Viene qui presentata una scelta delle poesie (1933-1936) del poeta russo Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, tratte dal volume Stelle sull’Aragaz, edito nel 1988 ad Erevan, che comprende oltre ad una raccolta della sua personale produzione poetica, anche traduzioni in lingua russa di poeti armeni a cura dello stesso Tarkovskij. Arsenij Tarkovskij nasce nel 1907 ad Elizavetgrad (oggi Kirovograd) in Ucraina, e si dedica fin da giovane alla traduzione di numerosi poeti da svariate lingue (armeno, turkmeno, karakalpaco, georgiano, ebraico e arabo). Quanto questo assiduo esercizio di traduzione abbia influito sulla sua poesia è un problema aperto, ma certamente la frequentazione di una palestra stilistica così vasta ha avuto un peso rilevante nella elaborazione della peculiarissima aura di inattualità delle sue poesie e conforterà il poeta nei lunghissimi anni di silenzio cui sarà costretto. Il primo volume delle sue poesie vedrà la luce soltanto nel 1962, Pered snegom (Neve imminente, 1929-1940); nel 1969 esce Vestnik (Il messaggero 1966-1971); nel 1974 Sticotvorenija (Poesie); nel 1978 e nel 1979 escono rispettivamente Volsebnye gory (Le montagne incantate) e Zimnijden (Giornata d’inverno 1971-1979). Il 27 maggio 1989 muore a Mosca e viene sepolto a Peredelkino.
La presente traduzione ha rispettato fedelmente la misura del verso russo senza tentare una resa in un equivalente metro italiano, operazione che avrebbe fatalmente corso il rischio di falsare i ritmi colloquiali della lingua originale; la utilizzazione dell’a capo rigorosamente conformato a quello del testo russo ha consentito, in qualche misura, la conservazione anche nella versione italiana degli enjambements e delle cesure interne, così come dei tempi lenti di progressione delle immagini.
Se la rivoluzione è incentivo al trasognato lirismo di Chlébnikov, la «fame di spazio» occupa totalmente la mente dei grandi poeti russi del Novecento. Chlébnikov percorre due volte, andata e ritorno, la linea ferroviaria Chàr’kov-Kiev e attende la primavera appollaiato in cima a un albero di ciliegio nei pressi di Chàr’kov, o osserva il cielo stellato dall’alto di un treno in corsa. Così, Tarkovskij scrive una poesia ironica su un immaginario improbabile «catalogo delle stelle», e Mandel’štam cita la «lenta asmatica vastità» dell’orizzonte di Voronez ove «lo spazio ha perso gusto e colore», ovvero, guarda «nel bellissimo binocolo Zeiss… tutte le rughe dello gneiss», la catena dei monti dell’Ararat, l’odierna Armenia. Se Chlébnikov è un «viaggiatore incantato», e Brodskij, invece, nel suo esilio, rappresenta il «viaggiatore solitario», Tarkovskij è a metà, l’uno e l’altro, è poeta del sogno e della storia, entrambe le dimensioni trasfigurate nell’alone fiabesco della terribile storia russa, evanescente come un sogno. In Tarkovskij è presenta la imagery dominante della poesia russa del XX secolo che è stata riassunta nella formula: specchio-candela-ombra-sogno, e che dalla Achmàtova passando per Derzavin, Baratynskij e Mandel’štam, giunge oggi fino a Brodskij. Il manierismo debole di certe immagini di Tarkovskij non ha nulla di gratuito o di rococò, ma corrisponde ai movimenti lievi e improvvisi della memoria, d’una memoria inutilizzabile nel mondo che ha conosciuto la barbarie della seconda guerra mondiale; la sua è una poesia da camera, poesia d’un solitario che si rivolge ad altri solitari nella assoluta estraneità al mondo del Potere e della Storia. Lo spietato rigore della metrica e delle rime dei testi originali vuole soltanto ribadire il carattere addomesticato, domato della materia, il virtuosismo tecnico è virtuosismo formale che presuppone il dato dell’esistenza. Il materiale poetico è ciò che rimane della materia viva e palpitante della vita. la rivoluzione fa parte del trapassato remoto, e l’armamentario degli slogans del suo tempo trova il poeta non ostile, bensì completamente estraneo, come se abitasse un altro pianeta, la dacia dove volavano le farfalle. Anche l’orrore degli avvenimenti della propria biografia – come nella poesia «Ospedale da campo», ove viene rivissuto l’episodio dell’amputazione della gamba, avvenuto nel 1943 a seguito della ferita inferta da un proiettile esplosivo presso Velike Luki – viene trasfigurato in atmosfere di sogno e irreali.
