Archivi categoria: il romanzo

il ROMANZO DELLA STAGNAZIONE SPIRITUALE: 248 giorni di Giorgio Linguaglossa (Ed. Achille e la Tartaruga, Torino, 2016 pp. 202 € 16) Commento di Sabino Caronia e Lettura dialogata di un capitolo, l’85 giorno titolato: «L’esistenza senza destino» a cura dell’Autore e di Costantina Donatella Giancaspero

foto-anahit-1

(Ely, la protagonista del romanzo)

Questo non è un romanzo “tradizionale”, una storia d’amore tradizionale, e neanche un triangolo, anche se nelle pagine finali si parla parecchio di triangolo. È un romanzo della Crisi esistenziale, il romanzo della stagnazione spirituale.
Una sorta di roman philosophique, o meglio, un romanzo esistenziale, molto dialogato. Il dialogo infatti occupa un settanta per cento della narrazione e gli interventi del narratore sono appena accennati, appena delle didascalie, quasi da sceneggiatura. Lei, la bellissima spogliarellista, ex attrice di film porno usa lo stesso linguaggio dello scrittore; lui, un intellettuale, scettico, distaccato, svogliato, in profonda crisi di motivazione letteraria che, consapevolmente, come lui dice, scrive «romanzi di terza categoria», dei «gialli», con un commissario, dal corrivo cognome, de Luca, svogliato, demotivato, disilluso che non riesce a sbattere in gattabuia i delinquenti che lui vorrebbe; lei appassionata e ribelle alla normalità della vita borghese.

Il romanzo comincia narrato da lei, poi passa la palla a lui, per riprendere verso la fine a narrare lei; e, nelle ultime pagine c’è addirittura un narratore esterno, allorché il romanzo assume l’aspetto di un dramma, con tanto di palcoscenico, un regista e un altro personaggio, Magistri, l’impresario delle porno star, con tanto di scena e di indicazioni scenografiche. Sceneggiatura, teatro, cinema, fotogrammi serrati si ritrovano fusi insieme, con un ammiccamento forse anche al Tinto Brass de L’uomo che guarda ma più probabilmente al romanzo esistenzialista francese degli anni Sessanta.

L’inizio del romanzo sembra tradizionale: Lui che corteggia una bellissima Lei. E invece, si aprono subito le quinte della problematica dell’ansia e dell’angoscia, tipica della nostra epoca della stagnazione spirituale; le parole dei protagonisti si perdono in una atmosfera ovattata dove i significati si sbriciolano, si dissolvono, diventano irriconoscibili.

https://www.facebook.com/donatella.giancaspero/videos/700900823393599/

La vicenda procede con dialoghi serrati, drammatici. Ogni tanto lo scrittore si abbandona, suo malgrado, a riferimenti letterari (il romanzo di Moravia, i gialli «vincenti» e «normali» di Camilleri, la poesia di Montale, un titolo di Brodskij), disquisizioni filosofiche, un confronto a tutto campo dove emergono le contraddizioni del nostro modo di vivere. Ely sprona Massimo a scrivere romanzi veri. Lui risponde che non ne ha voglia, che preferisce scrivere romanzi «gialli di terza categoria», perché è questo quello che il pubblico gradisce e l’epoca richiede. Man mano che il romanzo procede, i dialoghi si fanno sempre più serrati.

Parlavo di cinismo, di crisi esistenziale, mi riferivo in particolare ai due lunghi sogni che in qualche modo dividono il romanzo. Il primo (pag.31 e segg.) è la scena in cuii il protagonista scende in una grotta, una specie di caverna-incunabolo senza fine, dove è il nichilismo a farla da padrone; Il secondo (p. 131), è la scena di un treno che sta per scontrarsi con un altro sulllo stesso binario a tutta velocità, c’è il problema dell’identità (lui si riconosce nel macchinista che sta per andargli contro) e di sdoppiamento della personalità.
Senza dubbio c’è l’erotismo, non rappresentato come una sfida alla convenzione borghese, quanto come un erotismo proprio di due intellettuali in crisi; un topos letterario anche, tipico dei romanzi esistenzialisti francesi degli anni Sessanta. Lei cammina nell’appartamento sempre nuda, al massimo con autoreggenti e/o perizoma e tacchi a spillo. Tacchi altissimi, ombretto, fard, accessori della bellezza femminile, autoreggenti, reggicalze; lei è seduta davanti allo specchio, parla di problematiche esistenziali e filosofiche. Lui fuma MS con filtro, lei fuma Astor con filtro, l’appartamento è invaso da una fitta nuvola gialla, metafora visibile dell’avvelenamento della loro condizione esistenziale

Gli atti erotici sono uno o due, potremmo dire uno e mezzo, il primo a cui il nostro scrittore assiste dall’altra stanza, con Magistri primo attore; il secondo direttamente, dal vivo, non dal protagonista che assiste ma dal punto di vista della donna e del suo amante.
Da segnalare, infine, le innumerevoli considerazioni di estetica,sulla bellezza e sull’idea di romanzo che ha il protagonista («Nel migliore dei casi puoi scrivere alla Moravia»).
E, infine, il finale. Drammatico. A sorpresa.

(Sabino Caronia)

https://youtu.be/1157jZhPQ8Y

65° giorno

I PENSIERI DI MASSIMO: LA FERMATA NEL DESERTO

Avevo raggiunto quel gradiente dell’esistenza oltre il quale non resta più nulla, quel punto dopo il quale non c’è più futuro e dietro il quale rimane soltanto un cumulo di macerie fumanti al quale noi abitualmente diamo nome di «passato». In verità, questo punto, virtualmente, esiste soltanto in potenza, come possibilità estrema, di cui di solito gli esseri umani non faranno mai esperienza diretta nemmeno nel corso di un’intera esistenza. Quel punto non è più il punto della sospensione, e nemmeno della sospensione di tutte le cose ma è il punto del termine dopo il quale non resta altro che fare esperienza del vuoto, del niente. Ed è qualcosa di spaventoso che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico, ammesso che ne abbia uno, giacché in quella dimensione dell’esistenza cessano di avere senso le comuni distinzioni di bene e di male, di giusto e di ingiusto, perché tutto ciò è unicamente privo di senso. Avevo raggiunto, dunque, quel punto preciso dove non c’è più spazio per la disperazione, non c’è più spazio per l’attesa e non è possibile neanche fare il tentativo del ritorno, della nostalgia, nella misura in cui una volta che siamo giunti nel non-luogo, non è più possibile nemmeno immaginare che esista qualcosa che abbia nome “luogo” e che possa costituire un punto verso il quale ritornare o comunque dirigersi.
C’è un momento nel corso dell’esistenza che quando lo raggiungiamo ci accorgiamo che siamo in mezzo ad un deserto. Ovunque si volga lo sguardo non vedi altro che una distesa di sabbia marrone. Dune di sabbia fino al più lontano orizzonte. Ecco, questo significa che avete raggiunto il punto dove c’è soltanto il semaforo rosso che vi avverte che siete arrivati al non-luogo. E il semaforo segna sempre il rosso ovunque voi andiate: a destra, a sinistra, a nord o a sud. E non c’è nulla che possa strapparvi a quella condizione tranne un evento del tutto insperato o indesiderato: un terremoto, un uragano che vi faccia sprofondare negli abissi di un altro luogo così distante ed infernale che voi non avevate minimamente previsto o prefigurato. Una volta soltanto abbiamo avuto cognizione di un evento simile quando siamo stati cacciati fuori dal ventre materno e siamo usciti alla luce del sole belando come agnelli in preda al terrore. Qualcuno ci ha tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla placenta della nostra genitrice e siamo rimasti soli nel cuore della notte, in mezzo ad estranei che non abbiamo richiesto, non abbiamo scelto, ai quali abbiamo dovuto soggiacere costretti dalla nostra impotenza di neonati. Ma io ero un uomo adulto quando giunsi in quel punto che ho chiamato non-luogo, ero ancora nel pieno possesso di tutte le mie facoltà e della mia volontà, e l’uomo è una specie di macchina infernale che è capace di muovere tutte le cose, capace di sopravvivere nelle condizioni più avverse e capace di desiderare anche quando il desiderio è morto e non restano altro che le colonne d’Ercole del vuoto da esplorare.

Quando incontrai le sue gambe avvolte nella guaina delle calze a rete, accavallate come due magnifiche torri affusolate che dal ginocchio, piccolo e ossuto, si allungavano fin sotto all’inguine, non ebbi la sensazione di aver incrociato la persona che avrebbe dato una svolta al mio destino, una svolta ed una scossa. Era superbamente bella. Nel suo sguardo lampeggiava un’aria altezzosa ed altera in cui riconobbi qualcosa che non riesco ad esprimere, che mi era familiare ed estraneo. Direi un fascino, una forza di attrazione che non mi saprei spiegare. Una forza gravitazionale, che è nelle cose più che nei nostri pensieri. Perché le cose accadono, le cose urgono, spingono… e il pensiero non può che seguirle.
Non ci fu tempo per riflettere che già la mia bocca si posava sulle sue labbra. Mi impastai dell’umore del suo rossetto viola e, mentre la baciavo, lei aprì gli occhi forse spaventati e voluttuosi. E vidi le sue pupille nere che si contraevano e si espandevano nelle iridi violette immerse nell’ombra. Fu un bacio lungo e tortuoso, tormentato e voluttuoso. Fu il nostro sigillo, il sigillo del nostro amore. In verità, ogni amore è riconoscibile dal proprio sigillo. Inequivocabile ed univoco. E il nostro sigillo fu il suo rossetto viola che si appiccicava alla mia bocca come una colla profumata. In seguito, per tanti anni fui perseguitato nel ricordo da quel rossetto viola e dalle sue labbra fredde che si aprivano lentamente. Non ho altri ricordi del nostro primo incontro se non che c’era una musica da ballo, le note risuonavano nell’ampio salone e lei che era seduta in un divano accanto alla finestra aperta sul gelo della sera mentre la pioggia tamburellava sulle mattonelle del giardino. Era come assente. Come se non ci fossi né io, né la poltrona nella quale eravamo sprofondati, né la finestra aperta, né la pioggia, né la chincaglieria della dimora borghese che ci ospitava. Mantenne quell’aria assente ed altera per tutta la serata mentre io la baciavo affannosamente, senza pronunciare una parola come se fosse una marziana o una venusiana catapultata per caso nel nostro pianeta in preda agli spasmi della decomposizione.

A quel tempo lei viveva, o meglio, sopravviveva, in una minuscola camera di uno squallido miniappartamento nei pressi della stazione Termini. Nell’armadio c’erano appesi i suoi abiti di scena, costumi erotici, scarpe dagli altissimi tacchi a spillo, stivali di tutti i colori che giungevano sopra il ginocchio, mantelline nere e violette, voilant, corsetti e corpetti traforati e trasparenti, minuscoli perizomi dal filo invisibile che terminavano in un triangolino della misura di un francobollo, cappellini con veletta, guanti di tutti i tipi e colori che giungevano fin sotto l’ascella. Una vera panoplia dell’eros.

Io la raggiungevo nel suo appartamentino ammobiliato ogni sera, prima dello spettacolo. Lei mi attendeva, in silenzio, non pronunciava mai una parola, avvolta nei veli dei suoi abiti di scena trasparenti e ci univamo in amplessi ora violenti e scomposti, ora dolci e languidi. Sorrideva d’un sorriso casto ed elitario, come se tutto il lerciume della sua esistenza non la riguardasse affatto. Aveva disciplinato il lerciume della sua esistenza mediante un rigorosissimo nitore, come una luce bianca che illuminava i movimenti del suo quotidiano. Cominciai a capire che non c’era nulla di strano nel suo modo di vivere. Con i piccoli occhi di lince alludeva ad un invito ad entrare nella sua alcova profumata. Almeno, così interpretavo il suo silenzio. A volte, abbozzava appena un accenno con la testa. Impercettibile. Talmente impercettibile che sovente mi chiedevo se in lei ci fosse del diniego o della accondiscendenza, e fino a che punto il cenno riflesso nei suoi occhi potesse essere interpretato nel significato di acquiescenza o di renitenza. Non ho mai compreso fino in fondo l’insondabile metessi di tutti questi retropensieri, non sono mai riuscito a sbrogliare fino in fondo il gomitolo dei suoi silenzi e delle sue reticenze. Ma forse tutto ciò non è importante. Non è determinante. Quello che era veramente importante può essere riassunto così: che la Ely stava con me, che ascoltava i miei silenzi mentre io ascoltavo i suoi. A quell’epoca ero portato a considerare che tutto ciò fosse un elemento inscindibile del suo essere nel mondo. In un certo senso, lei era così come io l’accoglievo. Lei era così come io la interpretavo. Ma poteva essere anche altrimenti. Sotto la coltre dei suoi silenzi e delle sue allusioni silenziose avrebbe potuto essere altrimenti. Avrebbe potuto rivelarsi un’altra donna.
Per lungo tempo presi a frequentare il suo miniappartamento ammobiliato di terz’ordine, la sera all’ora della cena. Portavo un cartoccio di supplì, crocchette, filetti di baccalà fritti, patate al forno dalla rosticceria sotto casa con del buon chianti e dei pasticcini. Poi facevamo all’amore. Amplessi silenziosi e fugaci. Poi, lei si vestiva ed io tornavo trafelato ai miei appunti di scrittura. All’epoca, stavo scrivendo un romanzo, niente di speciale, una serie di gialli con un commissario stanco e svogliato che invece di dare la caccia ai malviventi passava le notti a bere drink da un locale all’altro, passando dalle le braccia di una prostituta all’altra. Il commissario dormiva appena qualche ora, e la mattina, sempre stanco e distratto, andava in ufficio tra le scartoffie e i piedipiatti a giocare a guardia e ladri.

All’epoca, avevo anche pubblicato una decina di questi romanzi che avevano avuto un qualche successo di vendite e l’editore mi aveva fatto un contratto capestro con il quale mi teneva in pugno: dovevo sfornare un romanzo all’anno in cambio di pochi denari che mi permettevano di sopravvivere in qualche modo fumando pessime sigarette e mangiando un sobrio pasto al giorno in trattoria. Per i miei bisogni, era più che sufficiente. Vivevo di notte e dormivo di giorno. Il pomeriggio era dedicato alla scrittura. La mia esistenza viaggiava leggera e inafferrabile come un treno blindato. Non avrei dato una lira per tutto ciò che c’era fuori del mio vagone blindato. Vedevo il treno al quale era agganciato il mio vagone che correva trafelato nell’oscurità della notte del mondo ma non mi chiedevo dove mi stesse conducendo, quali deserti attraversasse. Non mi ponevo domande, ecco tutto. Lasciavo che tutto filasse convinto che in qualche modo, obtorto collo e barra a vista, prima o poi tutto tornasse a posto, magari nel posto sbagliato ma, in qualche modo, a posto.
Quando incrociai Ely ero sempre stanco e svagato; ero diventato un doppio del personaggio del commissario creato dalla tastiera del mio computer. Ero alla ricerca di sempre nuove emozioni, di nuovi ambienti e di nuovi personaggi da mettere nei romanzi.
Ely, sì, era un personaggio da romanzo. Di madre ucraina e di padre gitano era una nomade, una apolide. I suoi occhi di lince grigia la rivelavano per quello che realmente lei era, il taglio obliquo dei suoi occhi mi metteva una specie di inquietudine. Era una senza patria alla ricerca della propria identità. Ma quale identità? Mi chiedevo. Pensavo di mettere anche lei in qualcuna delle mie storie grigie e stereotipate. E veramente, a sua insaputa, ce la misi. Qua e là descrivevo la sua magnifica chioma bionda, il suo pube biondo e la sua biancheria intima, bionda anch’essa. Almeno così la ricordo in quell’altra vita che noi tutti abbiamo dimenticato. Ora per allora. Cominciai a ficcare Ely dentro i miei romanzi. In uno divenne l’amante del commissario, il quale si recava da lei per vederla passeggiare in perizoma e giarrettiere. Quando glielo dissi, con mia somma sorpresa, Ely rimase inperturbabile. Continuò a fissarmi per un po’ con quegli occhi di lince grigia come se mi odiasse.
Mi colpiva lo sguardo «assente» di Ely, il suo volto dove a lato della magnifica bocca carnosa, stazionavano due pieghe sottili che le davano un’aria di composta malinconia. Mi perdevo ad almanaccare intorno ai suoi occhi violetti e grigi, intorno all’ombra delle sue palpebre, quegli occhi che sembravano non guardare mai in nessuna direzione, quanto piuttosto in tutte contemporaneamente, come gli occhi di certi animali in trappola che sembrano irrigidirsi in una fissità immota ma in realtà guardano ovunque alla forsennata ricerca di una via di fuga. Anche lei, all’epoca, era alla ricerca di una via di fuga, senza riuscire a trovarla. La osservavo quando mi voltava le spalle (quelle spalle terribilmente fragili e belle che mi rendevano inquieto), nei brevi minuti dopo l’amplesso, mentre fumava una sigaretta, approfittando della sua momentanea distrazione. Rubavo furtivamente alle sue spalle dei spiragli di verità, soprattutto nei momenti in cui la Ely si vestiva in fretta e furia per recarsi al night dove doveva fare lo spettacolo. Io l’accompagnavo con il mio carcassone sgangherato, ponzando in tutte le buche delle strade male asfaltate di questa capitale di merda, ma lei sembrava non farci caso, non sussultava mai, mai una parola di sorpresa o di meraviglia o di intemperanza…
Per Ely il mondo filava liscio come un tavolo da biliardo mentre per me il mondo rotolava come un bidone della spazzatura. Insomma, mi ci trovavo a mio agio anche in quei frangenti con la Ely. E questo aspetto mi inquietava. Non è possibile – mi dicevo – che con la Ely ci sto bene come con nessun’altra. Mi ci arrovellavo….

