Vivian Mayer, Autoritratto
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Le mie “Appercezioni”
All’inizio degli anni ’80, dopo la morte di mia madre (nell’ottobre 1981), ho messo da parte la poesia in versi e ho iniziato a scrivere i testi in prosa che avrebbero riempito il mio primo libro, The Presence of Things Past (La presenza delle cose passate). Ripensando a quella “svolta”, riesco a percepire alcune delle motivazioni letterarie che mi hanno guidato. Avevo lavorato sotto l’influenza delle poesie storiche di Konstantinos Kavafis e stavo tentando di evocare le vite dei miei antenati puritani, cercando un verso libero conciso e melodioso in cui potevo esprimere la mia “petite musique” (come si dice in francese). Aggiungo che nell’ottobre 1981 vivevo in Europa dal 1975, prima come studente ad Amburgo, poi nell’isola di Samos, e infine a Parigi.
Ma con la morte di mia madre, il compito di trovare un linguaggio poetico mi ha impegnato molto meno della profonda necessità interiore di evocare quell’evento, così come altri eventi o persone risalenti alla mia infanzia a Des Moines, una città di medie dimensioni del Midwest americano. Infatti, la nozione stessa di “bellezza poetica” mi è diventata sospetta. Inoltre, mentre scrivevo le prime bozze di quei ricordi d’infanzia, cercando di essere il più fedele possibile a quello che mi stavo in realtà ricordando, e rifiutando tutto ciò che la mia mente sembrava aggiungere o modificare per ragioni letterarie, tutto ciò che ho trovato nei miei taccuini erano frammenti: racconti non dettagliati, poco sviluppati, con personaggi quasi spettrali e raramente una cronologia chiara. Parti sostanziali delle mie memorie mi sembravano non finite, incomplete, lacunose – e autenticamente così, in quanto questo è come mi richiamava tale evento, tale persona. I miei primi testi in prosa quindi a volte non hanno avuto nessun inizio vero o, ancora più spesso, nessun finale definitivo; e ho evocato, non ho descritto, i miei personaggi con i relativamente pochi dettagli a mia disposizione. Non volevo inventare, aggiungere della “malta” fittizia per trasformare i miei testi frammentari in solidi racconti anglo-americani. Se dovessi inventare dettagli, non mi allontanerei dalla “verità”, già sfuggente, di un ricordo? Con questo intendo un ricordo che non sarebbe necessariamente rigorosamente “fedele alla vita”, cioè “vero” a ciò che è realmente accaduto in passato (poiché nessuna mente, foto, film, registratore o rilevatore di bugie può recuperare il passato nella sua esattezza), ma piuttosto una memoria alla quale non avrei consapevolmente aggiunto nulla per migliorare le sue qualità letterarie. Non si trattava di inventare un finale per una storia: tante cose che erano successe nella mia vita mi sembravano non avere fine; i sentimenti non erano conclusivi, né conclusi. Il passato (e il futuro) erano presenti nella mia mente quanto il presente.
Naturalmente, quello che ho abbozzato qui sulla mia metodologia deve essere qualificata. Durante la revisione delle mie prime bozze, avrei necessariamente cancellato una parola inutile o cercato un sinonimo che individuasse più precisamente un’immagine. Correggevo un’ambiguità sintattica. Ma la mia regola generale è rimasta costante: nessuna invenzione, nessuna finzione, o il meno possibile. È stato solo all’ultimo minuto, prima che i racconti fossero pubblicati, che ho cambiato i nomi veri in nomi fittizi, creando nuovi nomi per mezzo di permutazioni fonetiche.
All’epoca stavo traducendo i racconti di Elias Papadimitrakopoulos, uno scrittore greco che rievoca la sua infanzia negli anni ‘30 a Pyrgos, una città del Peloponneso. Il suo stile di prosa breve, come lui lo mostrò nei suoi primi due libri, Dentifricio con clorofilla e Bagni caldi al mare, mi ha liberato dal racconto anglo-americano classico. Anche Papadimitrakopoulos si concentra sui pochi dettagli rivelatori e lascia molto all’immaginazione del lettore, non però a causa di una strategia letteraria, ma perché anche lui non sa o non ricorda necessariamente quello che realmente è accaduto prima o dopo l’evento chiave, o perché non ha conoscenza di alcuni degli elementi che lo costituiscono. Come la mia infanzia, la sua, come si esce nella sua prosa, è piena di frammenti e lacune, insieme a una grande tragedia: la morte prematura di suo padre.