La struttura simbolica significativa che presiede la poesia di Tarkovskij è rappresentata dalla opposizione tra la immobilità della storia russa e la direzionalità, la verticalità, il moto unidirezionale della modernità che irrompe con le immagini dei treni che sfrecciano e degli aeroplani che volteggiano. Detta polarità è attraversata dalla figura del poeta-profeta, «cronista del mesozoico», «il Geremia dei tempi futuri» che tiene in mano «l’orologio e il calendario»; strumenti, marchingegni escogitati dall’uomo per tentare di conciliare il tempo oggettivo e il tempo soggettivo, la storia e l’anima, l’immortalità e la caducità. Nella poesia «Vita, vita», il tono sacrale trova d’incanto l’esatta misura d’uno stile ieratico che si staglia in grandiose metafore tridimensionali, dove la potenza delle immagini rimanda alla integrità del poeta, alla sua forza interna, invincibile, che la fede nell’«immortalità» gli restituisce dopo lo scacco del destino e della storia. Sono versi di eccezionale altezza:
Nel mondo non c’è la morte./ Tutti sono immortali. Tutto è immortale./ Non bisogna temere la morte né a diciassette anni/ né a settanta. Esistono soltanto la realtà e la luce,/ in questo mondo non ci sono né buio né morte./ Noi tutti siamo già sulla riva del mare / ed io sono tra quelli che tirano le reti,/ mentre passa a branchi l’immortalità./ Vivete in casa – e la casa non crollerà./ Io evocherò uno qualunque dei secoli,/ entrerò in esso ed in esso una casa costruirò./… Io ogni giorno del passato, come una puntellatura,/ con le mie clavicole ho sostenuto,/ misurai il tempo con la catena dell’agrimensore/ ed attraverso di esso sono passato, come attraverso gli Urali.
L’«immortalità» è qui una metafora oscura che indica l’attraversamento che gli uomini devono operare, nella negatività della storia, di quella distesa grigia e arida rappresentata dal mondo infirmato dalla mortalità dell’individuo. La costellazione simbolico-metaforica è qui: l’onda, la stella, l’uomo, l’uccello, la realtà, i sogni, la morte… e, di nuovo, l’onda. L’epifania della verità avviene «tra gli specchi – riflesso nel recinto/ dei mari e delle città che brillano nel fumo». E la pace dell’«immortalità», dell’«onda» che va dietro l’«onda» è rappresentata dalla «madre (che) piangendo, prende il bimbo in grembo». Le immagini del «grembo materno», delle «erbe infantili», della «città col Cremlino sul fiume» e le altre innumeri variazioni della immagine archetipica materna acquistano plasticità e vigore se proiettate sullo sfondo delle «acque nere», della «riva», della «casa distrutta dalla guerra», etc. che rappresentano lo sfondo luteo della storia, il magma acherontico che investe la coscienza infelice. Compito del poeta è cogliere «la corrispondenza del suono e del colore». La metafora è combinazione di rappresentazioni in funzione di una più ricca, inscindibile unità semantica. Come per Mandel’štam anche in Tarkovskij il mutamento dei significati diviene evidente attraverso il contenuto delle parole nel contesto dell’opera, laddove esse producono vicendevolmente nuovo senso mediante improvvise rimozioni e profonde anamnesi. Con questo metodo si ottengono le parole portanti, si mette in luce la ricchezza delle parole-chiave. Mandel’štam studiò la produzione di queste parole-chiave nel simbolismo oggettivo e psicologico di Innokentij Annenskij. La