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Antonin Artaud (1896-1948), Poesie scelte, traduzione e commento di Marie Laure Colasson, La crudeltà della parola

Antonin Artaud (1896-1948)

antonin artaud-man-ray

Poète noir

Poète noir, un sein de pucelle
te hante,
poète aigri, la vie bout
et la ville brûle,
et le ciel se résorbe en pluie,
ta plume gratte au coeur de la vie.

Forêt, forêt, des yeux fourmillent
sur les pignons multipliés ;
cheveux d’orage, les poètes
enfourchent des chevaux, des chiens.

Les yeux ragent, les langues tournent
le ciel afflue dans les narines
comme un lait nourricier et bleu ;
je suis suspendu à vos bouches
femmes, coeurs de vinaigre durs.

Poeta nero

Poeta nero, un seno di vergine
ti assilla,
poeta inacidito, la vita ribolle
e la città arde,
e il cielo si riassorbe in pioggia,
la tua penna graffia al cuore della vita.

Foresta, foresta, degli occhi brulicano
sui pinoli disseminati;
capelli di bufera, i poeti
inforcano cavalli e cani.

Gli occhi si infuriano, le lingue svoltano
il cielo affluisce nelle narici
come un latte nutriente e azzurro;
io sono appeso alle vostre bocche
donne, cuori di aspro aceto.

La rue

La rue sexuelle s’anime
le long de faces mal venues,
les cafés pepiant de crimes
deracinent les avenues.

Des mains de sexe brûlent les poches
et les ventres bouent par-dessous;
toutes les pensees s’entrechoquent,
et les tetes moins que les trous.

La Strada

La strada sessuale si anima
lungo volti sgraditi,
i caffè spiano i delitti
sradicano i viali.

Le mani del sesso bruciano le tasche
e le pance bollono sotto;
tutti i pensieri si scontrano,
e le teste meno dei buchi.

L’arbre

Cet arbre et son frémissement
forêt sombre d’appels,
de cris,
mange le cœur obscur de la nuit.

Vinaigre et lait, le ciel, la mer,
la masse épaisse du firmament,
tout conspire à ce tremblement,
qui gîte au cœur épais de l’ombre.

Un cœur qui crève, un astre dur
qui se dédouble et fuse au ciel,
le ciel limpide qui se fend
à l’appel du soleil sonnant,
font le même bruit, font le même bruit,
que la nuit et l’arbre au centre du vent.

(da L’ombilic des limbes)

*
Quest’albero e il suo fremito
foresta cupa di appelli
di grida,
mangia il cuore oscuro della notte.

Aceto e latte, il cielo, il mare,
la massa spessa del firmamento,
tutto cospira a questo tremito,
che giace nel cuore spesso dell’ombra.

Un cuore che crepa, un astro duro
che si sdoppia e schizza al cielo
il cielo limpido che si fende
all’appello del sole che risuona,
fanno lo stesso rumore, lo stesso rumore,
della notte e l’albero al centro del vento.

Vitres de son

Vitres de son où virent les astres,
verres où cuisent les cerveaux,
le ciel fourmillant d’impudeurs
dévore la nudité des astres.

Un lait bizarre et véhément
fourmille au fond du firmament;
un escargot monte et dérange
la placidité des nuages.

Délices et rages, le ciel entier
lance sur nous comme un nuage
un tourbillon d’ailes sauvages
torrentielles d’obscénités.

Vetri di suono

Vetri di suono dove girano gli astri.
Bicchieri dove cuociono i cervelli,
il cielo che formicola d’impudenti
divora la nudità degli astri.

Un latte bizzarro e veemente
formicola nel fondo del firmamento;
una lumaca sale e disturba
la placidità delle nuvole.

Delizie e rabbie, il cielo intero
lancia su di noi come una nuvola
un vortice di ali selvagge
torrenziali di oscenità.

Antonin Artaud, 1926

(traduzione di Marie Laure Colasson, testi tratti da L’Ombilic des Limbes suivi de Le Pèse-nerfs et autres textes Ed. Gallimard, 1956)


In me c’è fretta. C’è urgenza.
Vorrei. Vorrei una cosa qualsiasi, ma presto. Vorrei andarmene.
Vorrei sbarazzarmi di tutto ciò. Vorrei ripartire da zero. Vorrei uscirne fuori.
Ma non uscirne fuori da un’uscita. Vorrei un uscirne fuori molteplice,
a ventaglio. Un uscirne che non si fermi, un uscire ideale,
e tale che, uscito, io ricominci subito a uscire.
(H. Michaux)

Antonin Artaud, scrittore, poeta, attore, commediografo, regista e teorico; perché definirlo? Un essere sovversivo, polimorfo, eccentrico, in guerra costante contro i tabù e i pregiudizi della cultura della sua epoca. Artaud ricerca prima di tutto «l’oeil intellectuel dans le délire».

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Dalla storicità forte di Rimbaud alla storicità debole di oggi, Cosa ci resta di  Rimbaud? Una stagione all’inferno a cura di Carmelo Pistillo, testo francese a fronte, La Vita Felice, 2020, Francesca Dono, Good morning, acrilico, nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

Francesca Dono good mornig, acrilico a secco su carta 2020

Francesca Dono, good morning, acrilico a secco su carta, 2020

Scrive Lucio Mayoor Tosi:

«Quanto alle parole non so. Per il fatto che oggi ti vengono date gratis, sembra non abbiano alcun valore; però, scegliendo e accostando “scarti”, rifiuti, qualche rimanenza d’epoca, ecco, riprendono vita. Sembrano altre. Certo, si noteranno i rappezzi, i rammendi, le cuciture, ma forse un giorno non lontano proprio di quest’arte del riutilizzo – contraria agli sprechi e alla sovrabbondanza – si parlerà positivamente. Per quel che NON si ha da dire, queste componenti vanno benissimo.»

Parlando della poesia e dei poeti venuti dopo Composita solvantur di Fortini (1994) ho fatto dei nomi di autori delle generazioni seguenti e li ho definiti come coloro che hanno «minore consapevolezza storica» del novecento e della tradizione. Un interlocutore mi ha chiesto che cosa volessi significare dichiarando Fortini come «l’ultimo poeta storico» del novecento. Ecco, io credo di averlo già spiegato. Cercherò di ripetermi, questo è un punto fondamentale per poter afferrare il concetto secondo cui tutta la poesia che è venuta dopo l’ultima opera di Fortini è in qualche modo «minore», minore in quanto non più saldata nella tradizione del novecento. È questo il punto. Non volevo essere offensivo nei confronti dei poeti venuti dopo il 1994, anzi, capire questo punto è indispensabile per acquisire consapevolezza storica della propria «debole storicità». Non ho voluto affatto essere intimidatorio o diseducato, volevo soltanto essere franco, schietto. E ripartire da qui.

Mi ci metto ovviamente anch’io tra coloro che si trovano in una «condizione di debole storicità», io che sono nato nel 1949, mi trovo coinvolto a pieno titolo in questa condizione di «debolezza ontologica», io come tutti, come tutti voi, nessuno escluso. Così, spero di avere escluso dalle mie parole qualsiasi intento diminutorio e/o intimidatorio.

Il problema una volta posto sul tavolo di dissezione, bisogna vivisezionarlo, osservarlo con attenzione prima di fare una diagnosi e una prognosi. Noi le nostre diagnosi e prognosi le abbiamo fatte con la «nuova ontologia estetica», una piattaforma che segna un momento di ripresa di consapevolezza, una ripresa «forte» pur nell’ambito di una condizione di «debolezza ontologica» della nostra condizione attuale. Quale sia l’orizzonte degli eventi di questa condizione di «debolezza ontologica» lo ha bene illustrato il pezzo di Lucio Mayoor Tosi citato all’inizio.

Il pensiero poetico e filosofico non ha più alcun oggetto se non l’erranza della metafisica, l’eclissarsi della metafisica, con annesso e connesso il bagaglio degli strumenti retorici ed ermeneutici che quella metafisica portava con sé. Ciò comporta una presa di consapevolezza che quella metafisica non è più utilizzabile, che dobbiamo andare al fondo della crisi di quella metafisica per poterla abbandonare nella sua interezza. Soltanto abbandonandola in piena consapevolezza possiamo alleggerirci e andare oltre, oltre il novecento. Noi possiamo soltanto raccogliere quegli «stracci» che il novecento ci ha lasciato in dono, in eredità, ma con la consapevolezza che si tratta, appunto, di stracci, di relitti e che è con queste «cose» che noi dobbiamo edificare.

Arthur Rimbaud

Rimbaud, foto di Marie Laure Colasson

I classici dell’ottocento e del novecento ci appaiono sempre più lontani, estranei, perdono la loro aura, di esemplarità. Sono pensati come un relittuario di presenze-assenze, di simulacri, di ordini di valori conchiusi, lontani, inaccessibili, un ordine di valori de-valutati, appartenenti ad un passato già passato che è inutile perlustrare, ripercorrere, indagare, che forse è più utile porre tra parentesi per poterlo meglio ricordare. Forse oggi non resta altro da fare che una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di un venir meno.

La guerra franco-prussiana e la rivoluzione della Comune di Parigi nel 1871 sono lo sfondo e il fondamento della poesia di Rimbaud. Verlaine sostiene che la decadenza della Francia è dovuta alla fine del potere dei Gesuiti, che la Rivoluzione del 1789 è la più grande sciagura della Francia, che i comunardi sono dei pazzi furiosi;  predica il ritorno alla monarchia cattolica e legittimista. I litigi tra i due innamorati sono sempre più violenti. Paul e Arthur, per noia, fanno un gioco: coprono due coltelli con degli asciugamani bagnati lasciandone scoperte le punte, poi si colpiscono finché non esce sangue. Dopo fanno l’amore. Verlaine, è posseduto dal pentimento, Rimbaud gli grida che è un gesuita infame e ipocrita; Verlaine gli chiede di convertirsi alla fede degli avi e di Giovanna D’Arco, Rimbaud gli risponde con atroci bestemmie; Verlaine lo accusa di essere un comunardo incendiario e un sostenitore del suffragio universale… alla fine i due, tra ingiurie e sbattere di porte, colpi di coltello e qualche colpo di pistola, ritornano a sacrificare al dio Eros, a Parigi, a Bruxelles, a Londra e dovunque li portasse il loro vagabondaggio esistenziale. 

La tradizione come distinzione  di Tradition e Ueberlieferung (trasmissione) si è interrotta, Rimbaud è il primo poeta ad avvertire il peso di questo evento. La trasmissione dei valori si è interrotta, si è inceppata, e non vale più il volerla rimettere in moto come se fosse un guasto al motore. A mio avviso, è qualcosa di più di un «guasto», qualcosa di diverso: siamo entrati tutti in un «nuovo orizzonte di eventi», in una condizione di «storicità indebolita», di «consapevolezza indebolita», di un ulteriore «indebolimento dell’essere». Con le parole di Heidegger: l’essere è «ciò di cui non ne resta più nulla», in cui, nella scia di un pensiero post-metafisico, non resta altro da fare che una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di una ri-memorazione, di una ripresa, di un ri-pensamento di ciò che è scomparso, sprofondato nella latenza… nella forma del frammento, di uno specchio vuoto che riflette un altro specchio vuoto, di un vuoto contenuto in un altro vuoto.  La «distruzione dell’ontologia» ha inizio nell’ottocento, ciò che resta spetta ai poeti fondarlo.

Cosa ci resta oggi di un poeta come Rimbaud?, Carmelo Pistillo in questo suo denso volume tratteggia la vicenda umana e poetica del poeta di Charleville come segue.

(Giorgio Linguaglossa)

Rimbaud

“Lascia l’Europa perché all’Europa oppone un modello di umanità allo stato selvaggio, così come in quello stesso periodo farà Gauguin. Ad Aden, sogna Harar, che è la Svizzera africana. Ad Harar, sogna Zanzibar o Panama o, semplicemente, di «andare a trafficare nell’ignoto» (Olivier Clément). I suoi viaggi ricordano, seppur in modo rovesciato, i voyages de découvertes intrapresi da Hegel alla scoperta della fenomenologia. Per il francese, però, il percorso si svolge in senso inverso. È l’occasione per sopravvivere senza la poesia. Un bene dell’anima di cui ha perso la memoria e di cui farà a meno. La poesia verrà sostituita con il mestiere. L’adolescente rapito dagli incantesimi sarà letteralmente scalzato dall’uomo che lavora. Rinuncia dunque a inventare una nuova lingua ma impara e approfondisce le lingue legate al suo mestiere. Studia le scienze applicate. Durante il periodo africano chiede alla famiglia di spedirgli decine di opere (manuali da carradore e da scalpellino, da vetraio e da fabbro; trattati di trigonometria e di meccanica, di idrografia e di meteorologia; opere sulle ferrovie e sulle lingue locali, ecc.) a testimonianza di un distacco radicale dalla poesia a favore della non-poesia. Ha bisogno di tenere i piedi ben piantati in terra. Il mestiere che svolge non consente distrazioni. La sua produzione poetica dura dunque pochissimi anni. All’età di ventun anni ha già detto tutto. Ciò che doveva scrivere l’ha già scritto. La sua poesia entra sovranamente nel silenzio dell’aria. Solo il silenzio è grande, dice Vigny, tutto il resto è debolezza. Ed è forse proprio questo silenzio sul proprio passato a fornire a Rimbaud la giusta energia per affrontare una vita nuova in mezzo a pericoli e continui rovesci di fortuna. 24 Dopo numerose traversie e marce sfiancanti, si stabilisce in Africa, dove svolgerà con impegno e serietà vari mestieri, fino all’ultimo di stimato mercante d’armi per il negus Menelik. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che sia stato anche trafficante di schiavi anche se di questa attività non esistono prove certe. Con una gamba in cancrena, dopo dodici anni di assenza, rientra precipitosamente in Francia, per la precisione all’ospedale di Marsiglia, dove gli viene amputato l’arto. È il 1891, anno della sua morte. Ha 37 anni come van Gogh, morto suicida nel 1890 in una fossa di letame.» Continua a leggere

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Marie Laure Colasson, Trittico, Strutture dissipative, 2019, Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda, 2005, Ermeneutiche di Giorgio Linguaglossa e Gino Rago, La catena del colore è analoga alla catena del significante, non ha propriamente fine, La redazione augura a tutti i lettori serene festività

Marie Laure Colasson Trittico 1

Marie Laure Colasson Trittico 2

Marie Laure Colasson Trittico 3

Marie Laure Colasson, Strutture dissipative, Trittico, dicembre 2019

Giorgio Linguaglossa

Sul trittico di Marie Laure Colasson (dicembre 2019). La catena del colore è analoga alla catena del significante, non ha propriamente fine

Scrive Giorgio Agamben: «L’archeologia è l’unica via di accesso al presente e io ho sempre preso sul serio la battuta di Flaiano: “Faccio progetti solo per il passato”». Penso che la ricerca sul colore di Marie Laure Colasson si inscriva in questo progetto di riscrittura del passato che coinvolge molti esponenti dell’arte figurativa e astratta di oggi; un progetto archeologico sul passato del colore per una figurazione artistica del presente, essendo la ricerca archeologica la sola via che ci può consentire l’accesso al presente.

E ciò che sta sotto l’«istante privilegiato» della metafora e del colore che è importante. Ciò che sta «sotto» si rivela essere un vuoto di significante e di significato, un tripudio di non-colore, che non può essere nominato se non entro una catena infinita di significanti e di significati, ovvero, di altri colori e forme di colori, poiché i colori si danno soltanto entro le coordinate di una «forma».

La catena del colore è analoga alla catena del significante, non ha propriamente fine. È questa rottura degli anelli della catena ciò che sta a cuore dell’ultimo polittico di Marie Laure Colasson, un trittico di forme e colori che affiorano dal nulla dello sfondo, nell’istante primigenio che inaugura la «rottura» che dura appena un attimo; istante privilegiato o principiale dopo il quale la «rottura» riannoda i fili che la legano al sistema infinito della catena significante, al differimento dei significanti e dei significati.

Pretendere di dire che cos’è il «continuum del colore» è qualcosa con cui ha a che fare l’arte figurativa della Colasson. Il «continuum del colore» allude sempre a ciò che c’era prima del colore, al non-colore. Per afferrare questo concetto dobbiamo fare riferimento a ciò che c’era «prima» del linguaggio, a quel muro di silenzio linguistico che il linguaggio ha squarciato con un atto indicibile. L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio (l’assenza di colore) di «prima» del linguaggio, lo ha reso, in un certo qual modo, dicibile, udibile, sensibile.

Il linguaggio dei colori come sistema di segni, proviene da qualche cosa d’altro. Questo penso sia chiaro. Quel qualcosa d’altro che è il «prima» del linguaggio, il senza-colore, che è destinato a rimanere «silenzioso».
È quindi il «silenzio» del non-colore che fonda il «linguaggio dei colori». Questo è un pensiero che penso possa essere afferrabile, un po’ come nella fisica odierna è il «vuoto» che fonda gli universi di materia e di anti materia. Dobbiamo quindi postulare il «silenzio» di «prima» del linguaggio dei colori per poter afferrare il silenzio «dentro al linguaggio dei colori», essendo la pittura della Colasson nient’altro che un super linguaggio, un super linguaggio che crea una zona di indeterminazione tale che i colori sovrapposti e giustapposti creano il vuoto dietro ai colori, quel vuoto che determina l’insorgere dei colori, quel vuoto che può attivare e disattivare gli atti linguistici mediante i quali si profila la catena significante dei colori.

Ecco la «formula» che dis-connette i colori e li ri-connette in una catena significante, la «formula» mediante la quale la pittrice recide il linguaggio da ogni referente, in conformità alla sua personale vocatio della ricerca del colore assoluto; quel colore super significante che, solo, può significare il Tutto. Ma che significa il Niente.

L’irredimibile pluralità dei sensi dell’essere è il proprio della catena significante. È inutile, come si ostinava a pensare Heidegger, mettersi sulla traccia di un senso univoco dell’essere. L’essere è il suo eventualizzarsi, è abbandonato alla molteplicità dei suoi significati, che non si possono, e non si devono, raccogliere in una conclusività. Perché e per come sia preferibile prendere atto della plurivocità dei sensi dell’essere, piuttosto che incaponirsi nella ricerca di un senso univoco, di un senso überhaupt, di un senso assoluto dell’essere, non è dato sapere a priori ma lo si può esperire soltanto nel darsi dell’evento. Ed è qui che il trittico della Colasson appare in linea con il pensiero evenemenziale dell’evento dell’essere: la molteplicità ed infinità dello zampillio dei colori è l’eventualizzarsi dell’evento.
.

[Marie Laure Colasson, pittrice e poetessa francese, ha esposto in varie gallerie d’arte d’Europa: Parigi, Bruxelles, Roma…]

Marie Laure Colasson Abstract_13

M.L. Colasson, Struttura dissipativa, 2017

Marie Laure Colasson

En chute libre / In caduta libera (inedito)

Eredia regard mélancolique
le balcon du deuxième étage
un amour réduit en cendres

Dante et Delacroix jouant aux échecs
se partagent l’enfer

Les chaises encordées
dans leur chute l’une après l’autre
remontent la pente

Akram Khan gestes saccadés insecte prisonnier prodigieuse toupie
immersion dans des méandres inextricables

La pluie en trombes
des annelides grouillant sur la pierre

La Contesse Bellocchio
villa palladienne
entourée de jeunes artistes
laisse tomber bagues et diamants

Sébastien tout habillé chapeau melon
sort de l’eau en tumulte
Elisa portable à la main photo et fou rire

*

Eredia sguardo malinconico
il balcone del secondo piano
un amore ridotto in cenere

Dante e Delacroix giocano a scacchi
si dividono l’inferno

Le sedie legate con la corda
nella loro caduta l’una dopo l’altra
risalgono la china

Akram Khan gesti a scatti insetto prigioniero prodigiosa trottola
immersione dentro meandri inestricabili

La pioggia battente
anellidi brulicanti sulla pietra

La Contessa Bellocchio
villa palladiana
circondata di giovani artisti
lascia cadere anelli e diamanti

Sebastiano tutto vestito bombetta
esce dall’acqua in tumulto

Elisa cellulare in mano foto e risata a crepapelle Continua a leggere

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Marie Laure Colasson, poesie inedite da Elle fumait un demon vert, con una Glossa di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Abstract_gris

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

Marie Laure (Milaure) Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea

Marie Laure Colasson

dedico questa mia poesia ad Ágota Kristóf dalla mia raccolta inedita

En chute libre

14.

Eredia regard mélancolique
le balcon du deuxième étage
un amour réduit en cendres

Dante et Delacroix jouant aux échecs
se partagent l’enfer

Les chaises encordées
dans leur chute l’une après l’autre
remontent la pente

Akram Khan gestes saccadés insecte prisonnier prodigieuse toupie
immersion dans des méandres inextricables

La pluie en trombes
des annelides grouillant sur la pierre

La Contesse Bellocchio
villa palladienne
entourée de jeunes artistes
laisse tomber bagues et diamants

Sébastien tout habillé chapeau melon
sort de l’eau en tumulte
Elisa portable à la main photo et fou rire

*

Eredia sguardo malinconico
il balcone del secondo piano
un amore ridotto in cenere

Dante e Delacroix giocano a scacchi
si dividono l’inferno

Le sedie legate con la corda
nella loro caduta l’una dopo l’altra
risalgono la china

Akram Khan gesti a scatti insetto prigioniero prodigiosa trottola
immersione dentro meandri inestricabili

La pioggia battente
anellidi brulicanti sulla pietra

La Contessa Bellocchio
villa palladiana
circondata di giovani artisti
lascia cadere anelli e diamanti

Sebastiano tutto vestito bombetta
esce dall’acqua in tumulto
Elisa cellulare in mano foto e risata a crepapelle

Marie Laure Colasson Abstract_13

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

15.

Eredia
tête océanique aux écoutes
erratiquement persécutée
misophonie

Découpage collage papiers savoureux
” oublions les choses ne considérons que les rapports ”
Braque révolution artistique

Après – guerre en Russie
Lya la grande gigue du front
étouffe Pachka enfant
séquelles de traumatismes d’ exactions

Zaza dans son lit
nicopactch sur la fesse rêve d’une course effrénée
sort du lit course effrénée dans le vide
contre la penderie son visage fracassé

Petit fauteuil Louis 16
velours grenat boiseries blanches
étroite assise pour un arrière train volumineux

Biarritz G 7
tour d’ivoire des foutus politiques
manifestations manifestations
………manifestations

Miso Misein misandre
délaissée isolement revanche

Un toit d’ardoises
deux pigeons ramiers au ventre rose
roucoulements battements d’ailes

Abrahim pleure
dans les sables mouvants de son oreiller

*

Eredia
testa oceanica in ascolto
erraticamente perseguitata
misofonia

Découpage collage carte saporite
“dimentichiamo le cose
consideriamo soltanto i rapporti”
Braque rivoluzione artistica

Dopo guerra in Russia
Lya la spilungona del fronte
soffoca Pachka bambino
sequele di traumatismi di atrocità

Zaza nel suo letto
nicopatch sulla chiappa sogna una corsa sfrenata
si alza dal letto corsa sfrenata nel vuoto
contro l’armadio il suo volto fracassato

Poltroncina Luigi XVI
velluto granata boiserie blanche
seduta stretta per un sedere voluminoso

Biarritz G 7
torre d’avorio dei fottuti politici
manifestazioni manifestazioni manifestazioni

Miso… Misein… misandria
trascurata isolamento rivincita

Un tetto di ardesia
due colombacci dal ventre rosa
tubare battiti d’ali

Abrahim piange
nelle sabbie mobili del suo cuscino

Marie Laure Colasson Abstract_2

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

17.

Perles en boucles d’oreilles en colliers
ruban dans les cheveux un large chapeau rouge
habits ornés d’hermine
billets doux lèvres entrouvertes
futilités terrestres les femmes de Vermeer

Bancs pelouses l’une dessine l’autre écrit
jardin du Luxembourg

Caste vulnérable
tout juste onze ans jeune fille indienne sans dote
soumise à une cerémonie nuptiale avec la divinité

Elisa ses guerriers de passage très sage
“le temp perdu ne se rattrape plus”

De branche en branche moineaux sautillants
un numero d’équilibre

Construction de l’espace des formes des couleurs
pur élixir artisanal
le reste du monde annulé

*

Perle orecchini collane
nastri nei capelli un largo cappello rosso
vestiti ornati d’ermellino
biglietti d’amore labbra socchiuse
futilità terrestre le donne di Vermeer

Panchine prati l’una disegna l’altra scrive
jardin du Luxembourg

Casta vulnerabile
undici anni ragazza indiana senza dote
costretta a una cerimonia nuziale con la divinità

Elisa e i suoi guerrieri di passaggio molto saggia
“il tempo perso non si riacciuffa più”

Di ramo in ramo passerotti saltellanti
un numero da equilibrista

Costruzione dello spazio delle forme dei colori
puro elisir artigianale
cancellato il resto del mondo

Marie Laure Colasson Abstract_11

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

18.

Les yeux fouillaient et farfouillaient
de droite à gauche
de gauche à droite
une mobilité affollante

Un jour la nuit
le tourbillont de Gustav Malher symphonie n° 1 “Le Titan”
sous les feux de la scène elle danse
elle danse à l’unisson elle danse
présence magnétique

La chaleur a flétri le bouquet de freesia
il n’en reste que la fragrance souvenir parfumé

Répétitions
calcul du temps pour changements de costumes
Rita bombarde les danseuses avec sa Nikon
la saine sueur du corps et de l’esprit en éveil… combat

Allongée la tête bandée les bras sanglés
sous appareillage clignotant de différentes couleurs
elle gémit… mourir sous torture… civilization

*

I suoi occhi frugavano e rovistavano
da destra a sinistra
da sinistra a destra
una mobilità spaventosa

Un giorno la notte
il turbine di Gustav Malher sinfonia n° uno “Il Titano”
sotto i fuochi della scena lei balla
lei balla all’unisono lei balla
presenza magnetica

Il caldo ha fatto appassire il mazzo di fresie
non ne resta che la fragranza ricordo profumato

Ripetizioni
calcolo del tempo per i cambi di costumi
Rita bombarda le ballerine con la sua Nikon
il sano sudore del corpo e dello spirito in allerta… combattimento

Sdraiata la testa fasciata le braccia allacciate
sotto un macchinario lampeggiante di vari colori
geme… morire sotto tortura… civilizzazione

[Trad. di M.L. Colasson e G. Linguaglossa]

Marie Laure Colasson Abstract_11

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

Glossa di Giorgio Linguaglossa

Scrive Adorno in Teoria estetica: «Il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte».

E Marie Laure Colasson :

“ oublions les choses ne considérons que les rapports ”.

Il senso di questa poesia lo si coglie se si pensa il «polittico» non come un manufatto che è qualcosa di evanescente e fluttuante ma come un essere poliedrico che solo il discorso poetico può intuire, percepire e cogliere. Forse siamo ancora sotto la suggestione hölderliniana dell’uomo che «abita poeticamente la terra». Un “abitare poetico”, questo della Colasson, che si configura in senso ontologico come un esercizio dell’abitare il mondo mediante il quale è possibile costruire e narrare un’identità fondata sul senso dell’appartenenza alla terra, al fine di corrispondere alla domanda sul senso del mondo e su noi stessi che ci troviamo nel mondo. Il «progetto poetico» (dichtende) della verità, che si pone in opera, non avviene nel vago e nell’indistinto, ma si svolge per l’umanità storica, nell’apertura di ciò in cui l’Esserci è di già gettato in quanto storico, e quindi un mondo di relazioni, vale a dire la terra e per un popolo storico la sua terra.
La terra per Heidegger è «fondamento autochiudentesi», fondo opaco e ascoso che custodisce, in contrapposizione a un mondo inascoso, che si apre e viene esposto. Ciò che è stato dato all’uomo deve essere portato fuori dal suo fondamento occultato e fatto poggiare su di esso. In tal modo questo fondamento si presenta come «fondamento sorreggente», talché la produzione d’opera, in quanto rappresenta un tirar fuori di tal tipo, è un«creare-attingente (schöpfen)» (Heidegger).1

Il soggettivismo moderno ha frainteso l’idea di creatività, perché l’ha intesa come l’atto di genio di un «soggetto sovrano», mentre, al contrario, «l’instaurazione della verità è instaurazione non solo nel senso di libera donazione, ma anche nel senso di fondamento che fonda».

L’orientamento della nuova poesia e del nuovo romanzo è antisoggettivistico, e la «forma-polittico» è quella che meglio definisce e rappresenta la condizione ontologica di frammentarietà del nostro mondo. Possiamo definire il «polittico» come un mosaico di frammenti, di immagini dialettiche in movimento nella immobilità, compossibilità di contraddittorietà. Vengono a proposito le intuizioni di Benjamin sullo statuto delle immagini in movimento. Scrive Walter Benjamin:

«Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente
temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».2

La forma-poesia prescelta è il «polittico», così anche nella sua pittura la Colasson segue la forma-astratta come collegamento inferenziale delle cose, che è il luogo dove abitare in modo spaesante i linguaggi figurativo e poetico. Nei suoi «polittici» Marie Laure Colasson entra da subito nelle linee interne delle cose, illustra quasi didascalicamente la condizione ontologica di frammentazione dello spirito del tempo del nostro mondo, il quale si dà, lo si può cogliere soltanto nelle «relazioni» spaziali e temporali, nelle spazialità e nelle temporalità dei personaggi che si affacciano nella cornice della poesia. Le Figure che compaiono sono gli Estranei. La lingua impiegata è una lingua straniera, che fa a meno dei segni di punteggiatura, dei nessi causali, formali, sintattici e fonosimbolici. Nei suoi «polittici», sia in pittura che in poesia, non v’è un punto di vista ma una pluralità di punti di vista, di scorci che non convergono mai verso una identità in quanto sono eccentrici e legati da leggi di probabilità e di entanglement. Il discorso poetico cessa di essere un discorso identitario di una identità e diventa discorso plurale della pluralità. I legami tra le forme che emergono dal fondo ascoso dei suoi dipinti sono equivalenti ed equipollenti alle singole strofe irrelate delle poesie con i loro personaggi porta bandiera del nulla da cui provengono. Emissari del nulla e Commissari dell’essere.

1 Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio. Trad. A. Caracciolo. Mursia, 2007 – L’origine dell’opera d’arte. In: Sentieri interrotti. Trad. P. Chiodi. Firenze: La Nuova Italia,1984
2 2 W. Benjamin I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2007, p. 516

Marie Laure Colasson Libri in volo

Marie Laure Colasson, La chute

Lao Tzu scrive:

«La via è vuota, ma usandola, non si riempie».