Scaricavo la Ely davanti all’ingresso del night, lei faceva il suo numero: saliva su un tavolo e si spogliava nuda, oppure ballava sinuosa attorno ad un palo togliendosi gli indumenti ad uno ad uno. Rimasta nuda, scodinzolava di qua e di là, si sedeva sulle gambe degli avventori, cincischiava, saltellava sugli alti trampoli scuotendo le natiche e poi, sempre ondeggiando, ritornava al bancone del bar dove prendeva qualcosa da bere, scambiava qualche parola con i clienti, sorseggiava un drink, fumava qualche sigaretta, sorrideva con un sorriso annoiato e distratto. E poi di nuovo saliva su un altro tavolo, si scuoteva la pesante chioma bionda dalle fragili spalle, sbatteva le natiche, s’inchinava, s’infuriava e trotterellava sui tavoli, passando dall’uno all’altro, seguendo la musica trash… poi tornava presso qualche avventore… e ricominciava daccapo.
Sì, devo ammettere che la Ely riscuoteva notevoli successi nell’ambiente per via del suo fisico esile e imponente, ma non solo, sarei tentato di affermare che era la sua particolare malinconia a renderla così avvenente agli occhi degli uomini. L’elegante architettura del suo volto, i movimenti felini che sembravano calcolati ed invece erano ingenui. Anche il suo modo di guardare il prossimo in maniera elusiva e sfuggente, con un lento movimento delle ciglia, riscuoteva grande successo presso il pubblico maschile.
Mi ero ficcato in testa che la Ely fosse un personaggio da romanzo e che io dovevo essere il suo romanziere. Idee quanto mai astruse ed inverosimili ma mi piaceva indugiare in quelle frivolezze.

Lasciavo Ely che faceva il suo lavoro nei night e me ne stavo dentro l’autoblindo a fumare pessime sigarette, una dopo l’altra. Ecco, se un effetto lo faceva su di me, questo era la moltiplicazione delle sigarette. Le fumavo una dietro l’altra, in macchina, fino a quando lei non tornava affaticata e trafelata, saltava dentro l’autobotte, io mettevo in moto e l’accompagnavo, a tutta velocità, presso un altro night. Lei balzava giù leggera come un aquilone sui tacchi a spillo e spariva all’interno. Io guardavo le lancette dell’orologio e fumavo altre sigarette. Una dietro l’altra. In silenzio.

– Ma caro perché non vieni anche tu a vedere lo spettacolo? – mi diceva con la sua vocina da cigno imbellettato. Ma io non ritenevo di doverle fornire una spiegazione, era piuttosto una domanda retorica a cui seguiva un silenzio retorico. Così passava la notte. Così, più o meno, passarono le notti, tutte le notti di quei mesi dell’inverno del 1999… Si chiudeva il sipario del millennio ed io la caracollavo su e giù per le vie del centro e paraggi e lei saltellava senza perizoma sui tavoli dei clienti. In tutto ciò non c’era nulla di eroico, nulla di erotico, nulla di poetico, direi nulla di trasgressivo. Era la banale normalità del suo lavoro. Ely aveva un vitino spaventosamente esile sul quale si ergeva il solco concavo e profondo delle reni al di sotto delle quali emergevano dall’ombra le natiche alte e lunghe. Non c’era niente da fare. Gli uomini andavano in tilt al solo vederla seminuda. Paradossalmente, Ely vestita normalmente non avrebbe richiamato quasi l’attenzione maschile se non per i seni ridondanti, ma non appena si spogliava, la faccenda acquistava un’altra dimensione. Quello che non riuscivo a capire era come facesse la Ely a resistere in quella rumorosa solitudine che era la sua esistenza tutto quel tempo pur in mezzo alla esuberante ammirazione maschile. Il volto malinconico di Ely appariva irresistibilmente erotico, bastava uno schiocco delle sue dita e i maschi sarebbero accorsi a frotte alle sue caviglie, come tanti cagnolini. E invece niente. Di tanto in tanto, mi parlava dei suoi amori passati o dei suoi amanti consegnati all’oblio, erano appena accenni a cui non seguivano mai spiegazioni esaurienti, ed io presi ad indispettirmi di tale negligenza. Lo compresi in seguito: la sua non era negligenza né trascuratezza, si trattava di noia. Noia per tutti quegli uomini che si affaccendavano dietro i suoi tacchi a spillo, noia per la loro ingombrante rumorosità, noia per il loro portafogli, noia per le luci al neon dei night, per lo champagne servito dentro boccali di ghiaccio da camerieri in livrea, noia per le macchine sportive decappottabili e non, noia per tutto quel mondo fittizio fatto nel modo che tutti sappiamo e che non potrebbe essere diverso nemmeno se tutti lo volessimo. Ma davvero lo vogliamo? Dico un mondo diverso. Davvero lo vogliamo?

Forse Ely aveva scelto me perché ero fuori dal gioco. Ero un intellettuale. Uno scrittore di seconda categoria. Un perdigiorno. Ely sapeva che ero uno scrittore di mezza tacca, un poeta fallito, anzi, abortito. Sono convinto che non si sarebbe mai presa uno scrittore di successo, c’era in lei la recondita inclinazione a stare coi perdenti. E in questa faccenda io ero un vero asso, un vero perdente. Avevo fatto di tutto per essere un perdente. Mi ci ero messo d’impegno. Anche il personaggio centrale dei miei romanzi, il commissario De Luca, era un perdente, un defenestrato da un commissariato all’altro, trasferito dal Ministero per incapacità e scarso impegno. Tra me e il mio personaggio si era stabilita una segreta alleanza, una segreta, tacita corrispondenza, una affinità. Insomma, io mi ci riconoscevo nel mio personaggio, anche lui era un mediocre: non sapeva o non poteva vincere. Schiaffare in galera un malvivente non lo riempiva di gioia, diceva che per la legge dei vasi comunicanti e per l’equilibrio dell’ecosfera sociale ci volevano anche un bel po’ di delinquenti in libertà. Questa era la filosofia del mio commissario, nella quale in un certo qual modo mi riconoscevo. C’era stato un tempo in cui avevo creduto di essere un poeta, avevo anche scritto un libro di poesie. Ma erano mediocri, irrimediabilmente mediocri. E così ci avevo rinunciato e mi ero messo a scrivere gialli. Intanto, mi proponevo di scrivere un grande romanzo, il romanzo della mia vita, il romanzo del riscatto, ma lo posponevo per la fine dei miei giorni. Ma, in fin dei conti, riscatto di che cosa? Ero uno scrittore di gialli, punto e basta. Questo mi dava di che vivere, anche se ero sempre in bolletta. L’editore, quell’aguzzino, se ne approfittava, sapeva che ero in bolletta e mi dava gli anticipi col contagocce, tanto per non farmi morire di fame. Però c’era da pagare l’affitto del tugurio dove ero relegato, c’erano le bollette del gas e della luce, la ricarica del cellulare, le sigarette, le camicie sporche da portare in tintoria e da far stirare, il dentifricio da comprare.. e così, in mezzo a tutti questi rompicapo incrociai Ely, sottile come un pistillo e polputa come un gambero.

sabino-caronia-foto-1Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi: L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000); ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo (Edizioni Associate, 1995). Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000). Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal». Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore, 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio EdiLet, 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia, 2009) e la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura, 2013). Del 2016 è La ferita del possibile (Rubbettino).

15 commenti

Archiviato in il romanzo

NOEMI PAOLINI GIACHERY: È Zeno l’assassino. Appunti sul romanzo di Italo Svevo La coscienza di Zeno . Indagine di un critico inquieto e curioso. Il romanzo della Crisi europea

 

Magritte 2A ventidue anni dalla pubblicazione del mio saggio sveviano, Italo Svevo. Il superuomo dissimulato, Studium,Roma 1993, nonostante l’iniziale attenzione da parte della critica che accolse il testo con numerose segnalazioni favorevoli, le proposte che, nelle mie intenzioni, costituivano le più significative novità  sono rimaste senza seguito. Nella critica successiva non ho infatti incontrato né adesioni né contestazioni e ancora la “vulgata” continua ad ispirare i fuorvianti riassuntini del romanzo in cui si impegnano su internet diverse volenterose scolaresche.  Del resto già allora, nell’Introduzione, notavo che «nel grande mare della critica sveviana non è facile rintracciare percorsi lineari segnati da approdi e da acquisizioni definitive e che le prospettive critiche sono, in genere, divergenti e disparate e, per di più, il contrasto dà luogo solo di rado a un aperto dibattito». Vorrà forse dire che ha ragione Mario Lavagetto quando sostiene, a proposito della Coscienza di Zeno, che il narratore è «inattendibile» e nulla di quanto dice è credibile e il lettore che provasse a credere che nel testo sia possibile «distinguere verità e bugia» sarebbe un ingenuo caduto nella trappola dell’autore, il cui unico intento sarebbe  quello di sbeffeggiare tutti inventando, per una pura sperimentazione letteraria, un racconto destinato a un «lettore incredulo», totalmente «incredulo» (per altro atteso a lungo se il primo così classificabile  è appunto Lavagetto stesso).

Ora, essendo io una lettrice non “totalmente incredula” ma portata a cercare una verità dietro le stesse bugie del protagonista, mi sono impegnata in una interpretazione del testo che,  apparsa nel mio primo libro sveviano in un capitolo intitolato Una rimozione contagiosa, fu riproposta in pubblicazioni successive con insistenza quasi maniacale.

La mia ricerca prendeva le mosse da un dialogo tra Guido e Zeno nel quale ho sempre individuato un nodo centrale del romanzo.

Magritte 4Ecco il passo trascritto dalle pagine 1006-7 dell’edizione mondadoriana. (Avverto subito che in questo caso del tutto inattendibile è l’ipotesi di una distrazione di Zeno per il lettore consapevole che Zeno nei suoi frequenti colloqui con il suo rivale Guido è sempre spasmodicamente attento e teso come un duellante a colpire e a parare i colpi dell’avversario).

Guido improvvisamente domandò: – Tu che sei chimico sapresti dirmi se sia più efficace il veronal puro o il veronal al sodio? – . Io veramente non sapevo neppure che ci fosse un veronal al sodio. Non si può mica pretendere che un chimico sappia il mondo a mente. Io di chimica so tanto da poter trovare subito nei miei libri qualsiasi informazione e inoltre da poter discutere – come si vede in quel caso – anche delle cose che ignoro. Al sodio? Ma se era saputo da tutti che le combinazioni al sodio erano quelle che più facilmente si assimilavano. Anzi a proposito del sodio ricordai – e riprodussi più o meno esattamente – un inno a quell’elemento elevato da un mio professore all’unica sua prelezione cui avessi assistito. Il sodio era un veicolo sul quale gli elementi montavano per moversi più rapidi. E il professore aveva ricordato come il cloruro di sodio passava da organismo ad organismo e come andava adunandosi per la sola gravità nel buco più profondo della terra, il mare. Io non so se riproducessi esattamente il pensiero del mio professore, ma in quel momento, dinanzi a quell’enorme distesa di cloruro di sodio, parlai del sodio.

Dopo un’esitazione, Guido domandò ancora:

 – Sicché  chi volesse morire dovrebbe prendere il veronal al sodio? –

– Sì – risposi. Poi ricordando che ci sono dei casi in cui si può voler simulare un suicidio e non accorgendomi subito che ricordavo a Guido un episodio spiacevole della sua vita, aggiunsi: – E chi non vuole morire deve prendere del veronal puro[il corsivo è mio].

Italo Svevo 1Gli studi di Guido sul veronal avrebbero potuto darmi da pensare. Invece io non compresi nulla, preoccupato com’ero dal sodio, con un rispetto infinito.

Fin dalle prime letture della Coscienza a questo punto mi si affacciava uno strano problema, che sembrerebbe più adatto a impegnare un lettore di romanzi gialli che un interprete letterario: Zeno è o non è assassino?

Mi è sembrato di dover rispondere senza alcuna esitazione che Zeno è, sì, assassino, e la risposta mi sarebbe sembrata ovvia se non avessi dovuto riconoscere, con vero turbamento, che per la critica sveviana non lo è affatto.

Il dialogo sul veronal, da me già citato, è per lo più ignorato nonostante la battuta finale («E chi non vuole morire deve prendere del veronal puro»), che a me sembra micidiale come un ordigno a orologeria.

Qualche dubbio sulla positività dei sentimenti di Zeno per Guido è sollevato soprattutto dal “mancato funerale” e da una supposta “omissione di soccorso”.

Ma, quel che è più strano, la stessa critica psicanalitica, che avrebbe strumenti adeguati e prospettive mirate per dare il giusto rilievo a questo episodio, all’ultimo momento scantona.

Potremmo pensare a un caso curioso di rimozione contagiosa, di «zenizzazione» degli svevisti (e poi c’e chi dice che il Soggetto sveviano non suscita l’identificazione del lettore!).

Italo Svevo 2Bisogna ammettere che qualche occhio più attento a cogliere questo punto nodale ma non a trarne le necessarie conseguenze si può trovare in uno degli interpreti sveviani (di cui ho altrove esaminato in una ricca rassegna le opinioni da me non condivise).

Sembra che Zeno sia finalmente smascherato proprio da Mario Lavagetto il quale, nell’Impiegato Schmitz, sostiene che Ada, «come il lettore del romanzo, vede in Zeno un ingegnoso, abilissimo criminale che aiuta Guido e gli consiglia il veleno più adatto».

Ma, a parte il fatto che Ada non vede niente di tutto ciò, ma solo l’odio di Zeno verso Guido, da lei per altro condiviso, per Lavagetto, come si è visto, nel testo sveviano confessare è mentire e nessuna conseguenza si può trarre dall’episodio (l’unica confessione di Zeno a cui si presta fede è dunque l’affermazione che «una confessione in iscritto è sempre menzognera»). Lavagetto anzi porta alle estreme conseguenze l’idea, sempre più invalsa negli esegeti più recenti, di una disintegrazione del personaggio e della realtà stessa nel romanzo, sostenendo «il carattere fittizio», a fondo «bucato», del testo in cui «i referenti risultano azzerati» .

Dopo il lungo equivoco realistico la critica sveviana ha giustamente rivendicato la soggettiva ambiguità, la polisemia della scrittura di Svevo, che non era sfuggita neppure ai primi interpreti. Ma ha forse peccato di ipercorrettismo quando, supponendo nell’autore una deliberata scelta del «non senso» , ha cominciato a parlare di una scomparsa del personaggio, di uno «sfaldamento della personalità» , di un soggetto «visto come incerta e provvisoria molteplicità di nuclei psichici» , di un «personaggio “aperto”, non definibile entro un unico carattere, ma capace di accogliere in sé uno spettro vastissimo di motivazioni tali da elidersi anche a vicenda» (il corsivo è mio).

MagritteIn realtà questo personaggio, come tutti i protagonisti sveviani, è riconoscibile come pochi personaggi della letteratura mondiale e dunque vuol dire che non è disintegrato. E il suo discorso fornisce non solo messaggi ambigui e polivalenti, ma anche dati univoci e indiscutibili all’interno del contesto.

 E questa ricostruzione dell’evento letale mi pare proprio un dato certo e quanto mai significativo.

Nella Coscienza la rilevanza della responsabilità di Zeno nella morte di Guido si comprende anche solo in un’interpretazione letterale dell’episodio citato, ma si può confermare in una lettura integrale attenta all’uso mirato, da parte dell’autore, di varie spie disseminate nel testo e di vari strumenti specifici del discorso letterario. E a questa analisi concederò qualche spazio anche se può sembrare superfluo andare in cerca di indizi in un caso di flagranza.

Anzitutto mi sembra significativo che il discorso sulla parola, quel metadiscorso che non manca mai negli scritti sveviani, nella Coscienza si appunti sul problema del rapporto tra parola e azione, termini ora dissociati, ora –meno vistosamente – associati. Momento culminante di questa vicenda tematica è il passo in cui Zeno accenna alla possibilità di «parole-azioni», «parole di Jago».

Osservando poi la struttura dell’opera (che non è, come si ripete,  informale e priva di cronologia e di trama)  si nota che i quattro capitoli centrali, che si succedono secondo un ordine, sia pur approssimativamente, cronologico, iniziando con la morte del padre di Zeno, culminano proprio, quasi in un climax, o piuttosto in una parabola, nella morte di Guido (evento che, a leggere bene il testo, a posteriori naturalmente, può risultare anche variamente prefigurato e atteso). Si può notare anzi, in questa parte centrale del libro, una certa ciclicità. Il primo di questi capitoli, sulla morte del padre, mostra più di una corrispondenza col quarto, e in particolare con la fine del quarto, dove muore Guido: la scena notturna, la pioggia, lì una «pioggerella», qui anche una «pioggerella» ma che diventa presto «pioggia abbondante» e, infine, «diluvio», l’intervento ritardato del medico. In effetti l’uccisione di Guido – e qui la psicanalisi ha voce in capitolo – è il soddisfacimento per interposta persona del desiderio di uccidere il padre, il primo vero rivale che si incarna ogni volta nei rivali successivi.