rifrazione della vita nei simboli poetici è per Mandel’štam accettabile, inaccettabile è l’estrazione di un «simbolismo professionale»; «le immagini sono sventrate come animali da impagliare – scrive Mandel’štam criticando il simbolismo – e imbottite di un contenuto a loro estraneo… Una spaventosa controdanza di “corrispondenze” – che ammiccano l’una all’altra. Un eterno strizzar d’occhio… la rosa rimanda alla fanciulla, la fanciulla alla rosa». Mandel’štam propone «una poetica organica di carattere non normativo, bensì biologico», cioè di «considerare la parola come un’immagine, una rappresentazione verbale… un complesso insieme di fenomeni, un nesso, un sistema»* Tarkovskij ha studiato in Mandel’štam la componente architettonica della sua poesia, la dislocazione spazio-temporale del materiale linguistico, l’assoggettamento del materiale alle esigenze costruttive. Anche in Tarkovskij come in Chlébnikov l’avvenire e il passato coincidono, così come primitivismo e utopia, polarità contraddittorie, vengono risolte con l’indebolimento dell’utopia e con la massiccia immissione di tracce della quotidianità all’interno delle composizioni poetiche. Proprio come in Chlébnikov, il futuro diventa esperienza anteriore, ciò che deve accadere è già avvenuto, il futuro non è ciò che sarà ma ciò che è già stato. Probabilmente, una tale concezione rivela l’influenza delle teorie di Fedorov, il suo concetto della storia come progetto e simultaneità di tutte le generazioni. Per Tarkovskij il mondo tecnologico, la modernità, sono inconciliabilmente ostili alla silvestre innocenza dello stato di natura; del resto, tutte le sue metafore sono rigorosamente tratte dalla civiltà agricola («la svasatura dell’imbuto», «la ruota del vasaio», «gli occhi dell’erba», «il catino, la brocca», «la gonna di cotone stampato», etc. – Il tessuto quietamente discorsivo dei testi stride con le metafore lampeggianti e le vertiginose accelerazioni; v’è un’algebra delle corrispondenze, vi sono dei cunicoli sotterranei, una densità semantica, rimandi espliciti e impliciti alla grande tradizione della poesia russa, in particolare a Mandel’štam, con il quale condivide il concetto di metafora come costruzione complessa fondata su rapporti di inerenza. Non è affatto un caso che le ultime bozze di quello che avrebbe dovuto essere il suo primo volume di versi (corre l’anno 1946) ad una lettura attenta da parte di un funzionario di partito, eufemisticamente denominata «recensione per uso interno», recitava: «poeta di grande talento, Tarkovskij appartiene a quel Pantheon Nero della poesia russa a cui appartengono anche Achmàtova, Gumilev, Mandel’štam e l’emigrante Chodasevič, e perciò quanto più talento vi è in questi versi tanto più essi sono nocivi e pericolosi». La recensione sfavorevole indurrà la casa editrice Sovetsjij pisatel’ a distruggere il piombo delle matrici.
Il rifugio in una lirica della natura è lo stratagemma residuo che resta al poeta che non intenda sottomettersi all’estetica zdanoviana e che voglia sottrarsi al kitsch dell’arte del realismo socialista. I processi autoritari di accumulazione forzata del capitale e la erezione di uno stato socialista basato sulla socializzazione dei rapporti di produzione, erano le condizioni più svantaggiose per la nascita della poesia, e tali condizioni imposero l’assunzione della forma della poesia lirica.
