera umana,
e, nel mio udire, udite il suo tragico rombo
liquidamente sollevarsi in liquidi indugi
come acquee parole nell’onda, come sensi detti
con ripetizioni e approssimazioni. Non sono forse,
anch’io, una sorta di figura approssimativa,
una figura intravista, o vista un istante, un uomo
della mente, un’apparizione apparsa in
apparenze tanto lievi a vedersi che se appena
volgo le spalle, subito, ahi subito, svanisco?
da « Le aurore d’autunno », traduz. di M. Bacigalupo
da Wallace Stevens, Harmonium, Poesie 1915 – 1955, a cura di Massimo Bacigalupo, Einaudi, Torino, 1994

Wallace Stevens
- Un giro attorno al lago
In The Snow Man (1921) l’uomo è l’ascoltatore del soffio del vento in un paesaggio invernale ; egli ha “a mind of winter” , “ascolta nella neve/ e, nulla in sé, vede/ nulla che non sia lì, e il nulla che è” (H 12-13). Ciò sembra molto nihilistico, ma non è così. Lo stesso Stevens rileva in una lettera del 1944 che The Snow Man va interpretato in senso positivo “come un esempio della necessità di identificarsi con la realtà in modo da capirla e goderla” (cfr. L 464; H 12-13,XI; MD 122-3). Le “rupi erose torreggianti sull’Atlantico” di una poesia come The Irish cliffs of Moher ( in The Rock , MM 34-35, H 552-3) sono per il poeta “come una ventata di libertà, un ritorno al mondo spazioso e solitario in cui un tempo esistevamo” (L 760).
In The Auroras of Autumn – ha osservato Fusini nella prefazione all’edizione italiana dell’opera, intitolata La passione del sì – le luci dell’aurora boreale sono “parte dell’innocenza della terra (…). Queste luci non vogliono nulla. Fanno parte, appunto, di una terra né benigna, né matrigna. Ma indifferente, di un’indifferenza che ci salva, tuttavia. Perché non vuole nulla da noi. Solo che stiamo raccolti in essa, come bimbi nel sonno. Il male e il bene non sono un’intenzione della terra” (cfr. AA 27-28,60-61; H 508-9,666, 368-9).[1]
Una volta liberato dalle pastoie metafisiche, “the pensive man” è “connoisseur of Chaos”, consapevole dell’unità del complesso e della complessità dell’unità (cfr. H 290-3, 641), dell’interrelazione universale che regge tutte le cose e in cui forse si risolve ciò che enfaticamente chiamiamo verità.
Il problema della verità viene da Stevens radicalmente reimpostato in maniera felicemente provocatoria: “Perhaps/ The truth depends on a walk around a lake” (“Forse/ la verità dipende da un giro sul lago”, N 70-71). Così il poeta getta la sua provocazione e il suo sberleffo alla metafisica. La verità è pure in un giro attorno ad uno specchio d’acqua, nell’abitare fra terra e cielo, senza andare a cercare tanto lontano ciò che ci è da sempre molto vicino e che spesso non riusciamo a riconoscere per quello che è. Ci sfugge la misura, ma la misura sta proprio nell’abitare qui sulla terra, nello spazio fra terra e cielo, accettando tutto ciò che questa esposizione significa.
L’esistenza umana è esposizione all’Aperto e nella sua essenza è rivolta alla cura della terra. La verità dell’uomo si risolve nel problema del suo abitare il mondo e morire. Data l’inseparabilità fra il conoscere e il vivere, decisiva si rivela la questione del luogo . In uno dei suoi Adagia pubblicati in Opus posthumous , Stevens ha scritto: “La vita è affare di persone, non di luoghi; ma per me è affare di luoghi ed è questo il problema” (OP 158; MM 14).
Allora la poesia sarà, nella sua essenza misurante, individuazione del luogo dell’abitare e la verità “sarà – scrive Fusini nel saggio introduttivo alle Notes – conoscenza rivolta al luogo, coinciderà con la ‘cura del luogo’ – come si dice in The rock. Il luogo non è semplice (pre)posizione; quell’ ex in cui l’uomo è esposto è la casa che dice la separazione, la differenza in cui l’uomo abita. La ricerca della realtà è cura di questa differenza, di ‘questo luogo, le cose dintorno’” (N 37).
La critica della pathetic fallacy conduce da un lato a un ridimensionamento dell’umano, a spodestare noi stessi dal trono del mondo che ci siamo arrogantemente costruiti; d’altro lato l’uomo, definito in Esthétique du mal “the soldier of time” (H 376-7), è pure, in un mondo che mondeggia privo di Fondamento metafisico, misura delle cose, nell’antico senso greco protagoreo e non ancora umanistico. In questo senso, nel saggio The relations between poetry and painting (compreso in The necessary angel ), Stevens scrive: “La verità più alta a cui possiamo aspirare, in ogni campo, è che la verità dell’uomo è la risoluzione finale di ogni cosa” (AN 247).[2]
In Chocorua to Its Neighbor (compresa in Transport to Summer ), la poesia tenta di dire l’umano, ma lo dice in un modo che sfugge completamente alle movenze e ai tratti caratteristici tanto dell’umanismo che assolutizza indebitamente l’uomo quanto di quell’anti-umanismo alla moda che finisce col dimenticare o trascurare ciò che è peculiare dell’uomo stesso, la sua essenziale dignità e povertà: “Dire cose più che umane con voce umana,/ non può essere; dire cose umane con voce/ più che umana, anche non può essere;/ parlare umanamente dall’altezza o dalla profondità delle cose umane, questo è il più acuto parlare” (H 354-5).