Magritte 3Non per niente nel capitolo successivo intitolato Psico-analisi, che conclude il libro in forma di diario, ricompare con particolare insistenza il tema del rapporto col padre attraverso sogni della cui significanza Zeno, in malafede, cerca di farci dubitare per depistarci. E la manovra gli riesce abbastanza, dal momento che alcuni critici non riconoscono alcun nesso tra le immagini evocate e la vicenda che precede (non ricordando che anche il depistaggio iniziale sul tema della locomotiva era poi stato clamorosamente vanificato).

Mi soffermerò anche sul racconto della morte di Guido per notare la significativa evasività del narrante. La prima volta l’evento è comunicato in posizione secondaria (almeno cronologicamente e sintatticamente):

«Dapprima apprendemmo che la pioggia aveva finito col provocare in varie parti della città delle inondazioni, poi che Guido era morto. Molto più tardi seppi come poté accadere una cosa simile».

Si conclude qui il ciclo temporale che va dalla morte del padre alla morte di Guido e che vuole presentarsi compatto e con un suo preciso significativo sviluppo, in quanto costituisce il campo su cui deve incentrarsi lo sforzo di interpretare un destino

I capitoli cronologicamente e semanticamente dispersivi, posti prima e dopo questo corpo centrale, presentano a loro volta una corrispondenza tematica per le immagini infantili connesse al tema paterno e materno che, balenate fugacemente nell’ incipit, sembrano farsi più frequenti e più chiaramente allusive benché Zeno non voglia riconoscerlonella parte finale. Dove assistiamo veramente allo sforzo drammatico del protagonista per celare, forse anche a se stesso, il suo tremendo segreto, così intollerabile che ogni allusione, pur vaga e indiretta, ai suoi sentimenti ostili per Guido provoca reazioni parossistiche.

Italo SvevoCosì Zeno commenta evocando il momento in cui Ada gli aveva rivelato, dimostrandogli al tempo stesso affetto e stima, di conoscere il suo odio per Guido. «Enorme che mi si potesse dire una cosa simile alterando in tale modo la verità. Io protestai, ma essa non mi sentì. Credo di aver urlato o almeno ne sentii lo sforzo nella strozza: – Ma è un errore, una menzogna, una calunnia. Come fai a credere una cosa simile? –».  Una situazione da incubo. E anche nel rapporto con lo psicanalista ammette che gli «fu anche più difficile di sopportare quello ch’egli credette di poter dire dei suoi rapporti con Guido». Zeno infatti si difende evitando  «i sogni ed i ricordi» e dando ormai libero sfogo alle invenzioni, alle menzogne, come ammette nel diario. E forse per questo interrompe la cura, che in ogni caso, di fronte a una resistenza così tenace a superare la rimozione, non avrebbe potuto mai avere un esito positivo. (Ma Svevo nella terapia psicanalitica non crede). Se Zeno fosse stato solo distratto non avrebbe dovuto almeno rammaricarsi di quella fatale distrazione? Ma l’ostinato silenzio, anche con se stesso, sul senso di colpa relativo alla morte del cognato dimostra che non si trattò di pura distrazione. E dimostra anche che Zeno è ben lungi dall’assolversi. Non c’ e scetticismo o relativismo etico che possa liberare Zeno dal suo oscuro rimorso. L’apocalittica profezia che chiude il romanzo è in stretto rapporto con questo pessimismo etico.

Magritte 1Naturalmente nel testo cartaceo la mia tesi si avvaleva di una documentazione, anche bibliografica, molto  dettagliata e organica e apriva nuove prospettive  per la critica sveviana in un continuo riferimento al macrotesto e alla personalità e alla cultura dell’autore non eludendo zone d’ombra (si ricordava  che il tema dell’omicidio, connesso a quello del riscatto estetico attraverso la scrittura, aveva un suo strano spazio anche nella vita e  in altri scritti di Svevo). Accanita e particolareggiata la  contestazione del nichilismo di Lavagetto (ormai curatore dell’edizione mondadoriana dei Romanzi di Svevo) per salvare almeno l’alto valore di esperienza conoscitiva che non si può non riconoscere all’opera di Svevo.

Presentazione libro “Ungaretti: vita d'un uomo”

Noemi Paolini Giachery Aleph di Roma Presentazione libro “Ungaretti: vita d’un uomo”

Noemi Paolini saggista, vive a Roma. Nata da famiglia elbana, a Roma ha sempre vissuto e operato. Il suo interesse culturale si è molto presto rivolto alla dimensione dell’arte e in particolare della poesia (in senso lato) e della musica, in una ricerca particolarmente attenta alla portata conoscitiva che nell’arte si manifesta attraverso i valori formali. Significativo è il precoce amore, al tempo del liceo, per Giambattista Vico, poi scelto come argomento della tesi di laurea. Il grande filosofo aveva tra l’altro il merito di “aver riconosciuto il valore della poesia come forma di conoscenza autonoma rispetto alla conoscenza concettuale, e di essersi così affrancato dai limiti del razionalismo cartesiano”. Nella sua attività sia di insegnante sia di interprete e critico letterario l’impegno della studiosa si è sempre concentrato, soprattutto attraverso l’analisi testuale, sulla rivendicazione di questo alto valore in opposizione a metodologie ideologiche a lungo vigenti e ancora dure a morire: da una parte un formalismo astratto e asettico che aveva svalutato la dimensione semantica preparando il nichilismo di certa ermeneutica, dall’altra una poetica ostinatamente realistica che aveva ridotto il “senso” al rispecchiamento di una improbabile “cosa in sé”. Per la studiosa il “senso” della poesia e dell’arte in genere è invece arricchito proprio dall’apertura polisemica e ossimorica del messaggio (parola che va liberata dalla compromissione politica e moralistica). Tardivo è stato il matrimonio con Emerico Giachery con il quale ha poi collaborato anche alla stesura di due libri. Tardiva la pubblicazione dei suoi studi critici e di qualche breve scritto autobiografico incentrato prevalentemente sull’ “iniziazione” alla cultura. Bisogna dire che nell’ossimoro vivente riconoscibile nella sua personalità (e forse nella personalità di tutti noi) il carattere perentorio e spesso vivacemente polemico delle sue prese di posizione convive con una profonda coscienza del limite e della soggettività del pensare individuale. Si definisce, con una formula che ha inventato per il suo Svevo, “recensore autobiografico”.

Ha pubblicato: Vita d’un uomo: fenomenologia d’una ricerca ([1988]), Italo Svevo. Il superuomo dissimulato (1993); L’artefice l’orafo la bellezza (1997); Il volto bivalente. Saggi di letteratura italiana (1997), “Pas de deux” per la poesia di Alberto Caramella (2000, in coll. con E. Giachery), Ungaretti “verticale” (2000, in coll. con E. Giachery), Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di un egotista (2001), In cerca della “pianta uomo” (2003); Le “mani tese” di Dolores. I romanzi di Dolores Prato (2008), Le ragioni dell’ovvio (rileggendo Svevo, Pascoli, Ungaretti, Montale) (2011). Oltre a molti saggi su riviste.

5 commenti

Archiviato in il romanzo, Senza categoria

IL MINIMALISMO NELLA POESIA ROMANO E MILANESE, LA FORMA-POESIA E LA FORMA-ROMANZO, IL FENOMENO DEL MAGRELLISMO E LA MICROLOGIA – LA DEMOCRAZIA POST-LIRICA: la chatpoetry, il pettegolezzo, il reality show dell’io, il cabaret televisivo, la poesia ludica, l’ironizzazione, la tascabilizzazione delle questioni metafisiche, l’istrionismo – di Giorgio Linguaglossa

bello volti in serie

Oggi appare sempre più evidente il disorientamento in cui versa la poesia contemporanea. Presso le nuove generazioni è in vigore una koinè linguistica di stampo pseudo narrativo, una sorta di democrazia del post-lirico che elegge la medietà dei linguaggi tecno-mediatici per la comunicazione del «messaggio poetico». E che si giungesse a un tale miserrimo risultato era ampiamente prevedibile. Durante gli anni Ottanta e Novanta del Novecento un nepotismo sempre più tetragono e asettico si è insediato nelle principali Istituzioni deputate alla elaborazione del linguaggio poetico. Così, dopo la dissoluzione di quello che rimaneva della linea lombarda, sono rimaste padrone del campo soltanto due poetiche: il minimalismo romano-milanese (Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen, Valerio Magrelli, Franco Marcoaldi, Vivian Lamarque oltre una schiera di minori apprendisti stregoni), e l’area che definirei esistenzialismo milanese. Resta il dato incontrovertibile della coincidenza di fatto  tra il minimalismo milanese e quello romano. Il minimalismo consente di scrivere di ogni argomento, in libertà assoluta perché privo di poetica, e in libertà perché adotta una riproduzione mimetica dei linguaggi tecno-mediatici.

In un articolo del mio libro Appunti critici del 2002, che riprende un articolo apparso su «Poiesis» del 1997, scrivevo: «L’arte del Novecento vivrà sempre più neghittosamente nella forbice divaricatasi tra la deprivazione dell’essere ed il dispiegamento progressivo della tecnologia applicata ai linguaggi mediatici. Le tarde post-avanguardie dagli anni Sessanta in poi avranno chiaroveggenza soltanto degli aspetti epifenomenici della crisi. Occorreva una tempestiva comprensione del moto di deriva della forma-romanzo verso la dissoluzione dei linguaggi e l’implosione delle tecniche compositive, occorreva riflettere sulla crisi di de-territorializzazione della forma-poesia che seguiva, a rimorchio, il declino del genere artistico egemone, occorreva una approfondita comprensione del concetto di forma-merce che, nelle economie di mercato globali tende a fagocitare entro i propri parametri ogni tipo di artefatto o manufatto estetico».

Il minimalismo è dunque la tendenza stilistica dominante della nostra epoca, nella misura in cui richiede la riproduzione fotografica del «reale» mass-mediatico mediante un linguaggio tecno-mediatico, una fiducia acritica ed assoluta nella immediatezza, nella forma-merce nel momento in cui la riproduce già feticizzata. L’arcaicità dell’elegia, che si ripropone, ancora una volta, come linea centrale della poesia del tardo Novecento, non deriverebbe soltanto dall’arcaicità del rammemorare, quanto dalla impossibilità di evincere dall’esperienza vissuta il quid di autenticità necessario alla forma-poesia: gli oggetti del ricordo vagano inconsapevoli nel mare della datità come astratti relitti del mondo delle «cose» ormai del tutto infungibili.

L’esistenza dell’opera d’arte, nell’epoca della riproduzione computerizzata dell’iperreale, è divenuta problematica. Il minimalismo è la risposta, in ambito estetico, dell’ampliamento a dismisura del mondo reale: l’iperreale ed il virtuale accrescono sì la dimensione del reale ma, ciò facendo, ne sottraggono sostrato, essenza, profondità. Poiché l’arte non può entrare in concorrenza con le smisurate capacità di creazione del «reale» della macchina gestaltica, essa ripiega nella tellurica micro-entità del mondo, portando alla estrema dissoluzione il fenomeno dell’«aura», che sappiamo essere l’apparizione «di una distanza quantunque vicina essa possa essere» (W. Benjamin).

Il minimalismo, come campo di forze stilistiche, resta stregato ad un’estrema prossimità al «reale» mediatico – il rapporto soggetto-oggetto si presenta come un reciproco star-di-fronte, fronteggiamento d’una estraneità (il magrellismo di tanti magrellisti, al di là della facile ironia, rappresenta un fait social e non soltanto una moda, e precisamente, l’impossibilità per il soggetto di com-prendere il reale, e quindi uno stallo, un alt, che è sociale e storico, prima ancora che estetico); ovvero, come una lontananza d’una autenticità posta magicamente nell’infanzia, prigione del sortilegio, (anche qui della fuga dal mondo) e, quindi, fronteggiamento-rammemorazione dell’eden, con ricaduta nell’elegia, seppur corretta, negli autori più scaltri, con inserimenti di prosasticità. Elegia ed antielegia sarebbero i corni d’una medesima dilemmatica problematicità che l’ambiguità concettuale del minimalismo non consente di risolvere. Il solipsismo rappresenta, sul piano filosofico-concettuale, ciò che tradurrei con micrologia nell’ambito estetico.

Il solipsismo è, afferma Schopenhauer, «una piccola fortezza di confine. Mai può venire espugnata ma anche le sue truppe non possono mai uscire. Perciò si può passarle vicino e lasciarsela alle spalle senza alcun pericolo». Così come la micrologia, con la sua perlustrazione del micron, rappresenterebbe l’ultimo ricettacolo di autenticità nel mondo falso e corrotto. Ma così come stanno le cose, né la micrologia incontra il mondo, né il mondo la micrologia. L’estraneità del rapporto soggetto-oggetto rimane immutata, l’origine è uguale alla meta. Alla base della micrologia (che porta alle estreme conseguenze i presupposti teorici del minimalismo e, in un certo senso, prefigura l’esaurimento di quel campo di forze stilistiche), v’è un rapporto di inimicizia e incomprensione con il «mondo», vi si avverte l’eclissi delle istanze radicali che ogni grande arte ha sempre tenuto ad esprimere pur contro la cultura di cui era espressione, la «tascabilizzazione» delle grandi problematiche della civiltà europea di cui la grande poesia del Novecento è stata espressione. Il minimalismo giustifica ed accetta come un dato di fatto indiscusso l’eclisse delle grandi narrazioni del post-moderno. D’ora in poi sarà possibile parlare in poesia soltanto tramite la teatralizzazione del proprio «io» all’interno della scena domestica, del «privato» (Patrizia Cavalli con Le mie poesie non cambieranno il mondo – 1976), del proprio «album di famiglia»: Renzo Paris Album di famiglia del 1990, in tono ironico e scanzonato.

foto-donna-macchina-e-scarpa

L’ironizzazione applicata alla vita domestica e agli affetti familistici diventerà un paradigma stilistico che il minimalismo imporrà quale modello dominante. Non è un caso che il titolo di un’opera che farà scuola, sia Metafisica tascabile (1997) di Valentino Zeichen. Con la tascabilizzazione delle grandi problematiche «metafisiche» il minimalismo proclama con impudenza e orgoglio il proprio trionfo ideologico, il trionfo del proprio scetticismo piccolo-borghese e l’avversione per ogni ipotesi di poesia non minimalista. Nei testi dei minimalisti si avverte l’odore degli appartamenti ammobiliati e politicamente corretti. Ora serrata retinae di Valerio Magrelli è del 1980. È l’inizio del «riformismo» minimalista. È noto il pensiero di Magrelli in ordine al problema dell’interlocutore: la poesia è «libera», nel senso che può svilupparsi liberamente in tante direzioni diverse, e che essa è «l’impronta digitale» di chi la scrive. Senza stigmatizzare il truismo e la tautologia di una tale dichiarazione di poetica, c’è da dire che la poesia di Magrelli, nella sua torsione verso l’utopia della par condicio tra l’io esperiente e il reale, quella che ho definito riforma moderata del minimalismo (una sorta di pareggio tra oggetto e soggetto), diventa una riflessione sull’autoreferenzialità dell’«io», una sorta di par condicio tra l’io e il non-io, dove la problematizzazione dell’io gira a vuoto all’interno della macchina gestaltica della segnaletica mediatica. Il passo ulteriore sarà la micrologia.

roma La grande bellezza fotogramma

roma La grande bellezza fotogramma

Presso gli epigoni il luogo della poesia diventerà la chatpoetry, il pettegolezzo, il reality show dell’io falsamente teatralizzato dinanzi ad un pubblico falsificato, imbonito di facezie e di trovate spiritose; il luogo della poesia diventerà il commento intellettualistico e ludico; la palestra stilistica sarà caratterizzata da esercizi, didascalie, disturbi del codice «binario», «glosse» della cronaca nera del «giornale», «glosse» del «quotidiano». I titoli delle opere dei minimalisti sono un (inconsapevole?) manifesto di poetica: tracciano il perimetro di una glossematica acritica e aproblematica. Non si capisce dov’è l’«originale», se c’è ancora un «originale», o se il discorso poetico sia nient’altro che didascalia, commento, esercizi di qualcosa d’altro: Esercizi di tiptologia (1992) e Didascalie per la lettura di un giornale (1999), Disturbi del sistema binario (2006) di Magrelli sono «esercizi» «tiptologia», codice di trasmissione dei dati, appunti didascalici per l’istruzione del pubblico, glosse pseudo intellettualistiche sui disturbi del funzionamento «binario».

