Antonio Sagredo (pseudonimo di Alberto Di Paola), è nato a Brindisi nel novembre del 1945; vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza.
La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia: Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984,(pseud. Baio della Porta): Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A. Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).
Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi: Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval; (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).
Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo), trad. A. Di Paola e K. Zoufalová. È in uscita, per Chelsea Editions di New York, Poems Selected poems di Antonio Sagredo.
Commento di Giorgio Mannacio
Caro Sagredo,
parliamo – dunque – secondo promessa, dei versi che mi ha gentilmente inviato. Non si tratta di assolvere un dovere ma di contemplare il dono e di coglierne l’essenza. Esso si arricchisce ,poi, dell’invio dei “materiali“. Questi ultimi, oltre ad essere molto interessante in sé, confermano alcune mie intuizioni sulle caratteristiche della sua opera poetica. La definisco singolare in senso stretto sia nella forma che nei contenuti (pongo questa distinzione solo euristicamente ). L’aggettivo è assunto proprio letteralmente come denotativo di una originalità assoluta. Essa investe, come le anticipavo, sia le scansioni formali che la materia investita da esse. Il testo è davvero suo e solo suo.
1.
Mi ha colpito – quanto alle prime – la costruzione secondo un ordine che è contrappuntistico:
ad ogni quartina corrisponde altra quartina secondo un ritmo quasi responsoriale e salmodico, inusitato nell’esperienza contemporanea. E’ questa periodizzazione- che fa di ciascuna quartina un “tempo“ e che è pensata e costruita con cura e dotata di una interna coerenza – a scandire poeticamente la sua scrittura . Non si assiste ad una rappresentazione di fatti ordinati secondo una cronologia del prima e del dopo degli eventi ma ad una oscillazione tra essenze mentali (esperienze interiori ) che debbono essere colte nella loro unicità “attraverso la contemporaneità“ del dettato. Ciascun frammento è consonante.
Ho immaginato, di fronte a tali evidenze un teatro (ecco l’importanza anche ermeneutica dei suoi materiali) in cui si muovono ( nella declamazione ) personaggi e vite e istanze diverse. Ed ho “visto “una rappresentazione“ drammatica in cui la parola., altrimenti fuggitiva, deve essere necessariamente gridata, scagliata e dunque impressionante perché se non è così non si coinvolge alcuno. Nel teatro bisogna colpire forte anche se in modo “ ingiusto “.
Si, penso ai suoi versi come a un “coro“ nel quale si debbono individuare sia i singoli protagonisti sia le singole esperienze a costoro proprie e – alla fine – trarne un senso comune
(il senso del testo nel suo complesso). Non mancano riferimenti oggettivi ad un spazio per così dire teatrale. Colonne, padiglioni, ponti, teatri in lacrime. Credo che alla sua poesia si debba – prima di tutto – assistere e abbandonarsi.
2.
Quando ho manifestato una certa insofferenza per l’ideologia, ho inteso – propriamente – rifiutare, almeno preliminarmente, ogni classificazione che si legittimi attraverso di essa
( ateo devoto, astorico etc. ). Da tempo penso che ogni individuo finisca per essere una individualità universale e, dunque, ogni esperienza del singolo riflette l’intero. Perché non assumere di fronte a ciascuno un atteggiamento di “ rispetto “ che è – nella sostanza – l’accoglienza sia del simile che del dissimile ? Come le anticipavo la sua è una poetica ardua, difficile. E’ da scandagliare in tempi lunghi e frazionati che ne scompongano il tessuto (nodi su nodi, fili su fili, un tessuto composito di figure enigmatiche) e lo ricompongano secondo ciò che ciascuno porta con sé . Ogni figura umana è – alla fine – un piccolo o grande enigma che – come in un rebus – si esprime nei volti, nei gesti, negli accostamenti bizzarri ma, alla fine, carichi di senso. In questa direzione la sua è una poesia essenzialmente visionaria.
Alcune connessioni – imposte con la necessaria “ violenza del testo “ – sono palesi. Vi sono figure reali che solo la “ lontananza“ rende leggendarie (penso a Helle Busacca richiamata da qualche suo verso); vi sono metafore che, all’opposto, vanno ridefinite in figure o situazioni reali (streghe, vergini: gli eretici sono coloro che bruciano o i bruciati ?). E alla fine la conclusione- amara ma inevitabile -si esprime nell’ultimo verso
( l’in-emendabilità della Storia ?)
