(Ely, la protagonista del romanzo)
Questo non è un romanzo “tradizionale”, una storia d’amore tradizionale, e neanche un triangolo, anche se nelle pagine finali si parla parecchio di triangolo. È un romanzo della Crisi esistenziale, il romanzo della stagnazione spirituale.
Una sorta di roman philosophique, o meglio, un romanzo esistenziale, molto dialogato. Il dialogo infatti occupa un settanta per cento della narrazione e gli interventi del narratore sono appena accennati, appena delle didascalie, quasi da sceneggiatura. Lei, la bellissima spogliarellista, ex attrice di film porno usa lo stesso linguaggio dello scrittore; lui, un intellettuale, scettico, distaccato, svogliato, in profonda crisi di motivazione letteraria che, consapevolmente, come lui dice, scrive «romanzi di terza categoria», dei «gialli», con un commissario, dal corrivo cognome, de Luca, svogliato, demotivato, disilluso che non riesce a sbattere in gattabuia i delinquenti che lui vorrebbe; lei appassionata e ribelle alla normalità della vita borghese.
Il romanzo comincia narrato da lei, poi passa la palla a lui, per riprendere verso la fine a narrare lei; e, nelle ultime pagine c’è addirittura un narratore esterno, allorché il romanzo assume l’aspetto di un dramma, con tanto di palcoscenico, un regista e un altro personaggio, Magistri, l’impresario delle porno star, con tanto di scena e di indicazioni scenografiche. Sceneggiatura, teatro, cinema, fotogrammi serrati si ritrovano fusi insieme, con un ammiccamento forse anche al Tinto Brass de L’uomo che guarda ma più probabilmente al romanzo esistenzialista francese degli anni Sessanta.
L’inizio del romanzo sembra tradizionale: Lui che corteggia una bellissima Lei. E invece, si aprono subito le quinte della problematica dell’ansia e dell’angoscia, tipica della nostra epoca della stagnazione spirituale; le parole dei protagonisti si perdono in una atmosfera ovattata dove i significati si sbriciolano, si dissolvono, diventano irriconoscibili.
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La vicenda procede con dialoghi serrati, drammatici. Ogni tanto lo scrittore si abbandona, suo malgrado, a riferimenti letterari (il romanzo di Moravia, i gialli «vincenti» e «normali» di Camilleri, la poesia di Montale, un titolo di Brodskij), disquisizioni filosofiche, un confronto a tutto campo dove emergono le contraddizioni del nostro modo di vivere. Ely sprona Massimo a scrivere romanzi veri. Lui risponde che non ne ha voglia, che preferisce scrivere romanzi «gialli di terza categoria», perché è questo quello che il pubblico gradisce e l’epoca richiede. Man mano che il romanzo procede, i dialoghi si fanno sempre più serrati.
Parlavo di cinismo, di crisi esistenziale, mi riferivo in particolare ai due lunghi sogni che in qualche modo dividono il romanzo. Il primo (pag.31 e segg.) è la scena in cuii il protagonista scende in una grotta, una specie di caverna-incunabolo senza fine, dove è il nichilismo a farla da padrone; Il secondo (p. 131), è la scena di un treno che sta per scontrarsi con un altro sulllo stesso binario a tutta velocità, c’è il problema dell’identità (lui si riconosce nel macchinista che sta per andargli contro) e di sdoppiamento della personalità.
Senza dubbio c’è l’erotismo, non rappresentato come una sfida alla convenzione borghese, quanto come un erotismo proprio di due intellettuali in crisi; un topos letterario anche, tipico dei romanzi esistenzialisti francesi degli anni Sessanta. Lei cammina nell’appartamento sempre nuda, al massimo con autoreggenti e/o perizoma e tacchi a spillo. Tacchi altissimi, ombretto, fard, accessori della bellezza femminile, autoreggenti, reggicalze; lei è seduta davanti allo specchio, parla di problematiche esistenziali e filosofiche. Lui fuma MS con filtro, lei fuma Astor con filtro, l’appartamento è invaso da una fitta nuvola gialla, metafora visibile dell’avvelenamento della loro condizione esistenziale
Gli atti erotici sono uno o due, potremmo dire uno e mezzo, il primo a cui il nostro scrittore assiste dall’altra stanza, con Magistri primo attore; il secondo direttamente, dal vivo, non dal protagonista che assiste ma dal punto di vista della donna e del suo amante.
Da segnalare, infine, le innumerevoli considerazioni di estetica,sulla bellezza e sull’idea di romanzo che ha il protagonista («Nel migliore dei casi puoi scrivere alla Moravia»).
E, infine, il finale. Drammatico. A sorpresa.
(Sabino Caronia)
65° giorno
I PENSIERI DI MASSIMO: LA FERMATA NEL DESERTO
Avevo raggiunto quel gradiente dell’esistenza oltre il quale non resta più nulla, quel punto dopo il quale non c’è più futuro e dietro il quale rimane soltanto un cumulo di macerie fumanti al quale noi abitualmente diamo nome di «passato». In verità, questo punto, virtualmente, esiste soltanto in potenza, come possibilità estrema, di cui di solito gli esseri umani non faranno mai esperienza diretta nemmeno nel corso di un’intera esistenza. Quel punto non è più il punto della sospensione, e nemmeno della sospensione di tutte le cose ma è il punto del termine dopo il quale non resta altro che fare esperienza del vuoto, del niente. Ed è qualcosa di spaventoso che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico, ammesso che ne abbia uno, giacché in quella dimensione dell’esistenza cessano di avere senso le comuni distinzioni di bene e di male, di giusto e di ingiusto, perché tutto ciò è unicamente privo di senso. Avevo raggiunto, dunque, quel punto preciso dove non c’è più spazio per la disperazione, non c’è più spazio per l’attesa e non è possibile neanche fare il tentativo del ritorno, della nostalgia, nella misura in cui una volta che siamo giunti nel non-luogo, non è più possibile nemmeno immaginare che esista qualcosa che abbia nome “luogo” e che possa costituire un punto verso il quale ritornare o comunque dirigersi.