Sgombrato il campo dagli equivoci metafisici, ora “The imperfect is our paradise” ( The Poems of Our Climate , in Parts of a World , H 268-9), si ottiene “a new knowledge of reality” ( Not Ideas about the Thing but the Thing Itself , in The Rock , H 586-7, MM 112-3,220-1), il mondo non è più apparenza ingannevole, ma si risolve nella verità stessa (cfr. Landscape with Boat , in Parts of a World , H 310-3). Stevens si muove lungo la strada di un’integrale accettazione del mondo, compreso il suo dolore ineliminabile, sacro e verace (cfr. World without peculiarity , AA 148-151).

- Le tracce dei poeti. Stevens e Char
In un aforisma apparso in Opus posthumous Stevens scrive: “La grande conquista è la conquista della realtà” (OP 168, N 59). Forse, a questo punto della nostra ricerca, possiamo capire un po’ meglio quanto qui viene detto. Le poesie di Stevens, come ha ben rilevato Hayden Carruth nel 1952, sono “duri confronti con il reale” (cfr. AN 55), soltanto un poco alleviati dalla bellezza e dall’incanto della parola poetica, “finzione suprema”, appunto. Bisogna, credo, abbandonarsi completamente alla bellezza e alla stupefacente ricchezza delle innumerevoli immagini, metafore, figure, suggestioni che popolano i testi difficili del Nostro, a quel suo peculiare turbinio estetico che insieme rapisce il cuore e ci costringe a pensare radicalmente.
La poesia di Stevens si concepisce “parte della res”, ad esempio “parte del riverbero/ di una notte ventosa com’è”, vuole essere “poesia della pura realtà”, che cerca il “semplice vedere, senza riflessione. Non cerchiamo/ null’altro che la realtà. Dentro essa,/ tutto, comprese le alchimie/ dello spirito, compreso lo spirito che aggira/ e attraversa, non solo il visibile,/ il solido, ma il mobile, il momento,/ l’avvicendarsi delle feste e i costumi dei santi,/ l’ordito dei cieli e l’alta aria notturna” ( An Ordinary Evening in New Haven , in The auroras of autumn , H 532-5).
Il poeta è alla ricerca della realtà e in un tale compito, dissolte le nebbie metafisiche, l’apparenza si risolve nella realtà, il sembrare nell’essere: “E’ possibile che sembrare… sembrare è essere,/ come il sole è qualcosa che sembra ed è./ Il sole è un esempio. Ciò che sembra/ è, e in un tale sembrare tutte le cose sono” ( Description without Place , in Transport to Summer , H 400-1).
La poesia essenziale è l’ “armonia alta” che si pone “al centro delle cose”, in un rapporto strettissimo in cui, per così dire, la poesia diventa mondo e il mondo diventa poesia (cfr. AA 114-9). L’irreale della poesia deve essere creato a partire dal reale, tutta la forza e tutta la potenza dell’uomo immaginativo si sprigionano soltanto a partire dal reale stesso.

sunny-breakfast
La poesia è poesia della realtà nella sua piena libertà espressiva e formale; Stevens si premura di ribadire con forza l’autonomia dell’arte, la sua assoluta esigenza di non aderire acriticamente alla realtà, in particolare agli interessi e agli imperativi politici, sociali, ideologici, morali (cfr. L 402-3, AN 38-39, 103): “Il poeta rifiuta i compiti che altri gli hanno assegnato”, la poesia va valutata essenzialmente con criteri estetici e formali (cfr. AN 109, 176). Ciò non impedisce che vi possa essere un rapporto fruttuoso fra poesia e praxis , dove la poesia – come ha rilevato René Char – si propone come sguardo in avanti, parola che introduce “una salva d’avvenire”, “la vita futura all’interno dell’uomo riqualificato”.[3]
Il poeta attua per tutti una vigilanza strenua, insonne e inquieta, lascia tracce (“Solo le tracce fanno sognare”, per Char) che vanno individuate e interpretate per consentire gli scatti in avanti (il “bel caos”, diceva Nietzsche) dell’esistenza. La “energia dislocante” della poesia consente di istituire un nesso fragile, sempre pronto ad essere spezzato, fra poesia e politica, un nesso che lascia tuttavia sussistere la piena autonomia di entrambe. Cogliere questo nesso e insieme quest’aria di libertà è qui il problema.