I vari punti di domanda che pongo e che le pongo sono segnali delle difficoltà che incontra il lettore (lo spettatore) e che in alcune critiche che le sono state fatte vengono catalogate quasi come “colpe morali. “Perché Sagredo non sta assieme a noi, perché è così sdegnoso ?
Certo, anch’io gradirei – ma nel senso di una maggior comprensione – l’aiuto per superare certi passaggi, a volte angusti e a volte librati nel vuoto, che i suoi versi costantemente propongono. Ma si è sdegnosi in diversi “modi“. Si riconduce tutto, allora, ad una analisi di coerenza e adeguatezza del pensiero alla parola, o sbaglio ?
Se c’è un pericolo in questo che a me sembra un “teatro di maschere” – e se è legittimo segnalarlo- è quello della “fissità“. La maschera cela volti diversi e li rende eguali sfociando, alla fine, nel manierismo.
3.
Debbo, in chiusura, confermarle che l’avventura o la sfida (la partita a scacchi de Il settimo sigillo) che lei affronta mi coinvolge più di quanto desidererei. Ma ciò non è forse segno di una ulteriore misura di novità e ricchezza ? Credo che lei abbia attraversato e continui ad attraversare esperienze invidiabili e che queste – inevitabilmente – influiscono sulla sua scrittura complessa. Spero di non fare un proposta “ oscena “. Perché non arricchisce i suoi testi di un commento nel senso strettamente oggettivo di note di richiamo e di esplicazione di tempi, luoghi, situazioni anche mentali ? Che c’è di male in questo?
La sua intervista mi ha riportato alle mie letture di Ripellino, un autore che mi affascina. E dunque grazie anche di questo.
Un cordialissimo saluto.
Commento di Laura Canciani (Poliscritture, 8 settembre 2015)
Gentili locutori del blog,
vorrei eccepire qualcosa circa la “comprensibilità” della poesia di Antonio Sagredo. Innanzitutto, non esiste una comprensibilità assoluta, come non esiste una incomprensibilità assoluta. Per intendere la poesia sagrediana dobbiamo necessariamente uscire dalla tradizione recente del Novecento italiano e dai mini canoni che hanno imperversato in questi ultimi decenni. E’ lo stesso Sagredo che ci mette sulla retta via quando ci parla di una poesia che deve ripartire dallo stadio zero; il poeta ci vuole dire che ha tagliato tutti i ponti di collegamento con la tradizione italiana. E’ questo il distinguo che fa da fondamento alla sua poesia. Indicarlo come uno “stolto” o come un “superbo” significa non aver compreso il lavoro di raschiatura compiuto da Sagredo. Dirò di più, Sagredo è più che “stolto” e “superbo”, è anche autoritario e dittatoriale, la sua poesia si pone come un assoluto di estraneità, come un anacronismo vivente, tende alla assoluta alterità. Ma questo dato di fatto è, di fatto, un punto di enorme vantaggio della poesia sagrediana rispetto a quella dei poeti che scrivono alla maniera della poesia maggioritaria di oggi, quello sì un gergo insignificante e, in quanto tale, comprensibile a tutti. Ma in questo caso si tratta di una comprensibilità che non buca che il presente, la comprensibilità del banale e del quotidiano. La poesia di Sagredo ha il suo centro di gravità, la sua base, il suo fondamento nella “immagine”, è questa la chiave per entrare dentro i suoi meccanismi segnaletici molto complessi e sfuggenti. E’ come se si volesse capire Tranströmer senza fare riferimento alle sue fittissime reti di immagini. La poesia di Sagredo non può essere compresa se non si entra all’interno del suo sistema segnaletico e del suo sistema semaforico, entrambi sistemi basati sulla polimorficità della “immagine”. Ergo, l’io del poeta passa in secondo piano, ridotto com’è ad un sistema di specchi che rimandano l’un l’altro, un caledoscopio di immagini che impongono all’io poetante di ritrarsi sullo sfondo, di sottrarsi. Insomma, ritengo la poesia sagrediana come una delle cose più interessanti che si scrivono oggi in poesia in Italia proprio per la sua capacità assumere un vestito linguistico assolutamente singolare e irriconoscibile…

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo
Prove mostruose
(6)
Si svegliò sui gradini di un sacrario, le ossa forzavano il midollo ad un zigzagare
e a precipizio nei labirinti scorrevano i gridi angolari dei corvi e delle cornacchie.