Tarkovskij prende le distanze dalla assunzione acritica del concetto di «natura»; dichiara il poeta russo: «non v’è libertà nella natura», ché altrimenti finirebbe dritta nell’anacronismo, non soltanto perché il suo contenuto di verità è scomparso ma soprattutto perché la natura è inattuale; la celebrazione del passato remoto sarebbe il ripristino di un rito museificato, deificato. Per Tarkovskij «il nostro passato è in tutto simile a una minaccia». È questa la posizione di partenza della sua poesia: la percezione che l’arte, a fronte della stato socialista, non è altro che un diversivo all’orrore, «crittografia del dolore, anamnesi di ciò che è stato sconfitto».*
Sotto le condizioni imposte dalla amministrazione totale dello stato socialista sovietico, unica via di uscita è la certezza che «il vento che irrompe violento nella vita – dissolverà – le farfalle che giocano col fuoco». Sembra una chiarissima premonizione della fine dell’Impero, della rovinosa caduta degli idoli. Soltanto un veggente che vive nella propria veggenza poteva possedere strumenti di auscultazione così sofisticati e sensibili da intravedere con tanto anticipo gli esiti finali. A ben leggere, i testi dei grandi poeti ci indicano sempre il cammino del futuro: «La tempesta qua e là per la Russia / scagliava loro dei bengala. ( Ed era soltanto l’inizio», scrive Tarkovskij in una poesia del 1976. I poeti del Pantheon Nero avevano già messo su carta il colore nero dell’orrore. In Tarkovskij e in Chlébnikov la farfalla e il cigno bianco sono ipostasi del poeta e della bellezza: il «candido angelo», il «cigno morente», la «candida neve» sono simboli che annunciano la caducità della bellezza; la «notte», ovviamente, è il luogo della morte, ove «più leggera dell’ala di un uccello» trascorre la bellezza «come una vertigine». Ma la «bellezza» può anche condurre «dall’altra parte dello specchio»: «Nel cristallo pulsavano i fiumi, / fumavano le montagne, rilucevano i mari». Così, la morte può essere detronizzata soltanto dall’amore che tutto trasfigura, perché la via che conduce alla morte si chiama «destino»: «quando il destino ricalcava le orme dietro di noi, / come un pazzo col rasoio in mano». Questa complessa rete di simboli fondata sulla opposizione binaria luce-tenebra regge tutta la poesia di Tarkovskij, ed infonde spessore analogico alle similitudini Il poeta è, di volta in volta, «Nestore, cronista del mesozoico», «Geremia dei tempi futuri», perché il poeta sa «della morte più cose dei morti», e il suo romanzo è preda dell’«orologio» e del «calendario», del «passato» e del «futuro»; soltanto la morte, «la terribile bocca della regina Kore» può fornire il viatico per la «verità». Ed ecco i simboli della «pioggia», del «mare» e del «ruscello» che richiamano l’idea del fluire dell’universo nell’«irripetibile movimento dell’erba», nella «immortalità»; il tempo soggettivo fluisce e sfocia nel tempo oggettivo: «io mi sceglievo il secolo secondo la grandezza». La terribile storia russa detta a Tarkovskij i versi tra i più commoventi e saldi della poesia russa del XX secolo: «vivete in casa – e la casa non crollerà (…) il futuro si compie ora». Una dichiarazione di fede così alta trova concrezione in questi versi monumentali, scanditi con lenta, sacrale progressione.
*T.W. Adorno, Teoria estetica Einaudi, Torino, 1975
traduzione di Donata Bartolomeo
in russo: Арсений Александрович Тарковский(Elisavetgrad, 25 giugno 1907 – Mosca, 27 maggio 1989), poeta russo, di origine ucraina dal temperamento alquanto instabile, padre del famoso regista Andrej Arsen’evič Tarkovskij. Alla fine degli anni venti Arsenij Tarkovskij inizia la collaborazione con alcune riviste e scrive drammi per la radio sovietica. Nel 1932, accusato di misticismo, deve abbandonare il suo lavoro e si dedica quindi all’attività di traduttore dall’arabo, dall’ebraico, dall’armeno, dal georgiano, dal turkmeno e da altre lingue ancora. Inizia, sempre in quel periodo, a frequentare Anna Achmatova e Osip Mandel’štam, attirando su di sé ulteriori attenzioni da parte del regime, che gli costeranno una censura durata sino agli anni sessanta. Arruolato come soldato nella seconda guerra mondiale, nel 1943 viene insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in battaglia e in seguito, gravemente ferito, deve subire l’amputazione di una gamba. A partire dal 1962 inizia la pubblicazione delle sue poesie, che consisteranno in una decina di raccolte in tutto. Muore a Mosca il 27 maggio 1989.