Nei minimalisti degli anni Ottanta, come Vivian Lamarque, l’oggetto-poesia diventa l’investigazione della cronaca da lettino psicoanalitico, con conseguente regressione ad un infantilismo posticcio e a un finto buonismo. I titoli dei suoi libri sono eufuismi: L’amore mio è buonissimo (1978), Il signore d’oro (1986), Poesie dando del Lei (1989), Il libro delle ninne nanne (1989), Una quieta polvere (1996). È evidente che ci troviamo davanti ad una sproblematizzazione di qualsiasi problematica e a una infantilizzazione di qualsiasi tematica di adulti. I quadretti delle sue poesie sono dei finti acquerelli per bambini, finta infantilizzazione di un mondo sproblematizzato. Il libro di esordio di Patrizia Cavalli Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), segna con alcuni anni di anticipo il definitivo riflusso della cultura del ’68. La poetessa romana mette la parola fine ad ogni tipo di poesia dell’interventismo, alla poesia politica, ideologica, civile, comunque impegnata ed apre la strada del disimpegno, dello scetticismo «privato» e del ritorno al «quotidiano». L’andamento colloquiale, i toni da canzonetta più che da canzoniere, il piglio scanzonato e disimpegnato, un certo malizioso cinismo e scetticismo, l’esibizione spregiudicata del «privato», anzi, dell’abitazione privata (nella quale avviene il processo di teatralizzazione dell’io), l’esibizione del certificato anagrafico, del certificato medico, la preferenza per gli oggetti «umili» del quotidiano, l’ironizzazione dell’io lirico, la deterritorializzazione del «pubblico» sono tutti elementi che diventeranno presto paradigmatici e saranno presi a modello dalla nuova generazione di poetanti. La poesia diventa sempre più «facile», ironica e spiritosa, di conseguenza cresce a dismisura la frequentazione di massa di un certo tipo di epigonismo.

Patrizia Cavalli nasce a Todi nel 1947 e vive a Roma dal 1968In altre parole, poeticamente parlando, Patrizia Cavalli è per Roma quello che Vivian Lamarque è per Milano. Entrambe forniscono paradigmi stilistici esemplari. Entrambe aprono la sfrenata corsa in discesa del minimalismo romano-milanese. Un minimalismo acritico, disponibile, replicabile e ricaricabile all’infinito da una smisurata schiera di poetesse e poetanti del nuovo «privato» massificato della società della post-massa mediatica. La poesia diventa un genere commestibile, replicabile in pubblico, nei pub e nei cabaret, nei ritrovi all’aperto e nei teatri. D’ora in poi la poesia tenderà a somigliare sempre di più alle filastrocche dei comici del nuovo genere egemone: il cabaret. È subito un successo di pubblico. È la tipica poesia femminile degli anni Ottanta: finto-amicale, finto-individuale, finto-sociale, finto-intellettuale; dietro questo impalpabile spartito di zucchero filato e banale puoi scorgere, come in filigrana, la durezza e la rozzezza del decennio del pragmatismo e dell’edonismo di massa, il decennio del craxismo, della ristrutturazione industriale e della ricomposizione in chiave conservatrice dei contrasti di classe che erano esplosi nel decennio precedente. È una poesia facile, buonista, igienica, ironica, colloquiale, finto-amicale, finto-problematica, finto-delicata, finto-infantile fatta di un’aria sognante, di piccole gioie e piccole vicende familiari: il «privato» da lettino psicanalitico è squadernato sulla pagina senza alcuna ambascia. Un finto infantilismo (accattivante, disarmante e smaccato che mescola furbescamente il tono da fiaba con lo spartito finto-infantile), è diluito come colla appiccicosa un po’ dappertutto con una grande quantità di zucchero filato e un pizzico di tematica «alta» (la «morte»), così da rendere più appetitoso il menù da servire ai gusti di una società letteraria ormai irrimediabilmente massmediatizzata e standardizzata.

Micrologia. Poesia che è, ad un tempo, il frutto tipicamente italiano della eterna arcadia che ritorna, come il ritorno del rimosso, nella cultura poetica italiana che, da questo momento, conoscerà un lungo momento di oscuramento e di obnubilamento.Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una coincidenza di interessi, di orientamenti letterari e di concezione dell’oggetto-poesia. Una poetica di derubricazione del minimalismo sarà la micrologia, che convive e collima qui con il solipsismo più asettico e aproblematico. La poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una tale impostazione «filosofica». Nel frattempo, durante l’ultimo trentennio del Novecento diventa sempre più manifesta la crisi dello sperimentalismo il quale ha sempre considerato i linguaggi come «neutrali», fungibili e manipolabili, incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, rischia di periclitare tutta la costruzione estetica della scuola post-sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, almeno da Vocativo del 1956 e La Beltà del 1968, fino agli ultimi eredi: Giancarlo Majorino con Prossimamente (2006) Viaggio nella presenza del tempo (2008) e Luigi Ballerini con Cefalonia (2006). Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. Anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).
Il problema di fondo (filosofico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecento che è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio» e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare, cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E si badi: io dico e ripeto sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1968). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010” edito da EiLet di Roma.
In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo.
Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione.
Delle due l’una: o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi; o si tenta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz alla poesia dell’avvenire.
La poesia citata di Milosz è un vero e proprio manifesto per la poesia dell’avvenire, chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), ma un tipo di poesia di cui possiamo sinceramente farne a meno.

22 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, il romanzo, minimalismo, poesia italiana

IL COMPLESSO DI NERONE DI SCRITTORI E PSEUDO-SCRITTORI secondo Aldo Onorati (1989)

Puro generone romano. Produttori televisivi, pr, giornalisti (il figlio di Bruno Vespa), ninfette e soprattutto lei, la presidente Renata Polverini e il gladiatore Er Batman

Puro generone romano. Produttori televisivi, pr, giornalisti (il figlio di Bruno Vespa), ninfette e soprattutto lei, la presidente Renata Polverini e il gladiatore Er Batman

Abbiamo scelto di riproporre questo articolo apparso su «Avvenire» nel giugno 1989, a firma di Aldo Onorati, perché più che mai attuale oggi in un momento di individualismo selvaggio degli scrittori, ciascuno impegnato a difendere e ampliare la propria posizione di visibilità e di potere.

Il più popolare degli imperatori romani, Nerone, conosciuto per le sue crudeltà e le sue stranezze (la patologica passione per i cavalli, la lussuria, la cupidigia), oltre che per l’incendio di Roma, fu dominato tutta la vita dalla megalomane convinzione di essere un grande artista, un cantante eccezionale. Il desiderio sfrenato di vincere ogni premio lo portava a partecipare a tutti i concorsi, con un impegno – e un ossequio al regolamento – che aumentano la contraddittorietà del personaggio.

Nerone

Nerone

Scrive Svetonio, in Vita dei Cesari:

Nerone era lui stesso che si proclamava vincitore: per questo era dappertutto, gareggiò anche come banditore. Perché non restasse da nessuna parte il ricordo e la traccia dei vincitori dei giochi sacri, ordinò di abbattere, trascinare con un uncino e gettare nelle latrine tutte le loro statue e i loro ritratti. D’altra parte è appena immaginabile con quanta ansia e con quanta emozione gareggiasse, quale gelosia provasse per gli avversari, quale timore mostrasse per i giudici. Si comportava nei confronti dei suoi avversari come se fossero stati in tutto e per tutto suoi pari, li spiava, tendeva loro agguati, segretamente li screditava, qualche volta li ricopriva di ingiurie se li incontrava, e, se erano molto bravi, cercava perfino di corromperli. Molti si guadagnavano la sua amicizia o si attiravano il suo odio, secondo che erano stati prodighi o avari di lodi”.

L’imperatore di Roma, il padrone del mondo, era afflitto da una mania di grandezza non pertinente al suo compito di governare l’impero più vasto dell’antichità. Sembra un bambino che vuole vincere a tutti i costi nei giochi fra coetanei, meschino denigratore del valore altrui (solo i grandi spiriti riconoscono l’altrui grandezza), intrigante, ricattatore, forte del suo potere per imporre le sue scarse doti di artista.

Roma la Grande Bellezza della Grande decadenza vigilantes, guardie private, odalische, optimati, spintrie

Roma la Grande Bellezza della Grande decadenza vigilantes, guardie private, odalische, optimati, spintrie

Nerone vive di fama propria, anche se livida, e per questo si presta ad essere un prototipo eccezionale di un difetto che dilaga specie oggi, e proprio nel mondo artistico (soprattutto nella letteratura). Pavese disse che ogni scrittore è una “primadonna”; la vanità è per molti la molla che porta a servire, in un campo in cui gli illusi hanno riempito da sempre le file degli aspiranti alla gloria cartacea. Malattia antichissima, testimoniata da Petronio, Orazio, Giovenale… Oggi si stampano più libri di quelli che si leggono. In un ambito in cui tutti sono concorrenti, in cui tutti scrivono e nessuno legge, rimane una possibilità: quella dei premi letterari. E proprio lì si ammira il complesso di Nerone: solo pochi autori, sempre quelli, vincono i premi, tutti i premi. Se Nerone non fosse stato imperatore, certamente non avrebbe potuto vincere tutte le gare. Questa verità lapalissiana l’hanno capita quelli che soffrono del suo complesso: la libidine del primeggiare, applicando anche l’aurea massima di Machiavelli secondo cui il fine giustifica i mezzi. E sì: il mondo della letteratura somiglia più a una bisca elettorale che a un’assise di spiriti magni. E la tecnica neroniana ha fatto scuola. Viene a proposito una citazione di La Rochefoucald: “Alcuni che godono della lode del mondo non hanno altro merito che i vizi utili alle relazioni sociali”.

Puro generone romano. Produttori televisivi, pr, giornalisti (il figlio di Bruno Vespa), ninfette e soprattutto lei, la presidente Renata Polverini e il console Er Batman

Puro generone romano. Produttori televisivi, pr, giornalisti (il figlio di Bruno Vespa), ninfette e soprattutto lei, la presidente Renata Polverini e il console Er Batman

Senza tirare in ballo i personaggi che in ogni epoca hanno usurpato la gloria a chi veramente la meritava, e senza commettere la leggerezza di affermare che il buon tempo andato era migliore del presente, è certo però che gli errori di giudizio dei contemporanei non sono quasi mai in buona fede. Chi premia sa di premiare l’autore, spesso la grande editrice, non l’opera. Da questo busillis parte una buona percentuale della rovina del mondo letterario. Ogni scrittore aspirante alla fama deve fare presenzialismo ad oltranza, deve puntare a fare di Sé un personaggio, ad accaparrarsi leve di comando, a entrare in traffici mondani, a ragionare secondo la logica delle camarille, rafforzare amicizie potenti, entrare in un clima, mettersi con le carte in regola per un do ut des mafioso (a meno che la Fortuna non lo scelga d’improvviso per trarlo a viva forza sul suo cocchio indipendentemente da meriti sia letterari sia di intrallazzo). Ma il tempo usato a clientelizzare la scalata letteraria viene tolto a quello che Manzoni usò per sciacquare i panni in Arno, a quello che Ariosto usò per rivedere il suo capolavoro, alla meditazione insomma, allo studio (Verdi affermava che “il genio è sgobbare”), al sacrificio. Tanti acclamati geni della carta potrebbero vendere un frigorifero al Polo Nord e un termosifone nel deserto; e allora perché non usano le loro indiscutibili capacità di arrivare magari dandosi alla politica e a qualche altra branca dalla quale non dipendano strettamente le sorti culturali, artistiche, etiche di un popolo? Perché concretare il complesso di Nerone in un campo così serio come l’arte? L’arte non è vincere un premio e vendere centomila copie di un libro, ma è funzione vitale, catartica, storica. Va bene che oggi è il tempo dei presentatori Tv e chi non diventa un barzellettista da spettacolo non vende una copia… ma ci sono valori che non si obliterano e non si declassano senza pagare un prezzo salato che si chiama inciviltà e regresso degli spiriti.

 gladiatores de Roma

gladiatores de Roma

Vai un po’ a vedere, poi, che i complessati alla Nerone sono i primi a essere dimenticati appena perdono il potere col quale potevano fare ricatti, o appena la “giusta di glorie dispensiera”, cioè la morte, li cancella definitivamente. A che è servita, allora, tutta quella nevrosi di imbrogli e di soprusi, di coinvolgimenti nel falso giudizio? A loro nulla, perché la fama non sopravvive un attimo alla loro illusione. Però ha ritardato il vero riconoscimento a chi ha puntato la fatica più all’opera che al successo effimero. Ma a questo punto mi viene in aiuto il grande Shopenhauer, con una riflessione sempre valida:

Nerone e Poppea 1983 Erotico Piotre Stanislas, Françoise Blanchard Stanislas Marie Noel Arnault Bruno Mattei

Nerone e Poppea 1983 Erotico Piotre Stanislas, Françoise Blanchard Stanislas Marie Noel Arnault Bruno Mattei

Chi merita la gloria, sia pure senza raggiungerla, possiede la cosa principale e ciò che gli manca è una cosa della quale può consolarsi con quella. Se invece l’ammirazione in se stessa fosse la cosa principale, la cosa ammirata non ne sarebbe degna. E ciò avviene realmente nel caso della gloria falsa, vale a dire immeritata. Di questa il suo possessore deve saziarsi, senza possedere in realtà la cosa di cui essa dovrebbe essere il sintomo, il semplice riflesso. Ma persino questa gloria gli viene amareggiata quando, nonostante ogni illusione che deriva dall’amor proprio, egli si sente le vertigini sui quella vetta che non è fatta per lui; la paura lo prende di essere smascherato e giustamente umiliato, specie quando legge sulla fronte dei più savi già il giudizio dei posteri. Egli assomiglia dunque al possidente in virtù di un testamento falso… Perciò anche il più ampio consenso dei contemporanei” – continua Shopenhauer (che solo in tarda vecchiaia ebbe i riconoscimenti meritati) – “avrà ben poco valore pei cervelli pensanti… Si direbbe forse lusingato un virtuoso agli applausi fragorosi del suo pubblico, se sapesse che, tranne uno o due, tutti i presenti sono sordi e per nascondersi vicendevolmente il loro difetto applaudono con foga appena vedono in movimento le mani di uno? Che dire poi se vi si aggiungesse la notizia che quei primi ad applaudire si sono lasciati corrompere per procurare gli applausi più forti al violinista più miserabile? Così si spiega perché la gloria presso i contemporanei subisca tanto raramente la metamorfosi in fama presso i posteri”. E D’Alambert, nella descrizione del tempio della gloria, scrive: “L’interno è tutto abitato da morti che in vita non c’erano dentro, e da alcuni viventi che quasi sempre, quando muoiono, vengono buttati fuori”.

aldo onoratiAldo Onorati, nato ad Albano di Roma nel 1939 è scrittore, dantista, storico della letteratura e autore di versi. Ha insegnato Lettere negli istituti superiori e ha condotto corsi di specializzazione in «Tecnica del verso». Ha pubblicato quasi tutte le sue opere con Armando editore, presso cui ha lavorato per un certo periodo come curatore dell’Ufficio stampa. È stato direttore editoriale  e di collane di critica. Giornalista, ha collaborato per decenni ad «Avvenire», «L’Osservatore Romano», «Il popolo», «Giornale d’Italia», «Specchio economico», «Giornale di Brescia» etc., ed anche alla RAI-TV, III programma, «Dipartimento scuola educazione». Ha diretto numerosi organi di stampa, fra cui «Terza Pagina», «Intervite oggi» e «Quaderni di filologia e critica».

Fra i suoi libri di narrativa più conosciuti, Gli ultimi sono gli ultimi che fu scoperto da Carlo Levi e  tradotto in Coreano, Esperanto, Francese etc.; Nel Frammento la vita, VI edizione; La sagra degli ominidi (VII edizione), che Domenico Rea ha prefato in IV ed., Lettera al padre (VI ediz.), il recente Le tentazioni di frate Amore, già in II ristampa con Tracce di Pescara e Il sesso e la vita con Edilet, prefato da Marco Onofrio, il quale ha riproposto Onorati come poeta in un’originalissima opera da lui scritta e divulgata (Il mistero e la clessidra, Edilet).

Le sue liriche sono raccolte in Tutte le poesie, Anemone Purpurea 2005. Fra i saggi critici, spicca Dante e l’omosessualità, in cui Onorati rivede l’atteggiamento della critica riguardo il giudizio dell’Alighieri sugli omosessuali; inoltre, Il crepuscolo del Novecento, I cinque pilastri della stoltezza (Armando 2003), Dante, Petrarca, Boccaccio e Boiardo ed Ariosto  e molti altri. Importante è la supervisione e il saggio critico di post-fazione che Onorati ha fatto al libro di Louis La Favia sulla scoperta di un inedito di Dante: «Chanzona ddante» (Longo, Ravenna 2012).

32 commenti

Archiviato in il romanzo, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Italo Calvino recensione al romanzo di Milan Kundera «Due obiezioni a “L’insostenibile leggerezza dell’essere“»

Milan Kunderada “La Repubblica” 1985 

Franz aveva dodici anni quando il padre abbandonò la madre all’improvviso. Il ragazzo intuì che era accaduto qualcosa di grave, ma la madre velò il dramma dietro parole misurate e neutre, per non turbarlo. Quello stesso giorno erano andati in città e Franz, uscendo di casa, si era accorto che la madre aveva ai piedi scarpe diverse. Rimase confuso, voleva farglielo notare, ma allo stesso tempo temeva in quel modo di ferirla. E così aveva passato due ore con lei in giro per la città e per tutto il tempo non aveva potuto staccare gli occhi dai suoi piedi. Allora, per la prima volta, aveva cominciato a capire che cos’è la sofferenza”.