C’è qui l’esperienza della negazione e dell’affermazione, l’una accanto all’altra. L’esperienza del vuoto e del pieno, del vero e del falso. Gli opposti non si elidono ma si potenziano.

In tal modo, la poesia eleva alla estrema potenza il linguaggio: nega e afferma allo stesso tempo la medesima cosa. Voi direte, ma come è possibile? Come è possibile dire con il discorso poetico una cosa e, immediatamente dopo, negarla? C’è qui un esercizio di doppiezza, forse? – No, qui è in azione il pensiero poetico che dispone della sua autorità, che tratta tutto ciò che tratta con l’autorità che è riservata ad un sovrano assoluto.

Ma sovrano assoluto che regna in modo assoluto sulla soggettività, sull’io. Soltanto quando l’io si fa da parte, quando si depotenzia, la poesia può esercitare il suo potere dispositivo sulle parole.
Soltanto la poesia ha questo attributo, di dire e di fare ciò che crede. Al contrario del romanzo il quale invece non può permettersi tanta e tale libertà, se non altro perché un cambio di marcia deve essere spiegato e accompagnato da una preparazione narrativa.

In poesia, invece, non c’è bisogno di tutto ciò, la poesia è libera di fare i salti mortali che vuole, se lo desidera. La poesia di Rozewicz o di Ágota Kristóf fa proprio questo principio compositivo (che è anche un principio epistemologico, di poetica). Entra da subito dentro le situazioni e le illumina dall’interno con la lampada di Diogene di una nuova visione del fare poesia e di come essere nel mondo.

La linea interna delle cose è ben più importante della linea esterna di esse.

Penso che Ágota Kristóf sia riuscita in modo mirabile nel duplice compito di estraniarsi da se stessa e di estraniarsi dalla propria lingua adottando una lingua straniera, il francese, e scrivendo in quella lingua straniera. Possiamo dire che anche Marie Laure Colasson ha adottato il francese in modo straniante, è tornata al francese di ritorno dall’italiano, il che è un modo tutto particolare di stare nella propria lingua madre.
È un lavoro su se stessi che consiglio a tutti gli aspiranti poeti, migliaia e decine di migliaia, ma lo consiglio in specie ai poeti laureati i quali credono di scrivere nella loro bella lingua, quando invece la lingua fugge a gambe levate dalle loro persone.

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Edmond Jabès (1912-1991) POESIE SCELTE – a cura  di Donatella Bisutti – traduzioni di Donatella Bisutti e Giorgio Linguaglossa – Anche la scrittura è Memoria

Edmond Jabès

Edmond Jabès

Edmond Jabès (Il Cairo, 16 aprile 1912 – Parigi, 2 gennaio 1991) è stato un poeta francese. Figlio di ebrei italiani fu cresciuto in Egitto, dove ricevette un’educazione francese di stampo coloniale. Cominciò ad essere pubblicato già in giovane età, peraltro fu fatto cavaliere della Legion d’onore nel 1952 per i suoi meriti letterari. Quando l’Egitto decise di espellere dai suoi territori la popolazione di origine ebraica in seguito alla Crisi di Suez, Jabès fuggì a Parigi, che aveva già visitato per la prima volta negli anni trenta. Qui strinse amicizia con la cerchia dei surrealisti, senza tuttavia entrarne mai a far parte formalmente. Egli ottenne la cittadinanza francese nel 1967, lo stesso anno in cui ebbe l’onore di essere uno dei quattro scrittori francesi (insieme a Jean-Paul Sartre, Albert Camus e Claude Lévi-Strauss) a presentare le proprie opere all’Esposizione universale di Montreal. Seguirono ulteriori riconoscimenti – Il Premio della Critica nel 1972 e una commissione come ufficiale nella Legion d’Onore nel 1986. Nel 1987 ha ricevuto il Grand Prix national de la poésie. La cerimonia di cremazione di Jabès è avvenuta alcuni giorni dopo la sua morte – all’età di 78 anni – nel cimitero di Père Lachaise.

 Presentazione di Donatella Bisutti

 La memoria e la mano (1987) abbandona strutturalmente la misura del «poema ininterrotto» cui Edmond Jabès ci aveva abituato ne Le Livre del Questions, Il libro delle interrogazioni (1963-1972) e anche in volumi successivi ad esso idealmente connessi, per ritornare, si direbbe, ai modi lirici della sua prima raccolta, Je bâtis ma demeure (poèmes 1943-57): casa in costruzione sotto cui un terremoto dall’epicentro molto profondo aveva aperto continue, successive crepe. Ritorno tuttavia apparente: la «circolarità del cammino», tema ricorrente nell’opera di Jabès, ancora una volta si rivela piuttosto spirale, cioè simbolo/struttura in cui movimento centripeto e centrifugo coincidono. La memoria e la mano testimonia infatti come, partito da un’incessante interrogazione sulla parola e sulla scrittura, luogo di un’impossibile rivelazione e di un suo finale coincidere con il Nulla, Jabès abbia in certo modo capovolto la prospettiva riportando la sua meditazione al di qua della scrittura. Ma solo per rendere più evidente quel rapporto con l’esistere di cui la Poesia, unica tra le sue varie forme di linguaggio, può mettere allo scoperto le radici e che, sembra dirci Jabès, può, pur nella sua connaturata contraddittorietà con l’essere, esprimere l’essere.

Ne Le Livre des Questions Jabès aveva infatti messo a confronto la millenaria dimensione del religioso e il nichilismo del pensiero contemporaneo come due serie di segni corrispondenti e reversibili, attraverso una riflessione sulla parola in quanto incapace di coincidere con l’originaria Parola divina – il Logos. Incapace tuttavia anche di coincidere con il flusso dell’esistente in quanto l’istante, appena colto dalla scrittura, cessa di essere tale e si ripropone continuamente solo per fissarsi in un’immobilità che equivale alla morte. Ma ciò che in Derrida, e nello stesso Blanchot, è riflessione sul senso della letteratura, in Jabès diviene sostanza di una poesia che, come la mitica Fenice, continuamente rinasce dalle sue ceneri. E anche recupero metaforico di quella venuta messianica continuamente profetizzata e continuamente rinviata di cui si nutre il pessimismo ebraico, della sua nozione di un Dio che si sottrae nel momento stesso in cui si manifesta. Nella Parola, nel Verbo Jabès ha individuato il punto di intersezione fra la più antica tradizione del pensiero occidentale – l’ebraismo – in cui tutto è segno, ma segno che rinvia allo Spirito, e lo sbocco ultimo e forse esausto di questo stesso pensiero che, avendo rinunciato allo Spirito, conserva come sua unica zattera il segno, ma un segno che non rinvia ad altro che a sé e, non significando nulla, è pura funzione.

Foto fuga nel corridoio

Nozioni apparentemente identiche, in realtà capovolte – il segno, la scrittura – sono dunque assunte da Jabès come l’alfa e l’omega del cammino intellettuale dell’Occidente e gli consentono di porre la Poesia nella Storia, che diventa storia di questo capovolgimento, e insieme di assegnare alla Poesia il compito di dare conto della Storia, cioè di questo stesso capovolgimento. Egli legge dunque tale cammino come uno svuotamento della parola, o meglio uno scollamento fra la parola come espressione verbale e il suo referente, fra quello che i linguisti chiamano il significante e il significato. Sul piano dell’Essere, il capovolgimento coincide con la rivendicazione che il pensiero fa della sua autonomia non accettando più alcun referente al di fuori di sé, una sua qualsiasi «dipendenza» dal divino. È questo il processo per cui l’uomo diventa, come dice Jabès, «immortale per la morte».

Moltiplicando senza fine la contraddittorietà implicita nella scrittura, impedendo la fissazione del senso con lo spostarne incessantemente i limiti più in là e con l’operare una continua rottura sul vocabolo, sulla frase, nei sei libri Des questions e nei successivi Jabès è andato così nella direzione di uno smantellamento del testo che arriva a farlo esplodere dall’interno, tendendolo fino alle estreme possibilità del linguaggio. Ma, all’opposto, ha anche concepito la sua opera come un’immensa costruzione – di cui metafora potrebbe essere una vuota cattedrale – fatta per durare (per entrare nella durata), riprendendo così, non  a caso, il senso del titolo di quella sua prima raccolta, Je bâtis ma demeure.

Muovendo dallo scacco mallarmeano della parola nei confronti dell’assoluto, egli riafferma il compito grandioso della poesia, se pur letto in una filigrana del negativo: quello di consentirci di fare in qualche modo esperienza di un segno che altrimenti sarebbe pura astrazione.

Ne La memoria e la mano, che è uno dei suoi ultimi testi, è come se in qualche modo Jabès compisse un percorso inverso, risalendo il millenario cammino dell’uomo verso il suo punto di partenza originario. Qui la sua meditazione sulla scrittura – se consideriamo la traccia sulla carta come un sottile crinale – si sposta dal versante di ciò che è scritto (la Parola, il Libro) a quello di ciò che scrive (la Memoria, appunto, la Mano). Passando, dunque, dalla scrittura come «oggetto» alla scrittura come «soggetto», da una scrittura «agìta» a una scrittura «agente».

E se nel primo caso egli ha cercato di cogliere nel percorso della penna sul foglio, nel formarsi della lettera sulla carta, l’attimo inafferrabile del passaggio dall’astrazione e dall’immaterialità del pensiero al suo limite di fallimento e di morte, in questo libro si sofferma piuttosto sulla scrittura come potenzialità ancora racchiusa nella materia – quindi come carnalità, esistenza – e si interroga sull’attimo del passaggio in cui questa carnalità è sul punto di cessare di essere tale, in cui, prima di perdere la sua concretezza, la parola è ancora parola incarnata. e sul mistero di tale incarnazione.

In tale mistero è il senso della mano: mano di carne che, posandosi sul foglio, dà origine alla scrittura. Prolungamento del filamento dell’inchiostro, o nei fitti segni tipografici, del percorso del sangue nel corpo, nelle dita. La mano è dunque il luogo dove l’energia dell’universo cambia di segno: il luogo dove il corpo si trasforma.

Ne Le livre des Questions Jabès aveva meditato a lungo su un altro «luogo» del corpo: la bocca – dove la parola prende forma – in quanto sede di una possibile intersezione fra il Corpo e lo Spirito, momento di una possibile coincidenza. Ma la bocca è anche sede della phonè, cioè di quel grido originario, simbolo della rottura fra la Parola di Dio e la nostra parola, che indica lo spezzarsi dell’armonia dell’uomo con l’universo. Grido che segna la nascita del linguaggio, inutilmente teso a recuperare quella parola perduta, e al tempo stesso fa per sempre dell’uomo un «separato». Grido che accompagna l’infrangersi delle Tavole. Così, non solo l’origine della parola, ma anche l’origine della scrittura veniva indicata simbolicamente da Jabès in una lacerazione drammatica, in una prima ferita esistenziale di cui solo un suono inarticolato contiene l’esperienza. Senso e perdita di senso coincidono per lo spazio di un attimo, prima di separarsi definitivamente, in una voce che è espressione immediata della carne e della sua sofferenza.  Da quel momento non solo la parola non conterrà più la Parola, ma non potrà neppure contenere più nella sua interezza il grido. Il passaggio dalla Parola alla parola avviene necessariamente attraverso il grido e resta necessariamente univoco. Da questo grido ha inizio la Storia e al tempo stesso esso tutta la racchiude nella suprema sintesi di un istante.

La mano invece non è luogo della coincidenza, reale o virtuale, fra Corpo e Spirito, ma luogo della metamorfosi. Lo Spirito viene prima, è all’origine: ed è attraverso la mano che cerca, successivamente, di ritrasformarsi in Spirito, in Logos. L’esistenza (quindi la materia, la carne, il corpo) non è dunque estranea allo Spirito, ma contiene lo Spirito: «lo Spirito sta rannicchiato nella mano». Questa è la Provocazione, e la Rivelazione. e una volta che si tenga conto di questa Rivelazione, tutta la lettura di La memoria e la mano ne appare esemplificazione e conferma.

Certo rimane l’impossibilità del Logos: cioè del Senso. Ma questo limite Jabès lo sposta al di qua: sul fronte del Divenire, e non tanto, o almeno non più in prima istanza, su quello dell’essere. In che modo dunque la materia può rapportarsi allo Spirito? Che cos’è la mano?

Se, quando il Talmud fu messo finalmente per iscritto, ci fu chi disse che se ne distruggeva così la qualità vivente, che cos’è questa qualità vivente? se la dimensione dello Spirito è il fallimento dell’aspirazione dell’uomo, che non può risalire oltre il momento in cui l’Eternità spezza nel tempo, qual è la dimensione della carne? Se l’infinito è un continuo punto di fuga, che cos’è allora il finito? qual è la dimensione della Storia? Qual è il rapporto fra la Mano e la Storia, fra il vivente e la Memoria?

La mano, a differenza della bocca, o dell’occhio, è emblematica di tutto l’uomo. La mano è scambio: essa cura la ferita, consola come un «tiepido spessore» d’ombra. È comunicazione: la mano si «spalanca» al mondo. È realizzazione di sé: senza mani «si muore».

foto donna con ombrello

È simbolo cosmico: il giorno e la notte sono i suoi «due poli». Le due mani a coppa contengono il mattino, e l’ombra. Così come segna il Tempo, essa segna lo Spazio: è «orizzonte», «frontiera». È appartenenza: a sé, agli altri, alla propria stirpe, al mondo. Tutta l’esistenza umana è dunque, in realtà e in simbolo, nella mano: amore pietà sofferenza tenerezza solidarietà dolore morte. E questo coincidere in essa della realtà e del simbolo la differenza dalla scrittura, che è solo simbolo.

Ma, soprattutto, la mano è al tempo stesso passato e avvenire: stele che sovrasta le tombe e, aperta a metà, traccia i caratteri della testimonianza collegando così la morte – il passato – alla vita futura. È dunque Memoria, Storia che scrive se stessa.

Anche la scrittura è Memoria.

Ma prima ancora di essere traccia di parola, la Memoria, attraverso la mano, si rivela come ciò che si è incarnato: non memoria della Mente, ma memoria del Corpo. essa è prima di tutto immagine, cioè realtà introiettata, assimilata, trasformata in carne, sangue, ossa: residuo sì, ma residuo concreto, che si aggiunge alla creazione del mondo, lo sostanzia a sua volta. Non rappresenta più quindi, come la scrittura, il momento della perdita di un senso che si sottrae all’interrogazione, ma, al contrario, il momento della continuazione attraverso il vivente, l’esistente.

Questo è, concretamente, la materia, e la mano che incarna la Memoria: veicolo. L’esistente, che essa insieme rappresenta e simboleggia, non è più allora solo limite, opacità, adombramento del senso, ma anche veicolo del senso. In essa trascorre, sia pure inafferrabile, il senso, nel suo andare dal Logos originario a quel tentativo umano del Logos/scrittura che deve obbligatoriamente fallire. Se incarnazione del Logos non può dunque essere la Parola, può forse, nell’estrema meditazione di Jabès, esserlo in qualche modo la Mano, in cui simbolo e materia si toccano, ed è la materia a divenire segno.

La Poesia non è più allora, come prima, storia di un capovolgimento del senso nel non-senso, ma testimonianza e intuizione del profondo radicarsi dell’essere nel Divenire. Attraverso la mano, cioè attraverso la pienezza dell’esistente, l’essere si manifesta infatti come Divenire fino alla sua apparente consumazione. Destino questo non solo umano, ma cosmico. Infatti: «il cielo è poco sopra la terra» e anche la «luce di polvere» è destinata a divenire «polvere di luce». e non sembra sufficiente riscatto che in questo andare dalla polvere alla polvere permanga la nozione di luce. È vero che nel cielo cosmico la notte, ch’è simbolo della morte, non è solo termine ma anche intervallo – «preludio» – e presuppone una ripresa della vita: ma la direzione della vita – della mano – resta, inevitabilmente, quella che va «dall’alba al crepuscolo». La ripetizione è ripetizione ogni volta rinnovata di un cammino verso la fine: un aumento progressivo di inerzia ci spinge verso la morte. Non c’è, almeno nei termini della nostra esperienza, riscatto definitivo nella luce.

La ripetizione, se intesa come uno sfuggire al limite rappresentato dalla morte, è solo illusione: e da questa illusione nasce la scrittura. Perciò la mano «illusa» si abbatte sulla pagina sgualcita.

Così la mano, alla fine, si trasforma in un punto: questo punto è il trou, quel buco vertiginoso della morte che tutto inghiotte.

Ma il vuoto resta «al di qua». Il punto, cioè l’abisso della fine, della morte, è infatti, nonostante le sue connotazioni negative, un «ingresso visibile».

Allusione ad una inattingibile trascendenza? Non credo.

Ci sarà una mano, si chiede Jabès, per accompagnarci alla morte? Più precisamente: per accompagnarci all’orlo di quel punto/buco? Dove la nozione di punto come «ingresso visibile» è più importante di quello della morte. e quindi la leggerei così: la mano, cioè il nostro divenire, la nostra esistenza potranno capovolgersi in rivelazione? Avremo cioè la rivelazione inoppugnabile, la consapevole e finalmente appagante certezza che questo divenire, questo esistente, questa materia e carne e sangue sono essi stessi manifestazione dell’essere? La contraddizione si risolverà finalmente accettando fino ad annullarla ogni opposizione e raggiungendo la coincidenza perfetta? la nozione di eternità ci apparirà allora come contenuta intera nel Divenire? La rivelazione non può essere infatti quella di una, per Jabès impossibile, trascendenza, ma solo quella dello Spirito che «sta rannicchiato nella mano», del suo poter essere contenuto nell’imperfezione del finito. Rivelazione che non potrà mai avvenire attraverso la scrittura, ma solo a patto di passare attraverso l’esperienza (cioè la Memoria, la Mano). L’esperienza ultima, assoluta che coincide con la spoliazione di sé: la caduta simboleggiata e insieme rappresentata appunto dalla morte. Anche solo – o soprattutto – dalla consapevolezza della morte. È allora che il limite può iscriversi nell’«illimitato della fine».

Questo mi appare il traguardo estremo – che pure nel suo continuo movimento a spirale egli avrebbe certo continuato a spostare – della ricerca profondamente religiosa di Jabès (nell’energia che è simboleggiata dall’oceano, dalle sue onde «in delirio». L’Il tende junmghianamente a divenire «un’isola al di sopra dell’isola», cioè a raggiungere l’unità del Sé che assomma Il e Ile: allora finalmente potrà essere «liberato».

Solo la separazione permette lo sbocciare della coscienza: la consapevolezza è la sua condanna e il suo retaggio, mentre «la vela ignora la sua rivale» e «il sole è al riparo dai suoi raggi».

In questo testo – sia pure aperto, che proustianamente vuole rivelare il lettore a se stesso – Jabès ha esplorato forse più esplicitamente del solito il rapporto fra l’Io e il Tutto e fra le diverse e opposte parti dell’io. Se pure sottolineare una maggiore esplicitazione tematica non deve impoverire Racconto di quella continua «sottrazione in avanti» che caratterizza l’opera di Jabès. Ancora una volta filosofia e poesia si fondono senza scorie proprio perché, come ogni possibile risposta è ritrasformata in domanda, così ogni metafora diventa punto di partenza per una metafora ulteriore, creando quell’irripetibile effetto di miraggio di cui l’immaginario di Jabès è debitore forse proprio alla contemplazione del deserto – lui che finché visse in Egitto nel deserto usò spesso trascorrere le notti in solitudine.

Nell’ambito di un fluire sempre asistematico e di uno sviluppo del testo per propagazioni successive così tipico del suo Autore, Racconto può dunque essere letto come premessa a quel cammino verso un convergere di essere e coscienza, di cui La memoria e la mano rappresenterà il più compiuto tentativo.

Nella Lettera a M.C. che segue Racconto come una postilla e stilisticamente ritorna invece a collegarsi, nel suo andamento di prosa poetica, a Le Livre des Questions e ai cicli successivi, il topos del «punto», culmine scintillante («tete de clou»), pare anticipare il tema in qualche modo salvifico che ne La memoria e la mano diverrà centrale.

foto a distanza

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Jean Claude Izzo: Loins de tous rivages / Lontano da ogni riva, 1997, Ensemble, Roma, 2018, pp. 156 € 12 un ponte sul Mediterraneo Cura e traduzione di Annalisa Comes

 

foto donna con ombrello

Jean Claude Izzo (1945-2000), scrittore, giornalista, drammaturgo e sceneggiatore è noto al pubblico soprattutto come creatore del cosiddetto «noir mediterraneo», con la “trilogia marsigliese” pubblicata a partire dal 1995: Casino totale, Chourmo (1996), Solea (1998), tutti aventi come protagonista e voce narrante il commissario Fabio Montale. Tuttavia il suo primo incontro con la scrittura nasce all’insegna della poesia (mai tradotta in Italia). Nel 1970 pubblica la sua prima raccolta Poèmes à haute voix (Poesie a voce alta), a cui seguiranno Terres de feu (Terre di fuoco, 1972), Etat de veille (Stato di veglia, 1974), Braises, brasiers, brûlures (Braci, bracieri e bruciature, illustrazioni di E. Damofli, 1975), Paysage de femme (Paesaggio di donna, 1975) e Le rèel au plus vif (Il reale al più vivo, 1976). Tornerà alla poesia ancora alla fine degli anni novanta con Loin de tous rivages (Lontano da ogni riva, illustrazioni di Jacques Ferrandez,1997) e L’Aride des jours (L’arido dei giorni, fotografie di Chaterine Bouretz-Izzo, 1999). Fra le numerose pubblicazioni si possono ricordare La Commune de Marseille (La comune di Marsiglia, 1971) nella rivista «Europe»; un testo teatrale per la liberazione di Angela Davis e i romanzi Clovis Hugues, un rouge du midi (Clovis Hugues, un rosso del Midi, 1978), Marinai perduti (1997) e Il sole dei morenti (1999). Giornalista e responsabile della rubrica cultura a «La Marseillaise», corrispondente ufficiale del giornale al Festival di Avignone, è stato poi redattore di «La Vie Mutualiste» (1980-85), animatore alla radio «Forum 92», e ha partecipato alla creazione della rivista poetica «la Revue Orione» con Bruno Bernardi.

dalla prefazione di Annalisa Comes 

La voce di Jean-Claude Izzo arriva dal Mediterraneo. «Isola» di acque e terre dalle molteplici civiltà, culture, lingue, di contraddizioni, naufragi e sbarchi, di paure e sbarramenti, di accoglienze e passaggi. – purtroppo oggi ancor più dolorosamente evidenti, – di cui lo stesso poeta esplicita e rivendica, in modo inequivocabile, la sua appartenenza… L’opera poetica di Jean-Claude Izzo è pressoché sconosciuta in Italia… è ricordato soprattutto come giallista, l’inventore del noir mediterraneo – la cosiddetta «trilogia marsigliese» composta dai noir: Casino totale, Chourmo. Il cuore di Marsiglia, e Solea… Ma è con la poesia che Jean-Claude Izzo inizia e conclude il suo cammino e d’altronde, anche il nome del suo famoso poliziotto, Fabio Montale, è un omaggio alla poesia (e alle sue origini italiane) […] Non stupisce nei suoi versi ritrovare l’eco del randagio Rimbaud e di poeti quali Louis Brauquier (con il suo maestro, Emile Sicard, entrambi amrsigliesi), gabriel Audisio, Gérald Neveu, Alexandre Toursky, tutti relegati dall’esperienza di «Le Cahiers du Sud», la rivista fondata a Marsiglia nel 1925 da Jean Ballard (e a cui, negli anni Quaranta aveva collaborato anche Simone Weil con lo pseudonimo di Emile Novis). E ancora, geograficamente affini, scrittori come Jean Giono e Albert Camus […]
Il Mediterraneo, l’acqua «bianca» di sbarchi, nascite, esilio, tanto amato di Izzo e presente in quasi tutte le sue narrazioni, non è che uno scorcio di luce lontana in questa penultima raccolta di poesie. Il largo che ci dispiega il titolo, Lontano da ogni riva (Loin de tout rivage), è qui invece un orizzonte bruciante di terra, un deserto di pietre e rovine, pais dove spazioe tempo si coagulano nell’abbacinante aridità del Midi. Su questa terra di rovine, «in rovina, abbandonata ai rovi» dove non si ode «nessuna voce umana», anche i «vascelli» sono di pietra… e sembrano spingersi, perdendosi, fino alla vertigine della garrigue azzurra, specchio rovesciato, eco di un mare lontano. È la «vertigine di sapersi lontano da ogni riva», geografia dell’anima, questo tempo offerto alla memoria, che non può essere descritto, non cantato, solo, tastato in ruderi, rovine, cimiteri, oppure fiutato nelle essenze «violente» del timo, della resina, della santoreggia. Gli alberi sono pochi, manciate sparute di olivi, qualche pino, un cipresso, predominano invece rovi e sterpi, lo splendore effimero dei papaveri, e poi argilla e poi polveri, polvere.

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Braises
de la mémoire (1997)

Là.
Des ruines se lamentent dans un langage dèjà d’autrefois.
Païs.
Là, et les pierres, face au ciel, depuis hier, depuis toujours.
Présence. Absence.
Entre le tremblement de terre et la pétrification, l’aveugle éboulis des murs se répand sur nos mémoires.
Là.
Pierres à jamais…
Colonnes brisées, vestiges…
Pierres de boue recouvertes, livrées à l’oubli, aux fadarellos qui peuplent désormais la campagne.
Là, et les heures accumulées.
Et le silence.
Et le silence en feu aux abords de midi.
Blanches, les heures révèlent sur les pierres la profondeur du soleil.
Mortelle blancheur, jusqu’à l’immobilité.
Que sont devenus les mots, la langue, les hommes qui donnaient force aux mots par la beauté des moissons?
Et le silence hurlant dans le silence.

Braci
della memoria

Laggiù.
Rovine si lamentano in una lingua già d’altri tempi.
Païs.
Laggiù, e le pietre, di faccia al cielo, da ieri, da sempre.
Presenza. Assenza.
Fra il terremoto e la pietrificazione, la cieca frana dei muri si spande sulle nostre memorie.
Laggiù.
Pietre per sempre…
Colonne spezzate, vestigia…
Pietre di fango ricoperte, abbandonate all’oblio, ai fadarellos che popolano ormai la campagna.
Laggiù, e le ore accumulate.
E il silenzio.
E il silenzio infuocato vicino al meriggio.
Bianche, le ore rivelano sulle pietre la profondità del sole.
Bianchezza mortale, fino all’immobilità.
Che sono diventate le parole, la lingua, gli uomini che davano forza alle parole con la bellezza delle mietiture?
E il silenzio che urla nel silenzio.

II

Sur la garrigue bleue, en vertige, sur cette terre en ruine, livrée aux ronces, aucune voix humaine.
Ici gisent.
Violent désir de mettre alors mot sur pierre, de rebâtir un présent accessible. Un présent.
Il y a urgence à nous renaître.
Païs.
Et c’est déjà midi. L’heure où se rassemblent les instants épars.
En mon corps le sang remue et se débat contre le silence.
Hauts cyprès dressés dans le jour – barricades vertes – l’ésperance a cette profondeur.
L’immobilité devient révolte et cherche sa force.
Ici, là-bas, ailleurs, là où je suis né, sommeillent les heures qui, sous les pierres, aspirent à s’épanouir en un cri.
Je revendique les fureurs de l’heure à midi.
Que dit le sang dans mes veines?
Sang, qui sonne le tocsin aux clochers alentour et dont l’écho bat comme le vent sur les pierres.
Souffle au plus profond.
Sang, qui sonne le temps qui vient et qui ne sera que par un maintenant, ici.

II

Sulla garrigue azzurra, in vertigine, su questa terra in rovina, abbandonata ai rovi, nessuna voce umana.
Qui riposano.
Violento desiderio di mettere parola su pietra, di ricostruire un presente accessibile. Un presente.
Urgenza di rinascere.
Païs.
Ed è già mezzogiorno. L’ora in cui si radunano gli sparsi istanti.
Nel mio corpo il sangue si rimesta e si dibatte contro il silenzio.
Alti cipressi – barricate verdi – innalzate nel giorno la speranza a questa profondità.
L’immobilità diventa rivolta e cerca la sua forza.
Qui, laggiù, altrove, là dove sono nato, sono assopite le ore, che sotto le pietre, aspirano a sbocciare in un grido.
Rivendico i furori dell’ora a mezzogiorno.
Cosa dice il sangue nelle mie vene ?
Sangue, che suona a martello nei campanili vicini e la cui eco batte come il vento sulle pietre.
Respiro nel profondo.
Sangue, che suona l’approssimarsi del tempo che sarà qui solo per un momento.

III

Pierres.
Caresse lente de ma main.
Corps.
Un dialogue se noue:
les ronces parcourent d’invisibles chemins parmi les corps offerts à l’attente de midi. Ailleurs l’amour… Ailleurs des carrés de terre labourée, ensemencée, tendent leur bonheur comme du linge lavé de frais. Ailleurs du linge sèche sur un fil d’horizon vert et bleu, et la vie, lentement, s’égoutte au soleil.
Ailleurs
Pierre dénudée de sa boue.
Et le sang affolé s’épaissit à ce contact.

III

Pietre.
Carezza lenta della mia mano.
Corpo.
Si annoda un dialogo :
i rovi percorrono invisibili sentieri tra i corpi offerti all’attesa del mezzogiorno. Altrove l’amore… Altrove, zolle di terra arata, seminata, stendono la loro felicità come biancheria appena lavata. Altrove biancheria si asciuga su un filo d’orizzonte verde e azzurro, e la vita, lentamente, sgocciola al sole.
Altrove…
Pietra snudata del suo fango.
E il sangue smarrito si raggruma al contatto.

IV

Midi, enfin.
Un poing s’élève.
Tous les feux du soleil se rassemblent en lui.
Brutal instant qui déchire les ronces.
Geste qui retrouve la mémoire.
Le soleil blanchit aux confins du regard. Dressé audessus des oliviers, il absorbe le ciel. L’olivier retient son délire. Le ciel n’ose plus frémir. Le pin éclate de sève et, au risque de périr, enlace l’heure. L’air alors devient plus lourd de mystère. La poussière vaincue retombe sur le sol qui la fait naître…
Là.
Fixement, je parcours le paysage au plein de son jour.
Des relents de mémoire aux essence violentes – thym, résine et sarriette mêlés – attisent la sève qui monte en moi.
Le soleil m’accueille dans un ressac de silence.