E il buio e la vanità non sfioriranno
la rosa di giugno sulla finestra
e la via sarà luminosa
e il mondo sarà benedetto
e benedetta la mia vita
come lo fu tanti anni fa’.
Come tanti anni fa’ – quando
gli occhi appena aperti
non capivano come fare,
l’acqua piombò sull’erba
e, con essa, il primo temporale
già imparava a parlare.
In questo giorno io vidi la luce,
l’erba rumoreggiava al di là della finestra,
oscillando nelle boccette di vetro
e si fermò sulla soglia degli anni
con le ceste nelle mani ed in casa,
ridendo, entrò la fioraia…
La pioggia perpendicolare lavò l’erba
e dal basso la rondine prese il volo
e questo giorno fu il primo
tra quelli che, come per miracolo, in realtà
brillavano, come sfere, frantumandosi
nella rugiada su un petalo qualunque.
(1933)
La culla
Ad Andrej T.*
Lei:
Passante, perché non dormi per tutta la notte,
perché ti trascini e ti trascini,
dici sempre le stesse cose
e non fai dormire il bambino?
Chi ti ascolta ancora?
Cosa hai da dividere con me?
Lui, come un bianco colombo, respira
nella culla fatta di corteccia di tiglio.
Lui:
Scende la sera, i campi diventano azzurri, la terra orfana.
Chi mi aiuta ad attingere l’acqua dal pozzo
profondo?
Non ho nulla, ho perduto tutto lungo il cammino.
Dico addio al giorno, incontro la stella. Dammi da bere.
Lei:
Dove c’è il pozzo, c’è l’acqua
ma il pozzo è lungo la strada.
Non posso darti da bere
ed abbandonare il bambino.
Ecco solleva le palpebre
ed il serale, latteo luppolo
avvolge, lambisce
e fa dondolare la culla.
Lui:
Aprimi la porta, fammi entrare, prendi da me quello che vuoi –
la luce della sera, un mestolo di acero, la piantaggine.
(1933)
* Poesia dedicata al figlio Andrej
***
Avevo appuntato il lungo indirizzo su un brandello di carta
non riuscivo in alcun modo a congedarmi e tenevo il foglietto in mano.
La luce si spense sul lastricato. Sulle ciglia, sulla pelliccia
E sui guanti grigi cominciava a cadere una neve molle.
Andava il lampionista, si voltò, vicino a noi accese un lampione,
si mise a fischiare, il lampione balbettò come il corno di un pastore
e aleggiò una goffa, inconcludente conversazione
più leggera di una piuma, più minuta di una frazione…
Dieci anni sono passati da allora.
Persino l’indirizzo ho perduto, persino il nome ho dimenticato.
E dopo un’altra ho amato, quella che più appassionatamente di tutte ho amato.
Ma tu vai – e cade una goccia dal tetto: una casa e una nicchia alla porta,
una palla bianca sulla nicchia rotonda e leggi: chi abita?
Ci sono porte speciali e case speciali,
c’è un indirizzo speciale, di preciso la giovinezza stessa.
(1935)
Dedica
I
In me vive la profonda inquietudine
delle chiome di legno, che non dormono di notte,
io, come i versi, predico la peculiarità
conferite alle persone e alle cose.
Per il fatto che respiravo, come respira la parola,
io ero l’eco tra gli alunni,
ero la risonanza della voce altrui,
smarrita nel coro delle voci.
Il mondo, come un bambino di sette anni, è agile;
la tempesta fioriva – il mondo, come un fanciullo, si placava
ma cumuli di errori ereditati
giacevano in quei giorni nelle mie mani.
Tutta la mia vita arrivò e mi stava accanto,
come se davvero fossero passati tanti anni
e con estraneo, verdastro sguardo
mi rispose lo specchio.