C’è un momento nel corso dell’esistenza che quando lo raggiungiamo ci accorgiamo che siamo in mezzo ad un deserto. Ovunque si volga lo sguardo non vedi altro che una distesa di sabbia marrone. Dune di sabbia fino al più lontano orizzonte. Ecco, questo significa che avete raggiunto il punto dove c’è soltanto il semaforo rosso che vi avverte che siete arrivati al non-luogo. E il semaforo segna sempre il rosso ovunque voi andiate: a destra, a sinistra, a nord o a sud. E non c’è nulla che possa strapparvi a quella condizione tranne un evento del tutto insperato o indesiderato: un terremoto, un uragano che vi faccia sprofondare negli abissi di un altro luogo così distante ed infernale che voi non avevate minimamente previsto o prefigurato. Una volta soltanto abbiamo avuto cognizione di un evento simile quando siamo stati cacciati fuori dal ventre materno e siamo usciti alla luce del sole belando come agnelli in preda al terrore. Qualcuno ci ha tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla placenta della nostra genitrice e siamo rimasti soli nel cuore della notte, in mezzo ad estranei che non abbiamo richiesto, non abbiamo scelto, ai quali abbiamo dovuto soggiacere costretti dalla nostra impotenza di neonati. Ma io ero un uomo adulto quando giunsi in quel punto che ho chiamato non-luogo, ero ancora nel pieno possesso di tutte le mie facoltà e della mia volontà, e l’uomo è una specie di macchina infernale che è capace di muovere tutte le cose, capace di sopravvivere nelle condizioni più avverse e capace di desiderare anche quando il desiderio è morto e non restano altro che le colonne d’Ercole del vuoto da esplorare.
Quando incontrai le sue gambe avvolte nella guaina delle calze a rete, accavallate come due magnifiche torri affusolate che dal ginocchio, piccolo e ossuto, si allungavano fin sotto all’inguine, non ebbi la sensazione di aver incrociato la persona che avrebbe dato una svolta al mio destino, una svolta ed una scossa. Era superbamente bella. Nel suo sguardo lampeggiava un’aria altezzosa ed altera in cui riconobbi qualcosa che non riesco ad esprimere, che mi era familiare ed estraneo. Direi un fascino, una forza di attrazione che non mi saprei spiegare. Una forza gravitazionale, che è nelle cose più che nei nostri pensieri. Perché le cose accadono, le cose urgono, spingono… e il pensiero non può che seguirle.
Non ci fu tempo per riflettere che già la mia bocca si posava sulle sue labbra. Mi impastai dell’umore del suo rossetto viola e, mentre la baciavo, lei aprì gli occhi forse spaventati e voluttuosi. E vidi le sue pupille nere che si contraevano e si espandevano nelle iridi violette immerse nell’ombra. Fu un bacio lungo e tortuoso, tormentato e voluttuoso. Fu il nostro sigillo, il sigillo del nostro amore. In verità, ogni amore è riconoscibile dal proprio sigillo. Inequivocabile ed univoco. E il nostro sigillo fu il suo rossetto viola che si appiccicava alla mia bocca come una colla profumata. In seguito, per tanti anni fui perseguitato nel ricordo da quel rossetto viola e dalle sue labbra fredde che si aprivano lentamente. Non ho altri ricordi del nostro primo incontro se non che c’era una musica da ballo, le note risuonavano nell’ampio salone e lei che era seduta in un divano accanto alla finestra aperta sul gelo della sera mentre la pioggia tamburellava sulle mattonelle del giardino. Era come assente. Come se non ci fossi né io, né la poltrona nella quale eravamo sprofondati, né la finestra aperta, né la pioggia, né la chincaglieria della dimora borghese che ci ospitava. Mantenne quell’aria assente ed altera per tutta la serata mentre io la baciavo affannosamente, senza pronunciare una parola come se fosse una marziana o una venusiana catapultata per caso nel nostro pianeta in preda agli spasmi della decomposizione.
A quel tempo lei viveva, o meglio, sopravviveva, in una minuscola camera di uno squallido miniappartamento nei pressi della stazione Termini. Nell’armadio c’erano appesi i suoi abiti di scena, costumi erotici, scarpe dagli altissimi tacchi a spillo, stivali di tutti i colori che giungevano sopra il ginocchio, mantelline nere e violette, voilant, corsetti e corpetti traforati e trasparenti, minuscoli perizomi dal filo invisibile che terminavano in un triangolino della misura di un francobollo, cappellini con veletta, guanti di tutti i tipi e colori che giungevano fin sotto l’ascella. Una vera panoplia dell’eros.
Io la raggiungevo nel suo appartamentino ammobiliato ogni sera, prima dello spettacolo. Lei mi attendeva, in silenzio, non pronunciava mai una parola, avvolta nei veli dei suoi abiti di scena trasparenti e ci univamo in amplessi ora violenti e scomposti, ora dolci e languidi. Sorrideva d’un sorriso casto ed elitario, come se tutto il lerciume della sua esistenza non la riguardasse affatto. Aveva disciplinato il lerciume della sua esistenza mediante un rigorosissimo nitore, come una luce bianca che illuminava i movimenti del suo quotidiano. Cominciai a capire che non c’era nulla di strano nel suo modo di vivere. Con i piccoli occhi di lince alludeva ad un invito ad entrare nella sua alcova profumata. Almeno, così interpretavo il suo silenzio. A volte, abbozzava appena un accenno con la testa. Impercettibile. Talmente impercettibile che sovente mi chiedevo se in lei ci fosse del diniego o della accondiscendenza, e fino a che punto il cenno riflesso nei suoi occhi potesse essere interpretato nel significato di acquiescenza o di renitenza. Non ho mai compreso fino in fondo l’insondabile metessi di tutti questi retropensieri, non sono mai riuscito a sbrogliare fino in fondo il gomitolo dei suoi silenzi e delle sue reticenze. Ma forse tutto ciò non è importante. Non è determinante. Quello che era veramente importante può essere riassunto così: che la Ely stava con me, che ascoltava i miei silenzi mentre io ascoltavo i suoi. A quell’epoca ero portato a considerare che tutto ciò fosse un elemento inscindibile del suo essere nel mondo. In un certo senso, lei era così come io l’accoglievo. Lei era così come io la interpretavo. Ma poteva essere anche altrimenti. Sotto la coltre dei suoi silenzi e delle sue allusioni silenziose avrebbe potuto essere altrimenti. Avrebbe potuto rivelarsi un’altra donna.