In riferimento alla carica utopica contenuta nella poesia, Char ha scritto mirabilmente che essa “è l’amore realizzato del desiderio rimasto desiderio”.[4] Ciò probabilmente vuol dire non che è condannata alla sterilità e all’impotenza, ma che vi è una reciproca necessità e un reciproco richiamo fra poesia e azione, per cui la prima spinge verso un rinnovamento e un arricchimento di senso del reale, la seconda è indispensabile al necessario farsi-mondo della parola.
In qualche modo la parola, nel suo stesso appartenere al mondo, è pure creatrice di mondo, come scrive Stevens in Description without Place (1945): “la parola è la creazione del mondo,/ il mondo ronzante e il firmamento balbettante./ E’ un mondo di parole da cima a fondo,/ in cui nulla di solido è solidamente se stesso” (H 410-1).
E ancora, nella poesia An Ordinary Evening in New Haven : “le parole del mondo sono la vita del mondo” (H 536-7). L’uomo è il suo linguaggio, gli uomini sono “fatti di parole”, “la vita consiste/ di proposizioni sulla vita” (Men Made out of Words , 1946, H 424-5). Tale essenzialità del linguaggio, oggi compromessa e svilita dal chiacchiericcio mass-mediatico imperante nella nostra “società dello spettacolo”, è propria della poesia se essa è, secondo una bella definizione di Ezra Pound, “l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato”.[5]
Dopo aver citato Rimbaud, per il quale “La poésie ne rythmera plus l’action. Elle sera en avant”[6] , René Char ha scritto: “La poesia condurrà a vista l’azione, collocandosi avanti ad essa. L’essere-avanti presuppone tuttavia un allineamento angolare della poesia sull’azione, come un veicolo pilota aspira a breve distanza, grazie alla sua velocità, un secondo veicolo che lo segue. Gli apre la via, contiene la sua dispersione, lo nutre del suo slancio.”[7].
Per Char, la poesia è “un chant de départ” (“un canto di partenza”), “pensée chantée” (“pensiero cantato”), “tete chercheuse” (“testa ricercante”) che ha per suo corpo l’azione.[8] La rifrazione della poesia nello “specchio ardente e offuscato” dell’azione apporterà “le signe plus (+) à la matière abrupte de l’action”.[9] La poesia rifonda l’abitare, “non ritma più l’azione, ma va avanti per indicarle il cammino mobile. E’ per questo che la poesia giunge sempre in anticipo. Essa prepara l’azione e, grazie al suo materiale, costruisce la Casa, ma mai una volta per tutte.”.[10]

- Vigore della trasformazione e parola della povertà
Stevens canta l’indissolubile unità non statica, dinamica dell’io e della realtà: “Chi partecipa ha parte in ciò che lo muta” (N 86-87). Il radicale eraclitismo del poeta consiste nella convinzione secondo cui l’essere non si dà che nell’incessante divenire; tutto muta – le fanciulle, le colombe, le montagne -, il reale è costante metamorfosi, ogni staticità è relativa, tutto è incostante. Senza il mutamento che tutto distrugge e porta con sé non si dà vita umana, non si dà nuova nascita; morte e vita, creazione e distruzione sono inesorabilmente intrecciate, ma la vita tende sempre alla propria affermazione, ogni volta crea con la forza di chi deve lottare per sopravvivere, è sempre inizio, di cui la poesia come suprema finzione è parte.
Il poeta canta il vigore della trasformazione come vigore del mondo, forza dell’inizio che il tempo stimola, accresce e poi tradisce. Leggiamo ad esempio nelle Notes (non a caso nella sezione “It Must Change”) : “The freshness of transformation is/ The freshness of a world” (H 472-3). Il mutamento viene inteso in modo eracliteo come unione degli opposti: “ Due cose opposte sembrano dipendere/ l’una dall’altra, come l’uomo dalla donna,/ il giorno dalla notte, e dal reale/ l’immaginario. E’ qui l’origine del mutamento./ Inverno e primavera, freddi sposi, s’abbracciano,/ e ne sgorgano gli elementi della gioia” (H 462-3).
Nel suo stesso dar conto della realtà che incessantemente si trasforma, nel suo esprimere ciò che vediamo così come lo vediamo, la “finzione suprema” deve pure “dare piacere”. Per l’ “intelletto incandescente” di Stevens, la poesia è joie de vivre particolare che ha come riferimento una joie de vivre generale (cfr. L 404, AN 39, 134). “Alle fondamenta della poesia di S. – ha scritto Randall Jarrell sulla “Yale Review” nel 1955 – c’è meraviglia e diletto, la gioia del bambino o dell’animale o del selvaggio, la gioia dell’uomo nella sua stessa esistenza, e la gratitudine per essa” (cfr. H 671).
Siamo stranieri sulla terra, abitiamo un luogo che non è nostro, ma questo disincanto non è soltanto tragico. Lo spaesamento originario, preso sul serio, conduce a trovar casa in ogni luogo, permette l’abitazione dappertutto. Proprio il mancato possesso, l’impermanenza e la povertà originaria fanno sì che il viandante straniero trovi talvolta, nel suo errare, sollievo e conforto.