Io sobbalzavo ad ogni suono bugiardo,
pensavo: fammi vuotare le mani.
E, dormendo, liberavo le mani
per imparare di nuovo a parlare.
Spaventandomi, tastavo gli oggetti –
I corpi delle meduse nel mare scintillante,
la radice degli alberi, rianimata dalla musica
e il marmo, riverso verso la stella.
Ed io imparai a parlare, come nell’infanzia
col mio libro balbuziente.
Ma se i figli serberanno memoria dell’eredità
tutto quello che posseggo, a loro lascerò.
II
E ciascuno ricorda la luminosa città dell’infanzia,
l’aul sulle montagne, la stanitsa sul fiume,
dove dai padri abbiamo preso in eredità
l’amore per la terra, per sempre cara.
Dove le madri accanto alle nostre culle
Non dormivano di notte, dove abbiamo imparato,
dove per la prima ispirazione fremevano
sul libro le nostre giovani menti.
Dove per la prima volta abbiamo amato, senza temere
di ammettere che eravamo cresciuti nella lotta,
dove abbiamo giurato davanti alla nostra coscienza
eterno amore a te…
Rumoreggiano gli alberi del viale cittadino,
come fiaccole di verde fuoco.
Io te li darò, sono più necessari a te,
vieni, prendi da me gli alberi.
Vieni, prendi tutta la mia città, sarà
tua – e tu ti addormenterai nella mia erba.
Il sibilo delle mie rondini ti sveglierà,
io te le darò, sono più necessarie a te.
Tutto quello che ho vissuto per tanti anni da allora,
per tante verste dal tuo ricordo,
tu lo evocherai, senza compiere il miracolo,
senza troncare il complotto delle ombre.
Io sono il primo ospite nel giorno della tua nascita
E mi è stato concesso di vivere in due assieme a te,
di entrare nei tuoi sogni notturni
e di riflettermi nel tuo specchio.
III
Come ragnatela si tende il residuo
di tutto quello che mi sembrava caro
ed è per me strano che una fittizia impronta
lascerò ai miei eredi.
E forse, i figli che giocano,
pur ricordandosi di me in estate,
non distingueranno le sconnesse interiezioni
dalle parole che indicano la cecità.
Io non ero cieco. Vedevo tutto quello che era,
che diveniva la vita dei miei coetanei
che il tempo con la sua firma convalidò
e portò dinanzi agli occhi sonnolenti dei ciechi.
Io vedevo tutto quello che era visibile ai vedenti
come la luce dell’alba attraverso il telaio dei rami.
Prendi anche l’amaro, che ingiustamente nascondiamo
ai nostri figli e alle nostre figlie.
IV
Così io imparai di nuovo a parlare
e ricevetti il difficile dono nell’anno terribile
in cui l’amore bruciava le mie gote
e stringeva al cuore il ghiaccio mortale.
E la gelosia si stringeva al capezzale
E mi sussurrava all’orecchio:
Guarda,
mentre tu dormi, torturato dall’amore,
hanno spento i lampioni della città.
Io, fedele, ti aprirò gli occhi:
liberata per sempre per te,
tra le lenzuola, sul far dell’alba rosata,
giace la tua ultima stella…
Ed io correvo dalla mia soglia
là, dove la luce dà una sventola sul viso,
lungo la città mi incalzava l’inquietudine –
ed io vidi il telaio dei fulmini.
Volavano come uno stormo di cigni,
non li contai, erano più di cento,
volavano lontano sulla piazza deserta
e l’altezza faceva dondolare i loro becchi.
Volavano così lentamente che sembrava –
arda pure davanti agli occhi stessi il nuovo giorno –
come se questa amarezza si fermasse per sempre,
i loro riflessi resteranno vicino a noi.
Prendi anche loro, sono più necessari a te
che li tocchi la mano infantile
e sfiora la gelosia ancora più delicatamente
perché l’amore ti sia lieve.
V
Ed il cielo si fece azzurro, rinascendo,
e l’altezza cominciò ad abbassarsi
e sotto le ruote del primo tram
si stendeva il selciato dell’alto ponte.