Per lungo tempo presi a frequentare il suo miniappartamento ammobiliato di terz’ordine, la sera all’ora della cena. Portavo un cartoccio di supplì, crocchette, filetti di baccalà fritti, patate al forno dalla rosticceria sotto casa con del buon chianti e dei pasticcini. Poi facevamo all’amore. Amplessi silenziosi e fugaci. Poi, lei si vestiva ed io tornavo trafelato ai miei appunti di scrittura. All’epoca, stavo scrivendo un romanzo, niente di speciale, una serie di gialli con un commissario stanco e svogliato che invece di dare la caccia ai malviventi passava le notti a bere drink da un locale all’altro, passando dalle le braccia di una prostituta all’altra. Il commissario dormiva appena qualche ora, e la mattina, sempre stanco e distratto, andava in ufficio tra le scartoffie e i piedipiatti a giocare a guardia e ladri.
All’epoca, avevo anche pubblicato una decina di questi romanzi che avevano avuto un qualche successo di vendite e l’editore mi aveva fatto un contratto capestro con il quale mi teneva in pugno: dovevo sfornare un romanzo all’anno in cambio di pochi denari che mi permettevano di sopravvivere in qualche modo fumando pessime sigarette e mangiando un sobrio pasto al giorno in trattoria. Per i miei bisogni, era più che sufficiente. Vivevo di notte e dormivo di giorno. Il pomeriggio era dedicato alla scrittura. La mia esistenza viaggiava leggera e inafferrabile come un treno blindato. Non avrei dato una lira per tutto ciò che c’era fuori del mio vagone blindato. Vedevo il treno al quale era agganciato il mio vagone che correva trafelato nell’oscurità della notte del mondo ma non mi chiedevo dove mi stesse conducendo, quali deserti attraversasse. Non mi ponevo domande, ecco tutto. Lasciavo che tutto filasse convinto che in qualche modo, obtorto collo e barra a vista, prima o poi tutto tornasse a posto, magari nel posto sbagliato ma, in qualche modo, a posto.
Quando incrociai Ely ero sempre stanco e svagato; ero diventato un doppio del personaggio del commissario creato dalla tastiera del mio computer. Ero alla ricerca di sempre nuove emozioni, di nuovi ambienti e di nuovi personaggi da mettere nei romanzi.
Ely, sì, era un personaggio da romanzo. Di madre ucraina e di padre gitano era una nomade, una apolide. I suoi occhi di lince grigia la rivelavano per quello che realmente lei era, il taglio obliquo dei suoi occhi mi metteva una specie di inquietudine. Era una senza patria alla ricerca della propria identità. Ma quale identità? Mi chiedevo. Pensavo di mettere anche lei in qualcuna delle mie storie grigie e stereotipate. E veramente, a sua insaputa, ce la misi. Qua e là descrivevo la sua magnifica chioma bionda, il suo pube biondo e la sua biancheria intima, bionda anch’essa. Almeno così la ricordo in quell’altra vita che noi tutti abbiamo dimenticato. Ora per allora. Cominciai a ficcare Ely dentro i miei romanzi. In uno divenne l’amante del commissario, il quale si recava da lei per vederla passeggiare in perizoma e giarrettiere. Quando glielo dissi, con mia somma sorpresa, Ely rimase inperturbabile. Continuò a fissarmi per un po’ con quegli occhi di lince grigia come se mi odiasse.
Mi colpiva lo sguardo «assente» di Ely, il suo volto dove a lato della magnifica bocca carnosa, stazionavano due pieghe sottili che le davano un’aria di composta malinconia. Mi perdevo ad almanaccare intorno ai suoi occhi violetti e grigi, intorno all’ombra delle sue palpebre, quegli occhi che sembravano non guardare mai in nessuna direzione, quanto piuttosto in tutte contemporaneamente, come gli occhi di certi animali in trappola che sembrano irrigidirsi in una fissità immota ma in realtà guardano ovunque alla forsennata ricerca di una via di fuga. Anche lei, all’epoca, era alla ricerca di una via di fuga, senza riuscire a trovarla. La osservavo quando mi voltava le spalle (quelle spalle terribilmente fragili e belle che mi rendevano inquieto), nei brevi minuti dopo l’amplesso, mentre fumava una sigaretta, approfittando della sua momentanea distrazione. Rubavo furtivamente alle sue spalle dei spiragli di verità, soprattutto nei momenti in cui la Ely si vestiva in fretta e furia per recarsi al night dove doveva fare lo spettacolo. Io l’accompagnavo con il mio carcassone sgangherato, ponzando in tutte le buche delle strade male asfaltate di questa capitale di merda, ma lei sembrava non farci caso, non sussultava mai, mai una parola di sorpresa o di meraviglia o di intemperanza…
Per Ely il mondo filava liscio come un tavolo da biliardo mentre per me il mondo rotolava come un bidone della spazzatura. Insomma, mi ci trovavo a mio agio anche in quei frangenti con la Ely. E questo aspetto mi inquietava. Non è possibile – mi dicevo – che con la Ely ci sto bene come con nessun’altra. Mi ci arrovellavo….
Scaricavo la Ely davanti all’ingresso del night, lei faceva il suo numero: saliva su un tavolo e si spogliava nuda, oppure ballava sinuosa attorno ad un palo togliendosi gli indumenti ad uno ad uno. Rimasta nuda, scodinzolava di qua e di là, si sedeva sulle gambe degli avventori, cincischiava, saltellava sugli alti trampoli scuotendo le natiche e poi, sempre ondeggiando, ritornava al bancone del bar dove prendeva qualcosa da bere, scambiava qualche parola con i clienti, sorseggiava un drink, fumava qualche sigaretta, sorrideva con un sorriso annoiato e distratto. E poi di nuovo saliva su un altro tavolo, si scuoteva la pesante chioma bionda dalle fragili spalle, sbatteva le natiche, s’inchinava, s’infuriava e trotterellava sui tavoli, passando dall’uno all’altro, seguendo la musica trash… poi tornava presso qualche avventore… e ricominciava daccapo.
Sì, devo ammettere che la Ely riscuoteva notevoli successi nell’ambiente per via del suo fisico esile e imponente, ma non solo, sarei tentato di affermare che era la sua particolare malinconia a renderla così avvenente agli occhi degli uomini. L’elegante architettura del suo volto, i movimenti felini che sembravano calcolati ed invece erano ingenui. Anche il suo modo di guardare il prossimo in maniera elusiva e sfuggente, con un lento movimento delle ciglia, riscuoteva grande successo presso il pubblico maschile.