IV

Mezzogiorno, finalmente.
Si leva un pugno.
Tutti i fuochi del sole si radunano in lui.
Brutale istante che strappa i rovi.
Gesto che ritrova la memoria.
Il sole sbianca ai confini dello sguardo. Dritto sopra gli olivi, assorbe il cielo. L’olivo trattiene il suo delirio. Il cielo non osa più fremere. Il pino scoppia di linfa e, al rischio della morte, abbraccia l’ora. L’aria diventa più carica di mistero. La polvere vinta ricade al suolo che la fa nascere…
Laggiù.
Fisso, percorro il paesaggio nel pieno del suo giorno.
Tanfi di memoria dalle essenze violente – timo, resina e santoreggia confusi – risvegliano la linfa che sale in me.
Il sole mi accoglie in una risacca di silenzio.

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V

Midi, encore.
Pierres brûlées, à nouveau. L’ombre se meurt.
L’ombre, sous ma langue, ne sait plus les mots et dans ma bouche, la brûlure de ne plus savoir dire, ne plus savoir.
Le temps prend le corps de l’argile.
Le silence se tisse par transparence et épaisseur.
Pierres, et pierres. Ruines.
Mon pays, c’est l’histoire et toutes les histoires, et l’Histoire en ruines, pierres et cailloux, défile sous mes yeux.
Païs, saurai-je un jour où ton midi trouve son feu?
Et les heures au cadran, taillé de main d’hommes, me saluent de leur mépris.

V

Mezzogiorno, ancora.
Pietre bruciate, di nuovo. L’ombra muore.
L’ombra, sotto la mia lingua, non sa più le parole e nella mia bocca, la bruciatura di non saper dire, di non sapere più.
Il tempo prende il corpo dell’argilla.
Il silenzio si tesse di trasparenza e spessore.
Pietre, e pietre. Rovine.
Il mio paese, è la storia e tutte le storie, e la Storia in rovine, pietre e sassi, sfila sotto i miei occhi.
Païs, saprò un giorno dove il tuo mezzogorno si infuoca ?
E le ore sul quadrante, intagliato da mani di uomo, mi salutano con disprezzo.

VI

Terre.
Gisent les hommes dans les villages défaits. Cimetières.
Aux fenêtre des maisons tombent les pierres d’angle.
Larmes.
Larmes, et pierres sur pierres, les ruines s’érigent.
Cri – trou que font mes lèvres dans l’opacité bleue pour rompre le silence, pour rendre la parole à ces heures dans le plain-chant du soleil. Et les coquelicots enfin rendus à leur éphémère splendeur.
Terre.
Là.

VI

Terra.
Riposano gli uomini nei villaggi disfatti. Cimiteri.
Dalle finestre delle case cadono le pietre angolari.
Lacrime.
Lacrime, e pietre su pietre, si innalzano le rovine.
Grido – buco che fanno le mie labbra nell’opacità azzurra per spezzare il silenzio, per restituire la parola a queste ore nel canto piano del sole. E i papaveri restituiti al loro effimero splendore.
Terra.
Laggiù.

jean-claude-izzo

Jean-Claude Izzo

VII Continua a leggere

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Charles Baudelaire POESIE SCELTE traduzione e presentazione a cura di Mario Fresa

Baudelaire_Spleen

Charles-Pierre Baudelaire (Parigi, lunedì 9 aprile 1821 – Parigi, sabato 31 agosto 1867). Poeta, saggista, critico d’arte, critico musicale, traduttore. Tra le sue opere: Salon de 1845 (1845); Salon de 1846 (1846); La Fanfarlo (1847); Du vin et du haschisch (1851); Fusées (1851); L’Art romantique (1852); Morale du joujou (1853, 1869); Les Fleurs du mal (1857, 1861); Le Poème du haschisch (1858); Les Paradis artificiels (1860); Richard Wagner et Tannhäuser à Paris (1861); Le Peintre de la vie moderne (1863); L’œuvre et la vie d’Eugène Delacroix (1863); Mon cœur mis à nu (1864); Le Spleen de Paris (1869); L’Art romantique (1869). La Direzione della Pubblica Sicurezza di Parigi, all’uscita delle Fleurs du mal, denunciò il libro «pour offense à la morale religieuse» e per «outrage à la morale publique et aux bonnes mœurs».

Alfabeto Baudelaire contemplava, in origine, il desiderio di presentare ad una ad una le poesie tradotte nel libro. Ma più commentavo e chiosavo, più avvertivo il pericolo di un possibile costringimento della potente e anarchica luce baudelairiana negli stretti corridoi della rettorica parafrastica. Perciò ho deciso, a un certo punto, di riunire (direi anzi: di contrarre) in un’unica postilla finale le mie riflessioni critiche, offrendo ai lettori, in modo “diretto” (senza alcuna introduzione esegetica) un ideale itinerario delle principali trame che sostengono la struttura concettuale delle Fleurs. D’accordo con l’artista Dagnino, ho inteso incuneare questi tematici Leitfaden (nel senso wagneriano del termine) in un gioco visivo di natura metamorfica e labirintica, ben lontano da tentazioni didascaliche o illustrative e sottilmente percorso da nascoste citazioni, da interni rispecchiamenti, da allusioni intuitive. Si è costruita, così, una rete visiva riccamente dilatata, fitta di numerose intersecazioni dialoganti tra di loro per segrete analogie. Quanto alle traduzioni, ho abbandonato l’idea iniziale di adottare una soluzione isometrica (ché una simile operazione avrebbe significato imprigionare e addomesticare la libera e luminosa geometria del verso baudelairiano) e ho scelto, invece, la strada di uno specchiamento neutro, nel quale non si ha l’ambizione di restaurare, o in qualche di modo di ricuperare l’estrema energia iperbolica e la lucida simmetria dei testi originali, ma solo si esprime il desiderio di rifrangerne la brillantezza proiettandola su di una tela parallela, quasi volendo consegnare, al lettore, il malinconico riverbero, il bagliore nostalgico di un bene lontano, inaccessibile, mai del tutto rifondibile… È il tipico desiderio, tenero e mesto, di un amante e non di uno studioso… Gli unici vezzi che mi sono concesso contemplano l’aggiunta di certe minime variazioni nell’uso dei segni di interpunzione e l’inserimento di qualche rara rima interna. Sono lievi e affettuose deviazioni che posso paragonare all’istante nel quale l’esecutore di uno spartito decide di lanciarsi, per amore della melodia, in una estemporanea puntatura, in una piccola cadenza, in una breve fioritura.

baudelaire volto

Mario Fresa Alfabeto Baudelaire

BÉNÉDICTION

Lorsque, par un décret des puissances supremes,
Le Poëte apparaît en ce monde ennuyé,
Sa mère épouvantée et pleine de blasphèmes
Crispe ses poings vers Dieu, qui la prend en pitié :

— « Ah ! que n’ai-je mis bas tout un nœud de vipères,
Plutôt que de nourrir cette dérision !
Maudite soit la nuit aux plaisirs éphémères
Où mon ventre a conçu mon expiation !

Puisque tu m’as choisie entre toutes les femmes
Pour être le dégoût de mon triste mari,
Et que je ne puis pas rejeter dans les flammes,
Comme un billet d’amour, ce monstre rabougri,

Je ferai rejaillir ta haine qui m’accable
Sur l’instrument maudit de tes méchancetés,
Et je tordrai si bien cet arbre misérable,
Qu’il ne pourra pousser ses boutons empestés ! »

Elle ravale ainsi l’écume de sa haine,
Et, ne comprenant pas les desseins éternels,
Elle-même prépare au fond de la Géhenne
Les bûchers consacrés aux crimes maternels.

Pourtant, sous la tutelle invisible d’un Ange,
L’Enfant déshérité s’enivre de soleil,
Et dans tout ce qu’il boit et dans tout ce qu’il mange
Retrouve l’ambroisie et le nectar vermeil.

Il joue avec le vent, cause avec le nuage,
Et s’enivre en chantant du chemin de la croix ;
Et l’Esprit qui le suit dans son pèlerinage
Pleure de le voir gai comme un oiseau des bois.

Tous ceux qu’il veut aimer l’observent avec crainte,
Ou bien, s’enhardissant de sa tranquillité,
Cherchent à qui saura lui tirer une plainte,
Et font sur lui l’essai de leur férocité.

Dans le pain et le vin destinés à sa bouche
Ils mêlent de la cendre avec d’impurs crachats ;
Avec hypocrisie ils jettent ce qu’il touche,
Et s’accusent d’avoir mis leurs pieds dans ses pas.

Sa femme va criant sur les places publiques :
« Puisqu’il me trouve assez belle pour m’adorer,
Je ferai le métier des idoles antiques,
Et comme elles je veux me faire redorer ;

Et je me soûlerai de nard, d’encens, de myrrhe,
De génuflexions, de viandes et de vins,
Pour savoir si je puis dans un cœur qui m’admire
Usurper en riant les hommages divins !

Et, quand je m’ennuierai de ces farces impies,
Je poserai sur lui ma frêle et forte main ;
Et mes ongles, pareils aux ongles des harpies,
Sauront jusqu’à son cœur se frayer un chemin.

Comme un tout jeune oiseau qui tremble et qui palpite,
J’arracherai ce cœur tout rouge de son sein,
Et, pour rassasier ma bête favorite,
Je le lui jetterai par terre avec dédain ! »

Vers le Ciel, où son œil voit un trône splendide,
Le Poëte serein lève ses bras pieux,
Et les vastes éclairs de son esprit lucide
Lui dérobent l’aspect des peuples furieux :

— « Soyez béni, mon Dieu, qui donnez la souffrance
Comme un divin remède à nos impuretés
Et comme la meilleure et la plus pure essence
Qui prépare les forts aux saintes voluptés !

Je sais que vous gardez une place au Poëte
Dans les rangs bienheureux des saintes Légions,
Et que vous l’invitez à l’éternelle fête
Des Trônes, des Vertus, des Dominations.

Je sais que la douleur est la noblesse unique
Où ne mordront jamais la terre et les enfers,
Et qu’il faut pour tresser ma couronne mystique
Imposer tous les temps et tous les univers.

Mais les bijoux perdus de l’antique Palmyre,
Les métaux inconnus, les perles de la mer,
Par votre main montés, ne pourraient pas suffire
À ce beau diadème éblouissant et clair ;

Car il ne sera fait que de pure lumière,
Puisée au foyer saint des rayons primitifs,
Et dont les yeux mortels, dans leur splendeur entière,
Ne sont que des miroirs obscurcis et plaintifs ! » Continua a leggere

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Neither  di Samuel Beckett,  musica di Morton Feldman, traduzione di Gabriele Frasca e  What is the word, musica di György Kurtág, traduzione di Rosangela Barone, a cura di Donatella Costantina Giancaspero

morton-feldman-and-beckett

Morton Feldman e Samuel Beckett

18 luglio 2017 alle 14:27

NEITHER – Nè l’uno né l’altro, 87 parole con 9 a-capo – Testo di Beckett musica di Morton Feldman per Soprano e Orchestra da camera

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/17/samuel-beckett-1906-1989-poesie-scelte-da-einaudi-1999-traduzioni-di-gabriele-frasca-con-un-commento-politico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21788

Cade a proposito, qui, l’ascolto di Neither, la sola opera di Morton Feldman (1926 – 1987). Scritta nel 1977 su testo di Samuel Beckett, è un atto unico per Soprano e Orchestra da camera.
La partitura si avvale di pochi e semplici segni grafici per comunicare ai musicisti i vari registri (acuto, medio o grave), ma non le altezze precise, né le durate, al fine di configurare uno spazio sonoro capace di dilatarsi nel tempo.
Il fatto che Neither sia la sola opera scritta dal compositore newyorkese testimonia il suo scarso interesse per questo genere musicale. Ancora minore interesse nutriva Beckett. Insomma, riprendendo il titolo del lavoro, Neither, né l’uno, né l’altro erano patiti per l’opera. Come ci riferisce il biografo Knowlson, alla richiesta di Feldman, la risposta dello scrittore fu disarmante: «Signor Feldman, l’opera lirica non mi piace! E non mi piace che le mie parole vengano messe in musica». La replica del musicista fu, se possibile, altrettanto disarmante. Disse che comprendeva benissimo il disinteresse di Beckett e che, dopotutto, non aveva idea di cosa volesse esattamente da lui. A quel punto Beckett prese un pezzo di carta e buttò giù alcune parole. Poi disse che ci avrebbe lavorato un po’ e che forse si sarebbe rifatto vivo.
Alla fine di settembre del 1976, Feldman ricevette una cartolina da Beckett: sul retro un breve testo scritto a mano e intitolato Neither, ovvero ottantasette parole, senza uso di maiuscole, con nove a capo, per un totale di dieci brevi enunciati. La punteggiatura ridotta a due o tre virgole.
La voce parla dell’andirivieni tra due ombre, quella interna e quella esterna, “dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé“, finché non si arresta, finalmente disinteressata “all’uno e all’altro“, raggiungendo così “l’inesprimibile meta“.

La prima di Neither andò in scena al Teatro dell’Opera di Roma il 12 giugno del 1977. Dieci anni dopo, Feldman avrebbe di nuovo reso omaggio all’autore irlandese componendo la lunga suite orchestrale For Samuel Beckett e un partitura originale per Parole e musica.

18 luglio 2017 alle 14:42

Testo di Neither (Nè l’uno né l’altro) di Samuel Beckett

Traduzione a cura di Gabriele Frasca

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/17/samuel-beckett-1906-1989-poesie-scelte-da-einaudi-1999-traduzioni-di-gabriele-frasca-con-un-commento-politico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21789

su e giù nell’ombra da quella interna all’esterna
dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé di modo che né l’uno né l’altro
come due rifugi illuminati le cui porte non appena raggiunte [impercettibilmente si chiudano, non appena volte le spalle impercettibilmente di nuovo si schiudano
si accenni l’avanti e indietro e si volga le spalle
noncuranti della strada, compresi dell’uno o dell’altro barlume
unico suono passi inascoltati
finché finalmente arrestarsi una volta per tutte, disattenti una volta per tutte all’uno e all’altro
allora nessun suono
allora impercettibilmente indissolvendosi la luce su tale inosservato né l’uno né l’altro
l’inesprimibile meta

(Samuel Beckett)

back & forth: to & fro

Neither
to and fro in shadow from inner to outer shadow

from impenetrable self to impenetrable unself
by way of neither

as between two lit refuges whose doors once
neared gently close, once away turned from
gently part again

beckoned back and forth and turned away

heedless of the way, intent on the one gleam
or the other

unheard footfalls only sound

till at last halt for good, absent for good
from self and other

then no sound

then gently light unfading on that unheeded
neither

unspeakable home Continua a leggere

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POESIE di Guillaume Apollinaire (1880-1918) Molto allegro con improvvise tristezze Poesie e calligrammi nella traduzione di Mario Fresa stralcio di un  Commento di Renzo Paris

Guillaume Apollinaire, pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowicky nasce a Roma il 25 agosto del 1880 e muore a Parigi nel 1918, figlio naturale di Francesco Flugi d’Aspermont, un ufficiale svizzero che non lo riconobbe mai, e di Angelika de Wąż-Kostrowicky, una nobildonna polacca. Si trasferisce con la madre in Francia giovanissimo. Ha una adolescenza instabile e disordinata, trascorsa tra vaste letture e numerosi viaggi e studi non regolari. Conosce e frequenta artisti d’avanguardia a Parigi, tra i quali anche i poeti Ungaretti e Max Jakob e il pittore Pablo Picasso. Partecipa alle discussioni sul cubismo in gestazione e, nel 1913, scrive un saggio su questa scuola artistica. Allo scoppio della prima guerra mondiale, sceglie di arruolarsi come volontario, definisce la guerra “un grand spectacle“. Nel 1916 viene ferito a una tempia e subisce un difficile intervento chirurgico. Diventa famoso come critico militante dei movimenti d’avanguardia di quegli anni: il futurismo e la pittura metafisica di De Chirico. Dato il suo carattere estroso ed irrequieto fu sospettato di essere l’autore del furto del dipinto della Gioconda avvenuto il 20 agosto del 1911 al Louvre; in seguito a tali sospetti (di cui fu gravato anche Picasso), viene arrestato ed incarcerato, salvo poi risultare del tutto estraneo ai fatti ed in seguito rilasciato. Del furto risultò poi essere autore un dipendente del Louvre, tale Vincenzo Peruggia. Inaugura nel 1910 la vita letteraria con i sedici racconti fantastici intitolati L’eresiarca & C., mentre nel 1911  pubblica le poesie di Bestiario o corteggio di Orfeo e nel 1913  Alcools, raccolta delle migliori poesie composte fra il 1898 e il 1912, considerata il capolavoro di Apollinaire insieme con Calligrammes (1918),  veri e propri componimenti scritti appositamente per formare un disegno che rappresenta il soggetto della poesia stessa.   

Apollinaire ritratto di Maurice de Vlaminck

Apollinaire ritratto di Maurice de Vlaminck

Commento di Renzo Paris

…Per dar carne alla biblioteca erotica detta dei Curiosi, che curava per uno spregiudicato editore, Apollinaire si tuffa nella letteratura italiana e ne trae pingue bottino. Riscopre, per esempio, lo scrittore Giambattista Casti (1724-1803), viaggiatore irrequieto e amico di letterati e regnanti di tutta Europa, quello stesso che Parini giudicava “prete brutto, vecchio e puzzolente” e che invece Stendhal e Goethe stimavano.

Piacque ad Apollinaire per le sue doti di poeta libertino ed irreligioso Giorgio Baffo che, insieme a scrittori come Francesco Gritti e Anton Maria Lamberti, Giovanni Pozzobon e Marcantonio Zorzi, dava vita all’ambiente che permise la nascita della lingua goldoniana. Ammirò Boccaccio, innanzitutto. Stampò Sade. Ma a proposito del Casti c’è ben altro da dire. Il Casti infatti è autore degli Animali parlanti. E che cos’è Bestiaire, la prima raccolta di poesie d’Apollinaire, se non una serie soprattutto di quartine in cui il poeta fa ‘parlare’ gli animali?

O forse è troppo azzardata l’ipotesi di una intuizione settecentesca di un bestiario illustrato alla maniera medioevale ancora viva nell’epoca rinascimentale? Bestiaire è del 1911. Definito dallo stesso autore “un divertimento poetico” è una serie di licenziosi auguri e scongiuri. Auguri al poeta che si appresta a circuire e a conquistare madama poesia, e d’altra arte, scongiuri contro i pericoli e gli ostacoli di cui è lastricata la strada della bellezza. Più che un ‘dizionario dei motivi poetici dell’autore’ sembra essere un manuale di istruzioni per la creazione poetica, per un poeta da spartire con il profeta di dantesca e rimbaudiana memoria né con il misterioso di Mallarmé. Proprio in Bestiaire, nella quartina ‘L’éléphant’, si dice:

Comme un éléphant son ivoire,
J’ai en bouche un ben precieux.
pourpre mort!… J’achète ma gloire
Au prix des mots mélodieux.

Nella quartina ‘La chenille’ invece leggiamo:

Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.

A prezzo del “lavoro poetico” il poeta può diventare ricco. Se le parole sono ancora melodiose, ma già tese e frenetiche, alla gloria si arriva attraverso una “compera”. Anche qui Apollinaire finisce col criticare il gusto simbolista dall’interno stesso della sua melodia. A proposito della “purpurea morte” de “L’éléphant” il critico francese Poupon ricorda Mallarmé e la sua particolare espressione “morire purpureo” riferita alla ruota di un carro, simbolo della poesia.

(tratto da Apollinaire Poesie Newton Compton Italiana, Introduzione di Renzo Paris, Roma, 1971)  

Nota del traduttore Mario Fresa

Un traduttore di poesia deve lavorare siccome un interprete musicale. È questo il senso del gioco di queste mie traduzioni-imitazioni confluite nel quaderno “In viaggio con Apollinaire”: ai testi ho voluto applicare minime inversioni sintattiche, dilatazioni o contrazioni metriche, sovrapposizioni, puntature, cadenzine. L’elemento di maggiore fascino nella traduzione poetica è d’altronde costituito, secondo me, soprattutto dalla forma e dalle modalità del processo di trasformazione del testo da cui deriva la traduzione stessa; un processo che non è un ʿcontrafactumʾ o un travestimento, ma una forma di scrittura trasversale che assume il valore di un omaggio-variazione, in cui si accolgono e si uniscono sia l’eco imitativa, sia la rielaborazione, fiorita e ampliata, del modello di partenza.

Da Il Bestiario o Corteggio di Orfeo

La Souris

Belles journées, souris du temps,
Vous rongez peu à peu ma vie.
Dieu ! Je vais avoir vingt-huit ans,
Et mal vécus, à mon envie.

Topino

O belle, mie belle, terribili, belle giornate!
Topini del tempo che la mia vita divorate!
Trent’anni, miodio, trent’anni li compirò tra un mese!
Che tempo perduto! Che ore malissimo spese!

L’Écrevisse

Incertitude, ô mes délices
Vous et moi nous nous en allons
Comme s’en vont les écrevisses,
À reculons, à reculons.

Gambero

O dubbio, dolcissimo mio. La dolce mia altalena.
Ah ridatemi la strada. Non la vedo. Non la vedi.
Tu mi sventoli all’indietro: come un gambero procedi
Che sgambetta, si ripara, che alla fuga già s’allena.

Da Alcools

Les cloches

Mon beau tzigane mon amant
Écoute les cloches qui sonnent
Nous nous aimions éperdument
Croyant n’être vus de personne

Mais nous étions bien mal cachés
Toutes les cloches à la ronde
Nous ont vu du haut des clochers
Et le disent à tout le monde

Demain Cyprien et Henri
Marie Ursule et Catherine
La boulangère et son mari
Et puis Gertrude ma cousine

Souriront quand je passerai
Je ne saurai plus où me mettre
Tu seras loin je pleurerai
J’en mourrai peut-être

Campane

Oh il mio caro zingarello: oh l’amante mio bello:
senti che razza, senti che razza di scampanìo!
Quanto ci siamo amati, vedi un po’, tesoro mio
(e volevamo non esser mai visti, amore bello…)

Il nostro nascondino, noi l’abbiamo scelto male!
Le campane delle chiese fanno un chiasso infernale
a destra, a manca: e dall’alto dei campanili ognuna
già si mette a bisbigliare, pettegola importuna…

e così, già domani, prima Enrico e poi Ursula Maria
e in aggiunta Cipriano e Caterina
e anche i coniugi fornai, lì, nella panetteria

ah come sorrideranno quando, mettiamo, io passerò di là
e dove, ohimé, dove poi m’asconderò?
Ah, ne potrei morire! Morire io ne potrei, chissà!

Signe

Je suis soumis au Chef du Signe de l’Automne
Partant j’aime les fruits je déteste les fleurs
Je regrette chacun des baisers que je donne
Tel un noyer gaulé dit au vent ses douleurs

Mon Automne éternelle ô ma saison mentale
Les mains des amantes d’antan jonchent ton sol
Une épouse me suit c’est mon ombre fatale
Les colombes ce soir prennent leur dernier vol

Costellazione

Sono nato sotto il segno dell’Autunno
Per questo mi piacciono i frutti perciò mi disgustano i fiori
I baci che ho donato io li rimpiango tutti
Come un noce bacchiato sussurra i suoi dolori al vento

Oh mio Autunno perenne oh stagione della mia mente
Mani di antiche amanti cospargono il tuo suolo
Una sposa mi segue ed è l’ombra mia fatale
Le colombe stasera spiccano il loro ultimo volo

Hötels

La chambre est veuve
Chacun pour soi
Présence neuve
On paye au mois

Le patron doute
Payera-t-on
Je tourne en route
Comme un toton

Le bruit des fiacres
Mon voisin laid
Qui fume un âcre
Tabac anglais

Ô La Vallière
Qui boite et rit
De mes prières
Table de nuit

Et tous ensemble
Dans cet hôtel
Savons la langue
Comme à Babel

Fermons nos portes
À double tour
Chacun apporte
Son seul amour

Alberghi

La camera è vuota
Ciascuno per sé
C’è un ospite nuovo
Si paga tra un po’

Ma dice il padrone:
Qui si salderà?
Io trottolo e vago
Per la mia città

Vetture chiassose
Che ceffo ha il vicino!
Si fuma un tabacco
Inglese, un po’acre

C’è la Favorita
Che zoppica e ride
Di queste preghiere
Sul mio comodino

E adesso in albergo
Noi qui tutti insieme
Parliamo le lingue
Di un’altra Babele

Chiudiamo le porte
Ben forte, ben forte
Ciascuno il suo amore
Si serbi per sé.

Cors de Chasse

Notre histoire est noble et tragique
Comme le masque d’un tyran
Nul drame hasardeux ou magique
Aucun détail indifférent
Ne rend notre amour pathétique

Et Thomas de Quincey buvant
L’opium poison doux et chaste
À sa pauvre Anne allait rêvant
Passons passons puisque tout passe
Je me retournerai souvent

Les souvenirs sont cors de chasse
Dont meurt le bruit parmi le vent

Corni da caccia

Nobile e tragica è la nostra storia
Come la maschera di un gran tiranno
Nessun rischio drammatico, nessun sortilegio,
Nessuna minuzia indifferente
Ha reso romantico il nostro amore

E de Quincey mentre beveva
L’oppio venefico dolcissimo e puro
Sognava la sua Annina
Passiamo trapassiamo, perché tutto passa, perché tutto va!
Ahi, spesso, ma sconsolato, volgerommi indietro!

I ricordi sono corni da caccia
E il loro suono si disperde nella bocca del vento

La Blanche Neige

Les anges les anges dans le ciel
L’un est vêtu en officier
L’un est vêtu en cuisinier
Et les autres chantent

Bel officier couleur du ciel
Le doux printemps longtemps après Noël
Te médaillera d’un beau soleil
D’un beau soleil

Le cuisinier plume les oies
Ah  ! tombe neige
Tombe et que n’ai-je
Ma bien-aimée entre mes bras

La bianca neve

Ah, gli angeli in cielo, là in alto, là fuori!
Uno è vestito da brigadiere
L’altro è vestito da cuciniere
E gli altri, quel gruppo, son tutti tenori

O bell’ufficiale, color dell’azzurro!
La primavera, adesso, dopo quel lungo inverno
Sai che bella medaglia di sole ti assegnerà
Ma sì, te la darà

Il cuciniere spiuma le oche
E che neve che cade: e cade, la neve,
Ricade: né v’è
La mia bella, qui adesso, con me!

Mes amis m’ont enfin avoué leur mépris

Mes amis m’ont enfin avoué leur mépris
Je buvais à pleins verres les étoiles
Un ange a exterminé pendant que je dormais
Les agneaux les pasteurs des tristes bergeries
De faux centurions emportaient le vinaigre
Et les gueux mal blessés par l’épurge dansaient
Étoiles de l’éveil je n’en connais aucune
Les becs de gaz pissaient leur flamme au clair de lune
Des croque-morts avec des bocks tintaient des glas
A la clarté des bougies tombaient vaille que vaille
Des faux cols sur des flots de jupes mal brossées
Des accouchées masquées fêtaient leurs relevailles
La ville cette nuit semblait un archipel
Des femmes demandaient l’amour et la dulie
Et sombre sombre fleuve je me rappelle
Les ombres qui passaient n’étaient jamais jolies

I miei amici alla fine…

I miei amici alla fine mi hanno tutti confessato che mi disprezzano
A grandi sorsate mi ubriacavo di stelle
Mentre dormivo un angelo ha sterminato
gli agnelli i pastori nei tristi ovili
Certi finti centurioni asportavano l’aceto
Gli straccioni ballavano ridotti male assai dal ricino
Stelle del risveglio io non ne conosco nemmeno una
I becchi del gas pisciavano le fiamme al chiar di luna
Becchini sonavano a morto coi boccali di birra
Ricadevano alla luce delle candele ricadevano e dunque sia come dev’essere
Colli di camicia su fiotti di gonne impolverate
Puerpere in maschera festeggiavano la loro purificazione
Un arcipelago sembrava quella notte la città
Le donne chiedevano l’amore e la dulìa
Oh fiume scuro scuro io sì me lo ricordo bene
Nelle ombre che passavano non c’era mai bellezza

Nuit rhénane

Mon verre est plein d’un vin trembleur comme une flamme
Écoutez la chanson lente d’un batelier
Qui raconte avoir vu sous la lune sept femmes
Tordre leurs cheveux verts et longs jusqu’à leurs pieds

Debout chantez plus haut en dansant une ronde
Que je n’entende plus le chant du batelier
Et mettez près de moi toutes les filles blondes
Au regard immobile aux nattes repliées

Le Rhin le Rhin est ivre où les vignes se mirent
Tout l’or des nuits tombe en tremblant s’y refléter
La voix chante toujours à en râle-mourir
Ces fées aux cheveux verts qui incantent l’été

Mon verre s’est brisé comme un éclat de rire

Notte renana

Questo bicchiere è colmo della fiamma di un vino che già trema
Sentite la canzone lentissima lentissima del battelliere
Che racconta di aver visto sotto la luna sette donne
Che torcevano i loro capelli verdi e lunghi fino ai piedi

Su sorgete e cantate più forte e ballate un girotondo
Perché non possa più sentire la canzone del battelliere
Mettetemi vicino tutte quante le ragazze bionde
Dallo sguardo immobile e dalle trecce ripiegate

Il reno è ubriaco il reno dove si specchiano le vigne
Tutto l’oro notturno vi scivola tremando per rispecchiarsi
La voce canta sempre come un rantolo morente
Quelle fatine dai verdi capelli che incantano l’estate

Il mio bicchiere si è infranto come lo scoppio d’una risata

Da Calligrammi

Il pleut

Il pleut des voix de femmes comme si elles étaient mortes même dans le souvenir

C’est vous aussi qu’il pleut merveilleuses rencontres de ma vie ô gouttelettes

Et ces nuages cabrés se prennent à hennir tout un univers de villes auriculaires

Écoute s’il pleut tandis que le regret et le dédain pleurent une ancienne musique

Ecoute tomber les liens qui te retiennent en haut et en bas.

Piove

Piovono voci di donne come se fossero morte perfino nel ricordo

Piovete anche voi meravigliosi incontri della mia vita, o goccioline!

E quelle nuvole impennate già iniziano a nitrire un universo intero di città auricolari

Senti se piove mentre il rimpianto e lo sdegno piangono insieme una musica antica

Ascolta cadere i legami che ti tengono su, che ti tengono giù

Mutation

Une femme qui pleurait
Eh! Oh! Ha!
Des soldats qui passaient
Eh! Oh! Ha!
Un éclusier qui pêchait
Eh! Oh! Ha!
Les tranchées qui blanchissaient
Eh! Oh! Ha!
Des obus qui pétaient
Eh! Oh! Ha!
Des allumettes qui ne prenaient pas
Et tout
A tant changé
En moi
Tout
Sauf mon amour
Eh! Oh! Ha!