Questo passo dà bene la misura dell’arte di raccontare di Milan Kundera – della sua concretezza, della sua finezza – e ci avvicina a comprendere il segreto per cui nel suo ultimo romanzo (L’insostenibile leggerezza dell’essere, traduzione di Antonio Barbato, Adelphi, pagg. 318, lire 20.000: quando uscì in Francia ne parlò su queste pagine Elena Guicciardi) il piacere della lettura si riaccenda di continuo. Tra tanti scrittori di romanzi, Kundera è un romanziere vero, nel senso che le storie dei personaggi sono il suo primo interesse: storie private, soprattutto storie di coppie, nella loro singolarità e imprevedibilità. Il suo modo di raccontare procede a ondate successive (gran parte dell’azione si sviluppa nelle prime trenta pagine; la conclusione è già annunciata a metà romanzo; ogni storia viene completata e illuminata strato a strato) e attraverso divagazioni e commenti che trasformano il problema privato in problema universale, dunque anche nostro.

Ma questa problematicità generale, anziché aggiungere gravità, fa da filtro ironico, alleggerisce il pathos delle situazioni. Tra i lettori di Kundera ci può essere chi s’appassiona di più alla vicenda e chi (io, per esempio) alle divagazioni. Ma anche queste si trasformano in racconto. Come i suoi maestri settecenteschi Sterne e Diderot, Kundera fa delle sue riflessioni estemporanee quasi un diario dei suoi pensieri e umori. L’ironica problematicità universal-esistenziale coinvolge anche ciò che, trattandosi di Cecoslovacchia, non può essere dimenticato neanche per un minuto, cioè quell’insieme di vergogne e insensatezze che una volta si chiamava la Storia e che ora può solo dirsi la maledetta sfortuna d’essere nato in un paese piuttosto che in un altro. Ma Kundera, facendone non “il problema” ma solo una complicazione in più dei guai della vita, elimina quel doveroso, allontanante rispetto che ogni letteratura degli oppressi incute in noi immeritatamente privilegiati, e in questo modo ci coinvolge nella disperazione quotidiana dei regimi comunisti molto di più che se facesse appello al pathos.

calvino e pasolini

calvino e pasolini

Il nucleo del libro sta in una verità tanto semplice quanto ineludibile: è impossibile agire valendosi dell’esperienza perché ogni situazione cui ci troviamo di fronte è unica e ci si presenta per la prima volta. “Qualsiasi studente nell’ora di fisica può provare con esperimenti l’esattezza di un’ipotesi scientifica. L’uomo, invece, vivendo una sola vita, non ha alcuna possibilità di verificare un’ipotesi mediante un esperimento, e perciò non saprà mai se avrebbe dovuto o no dare ascolto al proprio sentimento”. Kundera collega questo assioma fondamentale con corollari non altrettanto solidi: la leggerezza del vivere per lui sta nel fatto che le cose avvengono una volta sola, fugacemente, dunque è quasi come se non fossero avvenute.

I. Calvino e J.L. Borges

I. Calvino e J.L. Borges

La pesantezza invece sarebbe data dall’«eterno ritorno» ipotizzato da Nietzsche: ogni fatto diventa spaventoso se sappiamo che si ripeterà infinite volte. Ma – obietterei – se l’«eterno ritorno» (sul cui possibile significato esatto non ci si è mai messi d’accordo) è ritorno dell’identico, una vita unica e irripetibile equivale esattamente a una vita infinitamente ripetuta: ogni atto è irrevocabile, non modificabile per l’eternità. Se invece l’«eterno ritorno» è una ripetizione di ritmi, di schemi, di strutture, di geroglifici del destino, che lasciano spazio per infinite piccole varianti nei dettagli, allora si potrebbe considerare il possibile come un insieme di fluttuazioni statistiche, in cui ogni evento non escluderebbe alternative migliori o peggiori, e la definitività d’ogni gesto risulterebbe alleggerita.

Leggerezza del vivere è per Kundera ciò che si oppone alla irrevocabilità, alla univocità esclusiva: tanto in amore (il medico praghese Tomáš vorrebbe praticare solo l’«amicizia erotica», evitando coinvolgimenti passionali e convivenze coniugali) quanto in politica (questo non è detto esplicitamente, ma la lingua batte dove il dente duole, e il dente è naturalmente l’impossibilità dell’Europa dell’Est di cambiare – o almeno alleviare – un destino che non si è mai sognata di scegliere). Ma Tomáš finisce per accogliere in casa e sposare Tereza, cameriera d’ un ristorante di provincia, per “compassione”. Non solo: dopo l’ invasione russa del ‘ 68, Tomáš riesce a scappare da Praga e a emigrare in Svizzera, con Tereza; la quale però, dopo qualche mese viene presa da una nostalgia che si manifesta come vertigine di debolezza verso la debolezza del suo paese senza speranza: e rimpatria. Ecco allora che Tomáš, che avrebbe tutte le ragioni, ideali e pratiche, per restare a Zurigo, decide di tornare a Praga anche lui, pur sapendo di chiudersi in una trappola e d’andare incontro a persecuzioni e umiliazioni (non potrà più fare il medico e finirà lavatore di vetri). Perché lo fa? Perché, pur professando l’ideale della leggerezza del vivere, e pur avendone un esempio pratico nel rapporto con una sua amica, la pittrice Sabina, ha sempre avuto il dubbio che il vero valore non sia nell’idea contraria, nel peso, nella necessità. “Es muss sein!” “Ciò deve essere!” dice l’ultimo movimento dell’ultimo quartetto di Beethoven. E Tereza, amore nutrito di compassione, amore non scelto ma impostogli dal destino, assume ai suoi occhi il significato di questo fardello dell’ ineluttabile, dell’«Es muss sein!».

Si viene a sapere più in là (ecco come le divagazioni formano quasi un romanzo parallelo) che l’occasione che aveva portato Beethoven a scrivere «Es muss sein!» non era nulla di sublime, ma una banale storia di quattrini prestati da recuperare; così come il destino che aveva portato Tereza nella vita di Tomáš era solo un seguito di coincidenze fortuite. In realtà questo romanzo intitolato alla leggerezza ci parla soprattutto della costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che avvolge le persone, che esercita il suo peso su ogni rapporto umano (e non risparmia neppure quelli che Tomáš vorrebbe considerare fuggevoli couchages). Anche il dongiovannismo, su cui Kundera ci dà una pagina di definizioni originali, ha motivazioni tutt’ altro che “leggere”: sia quando risponde a una “ossessione lirica”, cioè ricerca tra le molte donne della donna unica e ideale, sia quando è motivato da una “ossessione epica”, cioè ricerca d’ una conoscenza universale nella diversità.

 La sensualité c'est la mobilisation maximale des sens  on observe l'autre intensément et on écoute ses moindres bruits (M. Kundera)

La sensualité c’est la mobilisation maximale des sens on observe l’autre intensément et on écoute ses moindres bruits (M. Kundera)

Tra le storie parallele il maggior rilievo va alla storia di Sabina e di Franz. Sabina come rappresentante della leggerezza e portatrice dei significati del libro è più persuasiva del personaggio a cui si contrappone, cioè Tereza. (Direi che Tereza non arriva ad avere il “peso” necessario per giustificare una decisione tanto autodistruttiva da parte di Tomáš). È attraverso Sabina che la leggerezza acquista evidenza come “fiume semantico”, cioè rete d’associazioni e immagini e parole su cui si basa l’intesa amorosa di lei e Tomáš, una complicità che Tomáš non può ritrovare con Tereza, né Sabina con Franz. Franz, scienziato svizzero, è l’intellettuale progressista occidentale come lo può vedere chi, dall’Europa dell’ Est, lo considera con l’ impassibile oggettività d’un etnologo che studi i costumi d’ un abitante degli antipodi. La vertigine d’indeterminatezza che ha sostenuto gli entusiasmi di sinistra negli ultimi vent’anni è indicata da Kundera con il massimo di precisione compatibile a così inafferrabile oggetto: “Dittatura del proletariato o democrazia? Rifiuto della società dei consumi o aumento della produzione? Ghigliottina o abolizione della pena di morte? Non è questo l’importante”. Ciò che caratterizza la sinistra occidentale, secondo Kundera, è quella che lui chiama la Lunga Marcia, che si svolge con la stessa vaghezza di propositi e di emozioni “ieri contro gli americani che occupavano il Vietnam, oggi contro il Vietnam che occupa la Cambogia, ieri per Israele, oggi per i palestinesi, ieri per Cuba, domani contro Cuba e sempre contro l’America, ogni volta contro i massacri e ogni volta in appoggio ad altri massacri, l’Europa marcia e per seguire il ritmo degli avvenimenti e non lasciarsene sfuggire nessuno il suo passo diventa sempre più veloce, sicché la Grande Marcia è un corteo di gente che corre e si affretta e la scena è sempre più piccola, fino a che un giorno non sarà che un punto senza dimensioni”.

Italo Calvino

Italo Calvino

Seguendo i tormentosi imperativi del senso del dovere di Franz, Kundera ci porta alle soglie del più mostruoso inferno generato dalle astrazioni ideologiche quando diventano realtà, la Cambogia, e descrive una marcia internazionale umanitaria in pagine che sono un capolavoro di satira politica. Al polo opposto di Franz, la sua partner temporanea, Sabina, fa da portavoce dell’autore in quanto mente lucida nello stabilire confronti e contrasti e paralleli tra l’ esperienza della società comunista in cui è cresciuta e l’ esperienza dell’Occidente. Uno dei cardini di questi confronti è la categoria del Kitsch. Kundera considera il Kitsch nell’accezione di rappresentazione edulcorata, edificante, “vittoriana”, e naturalmente pensa al “realismo socialista” e alla propaganda di regime, maschera ipocrita di tutti gli orrori. Sabina che, stabilitasi negli Stati Uniti, ama New York per quanto vi è di “bellezza non intenzionale”, “bellezza per errore”, è sconvolta quando vede affiorare il Kitsch americano, tipo pubblicità della Coca-Cola, che gli ricorda le immagini radiose di salute e di virtù tra le quali è cresciuta.

Italo Calvino

Italo Calvino

Ma Kundera giustamente precisa: “Il Kitsch è l’ ideale estetico di tutti gli uomini politici, di tutti i partiti e i movimenti politici. In una società dove coesistono orientamenti politici diversi e dove quindi la loro influenza si annulla o si limita reciprocamente, possiamo ancora in qualche modo sfuggire all’inquisizione del Kitsch… Ma là dove un unico movimento politico ha tutto il potere, ci troviamo di colpo nel regno del Kitsch totalitario”. Il passo che resta da compiere è liberarsi dalla paura del Kitsch, una volta che ci si è salvati dal suo totalitarismo e lo si può vedere come un elemento in mezzo a tanti altri, una immagine che perde velocemente il proprio potere mistificatorio per conservare solo il colore del tempo che passa, la testimonianza della mediocrità o dell’ingenuità di ieri. È quello che mi pare succeda a Sabina, per cui possiamo riconoscere nella sua storia un itinerario spirituale di riconciliazione col mondo. Alla vista, tipica dell’idillio americano, delle finestre illuminate in una casa di legno bianco su un prato, Sabina sorprende in se stessa un moto di commozione. E non le resta che concludere: “Per quanto forte sia il nostro disprezzo, il Kitsch fa parte della condizione umana”. Una conclusione molto più triste è quella della storia di Tereza e Tomáš; ma qui, attraverso la morte d’un cane, e la cancellazione di se stessi in una sperduta località di campagna, si arriva quasi a un assorbimento nel ciclo della natura, in un’idea del mondo che non ha al suo centro l’uomo, anzi che non è assolutamente fatto per l’uomo.

petr kral casinò a Praga

Milan Kundera

Le mie obiezioni a Kundera sono due: una terminologica e una metafisica. L’obiezione terminologica riguarda la categoria del Kitsch, di cui Kundera prende in considerazione solo una tra le varie accezioni. Ma del cattivo gusto della cultura di massa fa parte anche il Kitsch che pretende di rappresentare la spregiudicatezza più audace e “maledetta” con effetti facili e banali. Certo è meno pericoloso dell’altro, ma ne va tenuto conto per evitare di crederlo un antidoto. Per esempio, vedere l’assoluta contrapposizione al Kitsch nell’immagine d’una donna nuda con in testa una bombetta da uomo non mi pare del tutto convincente. L’obiezione metafisica ci porta più lontano. Riguarda “l’accordo categorico con l’essere”, atteggiamento che per Kundera sarebbe alla base del Kitsch come ideale estetico. “La differenza che separa coloro che mettono in discussione l’essere così come è stato dato all’uomo (non importa in che modo o da chi) da coloro che vi aderiscono senza riserve” è data dal fatto che l’adesione impone l’illusione d’un mondo in cui non esista la defecazione, perché secondo Kundera la merda è la negatività assoluta, metafisica. Obietterò che per i panteisti e per gli stilistici (io appartengo a una di queste due categorie, non preciserò quale) la defecazione è una delle più grandi prove della generosità dell’universo (della natura o provvidenza o necessità o cos’altro si voglia). Che la merda sia da considerare tra i valori e non tra i disvalori, è per me una questione di principio. Da ciò derivano conseguenze fondamentali. Per non cadere nei vaghi sentimenti d’una redenzione universale che finiscono per produrre regimi polizieschi mostruosi, né nei ribellismi generalizzati e temperamentali che si risolvono in obbedienze pecorili, è necessario riconoscere come sono fatte le cose, ci piacciano o meno, nel moltissimo a cui è vano opporsi e nel poco che può essere modificato dalla nostra volontà. Credo dunque che sia necessario un certo grado di accordo con l’esistente (merda compresa) proprio in quanto incompatibile col Kitsch che Kundera giustamente detesta.

(Italo Calvino)

4 commenti

Archiviato in il romanzo, Senza categoria

RACCONTO E ROMANZO A CONFRONTO – Riflessioni di Marco Onofrio

La grande bellezza, immagine di Tony Servillo nei panni di Jep Gambardella

La grande bellezza, immagine di Tony Servillo nei panni di Jep Gambardella

 Pare che gli editori tendano a storcere il naso dinanzi alla sola prospettiva di pubblicare libri di racconti, poiché – questa la spiegazione vulgata – “i racconti non vendono bene, mentre i romanzi sì”. È una spiegazione che convince poco, dato che – nella condizione terribile di crisi che attanaglia da tempo il mercato editoriale – stentano a vendere come si spera anche i romanzi di consumo popolare, scritti, editati e distribuiti apposta per piacere al grande pubblico. Il “lettore comune” – sostengono ancora gli editori, sulla base delle indagini di mercato e dei sanguinanti resoconti di vendita – preferisce immergersi in una storia appassionante di largo respiro, dunque non troppo breve e non del tutto depurata di ridondanze, che gli consenta una più agevole immedesimazione nella materia narrata. L’esperienza estetica garantita dal racconto appare di conseguenza troppo breve: non si fa in tempo a prenderci confidenza che già finisce. Il racconto esige una chiave di accesso basata sull’intensità, e non tutti i lettori (se non quelli “forti” e più raffinati, fruitori abituali di poesia e saggistica) hanno la predisposizione giusta per entrare in sintonia. Anche per questo scrivere un bel libro di racconti è, forse, più raro che scrivere un bel romanzo.

Robert Musil

Robert Musil

 Tuttavia i racconti sono, probabilmente, il fulcro della narrativa. E si leggono inoltre in un tempo più breve; tanto più dovrebbero piacere, dato che la gente oggi ha sempre meno tempo da dedicare alla lettura. In un’epoca come la nostra, così fondata sulla velocità della comunicazione, i romanzi “lenti” come quelli giustamente tanto amati di Proust o di Musil (con i loro tomi di migliaia di pagine) sono quasi illeggibili: hanno ceduto il passo a un ritmo diverso, esemplato sul cinema e sulla televisione, ma annunciato sin dagli anni Trenta con la scrittura “veloce” dei racconti di Hemingway, con quel dialogo sincopato sul tempo della musica di allora. Il mondo, che si offriva da secoli come qualcosa di continuo e organico, si è presentato a un certo punto come spezzato in frammenti isolati. La compattezza delle rappresentazioni tradizionali è stata demolita sotto i formidabili colpi dell’intuizionismo, della psicoanalisi, della fisica quantistica, della relatività generale e ristretta, del politeismo etico, etc. Si dissolvono, per conseguenza, anche le strutture narrative tradizionali. Il personaggio è sottoposto a una destrutturazione atomistica che lo rende “antieroe” e, anzi, “inetto”: non è sentito più come monade unitaria, ma come aperta e imprevedibile “disponibilità” psicologica, nelle sue continue e contraddittorie oscillazioni tra conscio e subconscio, parola e pensiero,  dialogo esterno e soliloquio mentale (monologo interiore), intenzione e azione; esposto dunque alle insidie dell’irrazionalismo e del relativismo, che segnano il tracollo di ogni certezza deterministica (su cui si fondava il romanzo borghese).