Mentre stavo lavorando sulle mie traduzioni dei racconti di Papadimitrakopoulos e scrivendo i miei testi in prosa, un altro problema è emerso. Forse perché molti dei miei testi trattavano della morte, quella di mia madre e di alcuni vicini e di un compagno di scuola indimenticabile, ho iniziato a esaminare come io, il narratore in prima persona, stavo spontaneamente annotando le percezioni, i pensieri e i sentimenti associati con i miei ricordi di quelle persone quando erano vive e di me stesso quando ero in mezzo a loro, a osservarli. Senza inizialmente pensare a preoccupazioni stilistiche, stavo usando spesso nelle mie prime bozze una sorta di formula: mi sento sentire, ho la sensazione di pensare, mi rendo conto che sto vedendo, sentendo, toccando, e così via. Ero attratto, come scrittore autobiografico, non sempre dalle percezioni in sé stesse ma spesso dalle “appercezioni”, quegli stati di accresciuta consapevolezza durante i quali si percepisce che si sta per avere un’impressione sensoriale, di sperimentare un’emozione, o di nutrire un pensiero. Questi sono i momenti privilegiati durante i quali si sente di essere vivi; ci permettono di sentire quello che significa essere vivi: non solo una serie di sensazioni, anche di sensazioni forti, ma piuttosto sensazioni che sono accompagnate dalla consapevolezza del soggetto che lui sta vivendo le sensazioni: la coscienza del sé proprio come soggetto ricevente le sensazioni. Non passò molto tempo prima che mi rivolgessi a Leibniz, a Kant e soprattutto a Maine de Biran.
Leibniz definisce l’“appercezione” come la percezione di un oggetto come un “non sé” e tuttavia come in relazione con il sé. Kant vede l’“appercezione trascendentale” come una percezione (di un oggetto) che coinvolge la coscienza del sé puro come il soggetto: “la coscienza pura, originale, immutabile che è la condizione necessaria della esperienza e il fondamento ultimo dell’unità della esperienza”. Kant definisce un secondo tipo di appercezione, l’“appercezione empirica”, come la coscienza del soggetto degli stati mutevoli del suo sé: questo è il “senso interiore”. Nel suo libro De l’aperception immédiate (1807), il filosofo francese Maine de Biran analizza questi fenomeni cognitivi in dettagli sottili. Il suo approccio mi ha aiutato a capire come stavo cercando a tentoni passaggi tra il mondo esterno e il mio mondo interiore, tra un’altra persona e io, tra la mia mente e il mio corpo. Durante la mia infanzia avevo visto, anzi sperimentato “separazioni” su numerosi livelli dell’esperienza umana, compresi i livelli più privati, più intimi. La nozione di “appercezione” mi ha permesso di capire come stavo cercando di colmare alcune di quelle lacune.
Ho finito per pensare ai miei testi in prosa più brevi come “appercezioni”. I testi non sono poesie in prosa; né sono storie. Tentano di catturare un momento da ricordare in cui io sono consapevole del fatto che mi sto ricordando. In ogni caso, il termine “appercezioni” sottolinea il perseguimento delle domande cruciali: cosa significa, cosa implica essere vivi in un’esistenza circondata dal nulla e dalla morte?
Quando è arrivato il momento di mettere insieme tutti i miei testi per comporre il mio primo libro, ho deciso di non separare in modo categorico questi brevi testi dai testi un po’ più lunghi che avevo anche scritto; ho inoltre usato le appercezioni come elemento integrante del loro approccio narrativo. Ho finalmente trovato un ordine per tutti i testi, lunghi o corti, basando le mie scelte su criteri diversi dalla lunghezza: di solito un’emozione che avrebbe ceduto ad una seconda emozione, un po’ diversa, nel racconto che segue. Ho finito per raggruppare tutti questi testi in prosa sotto un titolo che rimanda a uno dei concetti di sant’Agostino: The Presence of Things Past (La presenza delle cose passate).