Metamorfosi

Una donna che singhiozzava
Eh! Uh! Ah!
I soldati che passavano
Eh! Uh! Ah!
Un custode di chiusa che pescava
Eh! Uh! Ah!
Le trincee che biancheggiavano
Eh! Uh! Ah!
Granate che scoreggiavano
Eh! Uh! Ah!
Fiammiferi che non si accendevano
E tutto
È così tanto cambiato
In me
Tutto
Salvo il mio amore
Eh! Uh! Ah!

SCÈNE NOCTURNE DU 22 AVRIL 1915

Gui chante pour Lou

Mon ptit Lou adoré Je voudrais mourir un jour que tu m’aimes
Je voudrais être beau pour que tu m’aimes
Je voudrais être fort pour que tu m’aimes
Je voudrais être jeune jeune pour que tu m’aimes
Je voudrais que la guerre recommençât pour que tu m’aimes
Je voudrais te prendre pour que tu m’aimes
Je voudrais te fesser pour que tu m’aimes
Je voudrais te faire mal pour que tu m’aimes
Je voudrais que nous soyons seuls dans une chambre d’hôtel à Grasse pour que tu m’aimes
Je voudrais que nous soyons seuls dans mon petit bureau près de la terrasse couchés sur le lit
de fumerie pour que tu m’aimes
Je voudrais que tu sois ma sœur pour t’aimer incestueusement
Je voudrais que tu eusses été ma cousine pour qu’on se soit aimés très jeunes
Je voudrais que tu sois mon cheval pour te chevaucher longtemps longtemps
Je voudrais que tu sois mon cœur pour te sentir toujours en moi
Je voudrais que tu sois le paradis ou l’enfer selon le lieu où j’aille
Je voudrais que tu sois un petit garçon pour être ton précepteur
Je voudrais que tu sois la nuit pour nous aimer dans les ténèbres
Je voudrais que tu sois ma vie pour être par toi seule
Je voudrais que tu sois un obus boche pour me tuer d’un soudain amour

SCENA NOTTURNA DEL 22 APRILE 1915

Gui canta per Lou

Mio piccolo Lou vorrei morire un giorno che tu mi amassi
Vorrei essere bello perché tu mi amassi
Vorrei esser forte perché tu mi amassi
Vorrei essere giovane giovane perché tu mi amassi
Vorrei che la guerra ricominciasse daccapo perché tu mi amassi
Vorrei afferrarti perché tu mi amassi
Vorrei sculacciarti perché tu mi amassi
Vorrei farti male perché tu mi amassi
Vorrei che ci trovassimo noi due soli in una stanza d’albergo a Grasse perché tu mi amassi
Vorrei che fossimo soli nel mio piccolo ufficio proprio vicino alla terrazza
sdraiàti così sul letto da fumeria perché tu mi amassi
Vorrei che tu fossi la mia sorellina per amarti incestuosamente
Vorrei che tu fossi stata mia cugina perché ci fossimo amati giovanissimi
Vorrei che tu fossi il mio cavallo per cavalcarti a lungo a lungo a lungo
Vorrei che tu fossi il mio cuore per sentirti sempre in me
Vorrei che tu fossi il Paradiso o l’Inferno secondo il luogo di destinazione
Vorrei che tu fossi un ragazzino per essere il tuo precettore
Vorrei che tu fossi la notte per poterci amare al buio
Vorrei che tu fossi la mia vita per essere tutto tuo
Vorrei che tu fossi un proiettile crucco per uccidermi di un amore fulminante

Da Lettere a Lou

Il y a

Il y a des petits ponts épatants
Il y a mon cœur qui bat pour toi
Il y a une femme triste sur la route
Il y a un beau petit cottage dans un jardin
Il y a six soldats qui s’amusent comme des fous
Il y a mes yeux qui cherchent ton image
Il y a un petit bois charmant sur la colline
Et un vieux territorial pisse quand nous passons
Il y a un poète qui rêve au ptit Lou
Il y a une batterie dans une forêt
Il y a un berger qui paît ses moutons
Il y a ma vie qui t’appartient
Il y a mon porte-plume réservoir qui court qui court
Il y a un rideau de peupliers délicat délicat
Il y a toute ma vie passée qui est bien passée
Il y a des rues étroites à Menton où nous nous sommes aimés
Il y a une petite fille de Sospel qui fouette ses camarades
Il y a mon fouet de conducteur dans mon sac à avoine
Il y a des wagons belges sur la voie
Il y a mon amour
Il y a toute la vie
Je t’adore

C’è

C’è una fila di piccoli ponti meravigliosi
C’è il mio cuore che batte per te
C’è una ragazza triste sulla via
C’è un piccolo delizioso cottage in giardino
C’è un gruppo di sei soldati e tutti dico tutti si divertono da matti
C’è il mio occhio che va in cerca della tua immagine
C’è un boschetto grazioso sulla collina
E un vecchio soldato della milizia che piscia mentre passiamo noi
C’è un poeta che pensa al suo piccolo Lou
C’è un piccolo Lou delizioso in quella Parigi grande grande
C’è una batteria nella foresta
C’è un pastore che pascola le pecorelle
C’è la mia vita che appartiene a te
C’è il mio astuccio portapenne che corre che corre
C’è un filare di pioppi tenero tenero
C’è tutta la mia vita passata che è proprio tutta passata
C’è un dedalo di stradine a Menton dove ci siamo amati
C’è una ragazzina di Sospel che frusta i suoi compagni
C’è la mia frusta d’ordinanza nel mio sacco d’avena
C’è una torma di bagasce belghe sopra la strada
C’è il mio amore
C’è tutta l’esistenza
E ti adoro

Mario Fresa, nato nel 1973, ha esordito nel 1999 sulle pagine di «Specchio della Stampa», presentato da Maurizio Cucchi. Altri suoi testi in poesia e in prosa sono stati pubblicati sulle principali riviste culturali italiane, da «Caffè Michelangiolo» a «Paragone» a «Nuovi Argomenti», e in varie antologie, tra le quali Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004). Anticipazioni del suo nuovo libro di prose-poesie sono uscite su «Smerilliana» (2014), con un saggio di Valeria Di Felice, e su «Quadernario» (2015), a cura di M. Cucchi. Tra le sue ultime raccolte di poesia: Alluminio (introduzione critica di Mario Santagostini, 2008), Costellazione urbana (Mondadori, «Almanacco dello Specchio», 2008), Uno stupore quieto (prefazione di Maurizio Cucchi, La collana, Stampa, 2012; menzione speciale al premio Internazionale di Letteratura Città di Como), Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con disegni di Mattia Caruso, 2015). Ha curato l’edizione critica del poema Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo di Gabriele Rossetti (Carabba, collana “I Classici”, 2012), e la traduzione del De cura rei familiaris di Bernardo di Chiaravalle (Società Editrice Dante Alighieri, 2012). Firma la rubrica Sguardi sulla rivista «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», di cui è redattore.

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Yves Bonnefoy ALCUNE POESIE da “L’insidia della soglia” (1975) – Alcuni stralci di interviste al poeta e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Far accadere la presenza; La finitudine; Il soggetto, (un “Je” che non è un “moi”).

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Yves Bonnefoy, nato a Tours nel 1923 è morto il 1 luglio 2016 a 93 anni, professore emerito al Collège de France di Parigi, poeta, prosatore e saggista. Ha tradotto Shakespeare, Donne, Keats, Yeats, Petrarca, Leopardi. Più volte candidato al Nobel per la letteratura, ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali. In Italia ha pubblicato diverse raccolte: Movimento e immobilità di Douve, 1953; Ieri deserto regnante, 1958; Pietra scritta, 1965; Nell’insidia della soglia, 1975; Quel che fu senza luce, 1987; Qui dove ricade la freccia, 1991; Inizio e fine della neve, 1991; La vita errante, 1993; Le assi curve, 2001; La lunga catena dell’àncora, 2008.

Risposte di Yves Bonnefoy

Perché nell’insidia della soglia?

“Perché nell’insidia della soglia? Perché parecchi anni della mia vita furono occupati dal compito di ridare esistenza a una grande casa in Provenza -un monastero con un’antica chiesa, stalle, granai, ma soprattutto rovine- che in quel suo luogo straordinario sarebbe potuta essere -immaginavo- la soglia del paese in cui vivere, il portico della «vera vita». Ma in seguito le difficoltà andarono crescendo, sia quelle interiori sia quelle materiali, e finirono per rendere irrealizzabile l’impresa. Ne ricavai, tuttavia, una lezione. Se le soglie sono illusioni, «insidie», anche le insidie possono diventare occasioni per una riflessione più lucida. E quindi, a loro volta, possono diventare soglie attraverso le quali accedere alla verità nel proprio rapporto con se stessi: là dove l’essere nasce dal non avere. Il libro tenta di fare questa esperienza che è anche una mise en question della scrittura, spazio di tutte le insidie; tende verso quelle parole che rinunciano a imporre i loro sogni e che possono anzi, nella dissipazione di questi sogni, consentirci una luce nuova”.

Chi è Douve, e quale è il messaggio che porta nel suo gioire di morte?

Douve è un luogo, Douve è una donna, Douve è una condizione mentale, Douve è uno strumento nella mani del poeta, Douve è ciò che il lettore vuole che Douve sia. Chi scrive la immagina con il volto di donna, il corpo androgino e lo sguardo nero che penetra oltre la superficie….
Il silenzio che la poesia instaura prima della creazione poetica garantisce l’autenticità delle parole che sorgeranno. Giungere al silenzio come condizione di possibilità di un linguaggio nuovo che dica finalmente il mondo della vita scevro da ogni concettualizzazione e mistificazione. E’ un trattenere il respiro prima dell’immersione, un lungo momento personale, individuale, l’attimo in cui il soggetto prende coscienza di sé stesso come essere vivente per poi gettarsi a capofitto nel mondo della vita, senza paura, senza finzioni.

Faire advenir la présence  –   Far accadere la presenza

Il linguaggio ha diviso l’uomo dal mondo e l’ha privato dell’esperienza della pienezza sensibile.

La poesia cerca di riparare a questa perdita originale, non tanto per ricostruire l’unità persa, che non è altro che un’altra ‘insidia della parola’ chiusa in una forma, ma per insegnarci a “consentire” alla nostra finitezza, cioè a accettare e a assumere la precarietà del mondo, che affiora nei nostri sogni, nelle nostre immagini, nelle nostre parole, a riconoscervi, al di là dell’insidia, la fragilità e la fugacità costitutive della nostra condizione e dunque della nostra vita su questa terra. E’ questa precarietà assunta infine che, la voce della poesia cerca di testimoniare e che celebra, a volte sotto forma di litanie o d’incantatoria, altre volte sotto forma di un racconto poetico o “racconto in sogno”, per farci condividere questo sentimento improbabile della “Presenza”, che è esperienza immediata del mondo e semplicità “seconda”, acquisita attraverso e malgrado le parole, dopo una lenta maturazione, assimilabile a una trasmutazione alchemica.

Il soggetto della poesia

Si potrà mostrare come la parola apparentemente intima si appoggi qui su un soggetto esteriore a sé, molto lontano dalla profondità psicologica del soggetto romantico (un “Je” che non è un “moi”).Colui che scrive è una sensibilità al mondo più che un’interiorità. Il narratore delega la sua esperienza ad altre figure di mediazione, come il bambino, che è allo stesso tempo ricordo di se stesso, soggetto prima delle parole, che sente, sogna, il soggetto che desidera amare, che spera, che cerca un nome, un padre, una dimora dove fissarsi..Questo bambino è dunque anch’egli un’allegoria della poesia.

(Stefania Roncari – tellusfolio.it)

Nei suoi saggi sulla  poesia ricorre spesso la parola ‘finitudine’. Cosa c’è dietro questa parola? E che rapporto ha con il nostro bisogno di immagini?

La finitudine è la cosa più semplice del mondo ma forse la più difficile da spiegare. Noi viviamo in un dato luogo, in un dato momento, circondati da persone mortali … sono questi i nostri limiti.

Nel corso della sua vita ha concentrato il suo interesse sullo studio della civilta’ italiana, dell’arte e della poesia di un paese che ha finito con il considerare la sua seconda patria, da Piero Della Francesca, al Mantenga, a Tiepolo… Ma anche Giacometti, Moranti. E tra i poeti cito Petrarca e Leopardi. Perché questo interesse per l’arte e la poesia italiana?

Forse ciò che mi hanno portato i frequenti viaggi in Italia e in Grecia è la scoperta di opere di autori che si sono posti gli stessi problemi che mi pongo io nella poesia. Abbiamo bisogno di grandi opere per migliorare il rapporto con noi stessi. E in Grecia e in Italia ho letto opere che non conoscevo e così ho avuto la fortuna di approfondire il rapporto con me stesso.

Lei ha conosciuto Andrè Breton, il padre del surrealismo. La sua poesia, ancora oggi, ha una matrice psicologica molto forte. Qual è il legame per lei tra poesia e psicanalisi?

Il surrealismo effettivamente per me ha il merito di aver rivalutato l’inconscio. La virtù di Andrè Breton è quella di aver capito che la poesia nasce proprio da lì, dall’inconscio. La psicanalisi è una scienza che si interessa dell’inconscio ed è per questo che interessa anche noi poeti … Però la psicanalisi e’ troppo concettuale e non e’ in grado di capire la profondità dell’inconscio, che e’ l’esperienza della nostra finitudine, come ho sempre detto. Dunque il poeta stabilisce con lo psicanalista un rapporto di sorveglianza reciproca. Lo psicanalista deve verificare che noi non sostituiamo i sogni alla realta’, al rapporto con noi stessi, mentre invece il poeta ricorda allo psicanalista che la sua ricerca dell’inconscio scaturisce dal limite e quindi non e’ adatta ad esprimere la verita’ piu’ profonda delle nostra vita
… L’interrogativo che pone la poesia è la questione stessa del pensiero concettuale. Poesia e pensiero concettuale, infatti, sono intimamente legati da un rapporto reciproco di affetto e di diffidenza.

… Il pensiero concettuale è nato in Grecia, ma subito è stato deviato dalla sua vocazione ‘terrestre’, dalla speculazione platonica degli agnostici che ha cercato di costruire una realtà superiore, ideale, attraverso i mezzi intellegibili della conoscenza nella quale il mondo si dissipa. E allora, per la poesia la questione fondamentale è : ‘Si ha diritto di lasciare così il luogo terrestre?’
Evidentemente la poesia è essa stessa tentata ad un certo punto, dalla speculazione metafisica. Tutti noi abbiamo in noi stessi, il desiderio di sognare una realtà superiore a quella nella quale viviamo e ancora oggi, questo è ciò che ci attrae verso il tempio greco, verso la statuaria greca del V secolo avanti Cristo. Cioè un mondo in cui la forma sembra prendere la nostra realtà nelle sue mani per trasportarci altrove, ma è a questo punto che interviene la civiltà latina. A me sembra che l’essere al mondo che prende forma nella società romana, sia profondamente diverso. Perché nella sua esperienza iniziale, almeno, c’è questa città, Roma, intorno alla quale si combatte per prendere possesso del mondo. Il pensiero concettuale non è estraneo ai romani, ai latini, ma è a Roma che il pensiero concettuale è sollecitato a lavorare piuttosto sugli eventi terrestri così come vengono vissuti che non a tentare la fuga dal mondo verso una realtà superiore o che sembra tale, che è solamente un sogno… E qui si verifica, a mio modo di vedere, il ritorno della poesia.

Diciamo che per me la poesia è restituire alle cose, fra le quali viviamo, e agli esseri con cui viviamo, la pienezza della loro presenza a se stessi.
Mi dispiace che letteratura francese di oggi si preoccupi troppo, a mio avviso, del linguaggio, della lingua in quanto tale, cioè del suo funzionamento interno, senza invece porsi a sufficienza il problema della relazione che esiste fra la parola e il mondo, perché questo nesso è più del mero linguaggio. Mi sembra, invece, che in Italia attualmente la poesia si lasci meno imprigionare nel fascino del funzionamento interno della lingua, e questo è qualcosa che apprezzo. Credo che il vero futuro della poesia di tutta Europa passi oggi per un confronto incessante tra le diverse esperienze poetiche dei diversi luoghi. In altre parole, credo che la poesia passi per l’attività della traduzione. In una certa misura l’invenzione poetica si trasferisce alla riflessione del traduttore che diventa poeta, che prende coscienza dell’argomento e di come vivono le diverse società.”
(Luigia Sorrentino – festivaletteratura mantova 2007 – rainews24)

Yves Bonnefoy 10Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Nella poesia di Yves Bonnefoy la morte di Dio cessa di essere una sventura, poiché se Dio è morto, noi non siamo più dei viventi; ma forse non è questo che importa di più alla condizione umana secondo il poeta francese. Se Dio è morto, il mondo è pur sempre ancora nostro, nella sua pluralità e promiscuità. È tale come questo « jardin dont l’ange a refermé les portes sans retour ». Giardino di cui l’angelo ha chiuso le porte, che è il vero luogo della Pierre écrite, nella quale noi nasciamo e moriamo soli, ma dal quale nessuna parola divina ci potrà mai scacciare. Paradossalmente, il mondo è ridiventato nostro, l’uomo è diventato proprietario del suo mondo, se ne è riappropriato. E ciò comporta la più grande delle trasgressioni nella storia dell’uomo sulla terra. Quanto all’Altro, avviluppato nella reticenza dei suoi bisogni e nella sua alterità insopprimibile, il poeta non può dargli la parola, noi non sappiamo nulla di lui, in quanto estraneo portatore del suo mondo pulsionale e istintuale, con i suoi fantasmi, i suoi retro pensieri; possiamo solo avvertirne la presenza insidiosa, intuirne il pericolo, l’insidia della soglia, dietro l’immagine dello specchio. Di qui la indirezionalità di questa poesia, la sua natura illusoria, il suo alludere, illudere, il suo indicare per ellissi e per nominazione indiretta, per traslato.

In questa poesia, tra le parole, c’è aria; una atmosfera rarefatta e trasparente. Le parole restano come sospese su un abisso vuoto, nuotano nel vuoto, in distanze siderali l’una dall’altra, incomunicabili e incomunicate, ciascuna chiusa nella propria irrelata singolarità, incapaci di farsi carico di un significato stabile, fondante. Le parole ormai sono diventate esse stesse instabili e impermanenti; sono delle singolarità aleatorie che abitano zone limitrofe, soglie, faglie, limen tra continenti inesplorati e inesplorabili. Per noi umani è più importante l’eco delle parole più delle parole che abitano non intorno al rumore ma dentro il rumore ( « L’écho n’est pas autour du bruit mais dans le bruit »). Quella di Bonnefoy è una poesia che proclama con acuta consapevolezza la propria costitutiva debolezza e transitorietà, priva di salvezza in quanto senza perdizione, ma fattasi forte grazie alla propria fragile aleatorietà.

da Nell’insidia della soglia (1975)

Heurte,

Heurte à jamais.

Dans le leurre du seuil.

A la porte, scellée.

A la phrase, vide.

Dans le fer, n’éveillant

Que ces mots, le fer.

Dans le langage, noir.

Dans celui qui est là

Immobile, à veiller

A sa table, chargée

De signes, de lueurs.
Et qui est appelé

Trois fois, mais ne se lève.

*

Encore quand

Le bras n’est plus que cendre

Dispersée.

Plus avant que le chien

Dans la terre noire

Se jette en criant le passeur

Vers l’autre rive.

La bouche pleine de boue.

Les yeux mangés,

Pousse ta barque pour nous

Dans la matière.

Quel fond trouve ta perche, tu ne sais,

Quelle dérive.

Ni ce qu’éclaireront, saisis de noir.

Les mots du livre.

Plus avant que le chien

Qu’on recouvre mal

On t’enveloppe, passeur,

Du manteau des signes.

On te parle, on te donne

Une ou deux clefs, la vaine

Carte d’une autre terre.

Tu écoutes, les yeux déjà détournés

*

Vers l’eau obscure.

Tu écoutes, qui tombent.

Les quelques pelletées.

Plus avant que le chien

Qui est mort hier

On veut planter, passeur.

Ta phosphorescence.

Les mains des jeunes filles

Ont dégagé la terre

Sous la tige qui porte

L’or des grainées futures.

Tu pourrais distinguer encore leurs bras

Aux ombres lourdes,

Le gonflement des seins

Sous la tunique.

Rire s’enflamme là-haut

Mais tu t’éloignes.

Tu fus jeté sanglant

Dans la lumière.

Tu as ouvert les yeux, criant,

Pour nommer le jour.

Mais le jour n’est pas dit

Que déjà retombe

La draperie du sang, à grand bruit sourd,

Sur la lumière.

Rire s’enflamme là-haut.

Rougeoie dans l’épaisseur

*

Qui se désagrège.
Détourne-toi des feux
De notre rive.

Plus avant que le feu

Qui a mal pris

Est placé le témoin du feu, l’indéchiffré,

Sur un lit de feuilles.

Faces tournées vers nous.

Lecteurs de signes.

Quel vent de l’autre face, inentendu,

Les fera bruire ?

Quelles mains hésitantes

Et comme découvrant

Prendront, feuilletteront

L’ombre des pages ?

Quelles mains méditantes

Ayant comme trouvé ?

*

Oh, penche-toi, rassure,

Nuée

Du sourire qui bouge

En visage clair.

Sois pour qui a eu froid

*

Contre la rive

La fille de
Pharaon

Et ses servantes.

Celles dont l’eau, encore
Avant le jour,
Rellète renversée
L’étoffe rouge.

*

Et comme une main trie
Sur une table
Le grain presque germé
De l’ivraie obscure

Et sur l’eau du bois noir
Prenant se double
D’un reflet, où le sens
Soudain se forme,

Accueille, pour dormir
Dans ta parole,
Nos mots que le vent troue
De ses rafales.

*

« Es-tu venu pour boire de ce vin,
Je ne te permets pas de le boire.
Es-tu venu pour apprendre ce pain
Sombre, brûlé du feu d’une promesse,
Je ne te permets pas d’y porter lumière.
Es-tu venu ne serait-ce que pour
Que l’eau t’apaise, un peu d’eau tiède, bue
Au milieu de la nuit après d’autres lèvres
Entre le lit défait et la terre simple,
Je ne te permets pas de toucher au verre.
Es-tu venu pour que brille l’enfant
Au-dessus de la flamme qui le scelle
Dans l’immortalité de l’heure d’avril
Où il peut rire, et toi, où l’oiseau se pose
Dans l’heure qui l’accueille et n’a pas de nom,
Je ne te permets pas d’élever tes mains au-dessus de l’âtre où je règne clair.

Es-tu venu,

Je ne te permets pas de paraître.
Demandes-tu,

Je ne te permets pas de savoir le nom formé par tes lèvres. »

*

Plus avant que les pierres
Que l’ouvrier
Debout sur le mur arrache
Tard, dans la nuit.

Plus avant que le flanc du corbeau, qui marque
De sa rouille la brume
Et passe dans le rêve en poussant un cri
Comble de terre noire.

Plus avant que l’été
Que la pelle casse,
Plus avant que le cri
Dans un autre rêve,

Se jette en criant celui qui
Nous représente,
Ombre que fait l’espoir
Sur l’origine,

Et la seule unité, ce mouvement
Du corps — quand, tout d’un coup,
De sa masse jetée contre la perche
Il nous oublie.

*

Yves Bonnefoy 6

Nous, la voix que refoule

Le vent des mors.

Nous, l’œuvre que déchire

Leur tourbillon.

Car si je viens vers toi. qui as parlé.

Gravats, ruissellements.

Échos, la salle est vide.

Est-ce « un autre », l’appel qui me répond.

Ou moi encore ?

Et sous la voûte de l’écho, multiplié

Suis-je rien d’autre

Qu’une de ses flèches, lancée

Contre les choses ?

Nous

Parmi les bruits.

Nous

L’un d’eux.

Se détachant

De la paroi qui s’éboule.

Se creusant, s’évasant.

Se vidant de soi.

S,’empourprant.

Se gonflant d’une plénitude lointaine.

*

Regarde ce torrent,

Il se jette en criant dans l’été désert

Et pourtant, immobile.

C’est l’attelage cabré

Et la lace aveugle.

Écoute.

L’écho n’est pas autour du bruit mais dans le bruit

Comme son gouffre.

Les (alaises du bruit,

Les entonnoirs où se brisent ses eaux,

La saxifrage

S’arrachent de tes yeux avec un cri

D’aigle, final.

Où heurte le poitrail de la voix de l’eau,

Tu ne peux l’entendre.

Mais laisse-toi porter, œil ébloui,

Par l’aile rauque.

Nous

Au fusant du bruit,

Nous

Portés.

Nous, oui. quand le torrent
A mains brisées
Jette, roule, reprend
L’absolu des pierres.

*

yves-bonnefoy_2001 Parigi

Le prédateur

Au faîte de son vol.

Criant.

Se recourbe sur soi et se déchire.

De son sein divisé par le bec obscur

Jaillit le vide.

Au faite de la parole encore le bruit,

Dans l’œuvre

La houle d’un bruit second.

Mais au faite du bruit la lumière change.

Tout le visible infirme
Se désécrit,

Braise où passe l’appel
D’autres campagnes

Et la foudre est en paix
Au-dessus des arbres,
Sein où bougent en rêve
Sommeil et mort.

Et brûle, une couleur,
La nuit du monde
Comme s’éploie dans l’eau
Noire, une étoffe peinte

*

Quand l’image divise
Soudain le flux,
Criant son grain, le feu.
Contre une perche.

Heure

Retranchée de la somme, maintenant.

Présence

Détrompée de la mort.
Ampoule

Qui s’agenouille en silence

Et brûle

Déviée, secouée

Par la nuit qui n’a pas de cime.

Je t’écoute

Vibrer dans le rien de l’œuvre

Qui peine de par le monde.

Je perçois le piétinement

D’appels

Dont le pacage est l’ampoule qui brûle

Je prends la terre à poignées

Dans cet évasement aux parois lisses

Où il n’est pas de fond

Avant le jour.

Je t’écoute, je prends

*

Dans ion panier de corde

Toute la terre.
Dehors,

C’est encore le temps de la douleur

Avant l’image.

Dans la main de dehors, fermée,

A commencé à germer

Le blé des choses du monde.

Le nautonier

Qui louche de sa perche, méditante,

A ton épaule

Et toi, déjà celui que la nuit recouvre

Quand ta perche recherche mais vainement

Le fond du fleuve,

Lequel est, lequel se perdra.
Qui peut espérer, qui promettre ?
Penché, vois poindre sur l’eau
Tout un visage

Comme prend un feu, au reflet
De ton épaule.

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Philippe Beck POESIE SCELTE – “RENDIAMO ALLA POESIA IL SUO POSTO”Articolo di Xavier Person e Philippe Beck – Traduzione dal francese: Steven Grieco-Rathgeb. Traduzioni delle poesie dal francese di Trinita Buldrini e Donata Berra con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: “Poesie sulla Luna?”,”Il linguaggio poetico si è stereotipato in tutto l’Occidente”

bello femme in un interno.
http://next.liberation.fr/livres/2012/08/17/redonnons-sa-place-a-la-poesie_840341
Articolo di Xavier Person, Scrittore e critico, e Philippe Beck, Poeta e scrittore, apparso in Libération, 17 agosto 2012
(Traduzione dal francese: Steven Grieco-Rathgeb)

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Nell’ora in cui certi immaginano di fondere la poesia in un vasto insieme che riunisce il romanzo e il teatro (1), è forse bene ricordare il posto che può occupare la poesia in seno alla letteratura. E ciò di cui, per noi, “poesia” è il termine.
In questo tempo di crisi inedita, quando i disastri non sono più semplicemente dietro di noi, o di lato a noi, ma chiaramente di fronte a noi, è ancora tempo di fermarsi al vecchio termine “poesia”? Le modernità letterarie successive hanno, ciascuna nel proprio modo, dichiarato la caducità di questo termine, la sua invalidità, mentre nel contempo ne rifondavano le potenzialità. La morte ripetuta della poesia, l’addio che essa non cessa di dire a se stessa, inscrivono la sua dinamica all’interno di una interrogazione e di una incertezza che, paradossalmente, oggi le ridonano legittimità.
Altri l’hanno detto prima di noi, nella saturazione dei discorsi e delle parole impiegate che opacizzano il reale con le loro false evidenze, la scrittura poetica apre talvolta una breccia. Per una sorta di fermo nel flusso continuo della prosa del mondo, essa può operare disgiunzione. “Altre direzioni” è il cartello stradale che essa invita a seguire per uscire dalla via a senso unico che il linguaggio consueto sembra indicare.
Una politica della poesia è forse da immaginare nel senso di una sua “idioritmia”, per cui essa oppone uno iato inaccettabile alla normalizzazione delle maniere di essere e di pensare. Nel mentre, non si tratta di idolatrare le nostre singolarità, ma invece e piuttosto, affrontando il fallimento delle nostre certezze e delle nostre rappresentazioni, di impegnarci in ciò che ignoriamo di noi stessi e del mondo.
Intendiamoci bene: noi non vogliamo opporre la poesia al romanzo, a tutto il resto: né rinchiuderla in qualche cerchia di poeti in via di estinzione, ma piuttosto interrogare la letteratura a partire da “questa letteratura della letteratura”, in cosa consiste la poesia, questo “sforzo di stile”, “tasso di densità crudele”, che della poesia fa un’esperienza all’estrema punta della lingua e del pensiero. In questo scacco possibile del linguaggio e del pensiero, come anche in questa speranza.

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La poesia è più spesso un tentativo di costruzione, vedi precaria, di forme incerte. Essa può correre il rischio di altre disposizioni nella lingua, di altre configurazioni di pensiero, di emozioni. Che essa stia vicino al canto o vicino alla “letteralità della letteratura”, secondo Derrida, essa osa un qualcosa e, per questo, deve avere coraggio: “il coraggio, il cuore, il coraggio di rendersi, per tramite dell’allontanamento, a ciò che avviene qui dentro la lingua e attraverso la lingua, alle parole, ai nomi, ai verbi, e infine all’elemento della lettera […].”
Si tratta per noi di prendere ciò che va con il nome “poesia” abbastanza seriamente per cercarvi – perché no? – altri modi di vivere e di pensare. Costruire un capanna nel momento del disastro? No. In questo tempo sconosciuto in cui entriamo, possiamo noi continuare sempre a scrivere e a leggere ciò che già conosciamo, sempre la stessa storia?