Franz Kafka

Franz Kafka

 La realtà non è più frutto di rapporti causa-effetto, ma “onda di probabilità” che sfugge ad ogni schema predittivo. Sono già soggetti a questa nuova Weltanschauung narratori come Kafka, Proust, Joyce, Mann, Musil, Pirandello, Svevo. Il fenomeno si accentua nell’età cosiddetta postmoderna: desautorate le grandi cause unificanti in cui confidava il grande romanzo, anche il romanzo – oggi che tutto è come disperso – deve accontentarsi di realtà più piccole, “minori” per così dire, o più circoscritte. Il sostanziale fallimento del romanzo sperimentale della seconda metà del ‘900 ha prodotto reazioni di segno opposto, tra cui: l’esplosione epica della forma-romanzo, che da fiume diventa oceano, dilatandosi per proliferazione interna nella struttura “aperta” di un’opera ciclopica come Infinite Jest (1996) di David Foster Wallace; il recupero, in controtendenza, del “racconto ben fatto”, e dunque il ritorno del plot, della storia “a tutto tondo”, della scrittura classica e corposa, in grado di valorizzare l’arte perduta della lentezza e i piaceri dell’indugio, con l’uso sapiente delle descrizioni, delle digressioni e delle iterazioni; la facile diffusione del romanzo ciclico, programmato con moduli seriali, da format cine-televisivo, basato sul puro intrattenimento e di genere preferibilmente fantasy o spy-story; la prosecuzione dell’antiromanzo attraverso forme più mediate e attenuate di rottura, come le scritture “di margine” dei narratori che sono e si dicono “allergici” alle trame, e dunque estendono a misura di romanzo (o di racconto lungo) la profondità del saggio, mescolata con la precisione frammentaria e l’intensità del racconto breve. Quest’ultimo, rispetto al romanzo, sembra in definitiva più funzionale alla dinamica storica che – secondo Lukàcs, a partire dalla crisi della grande borghesia europea dell’Ottocento e dalla decadenza del ruolo dell’artista all’interno di essa –, impone allo scrittore di “descrivere” piuttosto che “narrare”, rappresentando una miriade di particolari senza poterli ricondurre a una totalità, che era ben simboleggiata dal romanzo realista, cioè a una visione e una spiegazione complessiva del mondo: come i pezzi di uno specchio andato in frantumi. L’idea di fondo è che la parte è già significativa e rappresentativa del tutto: basta estrarre un frammento di roccia per conoscere l’intera miniera.

Alberto Moravia

Alberto Moravia

 Anche Moravia nota, in un confronto tra racconto e romanzo contenuto in L’uomo come fine (1963), le potenzialità per certi versi maggiori del racconto, nel senso dell’agilità di presa multicentrica, di adesione agli innumerevoli aspetti del reale; sicché

 «a ben guardare, si potrebbe dire che mentre Maupassant e Cechov esauriscono per così dire la varietà di situazioni e di personaggi della società del loro tempo, Flaubert e Dostoevskij, invece, un po’ come certi uccelli solitari che ripetono senza posa, con fedeltà significativa, sempre lo stesso verso, in fondo non hanno mai fatto altro che riscrivere sempre lo stesso romanzo, con le stesse situazioni e gli stessi personaggi.   Alcuni secoli prima, il Boccaccio, il maggiore scrittore di racconti di tutti i tempi e di tutti i luoghi, offre lo stesso esempio di straordinaria varietà e ricchezza nei confronti di Dante. Se non avessimo che la Divina Commedia, con le sue immobili figure gotiche scolpite a bassorilievo giro giro il monumento del poema, certo ne sapremmo molto meno sulla vita di Firenze, dell’Italia, e insomma del medioevo. Boccaccio è invece il dipintore insuperabile di questa vita. Nel Decamerone, al contrario della Divina Commedia, tutto è detto in funzione appunto di un’illustrazione completa di questa vita, senz’altro fine che quello di esaltarne la varietà e la ricchezza».

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello

 Lo scrittore di racconti ha parecchi inizi da accendere e consumare. Dai diversi frammenti del prisma esploso, accostati in un certo ordine, può comporsi un affresco di grande evidenza rappresentativa, in grado di liberare, come non mai, lo “spirito del tempo”. Il racconto, continua Moravia, «viene da un’arte letteraria senza dubbio più pura, più essenziale, più lirica, più concentrata e più assoluta di quella del romanzo», ed è vicino alla poesia nella misura in cui infilza la folgorazione di un momento particolare, «ben delimitato temporalmente e spazialmente» nel suo sviluppo.

calvino e J.L. Borges

calvino e J.L. Borges

 Disse Borges in un’intervista: «I romanzi sono organismi troppo grossi, gonfi di cose troppo pesanti e troppo inutili. La forma letteraria perfetta può essere soltanto il racconto, che permette di concentrarsi direttamente sull’essenziale, come fa la poesia…». E infatti, insieme a Bioy Casares, raccolse una celebre antologia di Racconti brevi e straordinari, anche di una sola frase, tra cui il più breve di tutti – citato da Italo Calvino nelle Lezioni americane, per il capitolo sulla “brevità” -, quello di Augusto Monterroso: “Cuando despertò, el dinosaurio todavìa estaba allì”.  Lo scrittore di racconti brevi è, in genere, un narratore che ha interiorizzato la vocazione del poeta: la sensibilità linguistica lo porta sempre e comunque a “scrivere bene”, a non potersi accontentare delle frasi principalmente funzionali allo sviluppo del plot, e questo contrasta la fluidità dinamica dell’arco narrativo. Il “romanziere nato”, invece, guarda più allo sviluppo strutturale della storia che alle singole frasi di cui si compone.

Proust

Proust

 È la differenza che c’è, nello sport, tra un maratoneta e un centometrista: il maratoneta non può permettersi di sprecare troppo fiato (fuor di metafora: darsi tutto ad ogni pagina), perché ha la primaria necessità di conservarlo a lungo, fino a coprire la lunghezza massacrante del percorso. Il narratore portato al racconto breve, invece, fa un po’ come il poeta-centometrista: lavora sull’intensità, sulla concentrazione dello sforzo, sulla rapidità del gesto. Quello del narratore in breve è un appuntarsi acuto e translucido sul particolare; il romanziere ha bisogno di un altro respiro, di vedere le cose dall’alto, di andare il più possibile avanti, tenendo il lettore incollato alla pagina.

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Tony Servillo in una scena

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Tony Servillo in una scena

 È nutrita la filiera di domande che sorgono, conseguenti, a margine di queste riflessioni. Ad esempio: che cosa chiedere ancora, oggi, alla parola, alla pagina scritta, all’esperienza stessa dello scrivere e – in luogo speculare – del leggere? Oggi che la parola è schiacciata dall’immagine, ed è consunta, banalizzata, depauperata dall’uso iper-mediatico globalizzato. Come concepire ancora un “romanzo”, dinanzi alla proliferazione infinita di audiovisivi per il grande e il piccolo schermo? Che cosa chiedere ancora al genere narrativo? Come superare la disperante sensazione di aver detto e ascoltato tutte le storie possibili? Che dunque non c’è niente di nuovo e originale da scrivere? Che è difficilissimo non ripetersi, senza ricalcare stereotipi, modelli, banalità?

 Verrebbe da dire: scrivete tutto e in qualsiasi modo, racconti e romanzi, purché in pagine succose, vive, autentiche, ricche di sapore. Questo ancora chiediamo al narratore: di parlarci di noi attraverso se stesso. Di mettere in scena esperienze comuni, riconoscibili, “umane”. Storie emblematiche, sapide di vita e di esperienza. Non parole vuote.

(Marco Onofrio)

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971) è uno scrittore e operatore culturale italiano. Elenco volumi editi:

1. Interno cielo (Milano, 1993) – romanzo
2. Eccedenze (Roma, 1999) – racconti
3. Squarci d’eliso (Roma, 2002) – liriche
4. La dominante (Roma, 2003) – tragicommedia
5. Autologia (Roma, 2005) – liriche
6. La lampada interiore (Roma, 2005) – racconti
7. D’istruzioni (Roma, 2006) – liriche
8. Guido De Carolis (Roma, 2007) – saggio biografico e critico
9. Antebe. Romanzo d’amore in versi (Roma, 2007) – liriche
10. È giorno (Roma, 2007) – liriche
11. Emporium. Poemetto di civile indignazione (Roma, 2008) – poemetto drammaturgico
12. Ungaretti e Roma (Roma, 2008) – saggio biografico e critico
13. Dentro del cielo stellare … La poesia orfica di Dino Campana (Roma, 2010) – saggio critico
14. La presenza di Giano (Roma, 2010) – poemetti filosofici
15. Nello specchio del racconto. L’opera narrativa di Antonio Debenedetti (Roma, 2011) – saggio critico
16. Disfunzioni (Roma, 2011) – poemetti
17. Senza cuore (Roma, 2012) – romanzo
18. Ora è altrove (Roma, 2013) – liriche.
19. La scuola degli idioti (Roma, 2013) – racconti
20. Non possiamo non dirci romani. La Città Eterna nello sguardo di chi l’ha vista, vissuta e scritta (Roma, 2013) – saggi di argomento romano
21. Come dentro un sogno. La narrativa di Dante Maffìa tra realtà e surrealismo mediterraneo (Reggio Calabria, 2014) – saggio critico.

9 commenti

Archiviato in il romanzo, Senza categoria

Marco Onofrio legge “Una donna” di Sibilla Aleramo. Un percorso di evoluzione interiore, fra istanze emancipazionistiche e suggestioni romane

sibilla aleramo

sibilla aleramo

foto d'epoca

foto d’epoca

Sapeva di non essere una «narratrice nata» poiché «irrimediabilmente lirica»; fu tuttavia proprio un’opera di narrativa a sancirne l’esordio letterario e a garantirle un primo lancio di notorietà. Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio) racchiude nel tracciato eterodosso di Una donna (1906), a cavallo tra i generi del romanzo di formazione, del diario autobiografico e del saggio, «un pensiero di donna che riflette dinamicamente l’immagine fantastica di sé tra la memoria del passato e l’elaborazione del futuro» (Zancan). La scrittrice di Alessandria plasma la materia del proprio vissuto nella vicenda esemplare di un alter ego femminile e anonimo che si trasfigura per elevarsi, e che lotta coraggiosamente contro le convenzioni di una società retriva per aderire al proprio imperativo interiore, alla legge etica che le comanda di crescere, di evolvere, di diventare ciò che è.

auto d'epoca

auto d’epoca

 La «parte migliore di me che avevo trascurata», ovvero l’«io profondo e sincero» di Rina, mortificato da vicende eteronome – tipiche di un percorso biografico femminile, in Italia, ai primi del ‘900 – risorge, oltre i vincoli della storia, nella sublimazione creativa di Sibilla. La scrittura stessa è il luogo simbolico della “nuova nascita” dalle ceneri dell’umiliante quotidianità: dai fili delle parole viene pazientemente annodato l’itinerario di una rigenerazione che spinge la protagonista a rendere fecondo il dolore attraversato, cioè a raccogliere i frammenti dispersi di un’esistenza per accedere di nuovo al “sogno di pienezza” perduto dopo l’infanzia felice. Come Rina ha avuto, infatti, una fanciullezza «libera e gagliarda», vissuta in solitudine ma aperta agli interessi e agli studi: «M’avvolgeva allora uno di quegli stupori meditativi che costituivano il secreto valore della mia esistenza». E ha assorbito l’indipendenza intellettuale dal padre, spirito libero, laico e anticonformista. La timidezza muliebre lotta dentro lei con un «nuovissimo impulso di audacia indipendente». Sente stretto, perciò, l’ambiente paesano e provinciale, tutto intramato di paure e ipocrisie, della «cittaduzza del Mezzogiorno» (Porto Civitanova Marche) in cui la sua famiglia si è trasferita, a seguito del nuovo lavoro del padre. Sospira di desiderio pensando alla vita della città, dove è già vissuta (a Milano), «col suo formicolio umano, con la sua esistenza vibrante». Il padre la porta in viaggio a Roma e così rivede la folla:

sibilla aleramo

sibilla aleramo

«mi risentivo piccola, insignificante, sperduta, anelante ad apprendere da tutti e da tutto intorno. Ciò mi produsse una emozione forse maggiore di quella che mi destarono i monumenti (…). Fu quel viaggio come il coronamento della mia adolescenza brada, temeraria, trionfante».

Roma le dà il primo accenno di rivelazione: a se stessa e alla vita. La fanciulla comincia a maturare, prendendo orgogliosamente coscienza dell’intelletto e della dignità che la donna racchiude in fondo a sé, e che un impulso irrefrenabile la spinge a sviluppare, a tirar fuori.

«Ero una persona, una piccola persona libera e forte; lo sentivo, e mi sentivo gonfiare il petto d’una gioia indistinta».

sibilla aleramo

sibilla aleramo

Volersi libera e indipendente, però, è contrario all’opinione comune, che a quei tempi considera la donna un «essere naturalmente sottomesso e servile». Le donne sono prone al peso che da secoli le schiaccia: «la cura pigra ed empirica dei figliuoli, la cucina e la chiesa eran tutta la loro vita». Il destino preordinato di tutte le donne, soprattutto in provincia, è soltanto «amare e sacrificarsi e soccombere». Ovvero: subire sevizie in silenzio e mascherarle sotto un velo di ipocrisia. Non c’è alternativa alla menzogna, alla rassegnazione. I tentacoli sociali avviluppano anche, suo malgrado, la protagonista di Una donna, la quale appunto – a dispetto del titolo del libro – oppone a tale stato di cose la «rivolta selvaggia» di tutta se stessa, che la porta a lottare per non ridursi ad essere “una” donna come tutte, la donna che gli altri vorrebbero che fosse, ma per avere il diritto di diventare semplicemente “la” donna che è – ed è proprio questo che non è concesso. Il primo grande strappo che la allontana dall’infanzia è il tentato suicidio della madre. Il divario si allarga con la scoperta che il padre ha un’amante. L’infanzia muore definitivamente con l’iniziazione sessuale traumatica: subisce uno stupro. Si sposa con un uomo geloso e ottuso che la soffoca e la controlla, e la vuole remissiva. Le nasce un figlio. Il marito la trascura, lei si lascia vincere dalla «smania di vivere» e cede alle lusinghe di un altro uomo. Poi tenta il suicidio con il laudano. Viene salvata per miracolo. Si dà allo studio, alle meditazioni, alla scrittura. Concepisce il Libro capace di «mostrare al mondo intero l’anima femminile moderna, per la prima volta», un libro autobiografico: «il capolavoro equivalente ad una vita». Coltiva intensamente lo sviluppo della sua vita interiore. Comincia a interessarsi di emancipazione femminile: la parità dei diritti della donna come persona umana di uguale dignità.

«Un fatto di cronaca avvenuto nel capoluogo della provincia, m’indusse irresistibilmente a scrivere un articoletto e a mandarlo ad un giornale di Roma, che lo pubblicò. Era in quello scritto la parola femminismo».

Ecco di nuovo Roma, balenante spiraglio di luce in fondo al tunnel di una vita che la violenza della realtà  ha soffocato e riempito di tenebra.

sibilla_aleramo copSin qui il romanzo, dove l’autrice riversa un grumo di vicissitudini in gran parte autobiografiche. Alla fine del febbraio 1902 Rina aveva avuto il coraggio di abbandonare il marito, Ulderico Pierangeli, e il figlio Walter, con cui viveva a Porto Civitanova Marche, per trasferirsi a Roma, dal padre, in zona Pineta Sacchetti. Lì, nell’estate 1902, mette mano ai primi capitoli di Una donna, che conclude in prima stesura l’estate successiva, a casa dello scrittore Giovanni Cena, con cui nel frattempo è andata a vivere, in via Flaminia 45. Il libro prende la sua forma definitiva nel 1904 e viene pubblicato dalla Sten di Torino il 6 novembre 1906. A Roma comincia la seconda vita di Rina/Sibilla; è il luogo fisico e sociale della sua liberazione, lo spazio simbolico della sua esistenza rigenerata che si apre finalmente alla scrittura, alla notorietà, allo scambio intellettuale, all’impegno comunitario (Cena la spinge a prestare la sua opera nelle scuole dell’Agro romano e presso un dispensario di Testaccio). Rina, rinascendo come Sibilla, ha osato ribellarsi al pregiudizio della donna sottomessa al ruolo di madre e moglie: dunque al sottinteso incontrovertibile del sacrificio imposto, da secoli, alle energie creative femminili, con la sistematica repressione dei relativi talenti; e, più in generale, all’idea deprimente di una vita statica e reazionaria, intesa a mo’ di fato immutabile e non di destino fluido in evoluzione, sottoposto per ciò stesso all’incidenza del libero arbitrio, dove cioè non sia possibile cambiare direzione, e quindi chiudere un processo di esperienze per cominciar daccapo, quasi nuovi. Il romanzo mostra, invece, che la vita di un individuo umano è, a prescindere dal sesso, un continuo succedersi diacronico (costituito a sua volta da intersecazioni sincroniche) di morti e rinascite esistenziali, in campiture cicliche legate al ribollire inquieto dell’esperienza: un processo creativo “aperto”. In questa coscienza della complessità del divenire cosmico, e nella serenità di averne giusta parte (per aver adempiuto al proprio imperativo etico interiore) si realizza forse, alla fine del libro, il sogno di armoniosa interezza vagheggiato – post factum – sin dalle prime pagine: malgrado i rimorsi per il figlio abbandonato.