E nell’ora in cui la tua gigantesca città
tutta in verde si spande all’alba –
tu giaci, figlio, nel grembo materno
nella semitrasparente delicata bolla.
E, forse, tu non vedi nulla
ma il sole nuota sopra di te…
(1934-1937)
Ho un ricordo. Siamo nel 1992, con lo Scettro del Re era uscito un libro con le poesia di Arsenij Tarkovskij nella traduzione di Donata De Bartolomeo, quando una persona che si auto definiva poeta disse che quelle di Tarkovskij erano “poesie lacrimevoli”.
Bene, da allora decisi di toglierli il saluto. A tutt’oggi, quando per sbaglio ci incrociamo per le vie della capitale, non saluto quella persona. Mi ripugna salutare una persona che ha sputato la sua miserabile sentenza su un poeta grande come Tarkovskij.
Così io imparai di nuovo a parlare
e ricevetti il difficile dono nell’anno terribile
in cui l’amore bruciava le mie gote
e stringeva al cuore il ghiaccio mortale.
Non intendo aggiungere nulla di mio, solo una parola: bellissimo
“E ciascuno ricorda la luminosa città dell’infanzia,
l’aul sulle montagne, la stanitsa sul fiume,
dove dai padri abbiamo preso in eredità
l’amore per la terra, per sempre cara.
Dove le madri accanto alle nostre culle
Non dormivano di notte, dove abbiamo imparato,
dove per la prima ispirazione fremevano
sul libro le nostre giovani menti.”
*
Sarebbero numerosissimi i versi impressi nella mente dopo un’attenta lettura di queste mirabili poesie.
Solo poche parole per non infrangere l’aura di pacatezza, direi quasi di serenità, d’amore, di purezza, persino d’innocenza che spira dalla voce di
Arsenij Tarkovskij, pur in un’epoca così ostile ai poeti non schiavi.
E’ la serenità di una dacia tra il verde, lontana dalle grandi piazze rumorose per il vociare dei più.
Grazie d’averle pubblicate.
Giorgina Busca Gernetti
“Io vedevo tutto quello che era visibile ai vedenti”
versi mirabili tra i mirabili… e pensare che queste poesie furono tra quelle tacciate di “misticismo” e il poeta fu colpito dalla interdizione a pubblicarle. E pensare che Tarkovskij ebbe una gamba amputata per via della guerra contro i nazisti… nelle sue poesie non c’è un solo fonema di ostilità o di amarezza, anzi, il poeta “benedice” la “pioggia perpendicolare”, benedice la vita…
(e complimenti alla traduttrice Donata De Bartolomeo)
…dopo le quisquilie di Magrelli leggiamo un vero poeta…
Voglio ringraziare davvero tutti per i complimenti che, tutte le volte che Giorgio pubblica Tarkovskji, fate alle mie traduzioni. Per chi come me traduce non per lavoro ma per pura passione, tutto questo è la migliore ricompensa. Mi sono innamorata di Tarkovskji molti anni addietro, quando vidi il film del figlio “Lo specchio”, in cui Andrej analizza il rapporto non sempre facile col padre. Tra le tante poesie recitate, mi colpì straordinariamente la poesia “Primi appuntamenti” e da allora ho cercato tutto quello che potevo trovare su Arsenij:.
Sono consapevole che nel tradurre molto si perde della bellezza del verso russo: quello che ho sempre cercato di rendere è la “spaziosità” di questa poesia. Leggendo Tarkovskji si ha l’impressione volare alto, cosa che a mio modesto, parere “deve” essere il compito di un poeta.