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Pretesa eccessiva? E’ proprio l’attenzione a un parola che noi proponiamo, lontano dalle infantilizzazioni benevolenti ma nefaste alle quali la riducono spesso le azioni di “promozione”. Il coraggio di cui parliamo non richiama nessuna condiscendenza. Per cui, al di là della rimozione di una parola del frontone del Centre National du livre (CNL), è il senso stesso dell’azione culturale nel campo della “letteratura di ricerca” che potremmo oggi interrogare.
Gli editori, i librai e i bibliotecari, i giornalisti, i critici e i lettori di tutte le età, gli scrittori e gli artisti, i molteplici attori della vita letteraria continuano a porre l’attenzione alle scritture poetiche. Che il Centre Nationale du Livre faccia posto nella sua riforma a ciò che anima costoro è il meno che ci si può aspettare.
Nostro augurio è che le Assise del libro e della scrittura, di cui il Ministro della Cultura, Aurélie Filippetti, ha da poco confermato la messa in opera, prendano in conto le risonanze della parola “poesia”, e in questo modo, ciò che fa la nostra dignità di esseri di lingua, attraverso le stagioni.
Tale concertazione dà speranza agli scrittori, che si sono mobilitati per denunciare la maniera in cui il processo è stato imposto e i rischi che esso faceva correre al campo poetico. Ciò che può essere stata questione di rimuovere la parola “poesia” al fine di, secondo l’attuale Presidente del CNL, obbedire alle preconizzazioni della Corte dei Conti, non è insignificante.

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Nota (1): Prevista nel progetto di riforma del Centre Nationale du Livre (CNL), a data 12 marzo (2012), la soppressione della commissione Poesia del CNL è stata sospesa in luglio dalla ministro per la Culutra e la Comunicazione, Aurélie Filippetti, che prossimamente dovrebbe lanciare una concertazione su questo argomento.

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philippe beck

philippe beck

Bio-bibliografia di Philippe Beck

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Philippe Beck ha esordito nel 1996 all’età di 32 anni con la raccolta Garde-manche hypocrite (Guardamanica ipocrita). Nel 2003, una versione fortemente rivista della raccolta è apparsa, con il titolo Garde-manche Deux (Sovramanica Due). Nell’intervallo di sette anni fra queste due versioni, l’autore ha pubblicato ben nove raccolte di poesia; da allora, sono apparse altre tre. Se a queste aggiungiamo l’esauriente biografia intellettuale Beck l’impersonnage (Beck l’impersonaggio, 2006), è difficile sfuggire all’impressione che abbiamo davanti una persona veramente determinata. Il centro di questa determinazione è forse contenuto nella seguente affermazione: “Non si deve semplicemente dire ciò che è, ma ciò che può essere: ri/leggere il passato, ri-farlomondo, se volete.”
Philippe Beck, nato in 21 aprile 1963 a Strasbourg, ha studiato letterature e filosofia all’Università di Nantes. Lo sfondo filosofico non è certamente in contrasto con la natura pensosa della sua poesia. E anche la natura investigativa, visto che Beck scrive sempre in serie coese, all’interno di cui una idea principale viene, di poesia in poesia, variata, supplementata, corretta o revocata. Per le sue Poésies didactiques (Poesie didattiche, 2001) Beck ha tenuto presente una affermazione di Friedrich Schiller: “aspetta una poesia didattica in cui il pensiero in sé è e rimane poetico.” S tratta di una sfida a duello alla lingua, una sfida che Beck ha intrapreso più di dieci anni fa.
Le poesie di Beck sono quasi sempre commenti su testi precedenti, talvolta su se stesse, talvolta su altre. Un caso di quest’ultimo è Chants populaires (Canti popolari, 2007): a parte ‘l’ouverture’, e il ‘finale’, Beck ha ri-narrato 72 fiabe in origine compilate in periodo romantico dai fratelli Grimm. Ma la poesia offre più che una parafrasi: essa si carica di associazioni da una interpretazione psicoanalitica, la sociologia della letteratura o il dominio comune della cultura, in questo modo le “riscritture” portano il lettore in direzioni inaspettate. Lo stile stenografico, l’uso insolito delle maiuscole, i neologismi, tutto questo rallenta la lettura, di nuovo apre queste fiabe così ben conosciute e incoraggiano il lettore a elaborare i materiali offerti.
© John Fenoghen (Translated by John Irons)
(Traduzione dall’inglese: Steven Grieco-Rathgeb)
Pubblicazioni (selezione):
Garde-manche hypocrite (1996)
Chambre à roman fusible (1997)
Verre de l’époque Sur-Eddy (1998)
Rude merveilleux (1998)
Le Fermé de l’époque (1999)
Dernière mode familiale (2000)
Poésies didactiques (2001)
Contre un Boileau (1999)
Crude Marivaux (1999)
Aux recensions (2002)
Dans de la nature (2003)
Garde-manche Deux (2004)
Élégie Hé (2005)
Beck, l’impersonnage (2006)
Chants populaires (2007).
Links:
Philippe Beck on Lyrikline
[Philippe Beck ha partecipato a Poetry International Festival Rotterdam 2008.
Questo testo è stato scritto per quell’occasione.]
http://www.poetryinternationalweb.net/pi/site/poem/item/12445/auto/0/MOON

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foto donna al finestrino del treno
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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Poesie sulla Luna?

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Parafrasando Nietzsche si può dire che «la Poesia è una specie di errore senza il quale una determinata specie di esseri viventi può vivere benissimo».

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Qualcuno sostiene che «parlare con la luna» è diventato oggi un atto ingenuo e sproblematizzante. Io invece ritengo vero il contrario: «tornare a parlare con la luna» è un atto di grande coraggio intellettuale e di contro conformismo. Si badi, io non dico anti conformismo, dico un’altra cosa. Philippe Beck riparte dalla Interrogazione. Ma interrogazione di cosa? Beck rifonda la interrogazione delle fiabe. Così si verifica una interrogazione seconda, chiede alle fiabe quali altri significati ci siano nel loro narrato. Se c’è una cornice iconico-simbolica, c’è anche un orizzonte iconico-simbolico, un significato. La sproblematizzazione che una certa cultura della affluent society ha indotto, che cioè fosse risibile scrivere poesia sulla luna, o sulle fiabe, o su Marte non ci convince più, è stata una pessima sproblematizzazione, un condizionamento che ha investito la poesia, che è stata colpita dal tabù della nominazione. Una cultura che istituisce tabù è una cultura della morte. Che l’atto della nominazione si riveli essere il lontanissimo parente dell’atto arcaico del dominio, è un dato di fatto difficilmente confutabile oggi. La sproblematizzazione investe non solo il soggetto ma anche e soprattutto l’oggetto, prescrivendo tabù e divieti, una poesia della privacy e della economia domestica. Oggi in Eurolandia si propala una filosofia poetica spicciola, una filosofia da elettrodomestico poetico. Nessuno azzarda più alcunché, si ha orrore di significare qualcosa, si ha orrore di parlare di metafisica, si ha orrore di argomentare in modo serio, si ha orrore di affrontare la frammentazione. Si pensa superficialmente che il frammento sia il topico. Errore, è ben altro. Il frammento è il nuovo simbolico. Invece, avviene che un certo tipo di minimalismo finisce dritto dentro la filosofia da elettrodomestico con tanto di applausi della confindustria generalista del consenso intellettuale. Ciò determina un duplice impasse narratologico: si scrive ciò che si può dire; ciò che non si può dire non si scrive. Con la conseguenza della recessione di intere tematiche nell’indicibile e di interi generi a kitsch.
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L’atto stenografico delle poesie di Beck rivitalizza la significazione equivale al suo modo di ripristinare e interpretare il frammento, è il suo modo di intendere il frammento. Beck è un poeta che va per paradossi, che va a zig zag, che sembra andare a tentoni, come una persona bendata, che si scontra con gli oggetti, che urta di qua e di là; fa una scrittura paradossale, sottrae alla significazione il significato usuale, introduce tra un verso e l’altro dislivelli semantici, scarti improvvisi. Ma non per gioco, è una necessità quella di Beck. Il linguaggio poetico si è, di fatto, stereotipato in tutto l’Occidente, e allora bisogna rivitalizzarlo, fare iniezioni di ossigeno nei tessuti morti della poesia che si fa oggi in Eurolandia, un fac-simile internazionale insipido e opaco ha preso il luogo della poesia. E allora, un poeta come Beck si ritaglia il suo spazio di manovra scantonando nell’assurdo e nelle associazioni inattese, tenta di operare un massaggio cardiaco sopra le costole di un proposizionalismo poetico asfittico.

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luna 3
LUNE
Au pays de Nuit Constante,
ciel est un drap noir
et monde un lit.
Ou lit est un monde.
Drap noir est tiré par-dessus.
Sommeil de jour
plus linge de lumière.
Lune est loin.
Étoiles sont loin.
Obscurité rime avec Antiquité.
Et poussière noire.
Plus ornement blanc.
D’où l’incendie pâle.
Des apprentis changent de pays.
Ils vont au pays où soleil
apparaît et disparaît.
Horizon est l’étage.
Ascenseur porte soleil
jusqu’à lui.
Soleil allume le plateau.
Horizon est un plateau
où montent des volumes
d’encre notamment.
Au pays de jour antique,
la nuit dépend d’un arbre.
L’arbre Solide.
Chêne est source de lumière
dans le noir.
Source est une sphère dans l’arbre.
Elle brille comme courbe ronde.
Lune est un soleil d’argent
dans l’arbre Monde?
Elle a un gris d’argent.
Elle étonne les apprentis.
Un rêve blanc.
Fixée au Chêne pour trois écus?
Lumière inventée
dans un pays de nuit?
Il y a un plein d’huile de pierre
en elle?
Lampe ronde est claire.
Qui est Lampiste
ou Responsable de Lumière?
Un apprenti met un drap noir
sur la lune.
Ils emportent Lune
au pays de la nuit officielle.
Il y a un chêne au pays noir.
Sève est sang blanc.
Lampe nouvelle fait une liesse
nouvelle.
Elle argente la campagne sombre.
Et baigne les chambres.
D’où des rondes dans les clairières.
Lune a son plein d’huile régulier.
+ un nettoyage hebdomadaire.
Pour un feu argenté.
Un feu gris intense.
Chaque apprenti emporte dans la tombe
un quart de lune.
Éclat de la sphère diminue peu à peu.
Noir antique revient.
L’usage des lanternes aussi,
après le choc nocturne.
Drap nocturne est l’habit du pays.
Lune est sous la terre.
Elle éclaire un enfer?
Elle cause une liesse au pays de rien?
Et la clandestinité de corps longs?
Il y a une lumière sous la terre?
Non.
Un gris lance l’Intense Mélancolie
dans des corps d’oubli.
Soleil est loin.
Le gris a ses fêtes de mélancolie
dont le bruit
atteint le ciel.
Vie souterraine est de la terre intense.
Jungle où les branches coupent
bandes de lumière passionnantes.
Des bandes grises ont une froideur
qui ouvre des yeux.
Elles lancent
la vie dessous.
Des corps sont debout.
Calme de terre domine parfois.
Mélancolie est tendue.
Lune doit tendre la terre d’en haut.
On l’attache au ciel.
Elle éclaire au loin de l’eau.
Mélancolie est préférée en haut.
Alors, elle descend.

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d’après ‘La Lune’
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LUNA
Nel paese di Notte Costante
cielo è un lenzuolo nero
e mondo un letto.
O letto è un mondo.
Lenzuolo nero tirato su.
Sonno di giorno
con biancheria di luce.
Luna è lontana.
Stelle sono lontane.
Oscurità rima con Antichità.
E polvere nera.
Con ornamento bianco.
Da cui nasce l’incendio pallido.
Apprendisti cambiano paese.
Vanno nel paese dove sole
appare e scompare.
Orizzonte è il piano.
Ascensore porta sole
fino ad esso.
Sole illumina l’altipiano.
Orizzonte è un altipiano
dove salgono volumi
d’inchiostro segnatamente.
Nel paese di giorno antico,
la notte dipende da un albero.
L’albero Solido.
Quercia è sorgente di luce
Nel buio.
Sorgente è una sfera nell’albero.
Brilla come curva rotonda.
Luna è un sole d’argento
nell’albero Mondo?
Essa è di un grigio argenteo
stupisce gli apprendisti.
Un sogno bianco.
Fissata alla Quercia
per tre soldi?
Luce inventata
in un paese di notte?
C’è un pieno d’olio minerale
in essa?
Lampada rotonda è chiara
chi è Lumaio
o Responsabile di Luce?
Un apprendista mette un lenzuolo nero
sulla luna.
Portano via Luna
nel paese della notte ufficiale
C’è una quercia nel paese nero.
Linfa è sangue bianco.
Lampada nuova fa una festa
nuova.
Inargenta la campagna scura.
E bagna le camere.
Nascono girotondi nelle radure.
Luna ha il suo pieno d’olio regolare.
+ una pulizia settimanale.
Per un fuoco argentato.
Un fuoco grigio intenso.
Ogni apprendista porta nella tomba
un quarto di luna.
Splendore della sfera diminuisce a poco a poco.
Nero antico ritorna.
Anche l’uso delle lanterne,
dopo lo choc notturno.
Lenzuolo notturno è l’abito del paese.
Luna è sottoterra.
Rischiara un inferno?
Origina una festa nel paese di niente?
E la clandestinità di corpi lunghi?
C’è una luce sottoterra?
No.
Un grigio lancia l’Intensa Malinconia
in corpi d’oblio.
Sole è lontano.
Il grigio ha le sue feste di malinconia
il cui rumore
raggiunge il cielo.
Vita sotterranea è della terra intensa.
Giungla dove i rami tagliano
fasci di luce appassionanti.
Fasci grigi hanno una freddezza
che apre gli occhi.
Avviano la vita di sotto.
Dei corpi sono in piedi.
Calma di terra domina talvolta.
Malinconia è tesa.
Luna deve tendere la terra dall’alto.
La si attacca al cielo.
Rischiara lontano dall’acqua.
Malinconia è preferita in alto.
Allora, essa discende.
Da “La Luna” traduzione: Trinita Buldrini
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foto donna distesa

RÉVERSIBILITÉ

En hiver, des flocons descendent
comme des plumes
d’oiseau discret.
Femme à la fenêtre noire
donne trois gouttes de sang
à Neige.
C’est un coquelicot de soi,
aux pétales séparés.
Elle a bientôt une enfant à trois couleurs.
Une couleur lui donne son nom.
Mère Suivante est peuplée.
Elle a un miroir qui dit si elle est singulière.
Miroir amagique.
L’enfant grandit. Elle est comme le jour.
L’interrogatoire du miroir
crée de nouvelles couleurs dans le coeur
de la mère suivant:
jaune et vert.
Coeur tangue dans le ventre.
Mère successive.
Orgueil pousse en elle,
comme herbe sombre.
Au loin dans la forêt, enfant
comme le jour est laissée.
Pompe animale est humanisée.
Pompe de discours et désir.
Dedans remplacé.
Réaffecté.
Neige semble éliminée.
Mais dans Forêt,
Neige retourne les feuilles. Nuit tombe.
Elle trouve une maison
Miniature. Comme Alice?
Nappe blanche et draps blancs dedans.
Est-ce le Hollandais Volant?
Un navire à bascule?
Nuit noire couvre montagnes
et ses mines futures.
Mère Suivante s’habille.
Elle vend du bel et bon.
Lacet coloré, peigne rond,
pomme à deux couleurs.
Blanche et rouge.
Blanche-Neige est presque morte,
ou morte officiellement. Décolorée. Miroir
dit la vérité froidement.
Et l’antichambre réelle.
Elle n’est pas dans la terre noire.
Elle est intacte dans le verre.
Des bêtes la pleurent.
Blanche a l’air de dormir infiniment.
Elle a un pré-sourire.
Elle est admirée d’un
qu’elle aime immédiatement ;
ou dans une brève suite de moments
commence l’élan.
Et le coeur de la ‘mère’
est cuit;
envie a brûlé ses mouvements.
Vie dure.

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D’après “Blanche –Neige”
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REVERSIBILITA’
D’inverno, dei fiocchi cadono
come delle piume
d’uccello discreto.
Donna alla finestra nera
offre tre gocce di sangue
a Neve.
E’ un papavero di sé,
dai petali separati.
Le nasce presto una bambina di tre colori.
Un colore le dà il suo nome.
Madre Seguente è popolata.
Ha uno specchio che le dice se è unica.
Specchio a-magico.
La bambina cresce. E’ come il giorno.
La consultazione dello specchio
crea dei nuovi colori nel cuore
della madre seguente:
giallo e verde.
Cuore oscilla nel ventre.
Madre successiva.
Orgoglio spunta in lei,
come erba scura.
Nel cuore della foresta ,bambina
come il giorno è abbandonata.
Superbia bestiale è umanizzata.
Superbia di discorso e desiderio.
Didentro sostituito.
Ridestinato.
Neve sembra eliminata.
Ma dentro Foresta,
Neve rigira le foglie. Notte scende,
trova una casa
in Miniatura. Come Alice?
Tovaglia bianca e lenzuola bianche all’interno.
E’ l’Olandese Volante?
Una nave alla deriva?
Notte nera copre montagne
e le sue miniere future.
Madre Seguente si veste.
Vende bella roba.
Nastro colorato, pettine tondo,
mela di due colori.
Bianca e rossa.
Bianca-Neve è quasi morta,
o ufficialmente morta. Scolorita. Specchio
dice la verità freddamente.
E l’anticamera reale.
Non è nella terra nera.
E’ intatta nel vetro.
Animali la piangono.
Bianca pare dormire per sempre.
Accenna un semi- sorriso.
Viene ammirata da uno
ch’ella ama immediatamente;
o in un breve susseguirsi di momenti
comincia la passione.
E il cuore della ‘madre’
è accartocciato;
invidia ha bruciato i suoi palpiti.
Vita dura.

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philippe beck poet

philippe beck poet

(Da “Biancaneve” ) Traduzione: Trinita Buldrini
*
POÈME LIMINAIRE (UN VOLUME)
Un volume
sans vieillesse
est un groupe de tuyaux
du savoir sonore
comme en amour
un tuyau secondaire sonorise quelquefois
l´orgue silencieux :
tout seul, son tube fondamental se tait.
Le tube doré et silencieux
a besoin
du tuyau secondaire
pour être public.
Il y a un tuyau
du coeur d´un auteur
au coeur d´un public ;
et ce tuyau
est le canal secondaire
d´un orgue
dans le livre.
Noyau secret de conviction :
il y a de la chaux dans la craie
qui maquille la face du clown
vedette.
Un Hercule en habit
peut bien s´armer du tube
de blanc de plomb pour peindre
le soleil,
n´empêche. Le plomb est aussi
dans l´idée du soleil.
Mais le chanteur
n´est pas seulement
comme la femelle du canari :
il doit bien chanter,
et sans hourra spirituel.
Comme dit Stevenson :
je vais publier un livre de – hum – vers.
Bien.
POESIA PRELIMINARE (UN VOLUME)
Un volume
senza vecchiaia
è un gruppo di canne del sapere sonoro
come in amore
una canna secondaria sonorizza talvolta
l’organo silenzioso:
sola, la canna principale tace.
Il tubo dorato e silenzioso
ha bisogno della canna secondaria
per essere pubblico.
C’è una canna
dal cuore di un autore
al cuore di un pubblico;
e questa canna
è il canale secondario
di un organo
nel libro.
Nucleo segreto di convinzione :
c’è della calce nel gesso
che trucca la faccia di un capo
clown.
Un Ercole in marsina
può certo armarsi del tubetto
di biacca per dipingere
il sole,
niente lo vieta. Anche il piombo
è nell’idea del sole.
Ma il cantante
non è solo
come la femmina del canarino:
deve cantare bene,
e senza urrà spirituale.
Come dice Stevenson :
pubblicherò un libro di – ehm – versi.
Bene.
Traduzione: Trinita Buldrini
*
ON SE GARDE DE TOUCHER
On se garde de toucher,
on fuit,
si on est sage,
le poète maniaque.
Les enfants
lui donnent
la chasse, et, imprudemment,
le suivent.
Si,
déclamant ses vers
la tête haute
et allant au hasard,
il tombe par mégarde
dans un puits ou une fosse
comme l´oiseleur
qui piste les merles,
il peut bien crier
sur tous les tons :
Au secours! holà!
citoyens!,
nul ou quasiment
ne va le tirer de là.
D´ailleurs,
comment savoir
s´il n´est pas tombé
au trou
sciemment
et s´il acceptera
de l´aide?
Empédocle
Veut passer
pour un dieu :
il se jette
de sang-froid
dans l´Etna qui chauffe,
et laisse avec vista
derrière lui,
au bord du feu
des sandales parlantes.
Sauver un poète
malgré lui,
c´est le tuer,
s´il s´est
pour de bon
intoxiqué
d´une mort magnifique
et historique.

.

(Stance d´après Horace, Epître aux Pisons)
© Al Dante
From: Le Fermé de l’époque
Romainville: Al Dante, 2000
SI EVITA DI TOCCARE

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Si evita di toccare,
si fugge,
se si è avveduti,
il poeta maniaco.
I bambini
gli danno
la caccia e, imprudenti,
lo inseguono.
Se,
declamando i suoi versi
a testa alta
e andando a casaccio,
cade sbadato
in un pozzo o in un fosso
come l’uccellatore
in cerca di merli,
può anche gridare
in tutti i toni :
Aiuto ! olà !
cittadini !,
nessuno o quasi
andrà a toglierlo di là.
D’altronde
come sapere
se non è caduto
nel buco
a bella posta
e se accetterà
aiuto?
Empedocle
vuole passare
per un dio :
si getta
a sangue freddo
nell’Etna che ribolle,
e lascia, previdente,
dietro di sé,
ai bordi del fuoco
dei sandali parlanti.
Salvare un poeta
suo malgrado,
è ucciderlo,
se si è
per davvero
intossicato
di una morte magnifica
e storica.
.
(Stanza da Orazio, Ars poetica) Traduzione: Donata Berra
http://www.lyrikline.org/en/poems/poeme-liminaire-un-volume-735

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Pierre de Ronsard – Les Derniers Vers, da Oeuvres Complètes (Gallimard). Traduzione di Annamaria De Pietro, con una sua Nota di traduzione 

venezia ballo

Il gioco dell’Altro

Pierre de Ronsard nacque nel castello della Possonnière, Vendôme, nel 1524, figlio di un gentiluomo di corte e uomo d’armi amante della cultura. Introdotto a 12 anni a corte in qualità di paggio del Delfino, dopo una serie di viaggi al seguito del re il suo avvenire a corte fu gravemente compromesso da una malattia che lo rese sordo e lo indusse a orientare la propria vita verso gli studi letterari. Ricevuta la tonsura nel 1543, iniziò a dedicarsi allo studio dei classici frequentando le lezioni dell’ellenista e filologo Dorat e avendo come compagni di studio Jean Antoine de Baïf, Joachim du Bellay e altri, con i quali costituì il nucleo della nuova scuola poetica che nel 1556 designò con il nome di Pléiade. Ben presto considerato la figura più rappresentativa della giovane scuola, iniziò la sua sterminata serie di pubblicazioni nel 1550 (non citeremo qui tutte le sue opere: sarebbe un elenco lunghissimo) con una raccolta in quattro libri, Les Odes, di ispirazione pindarica e oraziana. Non pago della lezione classica e alla ricerca di nuove formule espressive cui adattare la lingua francese, fu petrarchista nella raccolta Les Amours (1552-78), ispirati dall’amore per Cassandra Salviati, rustico e faceto nelle Folastries (1553), spontaneo e naturale nella Continuation (1555) e nella Nouvelle Continuation des Amours (1556), quasi alla ricerca di un consenso popolare, sorprendente nell’aristocratico programma della Pléiade.

Poeta ufficiale di corte dal 1558 sotto Enrico II, scrisse numerose poesie di circostanza, riunite nel 1565 nelle Elegies, Mascarades et Bergerie. Tentò anche la poesia epica, tracciando nella Franciade il disegno di un grande poema sulle origini della dinastia reale di Francia: vi lavorò a lungo, incoraggiato da Carlo IX, ma pubblicò (1572) solo quattro dei ventiquattro canti progettati, e poi abbandonò il progetto alla morte di Carlo IX (1574).

Col declino a corte, deluso e infermo, trovò una nuova fonte di ispirazione nell’amore per una dama di compagnia di Caterina de’ Medici, Hélène de Surgères, che gli fece ritrovare la grazia dei primi poemi d’amore nel ciclo dei Sonnets pour Helene (1578), cui si affiancano il Seconde Livre des Sonnets pour Helene e il ciclo Sur la mort de Marie, nei quali ritrova l’ispirazione petrarchista, ma con minore artificio. Sempre nel 1578 appare, nella quinta edizione delle sue opere, una sezione, Sonnets et Madrigals pour Astree, dedicata a Françoise Babou de la Bourdaisière, dame d’ Estrée.

Nel ritiro dei suoi priorati, curò periodicamente e puntigliosamente le edizioni complete della sua opera e dettò prima di morire i Derniers vers (pubblicati postumi nel 1586), di un realismo doloroso, ma non privo d’ironia, nella rappresentazione della vecchiaia e della malattia. Morì a Saint-Cosme-en-l’Isle (Tours) nel 1585.

venezia Lorenzo Lippi Allegorie della simulazione

Il gioco dell’Altro

Stances

J’ay varié ma vie en devidant la trame
Que Clothon me filoit entre malade et sain,
Maintenant la santé se logeoit en mon sein,
Tantost la maladie, estreme fleau de l’ame.

La goutte ja vieillard me bourrela les veines,
Les muscles et les nerfs, execrable douleur,
Montrant en cent façons par cent diverses peines
Que l’homme n’est sinon le subject de malheur.

L’un meurt en son printemps, l’autre attend la vieillesse,
Le trespas est tout un, les accidens divers –
Le vray tresor de l’homme est la verte jeunesse,
Le rest de nos ans ne sont que des hivers.

Pour long temps conserver telle richesse entiere
Ne force ta nature, ains ensuy la raison,
Fuy l’amour et le vin, des vices la matiere,
Grand loyer t’en demeure en la vieille saison.

La jeunesse des Dieux aux hommes n’est donnee
Pour gouspiller sa fleur: ainsi qu’on voit fanir
La rose par le chauld, ainsi mal gouvernee
La jeunesse s’enfuit sans jamais revenir.

Stanze

Ho sbrogliato la vita imbrogliando le premesse
di un destino inventato in salute e in malattia –
talora fu salute, fiore di cortesia,
talaltra malattia, e batteva la messe.

Venne vecchiaia, e la gotta boia che i nervi e le vene
e i muscoli mi trasse mi trae con le ritorte,
dicendo in cento modi, facendo in cento pene
che la vita di un uomo non è che malasorte.

Chi falcia primavera, chi invecchia la vecchiezza,
ma è una la morte, spina a minuti spini esterni –
unica cifra all’anno è la verde giovinezza,
tutto il resto non è che un’annata d’inverni.

Per conservare a lungo quel verde vitalizio
non forzare il tuo segno, e segui la ragione:
fuggi il vino e l’amore, semenzai di ogni vizio –
raccoglierai da vecchio, nell’ultima stagione.

La giovinezza è dio, brevemente immortale.
Tu non gualcirne il fiore – cosí come i rosai
per troppo sole perdono la rosa, spesa male
giovinezza si perde, lei che non torna mai.

 

venezia 5

Sonets

I

Je n’ay plus que les os, un Squelette je semble,
Decharné, denervé, demusclé, depoulpé.
Que le trait de la mort sans pardon a frappé,
Je n’ose voir mes bras que de peur je ne tremble.

Apollon et son filz deux grans maistres ensemble,
Ne me sçauroient guerir, leur mestier m’a trompé,
Adieu, plaisant soleil, mon oeil est estoupé,
Mon corps s’en va descendre où tout se desassemble.

Quel amy me voyant en ce point despouillé
Ne remporte au logis un oeil triste et mouillé,
Me consolant au lict et me baisant la face,

En essuiant mes yeux par la mort endormis?
Adieu chers compaignons, adieu, mes chers amis,
Je m’en vaiy le premier vous preparer la place.

Sonetti

I

Io sono un mucchio d’ossa, al mio scheletro assomiglio,
senza piú carne, e nervi, e muscoli, e struttura,
evito di guardarmi per non farmi paura
ché in me senza perdono morte prova l’artiglio.

Neanche il fiore dei medici, il primario e suo figlio,
saprebbero guarirmi – sbaglierebbero cura.
La luce è andata via dalla camera oscura,
io piano piano vado dove tutto è scompiglio.

Da quel che fui e non sono gli amici vanno via
portandosi negli occhi lacrime e nostalgia,
gli addii in una carezza di lievissimo accosto.

Io ormai sto sempre a letto, e tengo gli occhi chiusi,
e penso amici addio, miei carissimi intrusi,
me ne andrò io per primo, vi terrò caldo il posto.

II

Meschantes nuicts d’hyver, nuicts filles de Cocyte
Que la terre engendra d’Encelade les seurs,
Serpentes d’Alecton, et fureur des fureurs,
N’aprochez de mon lict, ou bien tournez plus vitte.

Que fait tant le soleil au gyron d’Amphytrite?
Leve toy, je languis accablé de douleurs,
Mais ne pouvoir dormir c’est bien de mes malheurs
Le plus grand, qui ma vie et chagrine et despite.

Seize heures pour le moins je meur les yeux ouvers,
Me tournant, me virant de droit et de travers,
Sus l’un, sus l’autre flanc je tempeste, je crie,

Inquiet je ne puis en un lieu me tenir,
J’appelle en vain le jour, et la mort je supplie,
Mais elle fait la sourde, et ne veut pas venir.

II

Brutte notti d’inverno, nebbie di grigio inferno
che la terra svapora dal suo fuoco profondo,
groviglio di serpenti, furore furibondo,
state via, o piú veloci rigiratevi al perno.

Il sole dorme in mare, nel lungo fiume esterno,
io dentro in veglia avvito la vite e lo sprofondo
dei mali al perno dritto dell’insonnia, il piú immondo
dei mali, il male grigio che i mali prende a scherno.

Per sedici ore almeno mi sto, gli occhi sbarrati,
girandomi e voltandomi da tutti quanti i lati
fianco scambiando a fianco, e smanio, e grido forte,

ma spinge l’inquietudine stridendo le altalene,
e io chiamo invano il giorno, e supplico la morte,
ma quella fa la sorda, e non viene, non viene.

III

Donne moy tes presens en ces jours que la Brume
Fait les plus courts de l’an, ou de ton rameau teint
Dans le ruisseau d’Oubly dessus mon front espreint,
Endor mes pauvres yeux, mes gouttes et mon rhume.

Misericorde ô Dieu, ô Dieu ne me consume
À faulte de dormir, plustost sois-je contreint
De me voir par la peste ou par la fievre esteint,
Qui mon sang deseché dans mes veines allume.

Heureux, cent fois heureux animaux qui dormez
Demy an en voz trous, soubs la terre enfermez,
Sans manger du pavot, qui tous les sens assomme.