Io sapevo che gli specchi anche nelle profondità ossute di Psiche erano pelosi,
come gli sguardi di Narciso che invano una selce barbarica radeva perché la
parola fosse circoncisa dalla Storia nel suo originario decantare. Il dubbio acheronteo
era uno stillicidio per le onde e per le anime migranti che la Morte per acqua temevano
più delle loro lacrime – per questo sghignazzava un verdastro Vodník su uno scoglio simile
al dente del giudizio – e beffava di Orfeo la maschera cartapestata e lacrimosa,
e il suo rifiuto alla proposta scellerata del voltarsi indietro: il miserabile era un portoghese,
non poteva traghettare il proprio corpo evanescente che si sbriciolava davanti ai furori delle
braci… negli occhi-uncini di Diomede! – il panico si sciolse in sogni speranzosi: tornare, forse?! –
ma il battello andava, errante… sulla riva le orme erranti degli sguardi sbigottiti!
e la marina… ondosa di sessi vaganti… di risacche – di gemiti!, e sfinimenti… arenosi.
Campomarino-Maruggio
26 giugno 2015
(un notturno sul molo dall’ora terza alla quarta)
Prove mostruose
(7)
a Antonio Dattis
Questa sera ho stretto la mano di Antonio e ho fatto una salto dal medioevo al settecento!
Mi sono arroventato le mani al contatto e i legni smaniosi hanno sragionato per tallonare
il suo ingegno! Non avevo che da rimproverarmi la precisione del mio cerebro e il calibrato
furore delle mie mani, e delle dita che lo guidavano… non possedevo che quest’arte, io!
E alla malora il Tempo e il Labor che non volevano finire: chiedevano un’assemblea plenaria
ai gesti, agli strumenti, ai disegni, ai pizzicati suoni… a che le corde fossero stonate perché
mai la fine accadesse tanto presto, e supplicare così la durata della passione divorante nel laboratorio…
la testimonianza ricordava quello del Padre mio fra trucioli e colla cervone…
Io, bambino, l’ammiravo…
ma qui, al savese, dobbiamo un inchino immortale, e non lo sconforto dell’anonimato!
Sava/Campomarino, 5 luglio 2015
Prove mostruose
(8)
La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura atterò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis, hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…
Miris è davvero morto!
E quella rosa d’inverno come mi ricorda le mie Rose conquistate!
Rose di Praga fra la neve imminente… rose di Keplero e di pietra!
Annamaria è un Vesuvio di rose! Rose di lava vesuviana!
Lingue di lava di rose! Rose che vincono tutte le battaglie!
Dialetto rossolavico di rose rosse invernali e… non so che dire… altro…
Rose dei crocicchi, dei trivi, rose sfogliate e invogliate, rose – su tutto!
Così cantavano i miei passi, le orbite volate via!… e su tutti i ponti gli occhi e le visioni
di un’altra creatura che mi tallonava… accanto – e mi assillavano le sue letanie
di voler esistere come un refrain la mia vita su un arazzo sfilacciato:
come è artificiale questo sole che infine si riposerà e modellerà i nostri volti
con una maschera gelata!
E dopo il gelo, che saremo? Chi di noi sarà come prima, mostruosa Poesia !
Campomarino, 13 luglio 2015
(notte, marina, all’ora terza)
Prove mostruose
(10)
Ti ho sentito
piangere dalla camera dove non ci sei
Helle Busacca
Erano una vigilia pagana le sei colonne corinzie, e come un santo sui padiglioni
miravo il volto tumefatto della Supplica e fra movenze cardinali s’inceppava il mio
passo, ma nel suono dei sandali gli accesi ceri invocavano la cadenza di un ordine…
la povertà su uno stendardo disegnava ecumeniche e sordide denunce.