Mi ero ficcato in testa che la Ely fosse un personaggio da romanzo e che io dovevo essere il suo romanziere. Idee quanto mai astruse ed inverosimili ma mi piaceva indugiare in quelle frivolezze.
Lasciavo Ely che faceva il suo lavoro nei night e me ne stavo dentro l’autoblindo a fumare pessime sigarette, una dopo l’altra. Ecco, se un effetto lo faceva su di me, questo era la moltiplicazione delle sigarette. Le fumavo una dietro l’altra, in macchina, fino a quando lei non tornava affaticata e trafelata, saltava dentro l’autobotte, io mettevo in moto e l’accompagnavo, a tutta velocità, presso un altro night. Lei balzava giù leggera come un aquilone sui tacchi a spillo e spariva all’interno. Io guardavo le lancette dell’orologio e fumavo altre sigarette. Una dietro l’altra. In silenzio.
– Ma caro perché non vieni anche tu a vedere lo spettacolo? – mi diceva con la sua vocina da cigno imbellettato. Ma io non ritenevo di doverle fornire una spiegazione, era piuttosto una domanda retorica a cui seguiva un silenzio retorico. Così passava la notte. Così, più o meno, passarono le notti, tutte le notti di quei mesi dell’inverno del 1999… Si chiudeva il sipario del millennio ed io la caracollavo su e giù per le vie del centro e paraggi e lei saltellava senza perizoma sui tavoli dei clienti. In tutto ciò non c’era nulla di eroico, nulla di erotico, nulla di poetico, direi nulla di trasgressivo. Era la banale normalità del suo lavoro. Ely aveva un vitino spaventosamente esile sul quale si ergeva il solco concavo e profondo delle reni al di sotto delle quali emergevano dall’ombra le natiche alte e lunghe. Non c’era niente da fare. Gli uomini andavano in tilt al solo vederla seminuda. Paradossalmente, Ely vestita normalmente non avrebbe richiamato quasi l’attenzione maschile se non per i seni ridondanti, ma non appena si spogliava, la faccenda acquistava un’altra dimensione. Quello che non riuscivo a capire era come facesse la Ely a resistere in quella rumorosa solitudine che era la sua esistenza tutto quel tempo pur in mezzo alla esuberante ammirazione maschile. Il volto malinconico di Ely appariva irresistibilmente erotico, bastava uno schiocco delle sue dita e i maschi sarebbero accorsi a frotte alle sue caviglie, come tanti cagnolini. E invece niente. Di tanto in tanto, mi parlava dei suoi amori passati o dei suoi amanti consegnati all’oblio, erano appena accenni a cui non seguivano mai spiegazioni esaurienti, ed io presi ad indispettirmi di tale negligenza. Lo compresi in seguito: la sua non era negligenza né trascuratezza, si trattava di noia. Noia per tutti quegli uomini che si affaccendavano dietro i suoi tacchi a spillo, noia per la loro ingombrante rumorosità, noia per il loro portafogli, noia per le luci al neon dei night, per lo champagne servito dentro boccali di ghiaccio da camerieri in livrea, noia per le macchine sportive decappottabili e non, noia per tutto quel mondo fittizio fatto nel modo che tutti sappiamo e che non potrebbe essere diverso nemmeno se tutti lo volessimo. Ma davvero lo vogliamo? Dico un mondo diverso. Davvero lo vogliamo?
Forse Ely aveva scelto me perché ero fuori dal gioco. Ero un intellettuale. Uno scrittore di seconda categoria. Un perdigiorno. Ely sapeva che ero uno scrittore di mezza tacca, un poeta fallito, anzi, abortito. Sono convinto che non si sarebbe mai presa uno scrittore di successo, c’era in lei la recondita inclinazione a stare coi perdenti. E in questa faccenda io ero un vero asso, un vero perdente. Avevo fatto di tutto per essere un perdente. Mi ci ero messo d’impegno. Anche il personaggio centrale dei miei romanzi, il commissario De Luca, era un perdente, un defenestrato da un commissariato all’altro, trasferito dal Ministero per incapacità e scarso impegno. Tra me e il mio personaggio si era stabilita una segreta alleanza, una segreta, tacita corrispondenza, una affinità. Insomma, io mi ci riconoscevo nel mio personaggio, anche lui era un mediocre: non sapeva o non poteva vincere. Schiaffare in galera un malvivente non lo riempiva di gioia, diceva che per la legge dei vasi comunicanti e per l’equilibrio dell’ecosfera sociale ci volevano anche un bel po’ di delinquenti in libertà. Questa era la filosofia del mio commissario, nella quale in un certo qual modo mi riconoscevo. C’era stato un tempo in cui avevo creduto di essere un poeta, avevo anche scritto un libro di poesie. Ma erano mediocri, irrimediabilmente mediocri. E così ci avevo rinunciato e mi ero messo a scrivere gialli. Intanto, mi proponevo di scrivere un grande romanzo, il romanzo della mia vita, il romanzo del riscatto, ma lo posponevo per la fine dei miei giorni. Ma, in fin dei conti, riscatto di che cosa? Ero uno scrittore di gialli, punto e basta. Questo mi dava di che vivere, anche se ero sempre in bolletta. L’editore, quell’aguzzino, se ne approfittava, sapeva che ero in bolletta e mi dava gli anticipi col contagocce, tanto per non farmi morire di fame. Però c’era da pagare l’affitto del tugurio dove ero relegato, c’erano le bollette del gas e della luce, la ricarica del cellulare, le sigarette, le camicie sporche da portare in tintoria e da far stirare, il dentifricio da comprare.. e così, in mezzo a tutti questi rompicapo incrociai Ely, sottile come un pistillo e polputa come un gambero.
Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi: L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000); ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo (Edizioni Associate, 1995). Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000). Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal». Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore, 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio EdiLet, 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia, 2009) e la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura, 2013). Del 2016 è La ferita del possibile (Rubbettino).