Nell’ultima fase della produzione di Stevens (specie in The Rock e nelle composizioni raccolte in Opus Posthumous ), uno dei temi che ricorrono più frequentemente è quello della povertà, di cui scrive il Nostro nella poesia To an Old Philosopher in Rome , dedicata a George Santayana, “negli ultimi anni agnostico ospite di un convento di suore a Roma” (H XVII) : “E’ la parola della povertà che più ci cerca./ E’ più antica della parola più antica di Roma” ( H 560-1, MM 54-55).

Coffee Oranges
La poesia, come canto della necessità, del dire essenziale e più dicente, è canto dell’amore e del dolore, del passare del tempo, del nesso indissolubile vita-morte e il poeta, vecchio e vigile, è impegnato a imparare a morire, a scegliere le parole più appropriate per il distacco definitivo: “una lingua per un calmo addio a se stesso, addio, addio,/ le pacate, beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette” ( The Sick Man , H 590-1, MM 116-7). E’ questo il canto della buona morte, che sopravviene a una vita buona e giusta.
Il punto di partenza, ribadisce Stevens in The Sail of Ulysses , è la povertà, lo stato di mancanza e di bisogno, la necessità (cfr. MM 152-3). Qui viene attribuito alla povertà un senso positivo; solo nel riconoscimento della povertà e a partire da essa nasce la ricchezza autentica dell’uomo. Il senso genuino della praxis va ricondotto alla povertà, allo stato di bisogno. “Need makes/ The right to use” (MM 152-3). Ecco perché Stevens scrive in The Auroras of Autumn che “La povertà s’addice al nocciolo saldo del cuore” (AA 78-79).
[1] Qui sovvengono i versi di Hoelderlin in Stimme des Volks (Voce del popolo ): “Indifferenti alla nostra saggezza/scroscian ben anche i fiumi, e tuttavia/ chi non li ama?”. Cfr. F. Hoelderlin, Poesie , cit., pp.64-65.
[2] Mi sembra che questa peculiare considerazione della “ verità dell’uomo” possa forse essere utilmente accostata a quella che si palesa nell’opera di Michel de Montaigne. Cfr. Sandro Mancini, Oh, un amico! In dialogo con Montaigne e i suoi interpreti, FrancoAngeli, Milano 1996.
[3] Cfr. R. Char, Sulla poesia , a cura di Gianluca Manzi, in “lengua” n.13, Crocetti editore,Milano 1993,pp. 94-95.
[4] Cfr. R. Char, Sulla poesia , cit.,p.94.
[5] Cfr. Cristina Campo, La Tigre Assenza ,a cura di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi,Milano 1991,p.240.
[6] Cfr. R. Char, “Réponses interrogatives à une question de Martin Heidegger”,in Oeuvres complètes , Gallimard, Paris 1983, pp.734-6.
[7] Cfr. R. Char, “Risposte interrogative ad una domanda di Martin Heidegger”, trad. it. in Gino Zaccaria, L’etica originaria. Hoelderlin, Heidegger e il linguaggio , Egea, Milano 1992,p.213.
[8] Cfr. G. Zaccaria, op. cit., pp.214, 216-7.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
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Franco Toscani, saggista e insegnante di Filosofia, vive e lavora a Piacenza, dove è nato nel 1955, è membro del comitato scientifico della sezione Emilia-Romagna dell’Istituto italiano di Bioetica, fa parte del consiglio di redazione della rivista “Testimonianze” ed è redattore della rivista “Filosofia e Teologia”. Co-autore nel volume di AA.VV., Vita e verità. Interpretazione del pensiero di Enzo Paci , a cura di S. Zecchi, Bompiani, Milano 1991. Ha introdotto vari libri di poesia e con G. Zambianchi ha curato il volume postumo di poesie di N. Vegezzi, Terra e carne d’amore , Grafic Art, Piacenza 1995. Nel 2003 ha pubblicato, presso l’editrice Blu di Prussia di Piacenza, una plaquette di poesie, dal titolo La benedizione del semplice (“Prefazione” di C. Sini).Ha collaborato a riviste e a giornali come “il manifesto”, “Quotidiano dei Lavoratori”, “Libertà”, “Il Nuovo Giornale”, “Unità Proletaria”, “In-oltre”, “La Balena Bianca”, “La tribù”, “aut aut”, “Alfabeta”, “Nuova Corrente”, “AlfaZeta”, “Studi Piacentini”, “Città in controluce”, ”dalla parte del torto”, “Qui – Appunti dal presente”,“Testimonianze”, “Filosofia e Teologia”, “Dharma”,”Odissea”, “Koiné”, “La clessidra”, “La Stella del Mattino”. E’ autore con S. Piazza del libro Cultura europea e diritti umani (Cleup, Padova 2003). Un suo saggio è contenuto nel volume di AA.VV., Il tempo e il soggetto (Cleup, Padova 2003), di cui è curatore insieme a G. Olmi e S. Piazza ; tre suoi saggi compaiono in AA.VV., Sulla via della polis infranta , a cura di S. Piazza, Cleup, Padova 2004. Nel 2004 ha curato con G. Zambianchi il volume La rivolta e l’incanto. Poesia, pittura e scultura in Nello Vegezzi ,Editrice Kairos, Piacenza. Del 2010 è il volume (co-autore S. Piazza) Fede e pensiero critico nell’età globale. Testimonianze per una civiltà planetaria, Cleup, Padova. Nel 2011, per le edizioni Odissea di Milano, pubblica i saggi Gandhi e la nonviolenza nell’era atomica e Luoghi del pensiero. Heidegger a Todtnauberg. Del 2012 è il libretto ‘L’azzurro della scuola degli occhi’. Terra e cielo di Hölderlin e di Heidegger, CFR, Piateda (So).