Attraversavo la soglia dei miei passi che mi chiedeva udienza sul banco dei pegni
scellerati, l’assise era smaniosa perché fosse plenaria la condanna della Sapienza,
e ti sentivo piangere dalla cella dove non c’eri… l’istanza vagava fra le navate come
un alato magistrale cerebro sulle cattedre, l’assise era plenaria sui cartoni e disegnava
il Perdono della Misericordia… mi chiese udienza presso le sei colonne corinzie…
passavo e cinguettavo un motivetto come il poeta sul Ponte delle Legioni e le mie
lagrime erano sospese come quelle degli Impiccati, degli Arsi Vivi, delle Streghe-
Vergini, ché Amore fu un rosario d’elissi in fiamme indulgenti… teatri in lagrime
di legno! Una vigilia pagana le sei colonne corinzie, la soglia dei miei passi
declinava sonore udienze… non sapevo le istanze o le condanne sottratte ad una
colpa recidiva! Il tribunale mi chiese se le mie lagrime come quelle delle sante
fossero vergini come le navate mai percosse dai voli di candide colombe e se con
gli occhi ecumenici nell’indulto mostravano ai tribuni le loro dita grasse come vermi…
e che ogni esecuzione per loro era una cuccagna… per questo i roghi erano una gioia
incontrollata, un carnevale approntato perché la santità degli atti fosse un sigillo o un
sacrificio cretienne, e mi chiedevo se lo stile pagano fosse stato meno – crudele!
Maruggio/Campomarino, 12 sett. 2015
(all’ora sesta)
Prove mostruose
(11)
Se ne tornava coronato di nastri funebri da un banchetto nuziale, l’idea fissa
di scalare le immagini perlacee dietro le quinte lo tallonava come un segugio,
si staccava dal moccolo con lo schiocco della sua lingua mercuriale… lordogravido
di ex-voto infine salpò con la gorgiera gonfia al vento verso Citera, l’irraggiungibile!
C’era una fittizia tempesta, cartonata! Ahimè, l’ancora fu scordata sul palco,
il suggeritore era in pianto più o meno dirotto, il molo sussultava come una prateria
in fiamme, il battello convulso come la bellezza secondo Tommaso-Riccardo indifferente
agli stermini… io raccoglievo le parti, confondevo le trame e le scene:
il raccapriccio non era previsto!. La polena-drago se la rideva attorcendo la prua
come un viticcio! Era di cartapesta la barocca ira di uno spiritato elfo che con una
celeste madonna danzava il foxtrot.. si leggenda che in un’alcova sotto le travi i complici amanti giocavano agli astragali i propri destini erogeni, violacee le ugole… e
chissà dove le aiuole rosse della platea erano le poltrone rivestite di polpa di donne…
Il pianto aizzava le lagrime a deglutire gli affanni e i tormenti, qualcuno indicava
sulla carta moschicida i puttini in volo… io sul molo, irreale, come in un patio miravo
Platero che ragliava davvero, e Ramon e Federico con le orbite in panne – delle vele!
Maruggio-Campomarino, 14 sett. 2015
(dall’ora 16esima alla 17esima)
Prove mostruose
(12)
La Troia-Santa dagli occhi turriti mi vietò il tributo della veglia,
la sua assoluzione disattesa aveva i capelli corvini,
reclamava la mia barbarie, ma la sua risposta non era la
condanna della innocenza.. le maschere si somigliano
sentenziò il poeta nel prologo immortale. Questo presente
è sconnesso davanti alle aurore degli stermini, gli albori
io vedo che sono nelle nostre ossa, la carne scarnificata
dalla tolleranza occidentale… le esequie inseguono i feretri!
Ero sul lastrico per la fama di un dio in divenire, il ritorno
non più eterno, le rotazioni una finzione delle stelle, la lettura
dei testi primordiali un fallimento delle umane storie…
interdetto dai secoli avevo per rifugio un umido sottoscala
pietroburghese… e capivo le tue grida antelucane e le nerastre
ombre, la tua passione dantesca e i latini amori, i ceppi ora sono
qui a vegliare l’immortalità, la pedantesca oscillazione degli orologi
marini, le sesse oleose che mi ammalano il cerebro d’accidia!
Sui merletti della torre se ne veniva danzando, come un ectoplasma
gelatinoso, la Santa Troia dagli occhi turriti che il tributo di una veglia
mi donava, a me, l’insonne eccelso, l’artigiano di versi sublimi,
sollevando l’ostensorio, come uno sfilacciato, monotono stendardo – di cartapesta!
Maruggio-Campomarino, 16-17 sett. 2015
(all’ora 23-esima e ottava)