LA ROMA BORGHESE E MULTIFORME di LUIGI PIRANDELLO “la Roma di Pirandello è l’esatto rovescio della Roma del Piacere di d’Annunzio” Commento di Marco Onofrio
foto d’epoca
foto d’epoca di nudo
L’immagine sognata della Città Eterna è condizionata sia dal fascino dell’evasione (l’ebbrezza di vivere da soli, in libertà, lontano da casa), per cui Roma gli appare come la sede più adatta a realizzare le sue ambizioni letterarie, sia dal mito luminoso e glorioso di Roma risorgimentale, con il quale si è formato, sin dall’infanzia, attraverso i racconti dei familiari, in particolare la madre (Caterina Ricci Gramitto) e gli zii materni, tutti garibaldini e antiborbonici. Nato a Girgenti il 28 giugno 1867 da famiglia mercantile di origine ligure (il padre Stefano è un imprenditore nel commercio dello zolfo, a Girgenti e Porto Empedocle), Pirandello cresce in un ambiente di grandi ideali, fervido di memorie risorgimentali e tensioni unitarie. È attraverso questo diaframma di premesse e di aspettative che il giovane Pirandello guarda Roma e prende coscienza del suo primo impatto con la città. Sentimenti che riflette nella commozione di Mauro Mortara, ex garibaldino del romanzo I vecchi e giovani (pubblicato nel 1913 ma scritto fin dal 1905-06).
− Vorrei far contento anche te, − riprese il principe. – Vuoi andare a Roma?
− A Roma? io? – esclamò Mauro, stordito. – A Roma? E me lo domandate? Chi sa quante volte ci sarei andato a piedi, pellegrino, se le mie gambe… (…) sono vecchio, − soggiunse Mauro. – Su la forca dei due 7 e morire senza veder Roma è stata sempre la spina mia!
(…)
− Vado a Roma, vi dico, e non so altro, non voglio saper altro in questo momento!
(…)
Le quattro medaglie poi che gli s’intravedevano appese alla camicia d’albagio, sul petto, se le era portate (chiestane licenza al Generale) unicamente per dimostrare ch’era degno di passare per Roma, che s’era meritata la grazia e guadagnato l’onore di vederla. Tutti i documenti erano dentro lo zainetto.
auto d’epoca
Come avrebbe potuto supporre che quelle medaglie, a Roma, attufata d’odio e tutta imbrattata di fango in quei lividi giorni, dovessero chiamare su le labbra un ghigno di scherno, diventata quasi titolo d’infamia la qualifica di «vecchio patriota»? Senza il più lontano sospetto che ridessero di lui, Mauro Mortara rideva a tutti coloro che gli ridevano in faccia, credendo che, quasi grillandogli attorno come una luce, gli abbagliava ogni cosa. Non vedeva altro di Roma, che questa sua gioja di esserci; e tutto in quella fiamma d’allucinazione gli si presentava magico e vaporoso; e non sentiva la terra sotto i piedi (…) e appena gli fantasmeggiava davanti un aspetto grandioso, giù altre lagrime dagli occhi gonfii di commozione.
auto d’epoca
Lando Laurentano avrebbe voluto dargli una guida; ma che guida! Non voleva saper nulla; non voleva che gli si precisasse nulla; temeva istintivamente che ogni notizia, ogn’indicazione, ogni conoscenza anche sommaria gli rimpiccolisse quella smisurata, fluttuante immagine di grandezza, che il sentimento gli creava. Roma doveva rimanere per lui, come il mare, sconfinata. E ritornando la sera, stanco e non sazio, al villino di via Sommacampagna dove Lando abitava, alle domande se avesse veduto il Colosseo, il Foro, il Campidoglio:
– Ho visto, ho visto! – rispondeva in fretta. – Non mi dite niente… Ho visto!
– Anche San Pietro?
– Oh Marasantissima! Vi dico che ho visto. Non voglio saper niente! Questo… quello… che me n’importa? È tutto Roma!
(…)
Era lui davvero, Mauro Mortara, a Roma? respirava proprio lui lassù quell’aria di Roma? toccava proprio lui coi piedi il suolo di Roma? vedeva lui tutte quelle grandezze? O era sogno? Ah, si potevano chiudere ora gli occhi suoi, dopo tanta grazia? Veduta Roma, avevano veduto tutto. Posta la sua firma nel registro del Pantheon, alla tomba del Re, poteva morire: aveva dato atto di presenza nella vita, risposto all’appello della storia.
Si vedeva in fondo Monte Mario, Ponte Margherita e tutto il nuovo quartiere dei Prati fino a Castel Sant’Angelo; si dominava il vecchio ponte di Ripetta e il nuovo che vi si costruiva accanto; più là, il ponte Umberto e tutte le vecchie case di Tordinona che seguivan la voluta ampia del fiume; in fondo, da quest’altra parte, si scorgevano le verdi alture del Gianicolo, col fontanone di San Pietro in Montorio e la statua equestre di Garibaldi.
a sin Raffaello Utzeri a dx Marco Onofrio
Ma la prima impressione reale che Pirandello ha di Roma è trista e caotica: non si ritrova nel «trambusto violento della nuova vita nella terza Capitale, tra la baraonda oscena dei tanti che vi s’abbaruffano reclamando compensi, carpendo onori e favori». Il mito glorioso di Roma si dissolve presto nell’insofferenza che Pirandello prova per la città del Potere, che attrae opportunisti, carrieristi e arrampicatori sociali da tutta Italia, i “novissimi quiriti” che prosperano davanti alla cinica indifferenza dei “romani de Roma”. La delusione prende corpo anche in poesia: si leggano questi versi dal Pianto di Roma: «Un popolo di nani ora t’ha invasa / e profanata, osando, o Roma, dentro / il tuo grembo divino la sua casa, / covo d’ignavia, erigere, e far centro / te d’ogni sua miseria / (…). Ostia per voi, Ostia per voi, pezzenti / nani, bastava. La grandezza enorme / di Roma come non vi fe’ sgomenti? / Sia della Terra la Città che dorme! / Un bosco. E sopra, l’ala ampia dei venti». E questi altri, dal Pianto del Tevere: «Non lo vedrete più com’io lo vidi / per Roma, un giorno, il Tevere passare / tra i naturali suoi scoscesi lidi (…). / Torvo ogni flutto, urtando nei piloni, / torcesi ed apre un gorgo minaccioso, / come un can che digrigni. / (…) Mugliando e pieno di rapina scende: / par che ogni onda s’inciti a superare, / sù sù, gli orli degli argini oppressori; / scappa per sotterranee vie, si mostra / al Pantheon: “Mi vedi, avanzo sacro / di Roma nostra? / sono ancora qua: / Roma ha bisogno d’un mio gran lavacro!” // E il fiume anela, di diventar mare / su la Città».