«In cielo e in terra, un perenne passaggio. E tutto si sovrappone, si confonde, e una cosa sola, su tutto, splende: la pace mia interiore, la mia sensazione costante d’essere nell’ordine, di potere in qualunque istante chiudere senza rimorso gli occhi per l’ultima volta.

   In pace con me stessa».

sibilla aleramo

sibilla aleramo

Roma stessa le ha allargato e approfondito lo sguardo; le ha fatto capire, dinanzi a un mondo dove  tout se tient, quanto inutili, ridicoli e dannosi siano gli schemi di rappresentazione con cui l’uomo sociale cerca di ridurre l’infinito che, a dispetto degli argini di contenimento, appartiene per natura ad ogni cosa. È una lezione che la protagonista del romanzo, rinata a nuova vita, impara proprio dal cielo di Roma:

«Nel cielo le nuvole andavano, tutte avvolte dal sole, mutevoli e continue: le piazze, le fontane, le case di pietra, le cupole, il fiume e le pinete incise sull’orizzonte, il deserto della campagna e i monti lontani, tutto pareva seguire il lento viaggio delle nubi, tutto era com’esse immerso nella luce meravigliosa e com’esse appariva fluido ed eterno. Anch’io ero già passata sotto quel cielo che ora tornavo a guardare; ed anche in quel mio passaggio di adolescente l’anima s’era sentita dilatare al cospetto dell’infinito azzurro. Non ero la medesima, ancora? Non cominciava ora la giovinezza?»

Roma è il catalizzatore positivo del cambiamento: «l’itinerario di formazione e di crescita della nuova donna riparte da lì». Vi ha sede, da qualche tempo, un periodico femminile: Mulier. La  chiamano a collaborare. Il marito, che nel frattempo ha rotto con il suocero (con cui lavorava), teme di non saper fronteggiare l’ambiente mondano della Capitale. E poi non saprebbe che fare. Si risolve ad impiantare a Roma il commercio di alcuni prodotti locali. Ecco dunque il trasferimento a Roma. Ed ecco il travaso della Città Eterna, siccome affiora, dopo aver sedimentato, dal tessuto sottile dello sguardo, dentro la coscienza:

sibilla aleramo

sibilla aleramo

«Roma appartiene allo spirito che la desidera con volontà, e mantiene tutto quanto le si chiede con vigore d’anima. E forse non era tanto lontano il giorno in cui avrei compreso in un solo sguardo la città unica, l’avrei sentita tutta nel palpito del mio cuore… Frattanto, che ebbrezza e che estasi assistere con mio figlio ai lunghi tramonti di fiamma dalla terrazza del nostro quartierino, con dianzi il fiume e Monte Mario, dopo aver lavorato ore e ore nel silenzio dell’alto studiolo!

   Mi sembra di non poter raccontare quei miei primi mesi di vita romana (…) … Città di esaltamento e di pace!

   Riserbandomi di penetrare poco per volta la bellezza e la maestà dei luoghi sacri, esploravo lietamente le parti moderne, che mi risuscitavano il senso dell’energia umana avuto nella fanciullezza. Ma ad ogni tratto, dalla confusione e dal frastuono della vita febbricitante mi trovavo repentinamente trasportata davanti a quadri di silenzio e di sogno, lontano, in epoche non conosciute quasi, fuorché in leggende. Ed erano anche aspetti improvvisi di civiltà più prossime e più note al mio spirito, e l’impressione talora della presenza di grandi anime non ancora estinte, non ancora lontane dalla terra così improntata di loro. Se ero sola o col piccino soltanto e nulla d’estraneo mi turbava, l’intensità della commozione mi faceva qualche volta salire alla gola un singhiozzo. L’avvenire si velava, s’allontanava: il presente appariva più indecifrabile. Ed io, piccola accanto al mio piccino, quasi dileguavo alla mia stessa coscienza.

   Mi riscuotevano presentimenti vaghi di un’altra parola ancora che la città doveva dirmi. Intorno ai nuclei di pietra che rappresentavano memorie grandiose o attualità mediocri, sapevo che esistevano cinture di miseria, agglomeramenti di esseri che la società fingeva d’ignorare e nei quali intanto fermentava forse il segreto del domani…».

Sibilla Aleramo (1917)

Sibilla Aleramo (1917)

Roma parla di eternità attraverso la sua storia: è un muto colloquio interiore, di segni e simboli, che allarga l’anima e talvolta la confonde, aprendola anche alla contemplazione del futuro, sia pur enigmatico, che trapela dagli squarci di un presente non sempre generoso. È il «cuore del mondo» che parla al cuore dell’Uomo, e lo raccoglie – sparso da ogni luogo – sul più vasto cammino della crescita, dell’evoluzione. A Roma convergono e si incontrano gli spiriti eletti chiamati ad operare il bene, a migliorare il mondo. Uno lo incontra anche lei: una specie di “santone” ieratico (che nella realtà corrisponde a Umano, alias Eugenio Meale) col quale approfondisce la coscienza di una urgente evoluzione sociale, per l’avvento di una nuova epoca, «l’epoca dello spirito liberato».

 «Roma, sì, era il centro ideale, la comune patria delle stirpi privilegiate. Ripartivano quei pellegrini che avevano tante, tante aspirazioni comuni e che non potevano contemplare una comune opera irradiata da questo cuore del mondo, Roma!».

 Mulier ha i suoi uffici accanto a Piazza di Spagna. Ci va due o tre volte la settimana, e poi svolge il lavoro a casa: rassegna stampa, riassunti di libri o di articoli, traduzioni. Il marito non le perdona di «averlo indotto a gettarsi nel caos cittadino» e attende fiaccamente alle sue attività. E intanto lei, elettrizzata dalla città e dal lavoro (che la fanno sentire utile, parte di un immenso meccanismo e, quindi, viva come non mai) si gode la sinfonia delle stagioni.

sibilla aleramo 6Autunno:

 «L’autunno romano svolgeva intorno la sua magnificenza. Io proseguivo ne’ miei vagabondaggi assaporando tutto l’incanto misterioso degli spettacoli che mi si svolgevano dinanzi come altrettanti simboli (…) prima di riprendere il mio povero lavoro di giornalista guardo dalla terrazza il disco abbagliante del sole sopra i cipressi di Monte Mario, e le due fasce incandescenti che lo attraversano e arrossano l’orizzonte. E mi pare che quel tramonto si fisserà per sempre nel mio ricordo».

 Inverno:

«Venne Natale, cogli arbusti delle rosse bacche sui gradini della Trinità dei Monti, coi presepii di Piazza Navona, delizia del mio piccino; venne la stagione dei teatri e delle conferenze, ed il febbraio coi primi rami fioriti; per le vie stormi di giovani straniere, alte, bionde e ridenti, passavano recando sulle braccia le candide nuvole di petali (…). Lavorando, continuavo a sentirmi alitar nello spirito, in maniera confusa, le idee e le immagini accolte durante la passeggiata, nei prati di Villa Borghese o sulla deserta duna del fiume». Continua a leggere

6 commenti

Archiviato in il romanzo, Senza categoria

LA ROMA BORGHESE E MULTIFORME di LUIGI PIRANDELLO “la Roma di Pirandello è l’esatto rovescio della Roma del Piacere di d’Annunzio” Commento di Marco Onofrio  

foto d'epoca

foto d’epoca

 Luigi Pirandello 1Roma, per Luigi Pirandello, è senza dubbio la “città di elezione”: la sceglie all’età di vent’anni come sede universitaria, e poi come luogo definitivo della sua vita (continua a risiedervi anche quando, ormai assurto a fama internazionale, viene chiamato per conferenze e rappresentazioni in tutto il mondo). Il grande salto che lo porta a Roma data novembre 1887: Pirandello lascia la Sicilia e si iscrive alla Sapienza, al secondo anno di Lettere. Porta con sé lavori drammatici e abbozzi di commedie: spera, invano, di farli rappresentare. Roma delude, inizialmente, la sua vocazione drammaturgica. Pirandello ha frequentato il liceo a Palermo. Ma un giovane aspirante scrittore deve misurarsi con l’Italia continentale: a Palermo – malgrado il respiro internazionale introdotto dai Florio – c’è un clima culturale tutto sommato ristretto e regionalistico, sostanzialmente incentrato sulla rivendicazione del primato di Verga e del Verismo, in funzione di polemica antidannunziana. Pirandello assorbe i lieviti di questa polemica, ritagliandosi un abito letterario che resterà sempre antitetico al fatuo, benché splendido, estetismo del pescarese. Giunge così a Roma con la doppia prospettiva di laurearsi e di intraprendere la carriera di scrittore.

foto d'epoca di nudo

foto d’epoca di nudo

L’immagine sognata della Città Eterna è condizionata sia dal fascino dell’evasione (l’ebbrezza di vivere da soli, in libertà, lontano da casa), per cui Roma gli appare come la sede più adatta a realizzare le sue ambizioni letterarie, sia dal mito luminoso e glorioso di Roma risorgimentale, con il quale si è formato, sin dall’infanzia, attraverso i racconti dei familiari, in particolare la madre (Caterina Ricci Gramitto) e gli zii materni, tutti garibaldini e antiborbonici. Nato a Girgenti il 28 giugno 1867 da famiglia mercantile di origine ligure (il padre Stefano è un imprenditore nel commercio dello zolfo, a Girgenti e Porto Empedocle), Pirandello cresce in un ambiente di grandi ideali, fervido di memorie risorgimentali e tensioni unitarie. È attraverso questo diaframma di premesse e di aspettative che il giovane Pirandello guarda Roma e prende coscienza del suo primo impatto con la città. Sentimenti che riflette nella commozione di Mauro Mortara, ex garibaldino del romanzo I vecchi e giovani (pubblicato nel 1913 ma scritto fin dal 1905-06).

Vorrei far contento anche te, − riprese il principe. – Vuoi andare a Roma?

− A Roma? io? – esclamò Mauro, stordito. – A Roma? E me lo domandate? Chi sa quante volte ci sarei andato a piedi, pellegrino, se le mie gambe… (…) sono vecchio, − soggiunse Mauro. – Su la forca dei due 7 e morire senza veder Roma è stata sempre la spina mia!

(…)

− Vado a Roma, vi dico, e non so altro, non voglio saper altro in questo momento!

(…)

Le quattro medaglie poi che gli s’intravedevano appese alla camicia d’albagio, sul petto, se le era portate (chiestane licenza al Generale) unicamente per dimostrare ch’era degno di passare per Roma, che s’era meritata la grazia e guadagnato l’onore di vederla. Tutti i documenti erano dentro lo zainetto.

auto d'epoca

auto d’epoca

Come avrebbe potuto supporre che quelle medaglie, a Roma, attufata d’odio e tutta imbrattata di fango in quei lividi giorni, dovessero chiamare su le labbra un ghigno di scherno, diventata quasi titolo d’infamia la qualifica di «vecchio patriota»? Senza il più lontano sospetto che ridessero di lui, Mauro Mortara rideva a tutti coloro che gli ridevano in faccia, credendo che, quasi grillandogli attorno come una luce, gli abbagliava ogni cosa. Non vedeva altro di Roma, che questa sua gioja di esserci; e tutto in quella fiamma d’allucinazione gli si presentava magico e vaporoso; e non sentiva la terra sotto i piedi (…) e appena gli fantasmeggiava davanti un aspetto grandioso, giù altre lagrime dagli occhi gonfii di commozione.

auto d'epoca

auto d’epoca

Lando Laurentano avrebbe voluto dargli una guida; ma che guida! Non voleva saper nulla; non voleva che gli si precisasse nulla; temeva istintivamente che ogni notizia, ogn’indicazione, ogni conoscenza anche sommaria gli rimpiccolisse quella smisurata, fluttuante immagine di grandezza, che il sentimento gli creava. Roma doveva rimanere per lui, come il mare, sconfinata. E ritornando la sera, stanco e non sazio, al villino di via Sommacampagna dove Lando abitava, alle domande se avesse veduto il Colosseo, il Foro, il Campidoglio:

Ho visto, ho visto! – rispondeva in fretta. – Non mi dite niente… Ho visto!

–  Anche San Pietro?

–  Oh Marasantissima! Vi dico che ho visto. Non voglio saper niente! Questo… quello… che me n’importa? È tutto Roma!

(…)

Era lui davvero, Mauro Mortara, a Roma? respirava proprio lui lassù quell’aria di Roma? toccava proprio lui coi piedi il suolo di Roma? vedeva lui tutte quelle grandezze? O era sogno? Ah, si potevano chiudere ora gli occhi suoi, dopo tanta grazia? Veduta Roma, avevano veduto tutto. Posta la sua firma nel registro del Pantheon, alla tomba del Re, poteva morire: aveva dato atto di presenza nella vita, risposto all’appello della storia.

M Malerba RomaLa prima residenza romana di Pirandello è a via del Corso 456, a casa dello zio materno Rocco, ex eroe garibaldino e consigliere di prefettura. La moglie di Rocco, Nanna, è una donna bizzarra ed estroversa: riempie casa di parenti, amici, animali (gatti, cani, pappagalli, scimmiette). In quel viavai Pirandello non riesce a concentrarsi per studiare. Si trasferisce in una pensione a via delle Colonnette 9a: torna dallo zio all’ora dei pasti. Dalla stanza dove studia, si gode la visione descritta nel romanzo Il Fu Mattia Pascal:

Si vedeva in fondo Monte Mario, Ponte Margherita e tutto il nuovo quartiere dei Prati fino a Castel Sant’Angelo; si dominava il vecchio ponte di Ripetta e il nuovo che vi si costruiva accanto; più là, il ponte Umberto e tutte le vecchie case di Tordinona che seguivan la voluta ampia del fiume; in fondo, da quest’altra parte, si scorgevano le verdi alture del Gianicolo, col fontanone di San Pietro in Montorio e la statua equestre di Garibaldi.

a sin Raffaello Utzeri a dx Marco Onofrio

a sin Raffaello Utzeri a dx Marco Onofrio

Ma la prima impressione reale che Pirandello ha di Roma è trista e caotica: non si ritrova nel «trambusto violento della nuova vita nella terza Capitale, tra la baraonda oscena dei tanti che vi s’abbaruffano reclamando compensi, carpendo onori e favori». Il mito glorioso di Roma si dissolve presto nell’insofferenza che Pirandello prova per la città del Potere, che attrae opportunisti, carrieristi e arrampicatori sociali da tutta Italia, i “novissimi quiriti” che prosperano davanti alla cinica indifferenza dei “romani de Roma”. La delusione prende corpo anche in poesia: si leggano questi versi dal Pianto di Roma: «Un popolo di nani ora t’ha invasa / e profanata, osando, o Roma, dentro / il tuo grembo divino la sua casa, / covo d’ignavia, erigere, e far centro / te d’ogni sua miseria / (…). Ostia per voi, Ostia per voi, pezzenti / nani, bastava. La grandezza enorme / di Roma come non vi fe’ sgomenti? / Sia della Terra la Città che dorme! / Un bosco. E sopra, l’ala ampia dei venti». E questi altri, dal Pianto del Tevere: «Non lo vedrete più com’io lo vidi / per Roma, un giorno, il Tevere passare / tra i naturali suoi scoscesi lidi (…). / Torvo ogni flutto, urtando nei piloni, / torcesi ed apre un gorgo minaccioso, / come un can che digrigni. / (…) Mugliando e pieno di rapina scende: / par che ogni onda s’inciti a superare, / sù sù, gli orli degli argini oppressori; / scappa per sotterranee vie, si mostra / al Pantheon: “Mi vedi, avanzo sacro / di Roma nostra? / sono ancora qua: / Roma ha bisogno d’un mio gran lavacro!” // E il fiume anela, di diventar mare / su la Città».

   Pirandello aborre sia la Roma bizantina dei salotti esclusivi, dei levrieri, delle corse ippiche (di questa mondanità dannunziana produce una satira pungente nel romanzo Suo marito, pubblicato nel 1911, dove è in scena la gente “fatua e bastarda” che la capitale ha radunato), sia la Roma umbertina della disordinata espansione edilizia, delle speculazioni finanziarie, della corruzione amministrativa, degli scandali politici (ad es. il fallimento della Banca Romana, che tanto spazio prende ne I vecchi e i giovani). Questo ultimo romanzo vibra di indignazione civile per lo «sfacelo della coscienza nazionale» e i «barattieri rifugiati a Montecitorio»: nella «enorme frode scellerata» sono naufragate le speranze ideali del Risorgimento.

roma lupa capitolinaTutte le sere, tutte le mattine, i rivenditori di giornali vociavano per le vie di Roma il nome di questo o di quel deputato al Parlamento nazionale, accompagnandolo con lo squarciato bando ora di una truffa ora di uno scrocco a danno di questa o quella banca. (…) Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia.