Je n’ay mangé, j’ay beu de son just oublieux,
En salade cuit, cru, et toutesfois le somme
Ne vient par sa froideur s’asseoir dessus mes yeux.

III

In questi giorni in cui l’inverno gira il carro
grigio a giri piú stretti, tu con la tua bacchetta
tinta d’oblio bagnandomi dell’acqua benedetta
addormentami gli occhi, e la gotta, e il catarro.

Dio, regala la notte a me, che gli occhi sbarro –
morta è la notte. O, in cambio, dammi una morte netta
di peste nera, o febbre, e sguinzaglia la saetta
verde al mio sangue secco di un guizzante ramarro.

Felicissimi voi, animali che giacete
per tutto un mezzo anno nelle tane segrete,
e non sapete il papavero che i sensi, il senso toglie.

Io so come si mangia, e so come si beve,
crudo, cotto, in decotto, ma il sonno non si scioglie,
ma non si scioglie il grigio girando in fresca neve.

IV

Ah longues nuicts d’hyver, de ma vie bourrelles,
Donnez moy patience, et me laissez dormir,
Vostre nom seulement, et suer et fremir
Me fait par tout le corps, tant vous m’estes cruelles.

Le sommeil tant soit peu n’esvente de ses ailes
Mes yeux tousjours ouvers, et ne puis affermir
Paupiere sur paupiere, et ne fais que gemir,
Souffrant comme Ixion des peines eternelles.

Vieille umbre de la terre ainçois l’umbre d’enfer,
Tu m’as ouvert les yeux d’une chaisne de fer,
Me consumant au lict, navré de mille pointes.

Pour chasser mes douleurs ameine moy la mort.
Hà mort, le port commun, des hommes le confort,
Viens enterrer mes maux, je t’en prie à mains jointes!

IV

Notti lunghe d’inverno, mie carnefici a vita,
perdonate un riposo al mio traino di dies irae,
gli araldi della notte – Non potrai piú dormire –,
gl’infermieri di giorno, l’astanteria gremita.

Neanche l’ombra del sonno mi sfiora con le dita
questi occhi sempre aperti, e dilatano le spire
le rime delle palpebre, ma senza mai finire,
dilatando il serpente la sua ruota infinita.

Tu ombra per terra e inferno tornante risorgiva
m’incateni col ferro di una luce cattiva
al mio letto di chiodi, e penombra, e sudore.

Gira a questa catena per sinistra la chiave,
nel porto della morte ormeggiami la nave,
e butta in mare il grave – carico –, per favore.

V

Quoy mon ame, dors tu engourdie en ta masse?
La trompette a sonné, serre bagage, et va
Le chemin deserté que Jesuchrist trouva,
Quand tout mouillé de sang racheta nostre race.

C’est un chemin facheux borné de peu d’espace,
Tracé de peu de gens que la ronce pava,
Oú le chardon poignant ses testes esleva,
Pren courage pourtant, et ne quitte la place.

N’appose point la main à la mansine, apres
Pour ficher ta charue au milieu des guerets,
Retournant coup sur coup en arriere ta vue:

Il ne faut commencer, ou du tout s’emploier,
Il ne faut point mener, puis laisser la charue,
Qui laisse son mestier, n’est digne du loier.

V

Tu dormi, anima, dentro la tua opaca carcassa.
La tromba suona. Stringi al bagaglio i cinturini,
e va’ con Gesú Cristo al piú sperso dei cammini,
dove pieno di sangue per noi pagò la tassa.

Quella è una strada stretta, per cui a stento si passa,
per cui passano in pochi, lastricata di spini,
guardata dalle lance dei cardi ametistini.
Là ci vuole coraggio, guardia che non si abbassa.

Non prendere l’aratro, che è troppo utile arnese,
se poi dovrai piantarlo in mezzo alla maggese
e non pensarci piú, voltando gli occhi indietro –

abbandonale prima, non poi, le tue intraprese,
non metterti ad arare per lasciare l’aratro.
Un lavoro a metà non ricopre le spese.

VI

Il faut laisser maisons et vergers et Jardins,
Vaisselles et vaisseaux que l’artisan burine,
Et chanter son obseque en la façon du Cygne,
Qui chante son trespas sur les bors Maeandrins.

C’est fait j’ay devidé le cours de mes destins,
J’ay vescu j’ay rendu mon nom assez insigne,
Ma plume vole au ciel pour estre quelque signe
Loin des appas mondains qui trompent les plus fins.

Heureux qui ne fut onc, plus heureux qui retourne
En rien comme il estoit, plus heureux qui sejourne
D’homme fait nouvel ange aupres de Jesuchrist,

Laissant pourrir ça bas sa despouille de boue,
Dont le sort, la fortune, et le destin se joue,
Franc des liens du corps pour n’estre qu’un esprit.

VI

Ora: sgombrare casa, e frutteti, e giardini,
e stoviglie e paccottiglie, sostanze d’artificio,
ripiegare le ali, e cantarsi l’ufficio
come i cigni sui sassi dei fiumi damaschini.

Chiuso. Ho sbrogliato il filo di tutti i miei destini,
ho vissuto, al mio nome ho elevato alto edificio,
alta sui tetti al vento l’insegna alza l’auspicio,
in basso ad uno ad uno si smorzano i lustrini.

Felice chi non nacque, piú felice chi torna
al suo niente lontano, felice chi soggiorna
nella casa degli angeli accanto a Gesú Cristo

abbandonando ai vermi la sua spoglia corrotta
che fu al caso e alle sorti giocosa bancarotta –
libero finalmente, non sentito, non visto.

Pour son tombeau

Ronsard repose icy qui hardy dés enfance
Détourna d’Helicon les Muses en la France,
Suivant le son du luth et les traits d’Apollon:
Mais peu valut sa Muse encontre l’eguillon
De la mort, qui cruelle en ce tombeau l’enserre,
Son ame soit à Dieu, son corps soit à la terre.

Per la sua tomba

Qui riposa Ronsard. Dal suo piú verde oriente
delle muse francesi seminò la semente,
e in musica e parole inseguì la sua canzone.
Ma poesia non ha lima che spunti lo sperone
di morte, che fa forza in questo luogo profondo.
L’anima sia di Dio, Pierre Ronsard sia del mondo.

À son ame

Amelette Ronsardelette,
Mignonnelette doucelette,
Treschere hostesse de mon corps,
Tu descens là bas foiblelette,
Pasle, maigrelette, seulette,
Dans le froid Royaume des mors:
Toutesfois simple, sans remors
De meurtre, poison, ou rancune,
Méprisant faveurs et tresors
Tant enviez par la commune.
Passant, j’ay dit, suy ta fortune
Ne trouble mon repos, je dors.

Alla sua anima

Anima piccola,
Ronsarde, ma piú piccola,
vaga, piccola, dolce, piccola,
ospite amica del mio corpo,
tu discendi laggiù debole, piccola,
pallida, rigida, piccola piccola,
dentro il freddo Reame morto –
eppure semplice, senza un rimorso
di bile nera, veleno o spada,
a ori e favori voltando il dorso,
cui il mondo tanto bada.
Passante, ho detto – tu segui la tua strada,
non disturbare, dormo.

pittura ritratti-di-donna

Nota di traduzione di Annamaria De Pietro

M’innamorai di Pierre Ronsard al ginnasio, sul bel libro di letteratura francese di Margherita Tesio con uno Chardin in copertina. Erano, in grafia modernizzata, i celeberrimi Quand vous serez bien vieille, au soir à la chandelle e Mignonne, allons voir si la rose; due, ma bastarono.

Passarono gli anni, e un bel giorno del 2005 li tradussi. Ma non bastava, e allora comprai le Oeuvres complètes, Editions Gallimard, e si aprirono le cateratte di un innamorato possesso: in un anno e mezzo tradussi più di trecento testi.

Entravo come in un bosco in quella lingua tanto diversa dal francese moderno, una lingua scagliosa, ruvida, stagna, piena di consonanti, come le tante esse non ancora dileguate sotto il tettuccio dell’accento circonflesso in parole come esté o eslever, irta di iniziali maiuscole in selva stretta, affidata a una grafia mutevole, non ancora stabilizzata, e per ciò stesso sorprendente, da pronunciare in modo diverso rispetto alla pronuncia attuale: ai tempi di Ronsard, il guerresco, l’elegante Cinquecento francese, non esistevano ancora la u uvulare e la erre uvulare (l’erre moscia che per noi oggi è tratto distintivo di quella lingua); permanevano desinenze poi cadute in desuetudine, come ad esempio nell’affascinante enchanteresse (incantatrice); all’imitazione petrarchesca retrostava qualcosa di medioevale, in quel viaggio di passaggio coscientemente navigato da Ronsard con il gruppo della Pléiade del quale fu il più grande rappresentante, verso una poesia seducente, arricchita dai mille aspetti della lingua, da un apparato di parole che, secondo la sua dichiarata intenzione, attingesse anche all’uso, alla vasta terminologia degli oggetti concreti, dei manufatti, dei mestieri, degli artigiani, dei marinai, dei sarti; e dei geografi, dei pittori, e ai dialetti di Francia, e al disusato, e alla Grecia, e a Roma, in una cerca vagabonda che fra le cose esatte, concrete del mondo postulava lontano il desiderio di congiungersi con l’unità di Dio. In Ronsard c’è la Grecia, c’è Roma, c’è Petrarca, in un delizioso sonetto giocoso fa capolino il trecentesco Roman de la Rose; e c’è la vita fisica e concreta dei luoghi e delle imprese di Francia, c’è lo smagliare della corte, che lui servì non solo ricoprendo incarichi ufficiali, ma anche come un sia pur discusso (secondo il topos dell’allontanamento dalla corte falsa e ingannatrice per una fuga in una mitologica, letteraria zona di autenticità del sentire) faro di ricchezza, e potere accostabile in minore al potere assoluto della divinità. In una lettera a un giovane poeta, manifesto di poetica, consiglia appunto di occupare il più vasto spazio poetico possibile, coltivare tutti i generi (è quello che R. fa); suggerisce una poetica della varietà e dell’abbondanza, un’imitazione vagabonda che corrisponda a un vagabondaggio nella natura, nell’interesse a tutte le scienze, che è solo del re, oltre che del poeta. Addita un senso della corporeità curioso e mutevole, che lui pratica, contro il platonismo alla moda, fino alla malizia di una sensualità acuta e felice, marezzata qua e là di un’elegante, serena ambiguità sessuale. E, dopo una disamina dei metri francesi e di tutti gli attrezzi dello stile, conclude: «La regola più perfetta è nel tuo orecchio».

Ronsard era attratto dal cambiamento, dalla metamorfosi delle cose create, che sparsamente racchiudono in sé il divino, che sono, una per una, tutti i nomi di dio. Così negli dèi greci, che tanto spesso appaiono nei suoi testi, vede la nominazione vicaria di tutte le operazioni di Dio, dispersione ricchissima di quell’unità ordinante che è e resta l’aspirazione ma che può essere attinta solo nel mutevole disperso, del quale fa parte la morte. Ma, a mio parere, anche di fronte alla morte non demorde un suo sottilissimo umorismo, che anche in questi Ultimi versi traluce nella spietata, circostanziata cognizione, ricognizione del dolore fra le spire del pavot, il papavero, l’oppio cui si avvezzò da giovane per combattere l’insonnia.

Fra desiderio pressante di unità e acribia sottilissima applicata ai dati, alle cose, si pone il suo fare e rifare più volte edizioni di Oeuvres complètes: è il tentativo di fare del suo libro se non l’immagine dell’unità almeno il suo simulacro.

E così, via via che traducevo sempre più m’innamoravo di quest’uomo simpatico, umorista, attivo, sportivo, coltissimo, addolorato con sobrietà subito pronta a mutarsi in scherzo, innamorato forse solo dei nomi (Cassandra, Elena, icone letterarie, come suggerisce Jaqueline Risset), ma secondo me innamorato davvero, con melanconica, e sorridente, e maliziosa sensualità – di donne vere; curiosissimo del mondo (prediligeva i libri dei geografi, quelli che misurano l’universo), seguiva tutte le scienze. E, forse sulla scorta del suo amore per la metamorfosi, mi costruivo un mio spirito della traduzione.

Che necessariamente deve tradire in qualche maniera, da qualche parte. Io ho deciso, istintivamente, subito, prima di leggere la prefazione dei curatori e la sua lettera-poetica al giovane poeta, di tradire sul versante della fedeltà contenutistica e semantica al testo, e di essere invece fedelissima quanto alla forma e struttura, nel rispetto della metrica, delle rime, sia in fine di verso che al mezzo, delle allitterazioni (ove è stato possibile); nel rispetto del respiro, dell’intavolatura testuale. È stato un lavoro improbo, ma di una vitalità che, giustappunto, era amore.

Fra i tradimenti perpetrati la sostituzione degli dèi antichi con i fenomeni naturali o di situazione corrispondenti, ove concretamente si declinano i poteri, sostituzione che, mi sono accorta dopo aver letto la prefazione e la lettera teoretica, seguiva senza saperlo il suo criterio di riduzione dell’iconico astratto alla terrena concretezza. Ancora, la delocazione da un verso all’altro di tessere di significato, seguendo in molti casi il filo di un’analogia sonora, o semantica, che dall’allontanamento infedele ricostruisse una fedeltà errante, non parola per parola, ma per così dire scaturita dalla visione dall’alto di una mappa i cui elementi potevano essere spostati sì, ma a patto che alla fine, chiuso il cerchio, la mappa restasse quella mappa, al traino della trasformazione vagabonda che tanto gli piaceva. E ancora, sempre lungo una linea di concretizzazione, oggettivazione dentro il mondo visibile, ho trasferito portata e significato di situazioni, comportamenti, sentimenti soggettivi in correlativi concreti, che riflettono il ronsardiano amore per la varietà del mondo. Spesso ho calcato la mano, accentuando i registri, dal doloroso all’amoroso, sensualissimo, fino al buffo, come per spremerne, chissà, fino all’ultima goccia la densità del dettato. Forse mi sono illusa, forse ho fatto un’operazione riprovevole, ma io sentivo, sentivo onestamente, che quell’uomo adorabile così io non lo tradivo. Purtroppo non potrò avere la sua opinione. Mi piacerebbe.

Devo comunque precisare che tutte queste delocazioni traditore io le ho attuate non in base a un predisposto, premeditato progetto; sono venute potrei dire spontaneamente, e solo rileggendo a posteriori, e confrontando i passi del lungo lavoro a fronte dei testi originali, tali delocazioni mi sono apparse come criterio unificante, come modo del tradurre. Ma questo accade sempre nella scrittura poetica, anche in quella in proprio, nella quale ci si confronta con sé stessi a salti e scavalcando.

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Pierre de Ronsard

LES DERNIERS VERS: sono nove testi, scritti poco prima di morire nel lago grigio dell’insonnia. Alcuni li ha dettati ad amici dopo averli pensati di notte, fino all’ultimo vivo e in cerca, fino all’ultimo grandissimo poeta; ronce ardant, secondo l’etimologia favolosa che si compiaceva di costruire attorno al suo cognome. Fra la foresta e Dio, roveto ardente.

Desidero soffermarmi sui luoghi testuali nei quali più chiaramente e compiutamente appaiono i miei numerosi tradimenti. Per darne ragione, per tentare di giustificarne l’amorosa necessità smontandoli e rimontandoli con piccoli attrezzi scovati a volte in chissà quali ripostigli e da ogni dove. La traduzione è una traversata lunga, e ha bisogno di assai variegata attrezzatura e ugualmente di oggetti minimi e umilissimi. È una pratica impura, piena di scorie e frammenti, e di impreviste lontananze, e lei passando fa la chiama.

Per la mitologia naturalizzata non porto esempi: i casi sono lì da vedere.

STANCES

  1. 3. se logeoit en moin sein si accresce in fiore di cortesia, che è l’ospitalità. Inoltre fiore anticipa il printemps al v. 9;
  2. 4. batteva la messe (operazione che si faceva con il pascoliano correggiato) si rifà all’extreme fleau: flagello come correggiato;
  3. 9. invecchia interpreta a orecchio attend: la vecchiezza prolunga l’attesa (non si parla forse di ‘attesa di vita’?); chi muore giovane ha poco da attendere.

SONETTO I

  1. 5. La sfumatura umoristica dell’incapacità terapeutica di Apollon et son filz è stata rafforzata trasformando Apollo nel primario in virtù della consueta riduzione degli dèi alla loro funzione, professionale in questo caso;
  2. 7. mon oeil est estoupé, per lo spostamento dal soggetto a una cosa concreta, diventa la luce è andata via dalla camera oscura; e la camera oscura è un apparecchio, un attrezzo, consono ai suoi multiformi interessi;
  3. 9. despouillé diventa quel che fui e non sono, introducendo dolorosamente un confronto, una storia di vita. Irredimibile declino espresso con strazio grammaticale da quella sequenza affannata di de-.

SONETTO II

  1. 5 > v. 6. gyron (grembo) ha, io credo, indotto, per virtù di paretimologia sonora, avvito la vite: avvitare è un girare. Inoltre Anfitrite, che io traduco con lungo fiume esterno, è la madre dell’acqua contenitrice, tutt’attorno. Ma avvito la vite anticipa me tournant, me virant de droit et de travers al v. 10, che pure ha al corrispondente v. 10 la sua traduzione quasi letterale;
  2. 8. chagrine ha probabilmente evocato il grigio per virtù di suono;
  3. 12. ancora trasferendo da persona a cosa, je ne puis en un lieu me tenir diventa spinge l’inquietudine stridendo le altalene, ed è possibile che stridendo abbia a che fare con inquiet. Ruggine?

Nei quattro versi centrali delle quartine la cupa e rimbombante e aggirante rima in –ondo si fa carico dell’aura fosca che domina il sonetto.

SONETTO III

  1. 6. à faulte de dormir diventa acrobaticamente morta è la notte. La mancanza del sonno si massimalizza e oggettiva nella mancanza della notte, nel suo mancare, nella sua morte;
  2. 8. da allume prende splendore il guizzante ramarro, guizzante come il pulsare della febbre;
  3. 11, 12 e 13. Il pavot, il papavero da oppio, il cui orrore si stringe in un’elegantissima climax di operazioni che sanno di cucina, preparazioni degne di un’insalata, di un minestrone. Ecco un esempio fulgente del suo senso dell’umorismo, che anche negli eventi più tragici trova un giro di garbo e d’ironia, come è evidente anche nei molti testi ‘in morte di’ …. Il suo lutto non è tombale, è un esercizio di alto magistero di trasfigurazione, di clemenza verso il male cercata e colta negl’infiniti prati del mondo.

SONETTO IV

  1. 3. vostre nom seulement si dilata in gli araldi della notte – Non potrai più dormire – La potenza del nome: il nome, che è pronuncia e identificazione, diventa esso stesso voce che dichiara e comanda;
  2. 8. dilatando il serpente la sua ruota infinita ingloba materialmente Issione e la sua ruota infinita, un tormento ciclico che non potrà finire, come il serpente che eternamente si mangia la coda;
  3. 9. L’intrigante, perturbante immagine della risorgiva forse rende l’ainçois, il ripensamento, il voltarsi a guardare indietro, dove la seconda ipotesi, la seconda istanza (astanza provvisoriamente occulta),l’enfer, oscuramente minaccia il suo ritorno alla prima, la terre;
  4. 11. consumant, la complessiva consumazione dell’infermo, si concretizza, verso il fuori nella penombra, verso il dentro nel sudore;
  5. 12. la mort sinistramente diventa il giro della chiave per sinistra;
  6. 13 e 14. le port si amplia trasformando il luogo-loculo terrestre (enterrer mes maux) in un vasto luogo di mare, ove il grave – carico per virtù di suono ha acquisito pesantezza dalla pesantezza intrinseca alla parola enterrer.

SONETTO V

È meraviglioso, triste, sobrio, concentrato in un senso da trovare, lontano, oltre il soffrire; ma prima, adesso, concentrato nello sguardo attento verso quel mondo pieno di cose e attrezzi, amorosamente accarezzati e guardati per l’ultima volta, che è tutta la nostra vita. È come un apologo di blanda saggezza, un racconto fatto all’angolo del camino per dei bambini che ascoltano, un po’ incantati un po’ impauriti.

  1. 2. serre bagage mi è diventato, sempre in ossequio alla minuta concretezza, stringi al bagaglio i cinturini (sia detto a margine:-ini è una rima difficilissima, un po’ come –ato).
  2. 7. le chardon poignant ses testes esleva. Qui le delocazioni traditore sono più d’una, ma strettamente intrecciate: nelle loro sommità i cardi sono ametistini; l’ametista è materia dura, e nobile, cardinalizia, quindi altera e superba; e infatti il cardo superbamente ses testes esleva;
  3. 8. ne quitte la place condivide con guardia che non si abbassa l’ambito della terminologia militare.

SONETTO VI

Anche questo è meraviglioso, scalando da un’urgenza battente piena di cose e ingombri e impacci (urgenza che io ho reso più urgente, quasi a suon di tamburo) a un progressivo rallentare, e svanire, e riposare, finalmente. Ma quel che resta e domina tutto è la sua arte orgogliosa, consapevole del proprio altissimo, non mortale valore.

  1. 2. Da vaisselles et vaisseaux a stoviglie e paccottiglie. Qui mi era Indispensabile preservare l’autorità sensante, significante dell’allitterazione. Ma, da lingua a lingua, non potevo conservare le esse intense, che dicono l’opacità, la pesantezza grigia da pietra pomice delle vanità del mondo, che porta giù e mortifica l’anima prossima all’estremo volo al confronto (ma quanto sono vitali queste cose, quanto si staglia e conta l’artisan mastro d’opra fina). Quindi, rispettando il significato dei termini, ho fatto ricorso all’allitterazione fra i gruppi –gl-, che, dall’altro canto , delle vanità del mondo rappresentano per suono il luccicare, il micare un po’ isterico al suono di sonagli, una frivolezza nobile, smagliante, anacronisticamente dico – fragonardesca;
  2. 3. Il Cygne scompare, rappresentato da quello che fa morendo, e, soprattutto, dal suo ripiegare le ali;

v- 4. les bors Maeandrins trasferiscono la loro serpentina tortuosità di riva alla marezzatura d’acqua dei fiumi damaschini, dallo stare all’andare. E il damasco è tessuto d’Oriente, proprio come fiume d’Oriente è il Meandro, compagni di luce mobile;

  1. 7. Dalla plume, che potrà essere signe, sintetizzando volo e suono in grande scala, pantografando, nasce l’insegna. E, in declinazione feriale, comune, l’insegna vola sui tetti, mentre la penna volava al cielo.
  2. 8. fra loin e in basso, che non ha corrispettivo nel testo originale, ho collocato il differenziale fra il luogo d’arrivo e il luogo di partenza del volo, il volo della penna-insegna, il volo dell’arte, che è alto edificio;
  3. 9 e 10. Un po’ complicato: da sejourne si è propagginata la casa, che è la casa degli angeli, meta e localizzazione fisica e cordiale per chi morendo è d’homme fait nouvel ange;
  4. 14. I liens du corps si trasferiscono dal morto a chi resta, e non lo vede più, non lo sente più. La libertà dai sensi da soggettiva diventa oggettiva, e così in qualche maniera, passato il testimone ai vivi, resta essa stessa viva.

POUR SON TOMBEAU

Vv. 1 e 2. Il suo più verde oriente è allo stesso tempo l’enfance ed Helicon, monte che sta ad oriente, verdeggiante miniera di poesia;

  1. 3. Apollon diventa la sua canzone, esito di un doppio inseguimento ad andata e ritorno: lui segue les traits (gli strali) d’Apollon, e insieme da quei traits è inseguito. Quest’uomo è deliziosamente complesso.
  2. 6. son corps traslittera nel suo nome e cognome, Pierre Ronsard a chiare lettere, in ossequio al suo dichiarato antiplatonismo: lui è il suo corpo, e questo, racchiuso nel suo nome, lo dona al mondo, che dall’opaca indeterminatezza della terre staglia lo spazio delle relazioni; lo dona ai suoi lettori, gl’interlocutori della fatica vagabonda, ordinante, di tutta una vita.

Mon ame soit à Dieu: ma Dio è così lontano, così unitario, così bisognoso del nostro conferirgli, di cosa in cosa, gl’innumerevoli frammenti di un corpo. Dedica di dovere formulare, ça me samble.

À SON AME

I primi sei versi traducono con levità prossima alla frivolezza la celeberrima Animula vagula blandula dell’imperatore Adriano. Nei versi successivi si declina, nell’ossequio ad un topos classico, una misurata tristezza, orgogliosa di non aver fatto del male.

Ho immediatamente scartato l’ipotesi di rendere con diminutivi i diminutivi originari. Il diminutivo in –ina mi sembrava terribilmente bamboleggiante; quello in –etta, rispettoso dell’originale e comunque più solido e asciutto, era d’altra parte appesantito dalla a finale, che inchioda, laddove la e indistinta della desinenza francese alleggerisce in levare. Non parliamo poi di una possibile –uccia, alle cui spalle stava inesorabile l’Ariannuccia leggiadribelluccia del Bacco in Toscana.

E allora ho delocato il senso della diminuzione in un aggettivo molto semplice, piccola. L’operazione, allargando le maglie del tessuto, mi ha costretto ad inserire un verso in più; ma non fu peccato, credo, perché il verso in più non fa che prolungare il timoroso blasone dell’anima e ritardare per un poco, per quel poco che si può, l’ingresso nel regno dei morti.

  1. 1> v.2. Ronsardelette, che al mio orecchio suona come un aggettivo o tutt’al più un’apposizione, diventa Ronsarde, ma più piccola. Ronsarde è un nome, è il suo nome trasformato dall’essenza femminile dell’anima (esempio ultimo e specioso di una giocosa ambiguità sessuale) sulla soglia dell’ultima porta, dell’ultima giravolta del creato.
  2. 10 > v. 9. Il soggettivo rancune si oggettiva in bile nera, che oltretutto è un termine tecnico della medicina.

Temo che questa disamina sia troppo lunga, ma scrivendo ho messo da parte i buoni proponimenti preparatori perché mi era (mi è) necessario rendere ragione del mio lavoro, e questo a mio parere poteva essere fatto (naturalmente a posteriori) soltanto lungo una verifica testuale dei temi e dei loro esiti formali, quelli di Pierre Ronsard, e così i miei.

Perché tradurre è la sfida del confronto, che si esplica in un canto amebeo nel quale ad andata e ritorno le ragioni, e così le irragioni, s’incrociano in filze e pause di parole, solo parole uguali al tutto. Per quel pochissimo che possiamo saperne.

Annamaria De Pietro è nata a Napoli, dove ha vissuto fino all’adolescenza, da padre napoletano e madre lombarda. Vive da tempo a Milano. Ha cominciato a scrivere non occasionalmente, ma sempre, in età matura. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005), col quale paga il suo tributo alla città d’origine, poco amata, mai più visitata. Nell’ottobre del 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012). Ultima pubblicazione Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Primo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2015).

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POESIE SCELTE di JEAN-CLAUDE IZZO (1945-2000): “Un ponte sul Mediterraneo”  Poesia francese per il blog a cura di Annalisa Comes

Cadavre exquis André Breton, Frédéric Mégret, Suzanne Muzard, Georges Sadoul, gouache sur papier noir daté du 10 janvier 1929.

Cadavre exquis André Breton, Frédéric Mégret, Suzanne Muzard, Georges Sadoul, gouache sur papier noir daté du 10 janvier 1929.

Annalisa Comes

Iniziare a occuparmi della poesia francese per il blog « L’ombra delle parole », su sollecitazione e invito del fondatore, Giorgio Linguaglossa, costituisce per me una grande avventura e un immenso piacere. In questa unione di « poesia » e « lingua francese » risiedono infatti oggi i poli della mia avventura anche domestica, privata : la poesia prima di tutto, casa e destino, scrittura (e lettura) privilegiata, e la lingua francese, lingua del quotidiano – vivendo in Francia oramai da cinque anni – e lingua dello spirito, che ho conosciuto tardi e non a scuola, attraverso la lettura (e la traduzione) della poesia francese di Marina Cvetaeva, esule russa a Parigi alla fine degli anni Venti. Poesia e lingua dunque esuli per me di loro statuto. Ponte umano di fraternità e corrispondenza contro l’isolamento e l’oblio, anzi «mano tesa fra rive senza ponte», appropriandomi dell’immagine e delle bellissime parole di Mireille Gansel nel suo libro Traduire comme transhumer (préface de Jean-Claude Duclos, Calligrammes Bernard Guillemot, Rennes 2012), di cui la stessa traduttrice italiana, Claude Cazalé Bérard, sottolinea l’importanza nella sua appassionante e commossa Postfazione :

Tradurre – e quindi ascoltare, accogliere e trasmettere per allargarne l’ascolto, rafforzarne la memoria – quei frammenti di vita e di scrittura grondanti di umana compassione, densi di esperienze condivise in situazioni di estremo pericolo (dalla DDR al Vietnam…), e tuttavia pieni di pudore e di doloroso stupore per quelle tragedie dei tempi oscuri di un Novecento colpevole di stermini e di genocidi.

     Tradurre per capire l’altro fino in fondo, nei più segreti recessi del suo linguaggio, per offrire una mano soccorrevole sopra l’abisso, lì dove non esistono più ponti, per farsi traghettatrice di parole, di testi e di culture minacciati di cancellazione, ma sempre con infinito rispetto, umiltà, semplicità, ben lungi dalle retoriche dominanti, dalle commemorazioni ufficiali, dalle speculazioni mediatiche: questo è il compito, anzi l’impegno morale che Mireille Gansel si prefisse, fin dai primi passi in una realtà ancora segnata dalle ferite delle guerre, in cerca di quello che rimaneva di umano, di vero, di bello sotto le macerie. Questa la sua lezione per chi si accinga a tradurla. Ma leggere e tradurre Mireille Gansel vuol dire anche apprendere, attraverso il suo rigoroso tirocinio, che non ci si accosta a un testo, a un’opera, a un autore senza un duplice approccio, quello della lingua e quello dell’essere al mondo di chi la vive, la parla, la scrive: dietro c’è sempre l’altro, lo straniero, l’umano nella sua diversità e il desiderio d’incontrarlo.

(C. Cazalé Berard, Posfazione a M. Gansel, Traduzione come transumanza, Pacini, Pisa 2014, p. 87).