Pirandello aborre sia la Roma bizantina dei salotti esclusivi, dei levrieri, delle corse ippiche (di questa mondanità dannunziana produce una satira pungente nel romanzo Suo marito, pubblicato nel 1911, dove è in scena la gente “fatua e bastarda” che la capitale ha radunato), sia la Roma umbertina della disordinata espansione edilizia, delle speculazioni finanziarie, della corruzione amministrativa, degli scandali politici (ad es. il fallimento della Banca Romana, che tanto spazio prende ne I vecchi e i giovani). Questo ultimo romanzo vibra di indignazione civile per lo «sfacelo della coscienza nazionale» e i «barattieri rifugiati a Montecitorio»: nella «enorme frode scellerata» sono naufragate le speranze ideali del Risorgimento.
Si denunciano «vergognose complicità tra i Ministeri e le Banche e la Borsa»: le banche avevano «largheggiato verso il Governo per fini elettorali, per altri più loschi fini coperti»; e il Governo aveva in cambio «proposto leggi che per le banche erano privilegi, e difeso i prevaricatori, proponendoli agli onori della commenda e del Senato».
Era la bancarotta del patriottismo, perdio! E fremeva sotto certi nembi d’ingiurie che s’avventavano in quei giorni da tutta Italia contro Roma, rappresentata come una putrida carogna. (…) tutte le forze s’erano infiacchite al contatto del Cadavere immane; sbolliti gli entusiasmi; e tutte le virtù, corrotte. Meglio, meglio quand’essa viveva d’indulgenze e di giubilei, affittando camere ai pellegrini, vendendo corone e immagini benedette ai divoti!
magritte golconda
C’è anche da registrare lo smarrimento fisico in una città così vasta e dispersiva. Pirandello rimugina la sua cupa scontentezza, attraversando Roma in lungo e in largo con lunghe passeggiate solitarie, di giorno e di notte, durante le quali osserva e riflette. Frequenta i teatri. Una sera, uscendo dal Teatro Manzoni, si accorge di aver dimenticato la chiave di casa e, per non disturbare la padrona, si adatta a trascorrere la notte passeggiando tra le vestigia romane. Visita il Colosseo al chiaro di luna, che descrive in una lettera alla sorella: «penetrai per gli ampi intercolunni, nel vastissimo circo, alzai gli occhi, e stupefatto ammirai. Nell’inconscio sgomento, che il profondo silenzio della notte imprime, sotto il freddo candor lunare, quella maestosa rovina a chi guarda più che un’opera umana pare mostruoso capriccio della Natura». Poi percorre la via Sacra, passa sotto gli archi di Costantino e Tito, ammira le rovine del Foro, sale al Campidoglio, prosegue per via Vittorio Emanuele, poi per via di Ripetta, fino al Tevere: «guardai il Tevere e pensai: se mi gettassi, morirei da proconsole». Gironzola fino all’alba pei prati di Castello, e infine pallido di sonno torna a casa.
Il soggiorno universitario romano, però, non dura a lungo: Pirandello ha un contrasto con il preside della Facoltà, il latinista Onorato Occioni. Il filologo romanzo Ernesto Monaci lo consiglia di lasciare la Sapienza e di iscriversi a Bonn, in Germania, dove Pirandello si trasferisce nel novembre 1889 e dove si laurea il 21 marzo 1891, con una tesi sulla fonetica del dialetto girgentino. Vive anche una passione con una ragazza tedesca. Ma avverte il rapporto incolmabile tra Nord e Sud. Vuole tornare a Roma perché conta di fermarvi la sua dimora. Scrive alla sorella: «Io voglio il Sole, io voglio la Luce». In Sicilia ne troverebbe più che a Roma, ma la Sicilia non offre le opportunità della Capitale. Così, nel 1891, torna per sempre a Roma. Anche Adriano Meis sceglie di stabilirsi a Roma. «Perché a Roma e non altrove?» ci si domanda nel Fu Mattia Pascal.
Scelsi allora Roma, prima di tutto perché mi piacque sopra ogni altra città, e poi perché mi parve più adatta a ospitar con indifferenza, tra tanti forestieri, un forestiere come me.
Luigi Pirandello 1936
Roma unisce alla sua immortale bellezza la capacità di ospitare con indifferenza, fra tanti forestieri, un forestiero. Cioè: garantisce a Pirandello la discrezione e l’anonimato di cui ha bisogno per osservare la vita e scriverne (così come ad Adriano Meis per vivere in incognito la sua nuova identità). Pirandello sceglie Roma perché città più adatta e accogliente per uno scrittore che, come lui, voglia esplorare le ombre della quotidianità borghese. A Roma infatti vivrà una vita tranquilla, regolare, lontana da eccessi mondani. Tanto più che non ha, inizialmente, preoccupazioni economiche: il padre gli invia con regolarità un assegno mensile. Comincia la carriera letteraria: sceglie il gruppo dei veristi, catalizzato intorno a Ugo Fleres e contrapposto ai dannunziani. Diventa discepolo e amico di Luigi Capuana, che gli consiglia di abbandonare la versificazione (è un poeta piuttosto mediocre) per dedicarsi alla prosa. Pirandello è oltretutto un discreto pittore: dipinge per passatempo diversi scorci di campagna romana. Ormai si è ambientato a Roma e vive un periodo spensierato: amici, passeggiate al Pincio, sogni di gioventù. Nell’estate del 1883 è a Monte Cavo, sui Castelli Romani, dove scrive L’esclusa. Si fidanza e si sposa (a Girgenti) con Antonietta Portulano, figlia di un socio in affari del padre. I coniugi Pirandello trascorrono una settimana di luna di miele “bianca” nella tenuta del Caos, a Girgenti: Luigi è rispettoso del pudore verginale di Antonietta. Il matrimonio viene consumato a Roma. Si sistema con la moglie a via Sistina 3, in una casa con le finestre su via del Tritone. In quattro anni gli nascono i tre figli: Stefano, Lietta e Fausto. Nel 1897 sostituisce Giuseppe Mantica nell’incarico di insegnamento di Lingua Italiana e Stilistica al Magistero Femminile di Piazza Esedra. Collabora a varie riviste e nel 1898 contribuisce alla fondazione di “Ariel”, la rivista del gruppo “sinceristico” di Ugo Fleres, che dura appena 7 mesi. Conduce una vita serena e metodica tra Magistero, ambiente letterario e famiglia.