(John Taylor)
Konstantinos Kavafis, Tutte le poesie, A cura di Paola Maria Minucci, Collezione Poesia, Roma, Donzelli, 2019.
Elias Papadimitrakopoulos, Toothpaste with Chlorophyll & Maritime Hot Baths, Asylum Arts, 1992 / second edition: Coyote Arts, 2020.
Maine de Biran, De l’aperception immédiate (Mémoire de Berlin, 1807), Oeuvres, tome IV, Librairie Philosophique Vrin, 1995.
John Taylor, The Presence of Things Past, Story Line Press, 1992 / second edition: Red Hen Press, 2020.
John Taylor
Cinque Appercezioni
Il Primo Ostacolo
Il primo ostacolo della mia vita, o almeno il primo di cui fui pienamente consapevole, fu quello sfioratore della diga al Parco Statale Springbrook. Era una struttura di cemento, scivolosa e coperta di schiumaccia, che sorgeva improvvisamente di sbieco. Dell’acqua viscida gocciolava giù sull’intera superficie. L’aria ci stazionava greve, brumosa, fetida e fredda.
Il Signor Ryder e i suoi due figli, entrambi più grandi di me, iniziarono a salire sullo sfioratore. Allargando le braccia come degli acrobati sul filo, posavano un piede tremolante dopo l’altro.
Poi anche mio padre iniziò a salirci.
Solo io indugiavo più indietro, incapace di fare il primo passo. Ogni volta che bilanciavo il piede, il mio coraggio svaniva. Quando guardai in su cercando gli altri, c’era solo la scivolosa, nuda parete dello sfioratore incombente.
Mio padre si voltò e ritornò indietro per aiutarmi.
E questo è tutto ciò che ricordo del primo ostacolo della mia vita. So che più tardi pranzammo intorno a un fuoco da campeggio. So che il giorno dopo giocammo a baseball coi ragazzi Ryder. Che in seguito stavamo su un ponticello di legno e tiravamo sassi alle esperie. Che poi ci fu la tenda da smontare e la macchina da riempire.
Mio padre ed io trovammo un passaggio intorno allo sfioratore ? Tornammo indietro lungo il letto del fiume fin dove poter scalare la riva ? Oppure strinsi i denti e, a quattro zampe, ce la feci fino in cima ?
Mio padre mi telefonò l’altro giorno e dopo tutti questi anni infine glielo chiesi.
Lui disse che avevo camminato fino in cima allo sfioratore. Uno dei ragazzi Ryder era scivolato ed era caduto, ma lo sfioratore non era poi così ripido.
Ma allora perché questo ricordo infantile di difficoltà e fallimento, in realtà un’invenzione della mia immaginazione, ritorna di tanto in tanto a tormentarmi, al punto di farmi perdere tutta la fiducia in me stesso ?
Le Pagine Intonse
Non ho mai letto i racconti brevi di George Bernard Shaw, che un amico straniero diceva che i miei gli ricordavano. Ma nella vecchia casa un ripiano dello scaffale dei libri nel seminterrato conteneva numerose opere di Shaw: libri appartenuti a un lontano cugino, Leon Hook, poi a sua madre, poi a mia nonna paterna. Sfogliavo spesso i libri di Shaw, iniziando a leggerne qualcuno, ma non ne trovai mai uno che mi interessasse abbastanza da finirlo.
Qualche anno prima che mia nonna morisse arrivarono i libri di Shaw, insieme ad altri blocchi, di Oliver Wendell Holmes, di Herbert Spencer, di Ralph Waldo Emerson. Thomas Carlyle e Lord Macauley erano stati tra gli autori preferiti da mio cugino; e c’erano diverse opere tradotte dal tedesco. Fuori in garage mio padre ed io costruimmo lo scaffale, poi lo dipingemmo del blu che mia madre aveva scelto per noi.