I poeti che presenterò, in traduzioni originali, non seguiranno alcun ordine cronologico, saranno affidati al « caso » degli incontri, delle suggestioni, dei destini incrociati in qualità di semplice lettrice e « passante », nel senso attivo, transitivo del nome. Tuttavia, se sarà possibile ravvisare un sottile filo rosso che unisca le presenze, tutte vive, fertili, dei poeti in lingua francese di ieri e di oggi, questo sarà senza dubbio scaturito da una sorta di patria comune, dalla fede cioè nella universalità della poesia come resistenza e resilienza. E ancora. Rispondere con e attraverso la poesia alla barbarie dei tempi, di tutti i tempi. Lingua interiore, voce privata che si fa universale.

E forse non è un caso che questa prima voce, quella del poeta Jean-Claude Izzo, arrivi dal Mediterraneo. « Isola» di acque e terre dalle molteplici civiltà, culture, lingue, di contraddizioni, naufragi e sbarchi, di paure e sbarramenti, di accoglienze e passaggi, putroppo oggi ancor più dolorosamenti evidenti, di cui lo stesso poeta esplicita e rivendica, in modo inequivocabile, la sua appartenenza :

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Appartengo al Mediterraneo. Questo mare lo vivo, lo respiro, lo sogno, lo penso da un solo punto di vista. Quello di Marsiglia. La città dove sono nato per un caso dall’esilio di mio padre, napoletano e da mia madre, andalusa. Rivendicando tale appartenenza, rientro – ne ho piena coscienza e voi avete il diritto di saperlo – nelle categorie delle nuove « classi pericolose », così come sono definite da un importante rapporto (importante per l’avvenire dell’Europa) della Banca Mondiale. E poi ancora, arbitrari, fanatici, violenti. E anche, evidentemente, miserabili. Questo rapporto dice che siamo, noi del Mediterraneo, numerosi, indisciplinati certo migranti. Sempre in questo rapporto, la Banca Mondiale suggerisce all’Europa di erigere fra il Nord e il Sud, un confine moderno, come un ricordo della frontiera fra l’Impero Romano e i Barbari. Domani, quando il secolo si sarà spostato dalle parti di Maastricht e applicheranno allora le direttive della Banca Mondiale, parafrasando Erri De Luca, potrò allora cominciare un romanzo con queste parole : «Appartengo a un paese e a un mare barbari. Sì, forse, sfortunatamente. Eppure, dritto in piedi davanti alla diga Santa-Maria, con il volto verso il largo, e lasciando vagare i miei occhi sull’orizzonte di carghi in partenza, persisto nel mio punto di vista. Da Marsiglia, nel Mediterraneo. Sono esistite Alessandria e Tangeri. Marsiglia esiste ancora oggi. Sola, unica dunque. E bene o male, ancora in piedi. Ultima sopravvivenza degli incroci di uomini e di culture. E di fronte alle fratture, alle frantumazioni, alle frammentazioni che hanno caratterizzato e caratterizzano la storia di questo mare e delle sue due sponde, credo che il punto di vista di Marsiglia sia la sola risposta moderna alle nostre aspirazioni.  Bisognerebbe rileggere L’Esilio di Elena di Albert Camus. Come un breviario : «In questi luoghi si può comprendere che se i Greci sono arrivati alla disperazione, è stato sempre attraverso la bellezza, e in ciò che vi è di opprimente. In questa infelicità dorata, culmina la tragedia. Il nostro tempo, al contrario, ha nutrito la sua disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni. È per questo che l’Europa sarebbe ignobile, se il dolore potesse mai esserlo».  Era il 1948. Cinquant’anni dopo, lo riaffermo, se c’è un avvenire in Europa, una bellezza per l’avvenire, è in quello che Edouard Glissant chiama « la creolità mediterranea ». Questo sguardo altro sul mondo. È tutto in questo. Fra il vecchio modo di pensare, economico, separatista, segregazionista (della Banca Mondiale e dei capitali privati internazionali) e una nuova cultura, diversa, meticcia, in cui l’uomo resta padrone del suo tempo e del suo spazio geografico e sociale. Appartengo al Mediterraneo, dicevo. Tengo per mano le mie due sponde. E Oriente e Occidente. Mi dilanieranno, forse, ma l’Europa non mi farà mai abbandonare una per l’altra. Perché rivendico l’insegnamento unico di questo mare : più ci si arricchisce di culture, più il pensiero  si allarga, più il mondo si apre a noi, e più l’altro – l’altro mediterraneo, africano, asiatico e latino-americano – ci è vicino. Fratello umano. È così che penso, come il bastardo di una storia cominciata qui, a Marsiglia, duemilaseicento anni fa.

 (articolo apparso in «Télérama» del 1998; mia traduzione)

Jean Claude Izzo

Jean Claude Izzo

JEAN-CLAUDE IZZO : un ponte sul Mediterraneo

L’opera poetica di Jean-Claude Izzo (1945-2000) è pressoché sconosciuta in Italia, a parte la traduzione di qualche poesia nel bel volume di Stefania Nardini, Jean-Claude Izzo. Storia di un marsigliese, Perdisa Editore, Bologna), 2010, della poesia Terra profana da me tradotta per il blog « Poesie senza pari » di Francesco Dalessandro (6 febbraio 2013 : http://poesiesenzapari.blogspot.fr/2013/02/jean-claude-izzo.html) e di qualche altra traduzione sparsa nell’etere (una traduzione antologica più cospicua presenterò al Seminario « Traduction et traductologie », organizzato da C. Mileschi e C. Cazalé all’Université de Paris Ouest Nanterre La Défense il 13 marzo). In Francia  quasi tutti i suoi libri di poesia sono di difficile reperibilità o esauriti, tuttavia le sue prime prove sono poetiche, il primo libro, Poèmes à haute voix (Poesie a voce alta, presso P. J. Oswald) è una raccolta di poesia. E la sua ultima testimonianza, il 7 gennaio 2000, pochi giorni prima di morire è una poesia, Plage du Prophète (Spiaggia del Profeta). Marguerite Tiberti sottolinea con esattezza questa predilezione : « Jean-Claude affermava di non sapere perché scrivere poesia gli era necessario. Che gli procurava più piacere scrivere storie. Scrivere romanzi. Ma che era nella poesia che avvertiva la gioia delle parole. Una gioia associata al rischio di confrontarsi con quello che c’è di più vivo nella lingua, con la parola che non può sostituirsi all’altra. Diceva che la poesia gli era indispensabile per rimanere fedele, il più possibile fedele, all’innocenza » (in Hommage à Jean-Claude Izzo, « La pensée de midi », 2000/1 (N. 1), Actes Sud, pp. 168-180, in part. p. 172). D’altronde, anche il nome del suo famoso poliziotto, Fabio Montale, è un omaggio alla poesia (e alle sue origini italiane).

Jean Claude Rizzo L'arideFiglio infatti di un immigrato italiano, Salvatore Izzo e di Isabelle Navarro, francese di Marsiglia, figlia di immigrati spagnoli, Jean Claude Izzo, inizia a scrivere poesie e storie prestissimo, tuttavia viene indirizzato verso una scuola professionale. Nel 1963 entra come commesso in una libreria e diventa militante del movimento cattolico per la pace «Pax Christi»; l’anno successivo, chiamato a fare il servizio militare, parte per Tolone, poi è arruolato a Gibuti. Si occupa di fotografia e scrive per il giornale dell’arma. Al suo ritorno, nel 1966, riprende il lavoro e l’attività in seno al movimento «Pax Christi», dove incontra Marie Hèlene Bastianelli. Insieme entrano nel PSU (Partito socialista unificato). Nel giugno 1968, Jean Claude è candidato alle elezioni legislative a Marsiglia per il PSU e due mesi più tardi aderisce al PCF. Jean Claude ed Hèlene si sposano (marzo 1969) e si stabiliscono a Marsiglia, dove Izzo continua a militare attivamente nel PCF collaborando a «La Marseillaise Dimanche», inserto del quotidiano regionale comunista. Nel 1970, con la moglie, lascia Marsiglia e si stabilisce a una cinquantina di chilometri della grande città, nel villaggio di Saint Mitre les Remparts; lo stesso anno pubblica la sua prima raccolta di poesie Poèmes à haute voix (Poesie a voce alta) presso P. J. Oswald, trova lavoro come bibliotecario al “Comité d’Entreprise de BP Lavéra” e nello stesso tempo continua a scrivere numerosi articoli per «La Marsellaise». Nel 1971 pubblica La Commune de Marseille (La comune di Marsiglia) nella rivista «Europe». Scrive un testo teatrale per la liberazione di Angela Davis che sarà rappresentato da César Gattegno e dalla “Compagnie du Rocher”. Assunto l’anno successivo come giornalista a «La Marseillaise», cura una pagina speciale quotidiana dedicata alla costruzione del cantiere di Fos, dove dovrebbero essere installate delle officine siderurgiche e pubblica una nuova raccolta di poesie: Terre de Feu (Terra di fuoco; P. J. Oswald). Nel novembre nasce suo figlio, Sébastien. Nel 1974 pubblica la raccolta di poesie Etat de veille (Stato di veglia; P. J. Oswald), diventa redattore capo aggiunto, responsabile della rubrica cultura di «La Marsaillaise» e corrispondente ufficiale del giornale al Festival di Avignone. Seguono, negli anni immediatamente successivi, le raccolte Braises, brasiers, brûlures (Braci, bracieri e bruciature; con le illustrazioni  di E. Damofli, 1975), Paysage de femme (Paesaggio di donna; Guy Chambelland) e Le rèel au plus vif (Il reale al più vivo; Guy Chambelland, 1976). Nel 1978 esce il romanzo Clovis Hugues, un rouge du midi (Clovis Hugues, un rosso del Midi) presso J. Laffitte;  alla fine dell’anno lascia il PCF e si separa dalla moglie. Qualche mese più tardi, all’inizio del 1979, lascia «La Marseillaise» e per un anno vive in grandi difficoltà economiche. 

Nel 1980 fa i suoi primi passi nel giornale « La Vie Mutualiste », di cui sarà poi redattore fino al 1985 (la rivista che prenderà poi il nome di « Viva », di cui sarà caporedattore fino alle sue dimessioni, il 31 luglio 1987), animatore alla radio « Forum 92 », partecipa alla creazione della rivista poestica « la Revue Orione » con Bruno Bernardi. Scrive in diverse riviste e giornali e partecipa all’organizzazione di numerosi avvenimenti letterari, fra cui il « Carrefour des Littératures Euroéennes » di Strasbourgo, il « Festival du Polar » di Grenoble e il « Festival Etonnant Voyageur » di Saint-Malo. Delegato generale dei « Rencontres Goncourt des Lycéens » nel 1991 e 1992,  direttore della comunicazione del festival « Tombées de la Nuit » (a Rennes) dal 1992 al 1994, si cimenta in diverse sceneggiature per film, come « Una mort Olympique » e « Les Matins Chagrins », nonché nella redazione di testi per canzoni su musiche di Jean Guy Coulange. Nel 1995, spinto da Michel Le Bris e Patrick Raynal pubblica nella « Série Noir » di Gallimard Total Khéops, che ottiene molto presto un grandissimo successo e diversi premi e di cui pubblicherà il séguito nel 1996: Chourmo (Chourmo. Il cuore di Marsiglia). Lascia Parigi e si stabilisce a Saint-Malo con Laurence Rio, responsabile culturale della città.  Nel 1997 pubblica la raccolta di poesie Loin de tous rivages (Lontano da ogni riva), con le illustrazioni di Jacques Ferrandez e il romanzo Les Marins Perdus (Marinai perduti), oltre a numerosi racconti apparsi in diverse antologie. Ritorna poi definitivamente in Provenza con la sua compagna, a Ceyreste presso La Ciotat.  Nel 1998 esce Soléa, tuttavia, nonostante le forti sollecitazioni di Gallimard,  rifiuta di dare séguito alle avventure di Fabio Montale. Nello stesso anno comincia a scrivere Le Soleil des Mourants (Il sole dei morenti) e si separa da Laurence. Durante l’estate, già malato, ha delle difficoltà a continuare il romanzo iniziato, incontra Catherine Bouretz, fotografa, che sposa nel febbraio 1999. Pubblica una nuova raccolta di poesie L’Aride des jours (L’arido dei giorni), illustrata dalle fotografie della moglie e la coppia si stabilisce a Marsiglia. Malgrado la malattia, Jean Claude partecipa a numerosi avvenimenti letterari e riesce a terminare Il sole dei morenti che uscirà nel settembre 1999.
Muore il 26 gennaio 2000.

Da allora numerose esposizioni gli sono state dedicate come « Un poète dans la marge : Jean-Claude Izzo » per il « Salon du polar » di Montigny-lès-Cormeilles nel dic. 2000 (foto di Catherine Izzo, Daniel Mordzinski e Dominique Peraldi ; disegni di Jacques Ferrandez ; serigrafie di Joelle Jolivet) ; « Le Marseille de Izzo » (fotografie di Daniel Mordzinski, 21/06/01-08/07/01)  e, a dieci anni dalla sua scomparsa, « Portrait d’un homme du Sud : Jean-Caude Izzo », realizzata dall’associazione « Mémoires Vivantes » del figlio, Sébastian Izzo (febbraio-aprile 2010, Châteauneuf-les-Martigues e Marsiglia). In Italia si può ricordare il « Jean-Claude Izzo Festival » del luglio 2009 (Castel San Giorgio, Salerno ; sezione cinematografica a c. di Marco Pistoia, sezione letteraria curata da Brigida Corrado : www.jeanclaudeizzofestival.it ) durante il quale è stata trasmessa una video-testimonianza (intervista realizzata da Brigida Corrado) di Andrea Camilleri che sottolinea l’impegno e la grande discrezione dello scrittore e dell’uomo. L’8 febbraio 2006 Marsiglia gli intitola un Collège : http://www.clg-izzo.ac-aix-marseille.fr/spip/

Jean Claude Izzo

Jean Claude Izzo

Jean-Claude Izzo è ricordato, anche in Italia, soprattutto per la cosiddetta « trilogia marsigliese », composta dai noir : Total Khéops, Gallimard, Série Noire, 1995, riedizione 2001 Folio (Casino totale, trad. di B. Ferri, Edizioni e/o, 1998); Chourmo, Gallimard, Série Noire, 1996  (Chourmo. Il cuore di Marsiglia, trad. di B. Ferri, Edizioni e/o, 1999)  e Soléa, Gallimard, Série Noire, 1998 (Solea, trad. di B. Ferri, Edizioni e/o, 2000), tutti aventi come protagonista e voce narrante il commissario Fabio Montale. Dalla trilogia è stata tratta una serie di 3 film per la TV dal titolo « Fabio Montale », per la regia di José Pinheiro (2001).

Fra gli altri romanzi, si possono ricordare : Clovis Hughes, un rouge du Midi (Clovis Hughes, un rosso del Midi ; J. Laffitte, 1978, riedizione 2001 J. Laffitte ) ; Les marins perdus (Flammarion, 1997 ; Marinai perduti, trad. di F. Doriguzzi, Edizioni e/o, 2001) ; Vivre fatigue (Librio, 1998 ; Vivere stanca, trad. di F. Doriguzzi, Edizioni e/o, 2001) ;  Le soleil des mourants (Flammarion, 1999 ; Il sole dei morenti, trad. di F. Doriguzzi, Edizioni e/o, 2000) ; Un temps immobile (Filigrane Editions, 1999) ; La Méditerranée en fragments (Maison méditerranéenne des sciences de l’homme, 2000 ; Frammenti di Mediterraneo, in Rappresentare il Mediterraneo. Lo sguardo francese, Mesogea, 2000) ; Marseille (Hoëbeke, 2000 ; Aglio, menta e basilico, trad. di G. Panfili, Edizioni e/o, 2006).

Bibliografia poetica: Poèmes à haute voix (Poesie a voce alta), P. J. Oswald, 1970 ; Terre de feu (Terra di fuoco), P. J. Oswald, 1972 ; Etat de veille (Stato di veglia), P. J. Oswald,1974 ; Braises, braisiers, brûlures (Braci, bracieri, bruciature) 1975, illustrazioni di E. Damofli ; Paysage de femme (Paesaggio di donna), Guy Chambelland, 1975 ; La reél au plus vif  (Il più vivo reale), Guy Chambelland, 1976 ;-Loins de tous rivages (Lontano da ogni riva), Ed. du Ricochet, 1997, riedizione 2000 Ed Librio ;  e L’aride des jours (L’arido dei giorni), Ed. du Ricochet, 1999 raccolta illustrata con le fotografie di Catherine Bouretz-Izzo.

Cfr. Hommage à Jean-Claude Izzo, in « La pensée de midi », 2000/1 (N. 1), Actes Sud, pp. 168-180 e Stefania Nardini, Jean-Claude Izzo. Storia di un marsigliese, Perdisa Editore, Bologna (prossimamente anche per e/o).

Sito ufficiale di Jean-Claude Izzo (in francese, da cui ho tratto la maggior parte delle notizie biografiche e biobibliografiche) : http://www.jeanclaude-izzo.com/ Altri siti di interesse relativi all’autore : http://authologies.free.fr/izzo;

Ascolta : « La visione di Jean-Claude Izzo ». Con Gianmaria Testa, Massimo Carlotto, Bruno Arpaia, Stefania Nardini e Bruno Crovi. Palazzo Ducale,   Genova 11 Novembre 2011 : https://www.youtube.com/watch?v=uMld9k7y-38

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 Traduzione di Annalisa Comes

Traduire comme transhumer 

Cominciando dalla fine… L’ultima poesia di Jean-Claude Izzo scritta il 7 gennaio 2000, poco prima di morire: Plage du Prophète,  recitata in musica dall’amico Gianmaria Testa, nel CD Il valzer di un giorno, nell’ed. distribuita da HarmoniaMundi/Egea 2001  (La valse d’un jour, Ed. Le Chant du monde, 2001). La spiaggia del Profeta è una delle spiagge più antiche di Marsiglia, incorniciata fra il vecchio porto e le spiagge di Gaston-Deferre, luogo familiare a tutti i marsigliesi, dove i bambini imparano a nuotare.

 

Plage du Prophète à Marseille
Ils se sont arrêtés

D’abord la fille aux yeux gris verts
Des mers du Nord
Et au sourire mûri sur les berges du Nil
L’ami ensuite
Le poète des Hauts Pays
Attentif aux murmures des passeurs
Sur les sentiers arides des exils
Le plus âgé enfin
Homme aux semelles de vent
Tantôt Afghan, tantôt Mongol
Porté par des mondes d’hier entrevus

Plage du Prophète
Ils ont porté leurs pas
Vers le soleil couchant

Une vague est venue lécher leurs pieds
Bénédiction du Prophète
Prophète anonyme
De ceux qui croient
Aux vérités de la beauté

Plage du Prophète
Du Prophète

(Ascolta la poesia recitata in musica dall’amico Gianmaria Testa: http://www.dailymotion.com/video/xje69_plage-du-prophete0001_travel )

.
Spiaggia del Profeta a Marsiglia
Qui si sono fermati.

Prima la ragazza dagli occhi grigio-verdi
Dei mari del Nord
E dal sorriso maturato sugli argini del Nilo
Poi l’amico
Il poeta dei Paesi Alti
Attento ai bisbigli dei traghettatori
Sui sentieri aridi dell’esilio
Infine il più vecchio
Uomo dalle suole di vento
Tanto Afgano quanto Mongolo
portato da mondi di ieri che ha intravisto

Spiaggia del Profeta
Hanno portato i loro passi
Verso il sole al tramonto

Un’onda è arrivata a lambire i loro piedi
Benedizione del Profeta
Profeta anonimo
Di coloro che credono
Alle verità della bellezza

Spiaggia del Profeta
Del Profeta

(7 gennaio 2000)

*

Braises de la mémoire VI

Terre.
Gisent les hommes dans les villages défaits.
Cimetières.
Aux fenêtres des maisons tombent les pierres d’angle.
Larmes.
Larmes, et pierres sur pierres, les ruines s’érigent.
Cri – trou que font mes lèvres dans l’opacité bleue pour rompre le silence, pour
rendre la parole à ces heurs dans le plain-chant du soleil. Et les coquelicots enfin
rendus à leur éphémère splendeur.
Terre.
Là.

.
Braci della memoria VI

Terra.
Giacciono gli uomini nei villaggi disfatti.
Cimiteri.
Dalle finestre delle case cadono le pietre angolari.
Lacrime.
Lacrime, e pietre su pietre, si innalzano le rovine.
Grido – buco che fanno le mie labbra nell’azzurra opacità per spezzare il silenzio, per
restituire la parola a queste ore nella pianura-canto del sole. E i papaveri
restituiti al loro effimero splendore.
Terra.
Laggiù.

.
*

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Da Loin de tous rivages (Lontano da ogni riva), Illustrations de Jacques Ferrandez, les Editions du Ricochet, 1997, pp. 41-48; sezione Approche du lointain (Da vicino, la lontananza). Spazio e tempo si coagulano nella luminosa aridità del Midi; in una lingua incisiva e ‘semplice’, disseccata, forgiata al fuoco del Sud, il poeta ci racconta il suo amore per una terra che non è decoro, ma pura essenzialità e dove la presenza dell’uomo sembra marginale. Qui, attraverso una memoria dalle connotazioni scabre, quasi bibliche, sembra aver inizio la Storia.

Approche
du lointain

Un coup de bêche, au loin,
dans la sécheresse
à vif
de la terre –
ou bien était-ce un cri? –

Le silence rompt l’anonymat.

Ni visage ni nom
et la bêche et le cri:
et la terre fendue,
brèche de lumière fertile.
*

Da vicino,
la lontananza

.
Un colpo di vanga, in lontananza,
nella siccità
nel vivo
della terra –
o era un grido?-

Il silenzio rompe l’anonimato.

Né viso né nome
e la vanga e il grido:
e la terra spaccata,
breccia di luce fertile.

*

La rumeur des heures
est au faîte
des plus hauts débris.

Mes pieds dans l’ombre d’un ruisseau.

Le temps semble contenu
dans cette sécheresse
assoiffant l’eau à même les fontaines.

Les derniers feux ont eu lieu.
Il n’y a plus rien à bruler,
pas même un cep ni même un sarment.

La mort s’accomplit:
saison régnant
à contre soleil.

*

Il rumore delle ore
è in cima
delle più alte macerie.

I miei piedi nell’ombra di un ruscello.

Il tempo sembra contenuto
in questa siccità
assetando l’acqua stessa delle fontane.

Ci sono stati gli ultimi fuochi.
Non c’è più niente da bruciare,
né un ceppo né un tralcio.

La morte si compie:
stagione regnante
controsole.

*

Ou bien d’un chien était-ce le cri?
Survivance:
le chien appelle l’homme
et l’homme, seul,
nomme les outils nécessaires.

Le silence implique le souvenir.

Complice silence
qui inventorie la poussière
du champ à la ferme,
jusqu’au repos de l’air.
*

O forse era il grido di un cane?
Sopravvivenza:
il cane chiama l’uomo
e l’uomo, solo,
nomina gli arnesi necessari.

Il silenzio implica il ricordo.

Complice silenzio
che inventaria la polvere
dal campo alla fattoria
fino a che l’aria si riposa.

Cadavre exquis – André breton,Valentine Gross, Tristan Tzara, Greta Knutson – 1933

Cadavre exquis – André breton,Valentine Gross, Tristan Tzara, Greta Knutson – 1933

Les pierres enferment l’espace,
l’emprisonnent:
au travers des façades éventrées
le ciel cherche l’issue.

Des pas résonnent: les miens, inlassablement.

Ombre de garde
dans ce jour sans ombre,
je veille.

La lumière est triste,
asséchée de ses rêves.
Et les rêves survivent à même l’immobilité.

Mes pas sonnent un temps de mort,
battant la mémoire
pour en faire jaillir le sang.

*

Le pietre chiudono lo spazio,
lo imprigionano:
attraverso facciate sventrate
il cielo cerca la sua via d’uscita.

Risuonano i passi: i miei, instancabilmente.

Ombra di guardia
in questo giorno senz’ombra,
veglio.

La luce è triste,
prosciugata dei suoi sogni.
E i sogni sopravvivono alla stessa immobilità.

I miei passi suonano a morto,
battono il tempo della memoria
per farne sprizzare il sangue.

*

Ou bien était-ce le cri de mon corps
fouillé dans sa chair
jusqu’à sa source douloureuse?
Plaie ouverte?
Et les heures suppurant de ciel bleu.

Le silence fait écho au silence.

Était-ce ailleurs, jadis?
Les ronces ne savent pas,
le ciel se tait et le soleil consentant
détourne son regard.

*

O forse era il grido del mio corpo
frugato nella sua carne
fino alla sua fonte dolorosa?
Piaga aperta?
E le ore in suppurazione di cielo azzurro.

Il silenzio fa eco al silenzio.

Era altrove, un tempo?
I rovi non sanno,
il cielo tace e il sole consenziente
gira lo sguardo.

*

Mes mains sont vides
mais chaudes, et gorgées de sang, larges
et ouvertes aux questions sans réponse, avides.

Saisir le temps dans sa course, dans son envol de midi.

Alors fouiller
jusqu’au désespoir la trame de jours,
la défaire.

Ciel contre terre,
eau contre soleil,
heure après heure.

Là, entre les cyprès vigilants,
ma bouche demande dans un rêve tenace
si mon peuple aura un ici, maintenant.

*

Le mie mani sono vuote
ma calde, e gonfie di sangue, larghe
e aperte alle domande senza risposta, avide.

Afferrare il tempo nella sua corsa, nel suo volo di mezzogiorno.

Allora frugare
fino alla disperazione la trama dei giorni,
sfarla.

Cielo contro terra,
acqua contro sole,
ora dopo ora.

Là, fra i vigili cipressi
la mia bocca chiede in un sogno tenace
se il mio popolo avrà un qui, ora.

*

Était-ce d’un chien le cri
ou le cri de mon corps?
Il manque deux heures encore
pour que Midi
assassine le vieux rêve:

Le paysage nu est refus dans sa sécheresse.

Le silence persiste. Et la mort témoigne –
Ou bien était-ce un coup de bêche
dans l’approche du lointain?

*

Era il grido di un cane
o il grido del mio corpo?
Ancora mancano due ore
a che il Mezzogiorno
uccida il vecchio sogno:

Il paesaggio nudo è rifiuto nella sua siccità.

Il silenzio persiste. E la morte testimonia –
O era un colpo di vanga
vicino alla lontananza?

*
Dalla sezione Terre profane (Terra profana)

.
Terre profane.
Le Voyageur s’égare,
pieds nus et pauvre,
dans les chemins de cendre
des brasiers de la Saint-Jean.

Terra profana.
Il Viaggiatore si perde,
povero e a piedi nudi,
nel cammino di cenere
dei falò di San Giovanni.
II
Solstice cruel.
Midi appelle au repos,
au plein silence,
et minuit à la folie,
à l’illisible raison.

*

Solstizio crudele.
Mezzogiorno chiama al riposo,
al pieno silenzio,
e mezzanotte alla follia,
alla non leggibile ragione.

.
III
Cycle des heures
passioné des désastres
où l’air torride
irrigue l’ombre, l’arme
des larmes des astres bleus.

*

Ciclo delle ore
appassionato dei disastri
dove l’aria torrida
irriga l’ombra, l’arma
delle lacrime degli astri azzurri.

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Da L’aride des jours (L’arido dei giorni), Photographies de Catherine Bouretz-Izzo, sezione V, Arête faîtière (Linea di cresta), Éditions du Ricochet, 1999; Librio, 2001, p 21.

.
Soif d’avoir soif. Et l’eau bue jusqu’à la cécité bleue
des océans érigés en écritoire.

Et l’abondance des mots, à blanc,
jusqu’à l’à-pic dérisoire des pages nues.

Ne rien écrire qui ne soit vu.
Ne rien dire qui n’ait été écrit.

Alors, dans ce silence à couper au regard,
s’abreuver
aux seuls chemins qui se refusent
et s’insoumettre à l’ordre des choses.

Alors encore, d’immobilisme
renverser le paysage,
se hisser à l’écume des houles annonciatrices
des jours mourants.

La chute d’une hirondelle
n’empêchera pas le retour du printemps.

*

Sete di avere sete. E l’acqua bevuta fino alla cecità azzurra
degli oceani eretti a scrittoio.

E l’abbondanza delle parole, in bianco
fino al dirupo derisorio delle pagine nude.

Non scrivere niente che non sia veduto
Non dire niente che non sia stato scritto.

Allora, in questo silenzio da tagliare con lo sguardo
abbeversarsi
ai soli cammini che si impennano
e non sottomettersi all’ordine delle cose.

Allora ancora, scrollare
il paesaggio dall’immobilismo,
innalzarsi fino alla schiuma delle onde annunciatrici
dei giorni morenti.

La caduta di una rondine
non impedirà il ritorno della primavera. Continua a leggere

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UNA POESIA di Charles Baudelaire – Mario Fresa Un’interpretazione del Don Juan aux Enfers – Estratto da “Come da un’altra riva” 

Charles Baudelaire

Charles Baudelaire

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Don Juan aux Enfers

Quand Don Juan descendit vers l’onde souterraine
Et lorsqu’il eut donné son obole à Charon,
Un sombre mendiant, l’œil fier comme Antisthène,
D’un bras vengeur et fort saisit chaque aviron.

Montrant leurs seins pendants et leurs robes ouvertes,
Des femmes se tordaient sous le noir firmament,
Et, comme un grand troupeau de victimes offertes,
Derrière lui traînaient un long mugissement.

Sganarelle en riant lui réclamait ses gages,
Tandis que Don Luis avec un doigt tremblant
Montrait à tous les morts errant sur les rivages
Le fils audacieux qui railla son front blanc.

Frissonnant sous son deuil, la chaste et maigre Elvire,
Près de l’époux perfide et qui fut son amant,
Semblait lui réclamer un suprême sourire
Où brillât la douceur de son premier serment.

Tout droit dan son armure, un grand homme de pierre
Se tenait à la barre et coupait le flot noir;
Mais le calme héros, courbé sur sa rapière,
Regardait le sillage et ne daignait rien voir.

(Les Fleurs du Mal, xv).

Estratto da Mario Fresa “Come da un’altra riva” Un’interpretazione del Don Juan aux Enfers di Baudelaire (Marco Saya Edizioni 2014 pp. 38 € 8)

Charles Baudelaire 3

È con le persone felici
che si fanno i migliori dannati.

Céline

L’inizio è fosco, vertiginoso. Don Giovanni, punito ma non vinto, è appena sceso agl’inferi: e sùbito, in vero, ci colpisce il rapinoso passaggio dal terribile fuoco avvolgente, che solo un momento prima lo aveva inghiottito, al gelido elemento dell’acqua; cioè quella paurosa, abissale onde souterraine entro la quale egli è adesso calato. È il «fiume dei dolori», l’Acheronte. Ed ecco, dunque: dal gelo immobile del Convitato di pietra all’inatteso vortice del fuoco; e dal fuoco all’onda; e poi dall’acqua al dolore. La poesia scava e ricompone la realtà degli eventi con tutta la sua enigmatica e infida carica di segnali duplici e ambivalenti. L’Hypocrite lecteur ciò lo sa bene: insieme con lo stesso poeta, suo semblable e frère, conosce a fondo, o quasi, le regole bizzarre del gioco estremo dell’esistenza; un gioco ambiguo, violento, che sulla sua scacchiera pone il profilo di uno specchio misterioso dove si mostrano e combattono, senza fermarsi un solo istante, immagini acute e incomprensibili, contrarie e vicine.