Luigi Pirandello
Poi però, nel 1903, la tragedia improvvisa. Un’inondazione devasta la miniera di zolfo del padre Stefano in Sicilia: tutto il patrimonio familiare è compromesso, inclusa la dote di Antonietta. Proprio lei apre la lettera con la notizia: viene fulminata da un collasso e resta per molti mesi paralizzata alle gambe. Da quel momento comincia a manifestarsi in lei una patologia mentale, inizialmente sotto forma di esaurimento nervoso. La letteratura per Pirandello, da passatempo piacevole, diventa risorsa per sopravvivere: lo stipendio da Prof. basta appena per l’affitto di casa, e Pirandello non vuole trasferirsi, nell’immediato, per non sconvolgere ancor di più la moglie. Moltiplica i suoi impegni letterari. Riceve 906 lire di anticipo da Giovanni Cena, direttore della “Nuova Antologia”, per un romanzo a puntate che sarà, di lì a poco, Il Fu Mattia Pascal. Lo scrive dunque sotto la spinta della necessità, che accentua la tensione creativa: ne scaturisce un capolavoro. Nel romanzo si rievoca la trasformazione della provinciale città papalina in capitale del nuovo stato unitario, catturata – con efficace, indimenticabile metafora – nella contrapposizione tra “acquasantiera” e “portacenere”.
– Perché sta a Roma lei, signor Meis?
Mi strinsi ne le spalle e gli risposi:
– Perché mi piace di starci…
– Eppure è una città triste, – osservò egli, scotendo il capo. – Molti si meravigliano che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea vi attecchisca. Ma questi tali si meravigliano perché non vogliono riconoscere che Roma è morta. (…) Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri così spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un’altra. Roma giace là, col suo gran cuore frantumato, a le spalle del Campidoglio. Son forse di Roma queste nuove case? (…) I papi ne avevano fatto – a modo loro, s’intende – un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell’amaro e velenoso piacere che essa ci dà.
Luigi Pirandello
Nel Fu Mattia Pascal c’è un impianto di Roma piccolo borghese che a un certo punto, con rapida incursione, s’innesta alla Roma altolocata del marchese Giglio d’Auletta, di Pepita Pantogada, del pittore Bernaldez (ambienti diplomatici ed ecclesiastici, palazzi nobiliari, etc.). C’è anche la nota di costume con la moda delle sedute spiritiche (e la cultura teosofica di Anselmo Paleari). Proprio il signor Paleari accompagna Adriano nelle sue passeggiate: «andavamo o sul Gianicolo o su l’Aventino o su Monte Mario, talvolta sino a Ponte Nomentano, sempre parlando della morte». Ecco il vagabondaggio meditabondo per Roma, tipico di molti personaggi pirandelliani (con tanto di dettagliate indicazioni toponomastiche, a comporre gli itinerari). Si attraversa la città nella speranza di stancare il corpo, quasi per dare un appoggio e, al contempo, un’alternativa al martellio costante del pensiero: la passeggiata come espediente fisico per salvarsi dall’angoscia metafisica. È viva, in Pirandello e nei suoi personaggi, la suggestione del colloquio silenzioso e notturno con il mistero di Roma, fitto di epoche stratificate che riemergono alla percezione. Un colloquio che non è fatto di parole, ma soprattutto di passi e di pensieri, di attraversamenti solitari, di vagabondaggi tristi, di silenzi smemorati. Ad esempio ne I vecchi e i giovani:
Si fermava un po’ per sentire intorno a sé il silenzio notturno; gli pareva che questo silenzio si profondasse nel tempo, nel passato di Roma, e diventasse terribile. Un brivido lo scoteva. Gravava quella notte su una città di mille e mille anni, per cui egli passava, ombra vana, minima, che un lieve soffio avrebbe spazzato via.
E nella novella “Un’idea” Roma, di notte, si sfalda come eternità silenziosa e stupefazione onirica:
Lasciata la solita compagnia nel caffè (tra i lumi e gli specchi pieno di fumo) si trova davanti la notte: vitrea, quasi fragile nella purezza degli astri sfavillanti sulla vastissima piazza deserta.
Attraversarla, gli pare impossibile; la vita, in cui deve rientrare, irraggiungibilmente remota da essa; e tutta la città, come da secoli disabitata, coi fanali che ancora la vegliano nel chiarore misterioso di quella gelida azzurrità notturna. Impossibile il rumore dei suoi passi in quel silenzio che pare eterno. (…) Si scuote alla fine da quel fascino, per attraversare la piazza. (…) Tutt’intorno la città ha come una vaporosa evanescenza di sogno; e il suo corpo vi si muove quasi fluido, ombra tra ombre.
Accade lo stesso nel Fu Mattia Pascal:
Luigi Pirandello legge un manoscritto a Marta Abba
Andavo, secondo l’ispirazione del momento, o nelle vie più popolate o in luoghi solitari. Ricordo, una notte, in piazza San Pietro, l’impressione di sogno, d’un sogno quasi lontano, ch’io m’ebbi da quel mondo secolare, racchiuso lì, tra le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M’accostai a una di esse, e allora quell’acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità.