Quelle scatole di cartone non contenevano sorprese. Il baule di legno egiziano che avevamo ereditato insieme al resto raccontava solo la storia sentita dalla nonna: che Leon Hook l’aveva comprato al Cairo nel suo viaggio di ritorno dall’India.
“Dall’India ?” chiesi.
“Credo di sì,” rispose mia nonna.
Leon Hook era stato in India, a Hong Kong, diverse volte in Sud America. Anche quell’imitazione di calendario azteco di pietra su un ripiano nel salotto dei nonni doveva essere appartenuta a Leon Hook, ma quando lei me la regalò per il compleanno mi dimenticai di chiederglielo.
“Lui lavorava solo sei mesi all’anno,” diceva lei. “Viaggiando.”
“E gli altri sei mesi ?”
“Suppongo che leggesse libri,” rispose.
Se anche Leon Hook scrisse poesie o tenne un diario, niente si era salvato. Mia nonna aveva qualche fotografia: pipa di radica in mano, un cespuglio di capelli pettinati all’indietro, la testa voltata di lato, gli occhi che fissavano un’invisibile finestra. Lui aveva studiato ad Harvard: filosofia, pensava qualcuno; altri, che doveva essere qualche scienza naturale.
“Mi ricordo le sue collezioni di coleotteri e di farfalle,” disse mia nonna. “Dopo la guerra la zia Nina deve averle spostate. Come sai, lei non si riprese mai.”
Approdato da qualche parte in Europa Leon Hook, trentunenne, cadde vittima della spagnola.
“Puoi immaginare,” disse una volta mio padre, “il dolore che la sua morte deve aver causato in famiglia: tutte le donne lo adoravano.”
Poi indicò lo scaffale dei libri e disse: “Molti libri hanno le pagine intonse.”
Rimasi seduto là per un bel pezzo dopo che lui era andato di sopra.
Solo più tardi mi accorsi di quanto facesse freddo, dell’odore di chiuso, dell’aria umida, dei passi di sopra, del ronzio dell’umidificatore nella stanza accanto.
Vivian Mayer, In ascensore
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Un Sogno
Mi trovavo nel mio vecchio liceo a Des Moines, stavo percorrendo il lungo corridoio che portava alla Scuola Media Meredith. Alla fine del corridoio mi imbattevo in una stazione del Métro, una di quelle vecchie entrate con decorazioni Art Nouveau, e scendevo le scale. C’erano poche persone. Sulla banchina, in attesa del treno, toccai qualcosa e un pezzo di chewing gum mi si appiccicò al dito. Cercai di grattare via la gomma sul fianco di un cestino dei rifiuti; mentre torcevo e rigiravo il dito sollevai lo sguardo: Billy Bowers mi stava osservando.
“Billy !” dissi. “Quanto tempo è passato !”
Billy pronunciò il mio nome con un tono di voce che faceva sembrare il nostro incontro normale e previsto.
Lui sembrava aver acquistato fiducia in sé stesso.
Parlò di sua sorella, che stava per sposarsi per la seconda volta, con un uomo più vecchio, divorziato e con tre figli. Lei faceva la veterinaria.
Lo guardavo parlare: solo la sua pelle era invecchiata, fragile, traslucida come la pergamena. Portava i capelli biondi con la riga laterale, vestiva ancora in blue jeans e una maglietta bianca che faceva sembrare le sue braccia magrissime. Adesso si faceva la barba; scuri puntini di peli rasati gli coprivano le guance e il mento. Gli chiesi:
“Billy, vivi ancora coi tuoi genitori ?”
(Si scherzava spesso in famiglia ricordando che dopo essersi diplomato Billy Bowers viveva ancora dai suoi, né lavorando, né andando al college.)
Al che Billy scomparve, ma la sua presenza indugiava, come un’emozione, invisibile. Pensai:
“Dopo tutti questi anni ho di nuovo ferito i sentimenti di Billy Bowers.”
L’autobus si fermò all’angolo della 48ma con Urbandale Avenue.
Scesi, risalii la collina e mi svegliai. Continua a leggere