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La macchia è la «materia-immagine» della disintegrazione, l’idea della de-figurazione stessa del soggetto e dell’oggetto nel testo, tanto che a realizzare opere di de-figurazione attraverso una lingua-corpo è stato anche il già Antonin Artaud, in testi e disegni dove la de-figurazione non è una banale lacerazione sanguinante né un puro e semplice annientamento della figura. Al contrario, essa è la forza di destabilizzazione che intacca la figura, la forza che mette la figura in movimento e le imprime una rotazione vertiginosa, un ilinx, che è la risposta alla percezione che vede germinare sciami di corpuscoli e striature laddove dovrebbe esistere un solo volto, una sola riconoscibile figura. Ci sono in atto delle forze, invisibili alla percezione quotidiana, che minano alle fondamenta la figuralità della immagine e la distorcono in macchia abnorme. Si tratta delle forze storiche della de-figurazione che agiscono nel profondo dell’inconscio del capitalismo cognitivo e dell’inconscio di ogni individuo, esse sono in azione da un bel pezzo, sono le forze della de-valorizzazione e della de-figurazione.
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«La storia è un libro di ricette. I dittatori sono i cuochi.
I filosofi quelli che scrivono il menu.
I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori.
Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina»
(Charles Simic)
Charles Simic
The world doesn’t end (Il mondo non finisce)
Part I
We were so poor I had to take the place of the bait in the mousetrap. All alone in the cellar, I could hear them pacing upstairs, tossing and turning in their beds. “These are dark and evil days,” the mouse told me as he nibbled my ear. Years passed. My mother wore a cat-fur collar which she stroked until its sparks lit up the cellar.
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The flies in the Arctic Circle all come from my sleepless nights. This is how they travel: The wind takes them from butcher to butcher; then the cows’ tails get busy at milking time.
At night in the northern woods they listen to the moose, the lion… The summer there is so brief, they barely have time to count their legs.
“Brave as a postage stamp crossing the ocean,” they drone and sigh, and already it’s time to make snowballs, the little gray ones with stones in them.
Parte I
Eravamo così poveri che ho dovuto prendere il posto dell’esca nella trappola per topi. Tutto solo in cantina, li sentivo camminare su e giù per le scale, rigirandosi e rigirandosi nei loro letti. “Questi sono giorni bui e malvagi”, mi disse il topo mentre mi mordicchiava l’orecchio. Passarono gli anni. Mia madre portava un collare di pelliccia di gatto che accarezzava finché le sue scintille non illuminavano la cantina.
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Le mosche nel Circolo Polare Artico provengono tutte dalle mie notti insonni. Ecco come viaggiano: il vento li porta da macellaio in macellaio; poi le code delle mucche si danno da fare al momento della mungitura.
Di notte nei boschi del nord ascoltano l’alce, il leone… Lì l’estate è così breve che hanno appena il tempo di contare le gambe.
“Coraggioso come un francobollo che attraversa l’oceano”, borbottano e sospirano, ed è già ora di fare le palle di neve, quelle piccole grigie con i sassi dentro.
Part II
A poem about sitting on a New York rooftop on a chill autumn evening, drinking red wine, surrounded by tall buildings, the little kids running dangerously to the edge, the beautiful girl everyone’s secretly in love with sitting by herself. She will die young but we don’t know that yet. She has a hole in her black stocking, big toe showing, toe painted red…And the skyscrapers… in the failing light… like new Chaldeans, pythonesses, Cassandras…because of their many blind windows.
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Dear Friedrich, the world’s still false, cruel and beautiful…
Earlier tonight, I watched the Chinese laundryman, who doesn’t read or write our language, turn the pages of a book left behind by a costumer in a hurry. That made me happy. I wanted it to be a dreambook, or a volume of foolishly sentimental verses, but I didn’t look closely.
It’s almost midnight now, and his light is still on. He has a daughter who brings him dinner, who wears short skirts and walk with long strides. She’s late, very late, so he has stopped ironing and watches the street.
If not for the two of us, there’d be only spiders hanging their webs between the street lights and the dark trees.
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The dead man steps down from the scaffold. He holds his bloody head under his arm.