La mestizia emotiva che connota la lettura dei luoghi è confermata da un ubriaco di passaggio che, vedendo cogitabondo Adriano Meis, lo invita a stare “allegro”, a non crucciarsi troppo della vita. Anche nella novella “Il ventaglino” il sogno in cui paiono assorti i «poveri alberi sorgenti dalle aiuole rade, fiorite di bucce, di gusci d’uovo, di pezzetti di carta» in un meschino giardinetto pubblico circondato da «alte case giallicce» è precisato come «sogno d’una tristezza infinita». Nella novella “Alberi cittadini” la città è labirinto artificiale della “civiltà” dove gli alberi, strappati alla campagna, languiscono sperduti nel trambusto, e dove la terra è schiacciata «sotto le case innumerevoli, sotto le selci calpestate di continuo dagli uomini irrequieti». Ai veleni della città Pirandello contrappone talvolta, con nostalgia regressiva, la natura sana della campagna: come nella novella “Il vecchio Dio”, dove Dio dice in sogno al vecchio Aurelio (che ha deciso di trascorrere le sue vacanze estive al fresco delle chiese di Roma): «Su, su, andiamo figliuolo! Anche tu qua [cioè: a Roma] ci stai maluccio, lo vedo. Andiamocene, andiamocene in campagna, fra la gente timorata, fra la buona gente che lavora». Anche perché Roma è città dissacrante e per certi versi spietata, malgrado le mille chiese, proprio per voce di popolo. E così «c’era sempre qualcuno, un monellaccio, un vetturino di stazione, che, vedendo passare Aurelio col lucido cranio scoperto, la barbetta lieve tremolante sul mento, e la zazzeretta grigia, tremolante anch’essa su la nuca, gli lanciava qualche lazzo: – Guarda oh: due barbette! Una davanti e l’altra dietro!»
Secondo Giovanni Macchia, la Roma di Pirandello è l’esatto rovescio della Roma del Piacere di d’Annunzio. Non malinconia decadentistica e fascinoso compiacimento dei sensi, ma verità di vita e pesante tristezza esistenziale. Pirandello, infatti, non sorride quasi mai. Il suo tormento si acutizza nella misura in cui progredisce la follia della moglie: vive la malattia di Antonietta in uno stato di estrema disperazione. Scrive in una lettera all’amico Villari: «mi trovo in tristissime angustie. Non nego che queste, per un sincero umorista, siano la manna; tanto è vero che scrivo e scrivo con gran fervore. Ma la grazia è troppa e volentieri vi rinunzierei». Vorrebbe intitolare Il Fu Mattia Pascal «romanzo del Fu Luigi Pirandello». Accarezza propositi suicidi, che ogni volta desiste dall’attuare al solo pensiero dei figli.
Luigi Pirandello
Il motivo del suicidio ricorre specialmente sotto forma di annegamento nel Tevere. Il fiume di Roma è un’ossessione per Pirandello giacché anzitutto “parla di notte”: «Parla di notte il Tevere ai beoni, / ai poeti ed ai miseri, cui suole / umido offrir nel suo fondo ricetto. / Paiono i gorghi tante aperte gole». L’inquieto e faticoso vagolare dei personaggi per le vie e le piazze di Roma sfocia spesso sul Lungotevere (in particolare quello dei Mellini). Uno degli archetipi di Pirandello è l’uomo solo, triste, talora disperato, che poggia le mani sul parapetto, o sulle spallette di un ponte, o vi si mette addirittura a sedere, con le gambe penzoloni – e da lì guarda assorto, trasognato, la corrente del fiume come un miracolo che porta a sfiorare, forse, i bordi senza fine del mistero. Ad esempio nella novella “Un’idea”:
Il tempo s’è fermato e fra le cose rimaste tutt’intorno in uno stupore attonito pare che un segreto formidabile sia nel fatto che in tanta immobilità solo l’acqua del fiume si muova.
Le acque del Tevere trattengono ancora, al tramonto, la luce del giorno che si scioglie in riverberi di madreperla. E poi, di notte, nel tremolio continuo dei flutti si riflettono i lumi artificiali dell’argine opposto. Ma la bellezza del fiume non serve, e non salva. Le acque gorgoglianti emettono un torbido richiamo al tuffo ferale: il protagonista di “Un’idea” guarda il cielo stellato «per non guardare, giù, l’acqua del fiume», come per non cedere alla vertigine che lo turba e lo tenta al salto. Se il cocchiere Scalabrino della novella “Distrazione” coltiva propositi suicidi che restano ancora nel vago («Ne aveva fino alla gola, di quella vitaccia porca. E un giorno o l’altro, l’ultima litigata per bene l’avrebbe fatta con l’acqua del fiume, e buona notte»), c’è chi costeggia lungamente il bordo della tentazione suicida, a tu per tu con la sponda, a un passo dall’acqua: come Bernardo Morasco della novella “Il coppo”; e poi c’è anche chi quel parapetto lo scavalca davvero, come ad es. nelle novelle “E due!” (prima il tonfo dell’ignoto suicida, cui assiste Diego Bronner; poi quello di lui medesimo, a doppiare il gesto) e “L’uomo solo” («balzando sul parapetto dell’argine gridava con le braccia levate, enorme: – Ecco, si fa così! E giù, nel fiume. Un tonfo»).
Luigi Pirandello
Anche nel Fu Mattia Pascal è forte la suggestione del fiume: prima nella contemplazione trasognata, all’inizio del capitolo che non a caso s’intitola “Di sera, guardando il fiume”:
(…) starmene lì, di sera, affacciato a una finestra, a guardare il fiume che fluiva nero e silente tra gli argini nuovi e sotto i ponti che vi riflettevano i lumi dei loro fanali, tremolanti come serpentelli di fuoco; seguire con la fantasia il corso di quelle acque, dalla remota fonte appenninica, via per tante campagne, ora attraverso la città, poi per la campagna di nuovo, fino alla foce; fingermi col pensiero il mare tenebroso e palpitante in cui quelle acque, dopo tanta corsa, andavano a perdersi;
poi – di nuovo – nella possibilità che offre ad Adriano Meis di simulare il suicidio per tornare ad essere Mattia Pascal:
(…) mi ritrovai sul Ponte Margherita, appoggiato al parapetto, a guardare con occhi sbarrati il fiume nero nella notte.
«Là?»
(…)
Non c’era altra via di scampo per me! (…) Scelsi il posto meno illuminato dai fanali, e subito mi tolsi il cappello, infissi nel nastro il biglietto ripiegato, poi lo posai sul parapetto, col bastone accanto; mi cacciai in capo il provvidenziale berrettino da viaggio che m’aveva salvato, e via, cercando l’ombra, come un ladro, senza volgermi addietro. Continua a leggere →
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Con tag Commento di Marco Onofrio, Fu Mattia Pascal, LA ROMA BORGHESE E MULTIFORME di LUIGI PIRANDELLO, la Roma di Pirandello è l’esatto rovescio della Roma del Piacere di d’Annunzio, Luigi Pirandello, Marco Onofrio