Si denunciano «vergognose complicità tra i Ministeri e le Banche e la Borsa»: le banche avevano «largheggiato verso il Governo per fini elettorali, per altri più loschi fini coperti»; e il Governo aveva in cambio «proposto leggi che per le banche erano privilegi, e difeso i prevaricatori, proponendoli agli onori della commenda e del Senato».

Era la bancarotta del patriottismo, perdio! E fremeva sotto certi nembi d’ingiurie che s’avventavano in quei giorni da tutta Italia contro Roma, rappresentata come una putrida carogna. (…) tutte le forze s’erano infiacchite al contatto del Cadavere immane; sbolliti gli entusiasmi; e tutte le virtù, corrotte. Meglio, meglio quand’essa viveva d’indulgenze e di giubilei, affittando camere ai pellegrini, vendendo corone e immagini benedette ai divoti!

magritte golconda

magritte golconda

C’è anche da registrare lo smarrimento fisico in una città così vasta e dispersiva. Pirandello rimugina la sua cupa scontentezza, attraversando Roma in lungo e in largo con lunghe passeggiate solitarie, di giorno e di notte, durante le quali osserva e riflette. Frequenta i teatri. Una sera, uscendo dal Teatro Manzoni, si accorge di aver dimenticato la chiave di casa e, per non disturbare la padrona, si adatta a trascorrere la notte passeggiando tra le vestigia romane. Visita il Colosseo al chiaro di luna, che descrive in una lettera alla sorella: «penetrai per gli ampi intercolunni, nel vastissimo circo, alzai gli occhi, e stupefatto ammirai. Nell’inconscio sgomento, che il profondo silenzio della notte imprime, sotto il freddo candor lunare, quella maestosa rovina a chi guarda più che un’opera umana pare mostruoso capriccio della Natura». Poi percorre la via Sacra, passa sotto gli archi di Costantino e Tito, ammira le rovine del Foro, sale al Campidoglio, prosegue per via Vittorio Emanuele, poi per via di Ripetta, fino al Tevere: «guardai il Tevere e pensai: se mi gettassi, morirei da proconsole». Gironzola fino all’alba pei prati di Castello, e infine pallido di sonno torna a casa.

   Il soggiorno universitario romano, però, non dura a lungo: Pirandello ha un contrasto con il preside della Facoltà, il latinista Onorato Occioni. Il filologo romanzo Ernesto Monaci lo consiglia di lasciare la Sapienza e di iscriversi a Bonn, in Germania, dove Pirandello si trasferisce nel novembre 1889 e dove si laurea il 21 marzo 1891, con una tesi sulla fonetica del dialetto girgentino. Vive anche una passione con una ragazza tedesca. Ma avverte il rapporto incolmabile tra Nord e Sud. Vuole tornare a Roma perché conta di fermarvi la sua dimora. Scrive alla sorella: «Io voglio il Sole, io voglio la Luce». In Sicilia ne troverebbe più che a Roma, ma la Sicilia non offre le opportunità della Capitale. Così, nel 1891, torna per sempre a Roma. Anche Adriano Meis sceglie di stabilirsi a Roma. «Perché a Roma e non altrove?» ci si domanda nel Fu Mattia Pascal.

Scelsi allora Roma, prima di tutto perché mi piacque sopra ogni altra città, e poi perché mi parve più adatta a ospitar con indifferenza, tra tanti forestieri, un forestiere come me.

Luigi Pirandello 1936

Luigi Pirandello 1936

Roma unisce alla sua immortale bellezza la capacità di ospitare con indifferenza, fra tanti forestieri, un forestiero. Cioè: garantisce a Pirandello la discrezione e l’anonimato di cui ha bisogno per osservare la vita e scriverne (così come ad Adriano Meis per vivere in incognito la sua nuova identità). Pirandello sceglie Roma perché città più adatta e accogliente per uno scrittore che, come lui, voglia esplorare le ombre della quotidianità borghese. A Roma infatti vivrà una vita tranquilla, regolare, lontana da eccessi mondani. Tanto più che non ha, inizialmente, preoccupazioni economiche: il padre gli invia con regolarità un assegno mensile. Comincia la carriera letteraria: sceglie il gruppo dei veristi, catalizzato intorno a Ugo Fleres e contrapposto ai dannunziani. Diventa discepolo e amico di Luigi Capuana, che gli consiglia di abbandonare la versificazione (è un poeta piuttosto mediocre) per dedicarsi alla prosa. Pirandello è oltretutto un discreto pittore: dipinge per passatempo diversi scorci di campagna romana. Ormai si è ambientato a Roma e vive un periodo spensierato: amici, passeggiate al Pincio, sogni di gioventù. Nell’estate del 1883 è a Monte Cavo, sui Castelli Romani, dove scrive L’esclusa. Si fidanza e si sposa (a Girgenti) con Antonietta Portulano, figlia di un socio in affari del padre. I coniugi Pirandello trascorrono una settimana di luna di miele “bianca” nella tenuta del Caos, a Girgenti: Luigi è rispettoso del pudore verginale di Antonietta. Il matrimonio viene consumato a Roma. Si sistema con la moglie a via Sistina 3, in una casa con le finestre su via del Tritone. In quattro anni gli nascono i tre figli: Stefano, Lietta e Fausto. Nel 1897 sostituisce Giuseppe Mantica nell’incarico di insegnamento di Lingua Italiana e Stilistica al Magistero Femminile di Piazza Esedra. Collabora a varie riviste e nel 1898 contribuisce alla fondazione di “Ariel”, la rivista del gruppo “sinceristico” di Ugo Fleres, che dura appena 7 mesi. Conduce una vita serena e metodica tra Magistero, ambiente letterario e famiglia.

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello

  Poi però, nel 1903, la tragedia improvvisa. Un’inondazione devasta la miniera di zolfo del padre Stefano in Sicilia: tutto il patrimonio familiare è compromesso, inclusa la dote di Antonietta. Proprio lei apre la lettera con la notizia: viene fulminata da un collasso e resta per molti mesi paralizzata alle gambe. Da quel momento comincia a manifestarsi in lei una patologia mentale, inizialmente sotto forma di esaurimento nervoso. La letteratura per Pirandello, da passatempo piacevole, diventa risorsa per sopravvivere: lo stipendio da Prof. basta appena per l’affitto di casa, e Pirandello non vuole trasferirsi, nell’immediato, per non sconvolgere ancor di più la moglie. Moltiplica i suoi impegni letterari. Riceve 906 lire di anticipo da Giovanni Cena, direttore della “Nuova Antologia”, per un romanzo a puntate che sarà, di lì a poco, Il Fu Mattia Pascal. Lo scrive dunque sotto la spinta della necessità, che accentua la tensione creativa: ne scaturisce un capolavoro. Nel romanzo si rievoca la trasformazione della provinciale città papalina in capitale del nuovo stato unitario, catturata – con efficace, indimenticabile metafora – nella contrapposizione tra “acquasantiera” e “portacenere”.

Perché sta a Roma lei, signor Meis?

   Mi strinsi ne le spalle e gli risposi:

– Perché mi piace di starci…

– Eppure è una città triste, – osservò egli, scotendo il capo. – Molti si meravigliano che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea vi attecchisca. Ma questi tali si meravigliano perché non vogliono riconoscere che Roma è morta. (…) Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri così spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un’altra. Roma giace là, col suo gran cuore frantumato, a le spalle del Campidoglio. Son forse di Roma queste nuove case? (…) I papi ne avevano fatto – a modo loro, s’intende – un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell’amaro e velenoso piacere che essa ci dà.

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello

Nel Fu Mattia Pascal c’è un impianto di Roma piccolo borghese che a un certo punto, con rapida incursione, s’innesta alla Roma altolocata del marchese Giglio d’Auletta, di Pepita Pantogada, del pittore Bernaldez (ambienti diplomatici ed ecclesiastici, palazzi nobiliari, etc.). C’è anche la nota di costume con la moda delle sedute spiritiche (e la cultura teosofica di Anselmo Paleari). Proprio il signor Paleari accompagna Adriano nelle sue passeggiate: «andavamo o sul Gianicolo o su l’Aventino o su Monte Mario, talvolta sino a Ponte Nomentano, sempre parlando della morte». Ecco il vagabondaggio meditabondo per Roma, tipico di molti personaggi pirandelliani (con tanto di dettagliate indicazioni toponomastiche, a comporre gli itinerari). Si attraversa la città nella speranza di stancare il corpo, quasi per dare un appoggio e, al contempo, un’alternativa al martellio costante del pensiero: la passeggiata come espediente fisico per salvarsi dall’angoscia metafisica. È viva, in Pirandello e nei suoi personaggi, la suggestione del colloquio silenzioso e notturno con il mistero di Roma, fitto di epoche stratificate che riemergono alla percezione. Un colloquio che non è fatto di parole, ma soprattutto di passi e di pensieri, di attraversamenti solitari, di vagabondaggi tristi, di silenzi smemorati. Ad esempio ne I vecchi e i giovani:

Si fermava un po’ per sentire intorno a sé il silenzio notturno; gli pareva che questo silenzio si profondasse nel tempo, nel passato di Roma, e diventasse terribile. Un brivido lo scoteva. Gravava quella notte su una città di mille e mille anni, per cui egli passava, ombra vana, minima, che un lieve soffio avrebbe spazzato via.

E nella novella “Un’idea” Roma, di notte, si sfalda come eternità silenziosa e stupefazione onirica:

Lasciata la solita compagnia nel caffè (tra i lumi e gli specchi pieno di fumo) si trova davanti la notte: vitrea, quasi fragile nella purezza degli astri sfavillanti sulla vastissima piazza deserta.

  Attraversarla, gli pare impossibile; la vita, in cui deve rientrare, irraggiungibilmente remota da essa; e tutta la città, come da secoli disabitata, coi fanali che ancora la vegliano nel chiarore misterioso di quella gelida azzurrità notturna. Impossibile il rumore dei suoi passi in quel silenzio che pare eterno. (…) Si scuote alla fine da quel fascino, per attraversare la piazza. (…) Tutt’intorno la città ha come una vaporosa evanescenza di sogno; e il suo corpo vi si muove quasi fluido, ombra tra ombre.

Accade lo stesso nel Fu Mattia Pascal:

Luigi Pirandello legge un manoscritto a Marta Abba

Luigi Pirandello legge un manoscritto a Marta Abba

Andavo, secondo l’ispirazione del momento, o nelle vie più popolate o in luoghi solitari. Ricordo, una notte, in piazza San Pietro, l’impressione di sogno, d’un sogno quasi lontano, ch’io m’ebbi da quel mondo secolare, racchiuso lì, tra le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M’accostai a una di esse, e allora quell’acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità.

La mestizia emotiva che connota la lettura dei luoghi è confermata da un ubriaco di passaggio che, vedendo cogitabondo Adriano Meis, lo invita a stare “allegro”, a non crucciarsi troppo della vita. Anche nella novella “Il ventaglino” il sogno in cui paiono assorti i «poveri alberi sorgenti dalle aiuole rade, fiorite di bucce, di gusci d’uovo, di pezzetti di carta» in un meschino giardinetto pubblico circondato da «alte case giallicce» è precisato come «sogno d’una tristezza infinita». Nella novella “Alberi cittadini”  la città è labirinto artificiale della “civiltà” dove gli alberi, strappati alla campagna, languiscono sperduti nel trambusto, e dove la terra è schiacciata «sotto le case innumerevoli, sotto le selci calpestate di continuo dagli uomini irrequieti». Ai veleni della città Pirandello contrappone talvolta, con nostalgia regressiva, la natura sana della campagna: come nella novella “Il vecchio Dio”, dove Dio dice in sogno al vecchio Aurelio (che ha deciso di trascorrere le sue vacanze estive al fresco delle chiese di Roma): «Su, su, andiamo figliuolo! Anche tu qua [cioè: a Roma] ci stai maluccio, lo vedo. Andiamocene, andiamocene in campagna, fra la gente timorata, fra la buona gente che lavora». Anche perché Roma è città dissacrante e per certi versi spietata, malgrado le mille chiese, proprio per voce di popolo. E così «c’era sempre qualcuno, un monellaccio, un vetturino di stazione, che, vedendo passare Aurelio col lucido cranio scoperto, la barbetta lieve tremolante sul mento, e la zazzeretta grigia, tremolante anch’essa su la nuca, gli lanciava qualche lazzo: – Guarda oh: due barbette! Una davanti e l’altra dietro!»

   Secondo Giovanni Macchia, la Roma di Pirandello è l’esatto rovescio della Roma del Piacere di d’Annunzio. Non malinconia decadentistica e fascinoso compiacimento dei sensi, ma verità di vita e pesante tristezza esistenziale. Pirandello, infatti, non sorride quasi mai. Il suo tormento si acutizza nella misura in cui progredisce la follia della moglie: vive la malattia di Antonietta in uno stato di estrema disperazione. Scrive in una lettera all’amico Villari: «mi trovo in tristissime angustie. Non nego che queste, per un sincero umorista, siano la manna; tanto è vero che scrivo e scrivo con gran fervore. Ma la grazia è troppa e volentieri vi rinunzierei». Vorrebbe intitolare Il Fu Mattia Pascal «romanzo del Fu Luigi Pirandello». Accarezza propositi suicidi, che ogni volta desiste dall’attuare al solo pensiero dei figli.

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello

  Il motivo del suicidio ricorre specialmente sotto forma di annegamento nel Tevere. Il fiume di Roma è un’ossessione per Pirandello giacché anzitutto “parla di notte”: «Parla di notte il Tevere ai beoni, / ai poeti ed ai miseri, cui suole / umido offrir nel suo fondo ricetto. / Paiono i gorghi tante aperte gole». L’inquieto e faticoso vagolare dei personaggi per le vie e le piazze di Roma sfocia spesso sul Lungotevere (in particolare quello dei Mellini). Uno degli archetipi di Pirandello è l’uomo solo, triste, talora disperato, che poggia le mani sul parapetto, o sulle spallette di un ponte, o vi si mette addirittura a sedere, con le gambe penzoloni – e da lì guarda assorto, trasognato, la corrente del fiume come un miracolo che porta a sfiorare, forse, i bordi senza fine del mistero. Ad esempio nella novella “Un’idea”:

Il tempo s’è fermato e fra le cose rimaste tutt’intorno in uno stupore attonito pare che un segreto formidabile sia nel fatto che in tanta immobilità solo l’acqua del fiume si muova.

Le acque del Tevere trattengono ancora, al tramonto, la luce del giorno che si scioglie in riverberi di madreperla. E poi, di notte, nel tremolio continuo dei flutti si riflettono i lumi artificiali dell’argine opposto. Ma la bellezza del fiume non serve, e non salva. Le acque gorgoglianti emettono un torbido richiamo al tuffo ferale: il protagonista di “Un’idea” guarda il cielo stellato «per non guardare, giù, l’acqua del fiume», come  per non cedere alla vertigine che lo turba e lo tenta al salto. Se il cocchiere Scalabrino della novella “Distrazione” coltiva propositi suicidi che restano ancora nel vago («Ne aveva fino alla gola, di quella vitaccia porca. E un giorno o l’altro, l’ultima litigata per bene l’avrebbe fatta con l’acqua del fiume, e buona notte»), c’è chi costeggia lungamente il bordo della tentazione suicida, a tu per tu con la sponda, a un passo dall’acqua: come Bernardo Morasco della novella “Il coppo”; e poi c’è anche chi quel parapetto lo scavalca davvero, come ad es. nelle novelle “E due!” (prima il tonfo dell’ignoto suicida, cui assiste Diego Bronner; poi quello di lui medesimo, a doppiare il gesto) e “L’uomo solo” («balzando sul parapetto dell’argine gridava con le braccia levate, enorme: – Ecco, si fa così! E giù, nel fiume. Un tonfo»).

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello

  Anche nel Fu Mattia Pascal è forte la suggestione del fiume: prima nella contemplazione trasognata, all’inizio del capitolo che non a caso s’intitola “Di sera, guardando il fiume”:

(…) starmene lì, di sera, affacciato a una finestra, a guardare il fiume che fluiva nero e silente tra gli argini nuovi e sotto i ponti che vi riflettevano i lumi dei loro fanali, tremolanti come serpentelli di fuoco; seguire con la fantasia il corso di quelle acque, dalla remota fonte appenninica, via per tante campagne, ora attraverso la città, poi per la campagna di nuovo, fino alla foce; fingermi col pensiero il mare tenebroso e palpitante in cui quelle acque, dopo tanta corsa, andavano a perdersi;

poi – di nuovo – nella possibilità che offre ad Adriano Meis di simulare il suicidio per tornare ad essere Mattia Pascal:

(…) mi ritrovai sul Ponte Margherita, appoggiato al parapetto, a guardare con occhi sbarrati il fiume nero nella notte.

   «Là?»

 (…)

 Non c’era altra via di scampo per me! (…) Scelsi il posto meno illuminato dai fanali, e subito mi tolsi il cappello, infissi nel nastro il biglietto ripiegato, poi lo posai sul parapetto, col bastone accanto; mi cacciai in capo il provvidenziale berrettino da viaggio che m’aveva salvato, e via, cercando l’ombra, come un ladro, senza volgermi addietro. Continua a leggere

4 commenti

Archiviato in il romanzo