The apple trees are in flower. He’s making his way to the village tavern with everybody watching. There, he takes a seat at one of the tables and orders two beers, one for him and one for his head. My mother wipes her hands on her apron and serves him.
It’s so quiet in the world. One can hear the old river, which in its confusion forgets and flows backwards.
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My guardian angel is afraid of the dark. He pretends he’s not, sends me ahead, tells me he’ll be along in a moment. Pretty soon I can’t see a thing. “This must be the darkest corner of heaven,’ someone whispers behind my back. It turns out her guardian angel is missing too. “It’s an outrage,” I tell her. “The dirty little cowards leaving us alone,” she whispers. And of course, for all we know, I might be a hundred years old already, and she’s just a sleepy little girl with glasses.
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Once I knew, then I forgot. It was as if I had fallen asleep in a field only to discover at waking that a grove of trees had grown up around me.
“Doubt nothing, believe everything,” was my friends idea of metaphysics, although his brother ran away with his wife. He still bought her a rose every day, sat in the empty house for the next twenty years talking to her about the weather.
I was already dozing off in the shade, dreaming that the rustling trees were my many selves explaining themselves all at the same time so that I could not make out a single word. My life was a beautiful mystery on the verge of understanding, always on the verge! Think of it!
My friend’s empty house with every one of its windows lit. The dark trees multiplying all around it.
Parte II
Una poesia circa il sedersi su un tetto di New York in una fredda sera d’autunno, mentre beviamo vino rosso, circondato da edifici alti, i bambini che corrono pericolosamente al limite, la bella ragazza di cui tutti sono segretamente innamorati seduti da sola. Morirà giovane, ma non lo sappiamo ancora. Ha un buco nella calza nera, l’alluce in vista, la punta dipinta di rosso… E i grattacieli… nella luce fioca… come nuovi caldei, pitone, cassandre… a causa delle loro numerose finestre cieche.
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Caro Friedrich, il mondo è ancora falso, crudele e bello…
Stanotte ho visto il lavandaio cinese, che non legge né scrive la nostra lingua, girare le pagine di un libro lasciato da un cliente in fretta e furia. Questo mi ha reso felice. Volevo che fosse un libro dei sogni, o un volume di versi stupidamente sentimentali, ma non ho guardato da vicino.
È quasi mezzanotte ormai e la sua luce è ancora accesa. Ha una figlia che gli porta la cena, che indossa gonne corte e cammina a grandi falcate. È in ritardo, molto in ritardo, quindi ha smesso di stirare e guarda la strada.
Se non fosse per noi due, ci sarebbero solo ragni che appendono le loro tele tra i lampioni e gli alberi scuri.
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Il morto scende dal patibolo. Tiene la testa insanguinata sotto il braccio.
I meli sono in fiore. Si sta dirigendo verso la taverna del villaggio con tutti a guardare. Lì si siede a uno dei tavoli e ordina due birre, una per lui e una per la testa. Mia madre si asciuga le mani sul grembiule e lo serve.
È così tranquillo nel mondo. Si può sentire il vecchio fiume che nella sua confusione dimentica e scorre all’indietro.
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Il mio angelo custode ha paura del buio. Fa finta di no, mi manda avanti, mi dice che arriverà tra un momento. Ben presto non riesco a vedere nulla. “Questo deve essere l’angolo più buio del paradiso”, sussurra qualcuno alle mie spalle. Si scopre che anche il suo angelo custode è scomparso. “È un oltraggio”, le dico. “I piccoli sporchi codardi che ci lasciano soli”, sussurra. E ovviamente, per quanto ne sappiamo, potrei avere già cent’anni, e lei è solo una bambina assonnata con gli occhiali.
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Una volta che lo sapevo, poi l’ho dimenticato. Era come se mi fossi addormentato in un campo solo per scoprire al risveglio che un boschetto di alberi era cresciuto intorno a me.
“Non dubitare, credi a tutto”, era l’idea della metafisica dei miei amici, anche se suo fratello era scappato con sua moglie. Le comprava ancora una rosa ogni giorno, rimase seduto nella casa vuota per i successivi vent’anni a parlarle del tempo.
Stavo già sonnecchiando all’ombra, sognando che gli alberi fruscianti erano i miei tanti io che si spiegavano tutti insieme in modo da non riuscire a distinguere una sola parola. La mia vita era un bellissimo mistero sul punto di capire, sempre sull’orlo! Pensaci!
La casa vuota del mio amico con tutte le finestre illuminate. Gli alberi scuri che si moltiplicano tutt’intorno.
Part III
The time of minor poets is coming. Good-by Whitman, Dickinson, Frost. Welcome you whose fame will never reach beyond your closest family, and perhaps one or two good friends gathered after dinner over a jug of fierce red wine… while the children are falling asleep and complaining about the noise you’re making as you rummage through the closets for your old poems, afraid your wife might’ve thrown them out with last spring’s cleaning.
It’s snowing, says someone who has peeked into the dark night, and then he, too, turns toward you as you prepare yourself to read, in a manner somewhat theatrical and with a face turning red, the long rambling love poem whose final stanza (unknown to you) is hopelessly missing.