Ha ragione Giorgio, dopo Magrelli avevamo tutti bisogno di “altre” parole…
Lei ha fatto una lavoro egregio, rinnovo i complimenti! Spesso dimentichiamo che senza la fatica appassionata e oscura di una Donata di Bartolomeo non si potrebbe leggere lo splendido Tarkovskij senza conoscere russo e alfabeto cirillico
vergognamoci un po’ magrelli oltre i cento commenti, tarkovskij solo cinque o sei… ci siamo incapponiti a commentare Ternana-Ascoli, quando potevamo benissimo parlare di un Bayern-Real Madrid, tento per rimanere in metafora calcistica…
Non posso che plaudire a queste traduzioni della De Bartolomeo (dove difficilmente si può accostare il termine “tradire” all’altro termine: “tradurre”); dunque è da sottolineare la presenza dei poeti russi menzionati appositamente e seriamente evidenziati non solo per talune atmosfere intimiste, anche per specifici temi civili che, denunciarli in quell’epoca – specie in poesia – era rischiosissimo. La traduzione procede spedita, senza intoppi o incertezze – tra l’altro individuabili con fatica in traduzione, e ciò attesta il lavoro direi “passionalmente serioso” della traduttrice (che del resto è essa stessa consapevole, come di solito tra seri slavisti). Ho raffrontato i testi originali con i versi tradotti e non ho riscontrato alcuna stanchezza stilistica, anzi ne sono usciti fuori, come da un sottosuolo, quelle particolari sensazioni che ad un orecchio sensitivo non sfuggono, e cioè caratteristiche metriche e sonore, alcune figure, alcuni tratti musicali… insomma appartenenti ai poeti su citati e aggiungerei Pasternàk e anche Majakovskij (quest’ultimo perché? Perché l’ultimo verso su citato in corsivo:
“misurai il tempo con la catena dell’agrimensore/ ed attraverso di esso sono passato, come attraverso gli Urali”, m’ha fatto pensare al celebre verso majakovskiano:
“la mia vita è passata, come sono passate le isole Azzorre”.
Se in Tarkovskij è dunque la dimensione temporale (si presume il tempo della sua vita e il suo tempo storico) a sostenere il campo visivo legata a una dimensione geografica (gli Urali); in Majakovskij la metafora geografica (è insuperato maestro in questo) onnipresente è legata alla sua vita di poeta e di uomo. Se avesse scritto:
“Il mio tempo è passato, come sono passate le isole Azzorre”, le differenze sarebbero state davvero minime! Ma Tarkovskij dice “Tempo” è dona una epica al suo tempo; Majakovskij dice “vita” è dona a un se stesso passato una epica… a se stesso!. Quanto riguarda le atmosfere domestiche… anche qui non possiamo fare a meno di riferirci a Pasternàk (qui non citato), ma la historia è sentita come in Mandel’štam, non tanto a strati sovrapposti che s’intrecciano, quanto a mobilità fluide all’interno di ciascuna epoca. Ben detto su Chlebnikov-Tarkovskij (e per il riferimento alla farfalla e al cigno bianco il lettore di questo blog dovrebbe leggere il saggio di Ripellino “Poesie di Chlebnikov”, così avrebbe un esempio magistrale del come si fa critica!). Viene qui citato I. Annenskij che l’Achamatova (qui citata) azzarda maestro di tutti, compreso Chlebnikov (da cui tutti derivarono, invece!) in una lettera; e per finire l’esule (ma non tanto) – dell’emigrazione – Chodasevič, e l’accostamento con questi mi pare difficoltoso, se non per l’amarezza similare che li pervade. Di questo poeta proprio in questi giorni mi sto occupando per una pubblicazione).
Tarkovskij infine morirà nel maggio 1989 certamente intuendo la fine dell’epoca comunistica: si sarà fatto, appunto o forse, tra le pareti domestiche una risata mefistofelica!
a. s.
.n.b. quel poeta che disse di Tarkovskij, autore di “poesie lacrimevoli”, avrebbe dovuto sapere che tutta la poesia russa fin dalle sue origini è impregnata di lacrime! Ma di lacrime… alte e profonde!
Io non le ho trovate affatto lacrimevoli in senso evidentemente spregiativo. E’ vero che tutta la poesia russa è impregnata di lacrime, al pari della narrativa dei grandi romanzieri. Che dire, infatti, della vicenda “a tre” che ha come protagonista Dmitrij Karamazov?
GBG