After Aleksandar Ristović
O the great God of Theory, he’s just a pencil stub, a chewed stub with a worn eraser at the end of a huge scribble.
Parte III
Il tempo dei poeti minori sta arrivando. Arrivederci Whitman, Dickinson, Frost. Ti diamo il benvenuto la cui fama non andrà mai oltre la tua famiglia più vicina, e forse uno o due buoni amici si sono riuniti dopo cena davanti a una brocca di vino rosso feroce… mentre i bambini si addormentano e si lamentano del rumore che fai mentre frughi nel armadi per le tue vecchie poesie, temendo che tua moglie possa averle buttate via con le pulizie della scorsa primavera.
Nevica, dice qualcuno che ha sbirciato nella notte oscura, e poi anche lui si volta verso di te mentre ti prepari a leggere, in maniera un po’ teatrale e con il viso che diventa rosso, la lunga e sconclusionata poesia d’amore la cui strofa finale (a te sconosciuto) manca irrimediabilmente.
Dopo Aleksandar Ristović
O il grande Dio della teoria, è solo un mozzicone di matita, un mozzicone masticato con una gomma consumata alla fine di un enorme scarabocchio.
Aforismi
da Il mostro ama il suo labirinto, Monster Loves His Labyrinth 2008
Dove il conformismo è considerato un ideale, la poesia non è la benvenuta.
Faccio parte di quella minoranza che si rifiuta di far parte di qualsiasi minoranza ufficialmente definita.
Gli orrori del nostro tempo ci faranno provare nostalgia di quelli del passato. Non credo in Dio, però evito di aprire l’ombrello in casa.
I nostri ricchi sono più bravi a rubare dei nostri ladri comuni.
Il miglior argomento a favore del vino, del tabacco, del sesso e dei discorsi a vanvera consiste nel fatto che ogni maggioranza cosiddetta morale li condanna.
Il nazionalismo è amore per l’odore della nostra merda collettiva.
Il poeta vede quello che il filosofo pensa.
L’ambizione segreta di ogni opera letteraria è quella di obbligare dèi e diavoli ad accorgersi di lei.
L’utopia: una sostanziosa torta al cioccolato protetta dalle mosche sotto una campana di vetro.
La bellezza di un attimo fuggente è eterna.
La gentilezza di un essere umano verso un altro in tempi di odio e violenza di massa merita maggior rispetto delle prediche di tutte le chiese dall’inizio del tempo.
La stupidità sta conoscendo un revival nazionale. Basta accendere la TV per vedere il suo largo bonario sorriso.
Le fotografie ci mostrano quello che non abbiamo le parole per dire.
Notte d’autunno fredda e ventosa. Sull’angolo, una barbona parla con Dio; lui, come al solito, non ha niente da dire.
Qualunque cosa è uno specchio, a guardarla abbastanza a lungo.
Qualunque ideologia o fede che non sia insaporita dall’odio non ha alcuna possibilità di successo popolare. Per essere veri credenti bisogna essere campioni d’odio.
Reading di poesia. I quattro poeti continuarono a urlare per tutta la sera: «Il mio dolore è più grande del tuo».
Tra la verità che si sente dire e la verità che si vede, preferisco la verità silenziosa di ciò che viene visto
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Charles Simic è nato a Belgrado nel 1938. Nel 1990 è stato insignito del premio Nobel. Dal 1953 risiede negli Stati Uniti, dove insegna Letteratura inglese all’università del New Hampshire. Nel 1967 è apparsa la sua prima raccolta di poesie, What the Grass Says. Da allora ha pubblicato un cospicuo numero di opere fra cui ricordiamo Prose Poems (1990), che gli è valso il Premio Pulitzer, e Jackstraws (1999), insignito dal «New York Times» del titolo di «Notable Book of the Year». Ha tradotto in inglese poeti serbi, croati, macedoni, sloveni, francesi.
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In una intervista Simic dichiara:
“A pagina uno del mio libro dei sogni/ è sempre sera/ in un paese occupato./ L’ora prima del coprifuoco./ Una cittadina di provincia./ Le case tutte al buio./ I negozi sventrati”. Ricordi certo non nostalgici. Quando aveva tre anni giocava alla guerra come tutti i ragazzini quando all’improvviso fu sbalzato da una bomba tedesca; “Le mie agenzie di viaggio sono state Hitler e Stalin” ha dichiarato, caustico, parlando del suo arrivo in America. “I tedeschi e gli alleati mi bombardavano a turno, mentre giocavo, sul pavimento della mia stanza, con la mia collezione di soldatini”. Un’immagine che è finita in una sua poesia: “Giocavamo alla guerra durante la guerra,/ Margaret. I soldatini erano molto richiesti,/il tipo in terracotta./ Quelli di piombo finivano sciolti a far pallottole,/ immagino”. Humor balcanico?
Domanda:
A proposito della lingua serba, lei spesso racconta un aneddoto divertente e surreale. Di quando, con suo zio Boris, mentre discutevate animatamente in un bar americano, una signora si è avvicinata per chiedere in che lingua parlavate. E voi…
Risposta:
“Noi abbiamo risposto che eravamo gli unici due superstiti di una tribù di africani bianchi, che parlava una lingua ormai estinta. Ci ha creduto. Gli americani del resto hanno un’idea molto vaga della geografia mondiale, nonché della storia, quindi sono sempre tentato di prenderli in giro. Una volta – ero su un treno che attraversava l’Ohio – ho raccontato a una giovane donna che ero un principe russo in esilio, e le ho descritto, minuziosamente, tutti i palazzi che possedeva un tempo la mia famiglia. Lei era incantata”.
il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.
(Vincenzo Vitiello)
Glossa di Giorgio Linguaglossa
Non sorprende che Charles Simic, poeta intellettualissimo ma che ama presentarsi al pubblico come illetterato, se non trasandato, abbia sostenuto che «il vero poeta è specializzato in una sorta di metafisica della camera da letto e della cucina» e che il poeta è «il mistico della padella e dei piedi rosa del [suo] amore». Il suo gusto per i dettagli è legato all’apprezzamento per la semplicità e la brevità della poesia che non deve mai superare per lunghezza una pagina e non più di sedici versi. «I musicisti blues sanno che poche note giustamente posizionate toccano l’anima, e anche i poeti lirici». Simic, da poeta post-lirico, si è espresso anche mediante la metafora culinaria: «L’idea è che è possibile preparare piatti sorprendentemente gustosi con gli ingredienti più semplici». Alcuni dei migliori cuochi lo hanno osannato. Escoffier ha preso come motto la sua frase «Faites simple», un’ingiunzione che è anche un principio compositivo.
La dizione e la sintassi sono quelle dell’inglese di base. Si legge sulla sovracoperta di un suo libro che «il suo lavoro è apparso in traduzione in tutto il mondo». Un altro retro di copertina ci dice che il libro «evocherà una varietà di ambientazioni e immagini… [e] soggetti», ma in realtà le sue poesie trattano una serie di motivi strettamente correlati: l’oscurità, i senzatetto, impiegati, cinesi, slums, edifici vuoti e fatiscenti, macelli, pompe funebri, cimiteri… È la varia umanità del capitalismo che popola le sue poesie, senza etichette, senza sovraesposizioni ideologiche né retorica, il lessico ed il tono sono crudi, diretti, come se si dovessero dire cose impellenti ma non importanti.
La poesia è una forma d’arte anteriore alla alfabetizzazione. Nelle civiltà pre-letterate, la poesia era impiegata come mezzo di registrazione di storia orale, narrazione, ovvero, poesia epica. Le svariate forme di espressione presso le società moderne sono sempre state trattate tramite la prosa. Il Ramayana, un poema epico in sanscrito, fu probabilmente scritto nel 3 ° secolo a.C. in un linguaggio descritto da William Jones come “più perfetto del latino, più abbondante del greco e più squisitamente raffinato di entrambi.” La poesia nasce e si sviluppa con la liturgia presso le civiltà arcaiche pre-letterarie, in quanto la natura formale della poesia la rende più facile da ricordare sotto forma di incantesimi sacerdotali o di profezie. La maggior parte delle scritture sacre in tutte le antiche civiltà sono rese tramite la poesia piuttosto che tramite la prosa.
Dispositivi retorici come similitudine e metafora sono frequentemente utilizzate in poesia fin dai tempi più antichi. Infatti, Aristotele scrisse nella sua Poetica che “la cosa più grande in assoluto è quella di essere un maestro della metafora”. Tuttavia, in particolare dopo l’ascesa del modernismo, alcuni poeti hanno optato per l’uso ridotto di questi dispositivi, preferendo piuttosto di tentare la presentazione diretta delle cose e delle esperienze. Altri poeti del XX e XXI secolo, tuttavia, in particolare i surrealisti, hanno spinto i dispositivi retorici ai loro limiti, facendo uso frequente di catacresi.
Non mi meraviglia dunque che un poeta del tardo modernismo come Charles Simic utilizzi il verso libero come strumento chirurgico per veicolare il suo peculiarissimo parlato misto a perifrasi gnomiche nel bel mezzo della forma-racconto; in tal modo rivitalizza la forma-racconto della poesia. È paradossale ma vero che oggi la poesia nelle civiltà tecnologicamente evolute se vuole sopravvivere a se stessa debba riprodurre in qualche modo le forme di espressione delle antiche civiltà pre-letterarie. La forma-racconto in poesia aveva già mostrato tutti i suoi limiti ne La ragazza Carla (1959) di Pagliarani, il lungo poema narrativo con epicentro la dattilografa Carla alla lunga mostra tutti i suoi punti deboli. La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi non può fare a meno di riappropriarsi delle forme di espressione del parlato, con annesso tutto il bagaglio de il colloquiale, il soliloquio, il monologo, il dialogo, il non detto, i pensieri inespressi, i retro pensieri, il linguaggio dell’inconscio.
La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi è questa di cui stiamo parlando.