Charles Baudelaire

Edgar Allan Poe

Questo, infatti, è l’universo ch’è ritratto nelle Fleurs: vi scorgi sempre la febbre ansiosa di un chiasmo ininterrotto; e sempre vedi emergere, in esse, la ragna di un impasto crudele, un incrocio di dolori e di delizie; e una gioia dolorosa sulla cui scena agisce, di continuo, un assiduo miscelamento di lava e di gelo, di beatitudine e di inferni che lo sguardo del poeta meravigliosamente coglie e trattiene.

Baudelaire sceglie di aprire il suo componimento assegnando alla vicenda un taglio temporale («Quand Don Juan descendit […]; Et lorsqu’il eut donné …») tanto icastico e potente, quanto imprecisato e miticamente distaccato: il Quando è scolpito, inciso, rilevato con la forza materica di un bassorilievo ma, tipico paradosso di quell’enigma chiamato poesia, esso sfugge a una definita e compiuta sistemazione «storica»; è un momento altro, remoto: fissato, anzi inchiodato lì, una volta per sempre, e per questo gonfio di una verticale grandiosità, di un respiro epico e solenne (ma l’anfibia natura baudelairiana saprà ben presto, nei versi successivi, rovesciare e trasportare l’aulicità e la maestosità di questo memorabile attacco in una dimensione ben più caricaturale e tragicomica).

Charles Baudelaire

Charles Baudelaire

Don Giovanni, dunque, discende. Egli è un privilegiato, e possiede, perciò, l’obolo da donare a Caronte (in assenza della moneta, il defunto avrebbe dovuto, secondo il mito, vagare per un secolo prima di essere traghettato). Baudelaire non ce lo dipinge terrorizzato o impaurito dal nocchiero, ch’è privato, d’altronde, dei classici aggettivi terrifici che gli sono tradizionalmente affibbiati (Virgilio, ad esempio: «portitor horrendus»). Si ha l’impressione, poi, che Don Giovanni consegni l’obolo a Caronte mostrando un’assoluta, superiore alterigia; pare, questo suo gesto, la magnanima decisione di un signore che vuole concedere qualcosa a un suo sottoposto. La scena della consegna dell’obolo fa riemergere, è ben chiaro, l’eco del famoso episodio molieriano dell’incontro col povero (atto III, scena seconda del Dom Juan). Anche qui, come in Molière, noi possiamo immaginare che Don Giovanni doni la moneta non perché voglia cedere alle leggi dell’oltre-tomba, ma per una sua peculiare propensione a esprimere, in ogni occasione, una continua volontà di dominio sul mondo circostante (e non è forse anche questa una forma di seduzione?).

zbigniev herbert

zbigniev herbert

Il povero, al quale il Don Giovanni di Molière regala un luigi d’oro «per amore dell’umanità» – ma che si rifiuta di bestemmiare, così come il libertino gli aveva chiesto – ritorna, in Baudelaire, meno umile e remissivo, e addirittura vendicativo, audace, violento. Ecco il contrappasso: il mite poverello afferra i remi con un braccio gagliardo e risoluto, vengeur et fort. Ma di che cosa vorrà mai vendicarsi, questo strano, sombre mendiant? Dell’umiliazione subìta durante l’elemosina? Eppure, qualcosa non torna: come mai il puro, timorato, religiosissimo povero si trova all’Inferno? Lo si direbbe un nuovo, crudele rovesciamento baudelairiano: nel suo mondo, chiaro e pulviscolare, sghembo e geometrico, convivono estremi che si congiungono e si confondono, mischiando il miele col fiele: così nel candido fedele si nasconde il più terribile bestemmiatore; e nella più bianca e virginale fanciulla alberga un’assassina, una ladra, una puttana. Precipizio e risalita. Indulgenza e castigo. Assoluzione e distruzione. Tutto si trasmuta in un processo alchimistico, misterioso e insondabile, nel quale una benedizione è accompagnata da solenni imprecazioni, e un canto eufonico può essere associato, imprevedibilmente, a laceranti spasimi, a improvvise stonature, a inusitate dissonanze.

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

Baudelaire ci presenta il mendicante come sombre. Il termine ha un ventaglio di molte, inafferrabili, se non addirittura subdole sfumature: in esso è racchiuso ed espresso, allo stesso tempo, un sentimento indefinito e inquietante. Più che «triste» e «cupo» andrebbe inteso, invece, come melanconico, dolente, mesto, accorato. Così, infatti, suggeriscono alcuni storici Dictionnaires: il Larousse (1863) lo intende come «mélancolique», «taciturne», «morne»; il Poitevin (1851) propone anche «chagrin»; il Dictionnaire de prononciation italien-français di Cormon e Manni (1802) riporta, sì, il termine «cupo», ma ne amplia e ne arricchisce le nere vibrazioni interne, traducendo il vocabolo come «tetro» e «oscuro».

Concentriamoci, adesso, su alcune versioni italiane del Don Juan aux Enfers. Valuteremo, di volta in volta, singoli problemi testuali, evidenziando le diverse soluzioni adottate da ciascun traduttore. Specificherò soltanto che Attilio Bertolucci (traduzione del 1975) ha deciso, in modo quasi provocatorio, di volgere in prosa tutte le poesie delle Fleurs, mentre Gesualdo Bufalino (1983), e – tra i molti altri – Antonio Prete (2010) hanno tentato, piuttosto vacuamente, la strada della versione isometrica, col proposito di “ricalcare”, con risultati spesso parodistici, gli originali baudelairiani, dimenticando che la traduzione poetica dovrebbe evitare atteggiamenti presuntuosi scegliendo, invece, di agire – lo ha scritto saggiamente Enrica Salvaneschi – «come una nobildonna di compagnia alla sovranità del testo originale». Impossibile, qui, parlare degli affronti che la poesia di Baudelaire ha tante volte subìto dai traduttori italiani. Vorrei almeno sottolineare il grave arbitrio di Luigi De Nardis, che nella sua traduzione (1964) osa riformulare a suo piacimento gli a capo dei versi, cambiando o eliminando (sic!) perfino gli spazi bianchi tra una strofa e l’altra. La più recente edizione italiana delle Fleurs, uscita nel 2012 a cura di Nicola Muschitiello, è particolarmente deprimente, anche a causa della prefazione di Enzo Bianchi (immaginate, vi prego, per un istante solo, l’espressione, un po’ divertita un po’ arrabbiata, dello stesso Baudelaire se avesse visto un’edizione dei suoi Fiori prefata da un monaco!). Un solo esempio sarà utile per far comprendere il livello della versione di Muschitiello: il titolo della poesia Le Guignon è orribilmente tradotto con la parola Sfiga. Non aggiungiamo altri commenti: il lettore sagace trarrà da solo le adeguate conclusioni sul valore di questa traduzione.

Marina Cvetaeva

Marina Cvetaeva

Ma torniamo al vocabolo sombre di cui poco prima si scriveva. Claudio Rendina (1972) e Bertolucci lo interpretano come «triste» (soluzione un po’ sommaria); Luciana Frezza (1980), Bufalino, Giovanni Raboni (1987), Cosimo Ortesta (1996) adottano, onestamente, «cupo» (ma la Frezza tende a caricare in maniera grottesca, facendo del mendiant uno «straccione»); Angela Cerinotti (1995), audacemente (e infelicemente), si avvale di un improbabile, e del tutto arbitrario, «sordido»; Giorgio Caproni (2008) azzarda un «bieco» che a noi pare davvero fuori luogo, perché non vi è rapporto alcuno tra la melanconica ombrosità del mendicante-rematore e una sua eventuale perfidia, o una sua immorale slealtà. Il mendiant è amaramente cupo e luttuoso, ma non è certo laido, né torvo, né malvagio, né turpe. Davide Rondoni (1995) individua, finalmente, una ipotesi traduttiva ideale, candidando il termine tristo.

Osip Mandel'stam 1913

Osip Mandel’stam 1913

Sarebbe stata senz’altro la proposta migliore, se, però, il traduttore non avesse scritto «tristo mendicante», ma «mendicante tristo». La questione non è bizantina. Per spiegarmi con sufficiente chiarezza, e con l’intento di non discostarmi troppo – in senso almeno temporale, più che stilistico – dalla dimensione linguistica baudelairiana, citerò una preziosa riflessione di Tommaseo (tratta dal suo Nuovo Dizionario de’ sinonimi della lingua italiana, 1838) dedicata all’importanza della giusta posizione dell’aggettivo tristo: il quale, «secondo ch’è preposto o posposto, ha vari usi; e non si dirà: zuppa trista, ma trista zuppa o zuppa ben trista. Si dirà […] tristo servigio, e non viceversa. Trista figura, in senso di non onorata comparsa o di faccia men bella; figura trista, in senso di esprimere il dolore o la malizia dell’animo. Trista gioia; non mai, gioia trista. […] Si può essere tristo uomo, e mal accorto, mal cauto; si può essere uomo tristo senza scelleraggine, senza viltà. Tristo desinare è desinare mal fatto: desinare tristo è desinare malinconico. […] Tristo amore è amore che genera più male che bene, o amore non buono, ed è amore misto di dolori e di pene». Dunque, in sintesi: tristo uomo significa: uomo cattivo, aspro, malvagio; uomo tristo, invece, sta per uomo tribolato, malinconico, afflitto.

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

Se Caronte ha, giusta la famosa espressione dantesca, i terribilissimi «occhi di bragia», il suo strano aiutante, prima fervido credente e ora dannato, ha l’œil fier comme Antisthène: l’occhio (diremo meglio: lo sguardo) fiero come Antistene. Il termine «fiero» non corrisponde a un sinonimo di «audace» o di «intrepido», ma vale, piuttosto, nel senso di «arrogante», «protervo» e «altezzoso» (si veda il Larousse 1863: arrogant, superbe). Si parlava, dunque, di un primo, paradossale capovolgimento: il mendicante di Molière è ossequiente, umile, rispettoso e modesto; qui è impudente e superbioso. Vi è anche, però, un’ulteriore, interna contraddizione (tipica del bifrontismo baudelairiano): il mendicante è sombre (tristo, scuro, afflitto) ma è, contemporaneamente, animoso ed energico, dal braccio «forte» e «vendicativo».

Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

Perché paragonarlo ad Antistene, il filosofo cinico? Ora, Antistene evidenzia la necessità di liberarsi dei bisogni materiali («chi ama il denaro non potrà mai essere buono»); ma non è solo la scelta della povertà ad avvicinarlo al sombre mendiant baudelairiano. Precipitato agl’inferi, il povero ha abbandonato, forse, i suoi antichi ideali e la sua fede. Il suo occhio è diventato «fiero» perché privato delle illusioni e dei suoi sogni di idealismo cristiano e di umanesimo. Antistene osserva, in opposizione alla visione platonica: «vedo il cavallo, ma non la cavallinità». Platone, appunto, gli risponde: «perché non hai l’occhio per vederla». Lo sguardo di Antistene è fiero – cioè crudo, oggettivo – perché spietatamente legato all’evidenza empirica della realtà, che vieta qualsiasi ipotesi di personale interpretazione trascendente delle cose (come ricorda Aristotele nella Metafisica, egli professa l’opinione «che di nessuna cosa possa dirsi altro che il suo nome proprio e che perciò non può dirsi che un nome solo di ogni singola cosa»). Duro, dunque, privo di speranze e di chimere è questo mendicante, simile al rude Antistene. Egli vuol vendicarsi di Don Giovanni perché, forse, gli sta riconoscendo, suo malgrado, che aveva ragione nel chiedergli, impudentemente, di bestemmiare, cioè di infrangere – come volevano, appunto, i cinici – i tradizionali valori del «buon vivere» civile e le ipotesi di una possibile trascendenza? Diremmo proprio di sì. Ora è un vendicatore e un punitore: ed esprime l’implacabile risentimento di chi è costretto a dar ragione al suo avversario (ricordo ancóra un frammento di Antistene: «stai attento ai nemici, perché essi per primi si accorgono degli errori tuoi»).

Milano, 11/12/1960 Nella foto: Eugenio Montale

Milano, 11/12/1960
Nella foto: Eugenio Montale

Ma ecco apparire, adesso, l’autentica ossessione patologica dongiovannesca: numerosissime donne, montrant leurs seins pendants. Sono disfatte e cadenti. Il seno pendant ci fa comprendere che esso non è soltanto mencio, floscio o cascante: ma che è tristemente avvizzito e invecchiato, perché ormai privo di amore, e incapace di eccitare e di provocare il desiderio erotico (sbaglia clamorosamente Muschitiello, traducendo in modo volgare la parola seins con poppe: espressione che, come anche un bambino sa, può solo alludere a un seno florido e invitante). Chi sono, queste infelicissime? Si tratta di donne abbandonate volontariamente – e voluttuosamente – al martirio masochistico, e votate, inoltre, all’incrollabile pulsione infermieristica – estesa oltre la stessa vita terrena! – tendente a salvare o a redimere l’uomo amato e ritroso. I seni sono dunque rinsecchiti, cadenti, ben poco seduttivi: e tuttavia, le loro vesti sono impudicamente aperte, perché pronte, anche dopo la morte, a rincorrere l’ideale progetto di riconquistare l’uomo fuggiasco. Di sicuro, essere inseguito eternamente da queste donne assillanti, fissate e petulanti è il maggiore castigo immaginato da Baudelaire per Don Giovanni. Esse, dunque, si denudano, offrendosi in sacrificio (sono victimes; tuttavia, come spesso accade, victimes più che consenzienti) ed emettono un bestiale mugissement. Le donne anticamente amate da Giovanni sono paragonate a una mandria di grevi e lamentosi esseri non più umani che, simili a striscianti serpenti, si contorcono (è scritto, appunto, che esse se tordaient: queste spente, disperate, inconsolabili innamorate cercano e tentano ancóra, da astuti serpenti quali sono, la via obliqua e sotterranea della seduzione e dell’incantamento). Un incubo, per il dannato Don Giovanni: la donna, piombata nell’Inferno, non ha motivo di nascondersi dietro le cotidiane ipocrisie delle regole e delle finzioni della “buona” società (e dimentica, qui, perfino le sue arti, e le sue armi, abituali: il travestimento, il trucco, la maschera); e si mostra, perciò, in tutta la sua cruda, assoluta, selvatica brama di desiderio e di possessione carnale: e si scopre e si manifesta senza pudore alcuno. Il poeta mette in guardia il lettore: gli ricorda, cioè, l’autentica natura della donna, che «è naturale, cioè abominevole» (Il mio cuore messo a nudo).

Paul Valéry

Paul Valéry

Questa impudicizia disperata ci fa venire in mente altre dannate e inconsolabili donne «perdute» così spesso presenti nelle Fleurs: quelle, ad esempio, «Distese sulla sabbia come un gregge pensoso» (Femmes damnées, CXI) o le stesse penose «vittime del lamento» calate «nel sentiero dell’eterno Inferno» (Femmes damnéesDelphine et Hippolyte, III). Ma qui, nella visione delle vittime offerte del Don Juan, vi è certo un drammatismo meno risoluto; e forse, lettore attento, potrai vederci, chissà, una specie di comica marcia funebre; oppure potrai sentirci il coro di un Requiem parodistico, pieno zeppo di grottesche deformazioni, di armonie cacofoniche e mugolanti.

Dante Alighieri e Guido Cavalcanti

Dante Alighieri e Guido Cavalcanti

A proposito, appunto: qui udiamo un oscuro, anzi lugubre mugissement. Un’eco nera che rimbomba, senza smettere mai. Si noti che long mugissement è un’espressione fondata sulla tenebrosa assonanza del suono on: ed è un’assonanza non casuale, e che dà, anzi, la “tinta musicale” all’intero componimento (leggi, ad esempio, le parole onde, Charon, sombre mendiant, aviron, montrant, firmament, tremblant, etc.). Gesualdo Bufalino traduce piuttosto bene questo verso: «dietro di lui muggivano monotono un lamento». Raboni applica, invece, un colore più violento: «dietro di lui mugghiando lungamente». Antonio Prete, al contrario, appiattisce e banalizza la frase, scrivendo: «dietro di lui gemevano con un lungo lamento». Sostituire il cattivissimo e quasi buffo muggito con un prevedibile e dozzinale gèmito è una vera sciocchezza, soprattutto perché il gemere innalza le victimes bovine a un livello di superiore, umana dignità che esse stesse non avrebbero nemmeno lontanamente immaginato o sperato. Piuttosto brutti i mugghi di cui parla Romano Palatroni in una sua traduzione delle Fleurs del 1959; tuttavia, nessuna versione è riuscita a superare in bruttezza la raccapricciante proposta avanzata da Claudio Angelini: «dietro di lui lunghissimi ululati emettevano» (la sciagurata traduzione è apparsa nella rivista elettronica aperiodica «Senecio»).

Bertolt Breht  LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

Bertolt Breht LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

Subito dopo la greve, lutulenta e muggente apparizione del grand troupeau di victimes sedotte e abbandonate (ma che, per sventura di Don Giovanni, mai più lo abbandoneranno), si mostra, ora, il suo servitore Sganarello. Anche qui, Baudelaire allude di nuovo alla commedia molieriana. Nella scena finale del Dom Juan, Sganarello reclama i suoi gages, con una triplice ripetizione, tanto esagerata quanto meschina. La commedia si apre e si chiude con la figura del servo, la cui prospettiva di vita è fondata su di un microcosmo composto dei più elementari e fisiologici bisogni (il cibo, i soldi) e che tende alla faticosa costruzione di un moralismo opportunistico e ipocrita (il suo iniziale elogio del tabacco è giustificato dall’idea che esso è «la passione della gente per bene»: egli tenta, perciò, di adeguarsi alle leggi «ideali» della cosiddetta vita civile e sociale). Schopenhauer lo avrebbe definito un Philister, un «filisteo», cioè un anti-spirituale, un «uomo senza muse». Leggiamolo: «Il filisteo è, dunque, un uomo senza bisogni intellettuali. […] La sua esistenza non è animata da alcuna aspirazione a una conoscenza e a una capacità di comprendere perseguite per se stesse, né da alcun desiderio di piaceri veramente estetici, un desiderio senz’altro connesso con quell’aspirazione. […] I veri piaceri, per lui, sono quelli dei sensi; con essi si ritiene soddisfatto. Perciò il culmine della sua esistenza sono le ostriche e lo champagne; e scopo della sua vita è procurarsi tutto ciò che contribuisce al suo benessere fisico». Ora, c’è da osservare che Sganarello ha seguìto il suo padrone all’Inferno quasi contemporaneamente: mai potrebbe abbandonarlo, pena un eccessivo impoverimento – anzi, forse, una specie di cancellazione – della propria identità. Dunque, egli segue a capofitto il suo padrone, perché vive della sua luce e dei suoi riflessi, odiandolo e ammirandolo. Lo ha seguìto, inoltre, anche nella direzione di una sopraggiunta ribellione a Dio. Marco Sciaccaluga, a proposito del grido finale Mes gages! Mes gages! Mes gages! che conclude il Dom Juan, commenta con intelligenza: «non escludo che questa possa essere la sua prima bestemmia. Dopo aver difeso per tutta la commedia una rispettosa idea di Dio, questa sua ultima battuta sembra proprio rivolta a colui nei cui confronti si era sino ad allora limitato a chinare la testa».

Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

A causa del già citato ribaltamento baudelairiano, parodistico e non lontano da un’idea di comico contrappasso, il servo pavido e timoroso si presenta spudorato, impertinente, ridanciano. Il suo opportunismo di fondo lo spinge a reclamare, a pretendere il suo salario; e decide di non perdere tempo: chiede di essere pagato, sghignazzando, appena rivede il suo amato-odiato padrone. Si mediti, poi, sul termine gages: non vuol dire, semplicemente, «stipendio» o «paga», ma è – come c’informa il Larousse – il «salaire des domestiques»: il salario dei domestici. L’Inferno non ha accorciato le distanze. Le classi non sono ancora distrutte: il padrone e il servo seguiteranno, eternamente, a ricoprire gli antichi ruoli sociali ai quali furono destinati in vita.

zbigniev herbert 1963

zbigniev herbert 1963

Soffermiamoci, adesso, sul réclamer di Sganarello. Non sta a significare semplicemente «chiedere» o «richiedere con forza insistente e pressante» (Larousse: «demander avec instance»). Il «reclamare» è più vicino, qui, all’idea di una rivincita o di un tentativo di vendetta: il Nouveau dictionnaire di Noël e Chapsal (1828) suggerisce di intendere il verbo nel senso di revendiquer: rivendicare. Sganarello, non dimentichiamolo, cova sempre risentimento e desiderio di riscatto nei confronti del suo signore (si ricordi l’inizio del Don Giovanni di Mozart-Da Ponte, nel quale Leporello sbotta: «Voglio far il gentiluomo,/ E non voglio più servir»). I morti, dunque, sembrano in attesa di una rivincita, o di una postuma vendetta. Già in vita, Sganarello ha sempre tentato una rivalsa, in ispecie di tipo educativo, nei confronti del padrone, invogliandolo e spronandolo, spesso, al ravvedimento per il tramite di vari sermoncelli moralistici (affatto inutili, si capisce), nutrendo la speranza, o la pretesa, di mostrargli la verità e di allontanarlo dalla strada cattiva delle illusioni […]

(Mario Fresa)

Mario Fresa

Mario Fresa

Mario Fresa è nato nel 1973. Ha compiuto gli studi classici e musicali e si è laureato in Letteratura italiana. Oltre a indagini sulla cultura della traduzione letteraria, si è dedicato alla poesia italiana e francese dell’Otto-Novecento. Come poeta esordisce nel 1999, presentato su «Specchio della Stampa» da Maurizio Cucchi. Altri suoi testi appaiono nell’antologia Nuovissima poesia italiana (Mondadori 2004) e su varie riviste, tra le quali «Caffè Michelangiolo» (n. 3, 2003), «Paragone» (n. 60-61-62, 2005), «Nuovi Argomenti» (vol. 45, Mondadori 2009). È del 2002 la raccolta prefata da Maurizio Cucchi Liaison, cui fanno seguito Costellazione urbana («Almanacco dello Specchio» di Mondadori, n. 4, 2008), il poemetto Alluminio, con la prefazione di Mario Santagostini (2008) e Uno stupore quieto, introduzione di Maurizio Cucchi (La collana, Stampa, 2012). Un’anticipazione della sua nuova raccolta poetica è apparsa sul n. 16 di «Smerilliana» (2014), con un saggio di Valeria Di Felice. Collabora a riviste e a quotidiani e cura la rubrica Sguardi sul periodico «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», di cui è redattore.

 

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POESIE di Guillaume Apollinaire (1880-1918) da “Bestiario o il corteggio d’Orfeo” (1911) a cura di Giorgio Linguaglossa Commento di Renzo Paris

apollinaire par marie laurencin

apollinaire par marie laurencin

 Guillaume Apollinaire, pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowicky nasce a Roma il 25 agosto del 1880 e muore a Parigi nel 1918, figlio naturale di Francesco Flugi d’Aspermont, un ufficiale svizzero che non lo riconobbe mai, e di Angelika de Wąż-Kostrowicky, una nobildonna polacca. Si trasferisce con la madre in Francia giovanissimo. Ha una adolescenza instabile e disordinata, trascorsa tra vaste letture e numerosi viaggi e studi non regolari. Conosce e frequenta artisti d’avanguardia a Parigi, tra i quali anche i poeti Ungaretti e Max Jakob e il pittore Pablo Picasso. Partecipa alle discussioni sul cubismo in gestazione e, nel 1913, scrive un saggio su questa scuola artistica. Allo scoppio della prima guerra mondiale, sceglie di arruolarsi come volontario, definisce la guerra “un grand spectacle“. Nel 1916 viene ferito a una tempia e subisce un difficile intervento chirurgico. Diventa famoso come critico militante dei movimenti d’avanguardia di quegli anni: il futurismo e la pittura metafisica diDe Chirico.

Apollinaire ritratto di Maurice de Vlaminck

Apollinaire ritratto di Maurice de Vlaminck

Dato il suo carattere estroso ed irrequieto fu sospettato di essere l’autore del furto del dipinto della Gioconda avvenuto il 20 agosto del 1911 al Louvre; in seguito a tali sospetti (di cui fu gravato anche Picasso), viene arrestato ed incarcerato, salvo poi risultare del tutto estraneo ai fatti ed in seguito rilasciato. Del furto risultò poi essere autore un dipendente del Louvre, tale Vincenzo Peruggia. Inaugura nel 1910 la vita letteraria con i sedici racconti fantastici intitolati L’eresiarca & C., mentre nel 1911  pubblica le poesie di Bestiario o corteggio di Orfeo e nel 1913  Alcools, raccolta delle migliori poesie composte fra il 1898 e il 1912, considerata il capolavoro di Apollinaire insieme con Calligrammes (1918),  veri e propri componimenti scritti appositamente per formare un disegno che rappresenta il soggetto della poesia stessa.

Apollinaire

Apollinaire

Commento di Renzo Paris

…Per dar carne alla biblioteca erotica detta dei Curiosi, che curava per uno spregiudicato editore, Apollinaire si tuffa nella letteratura italiana e ne trae pingue bottino. Riscopre, per esempio, lo scrittore Giambattista Casti (1724-1803), viaggiatore irrequieto e amico di letterati e regnanti di tutta Europa, quello stesso che Parini giudicava “prete brutto, vecchio e puzzolente” e che invece Stendhal e Goethe stimavano.

Piacque ad Apollinaire per le sue doti di poeta libertino ed irreligioso Giorgio Baffo che, insieme a scrittori come Francesco Gritti e Anton Maria Lamberti, Giovanni Pozzobon e Marcantonio Zorzi, dava vita all’ambiente che permise la nascita della lingua goldoniana. Ammirò Boccaccio, innanzitutto. Stampò Sade. Ma a proposito del Casti c’è ben altro da dire. Il Casti infatti è autore degli Animali parlanti. E che cos’è Bestiaire, la prima raccolta di poesie d’Apollinaire, se non una serie soprattutto di quartine in cui il poeta fa ‘parlare’ gli animali?

O forse è troppo azzardata l’ipotesi di una intuizione settecentesca di un bestiario illustrato alla maniera medioevale ancora viva nell’epoca rinascimentale? Bestiaire è del 1911. Definito dallo stesso autore “un divertimento poetico” è una serie di licenziosi auguri e scongiuri. Auguri al poeta che si appresta a circuire e a conquistare madama poesia, e d’altra arte, scongiuri contro i pericoli e gli ostacoli di cui è lastricata la strada della bellezza. Più che un ‘dizionario dei motivi poetici dell’autore’ sembra essere un manuale di istruzioni per la creazione poetica, per un poeta da spartire con il profeta di dantesca e rimbaudiana memoria né con il misterioso di Mallarmé. Proprio in Bestiaire, nella quartina ‘L’éléphant’, si dice:

Apollinaire La cravate

Apollinaire La cravate

Comme un éléphant son ivoire,
J’ai en bouche un ben precieux.
pourpre mort!… J’achète ma gloire
Au prix des mots mélodieux.

Nella quartina ‘La chenille’ invece leggiamo:

Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.

A prezzo del “lavoro poetico” il poeta può diventare ricco. Se le parole sono ancora melodiose, ma già tese e frenetiche, alla gloria si arriva attraverso una “compera”. Anche qui Apollinaire finisce col criticare il gusto simbolista dall’interno stesso della sua melodia. A proposito della “purpurea morte” de “L’éléphant” il critico francese Poupon ricorda Mallarmé e la sua particolare espressione “morire purpureo” riferita alla ruota di un carro, simbolo della poesia.

(tratto da Apollinaire Poesie Newton Compton Italiana, Introduzione di Renzo Paris, Roma, 1971)

Apollinaire le undicimila verghe

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le morpion

Imitons la ténacité
De cet insect qu’on méprise.
Dames, messieurs qui vous grattez,
Il ne lachera jamais prise.

.
La piattola

Imitiamo la tenacia
Di questo insetto spregiato.
Signori che vi grattate, dame,
Lui non lascerà mai la presa.

 

Le hibou

Mon pauvre coeur est un hibou
Qu’on cloue, qu’on décloue, qu’on recloue.
De sang, d’ardeur, il est à bout.
Tous ceux qui m’aiment, je les loue.

.
Il gufo

Il mio povere cuore è un gufo
Che s’inchioda, si schioda, si rinchioda.
Sangue ed ardore non ha quasi più.
Tutti quelli che mi amano, li lodo.

Apollinaire Il pleut

Apollinaire Il pleut

La méduse

Méduse, malheureuses tetês
Aux chevelures violettes
Vous vous plaisez dans le tempetês,
et je m’y plais comme vous faites.

 

La medusa

Meduse, sciagurate teste
Dalle capigliature violette,
vi dilettate nelle tempeste:
e anch’io come voi ci godo.

 

La sauterelle

Voici la fine sauterelle,
la nourriture de saint Jean.
Puissent mes vers être comme elle,
le régal des meilleurs gens.

 

La cavalletta

Ecco la delicata cavalletta,
Cibo di san Giovanni.
Possano i miei versi essere come lei
Il festino delle anime elette.

Apollinaire calligramme

Apollinaire calligramme

La mouche

Nos mouches savent des chansons
Que leur apprirent en Norvège
Les mouches ganiques qui sont
Les divinités de la neige.

La mosca

Le nostre mosche sanno canzoni
Che hanno appreso in Norvegia
Dalle mosche ganiche
Che sono le divinità della neve.

 

La carpe

Dans vos viviers, dans vos étangs,
carpes, que vous vivez longtemps!
Est-ce que la mort vous oublie,
poissons de la mélancolie.

La carpa

Là nei vostri vivai, nei vostri stagni,
carpe, come a lungo vivete!
Forse la morte v’oblia,
pesci della malinconia.

Apollinaire copertinaLe poulpe

Jetant son encre vers les cieux,
suçant le sang de ce qu’il aime
et le trouvant délicieux,
ce monstre inhumain, c’est moi-même.

Il polipo

Gettando il suo inchiostro verso il cielo,
succhiando il sangue di ciò che ama
e trovandolo delizioso,
questo mostro inumano, sono io.
La chèvre du Thibet

Les poils de cette chèvre et même
Ceux d’or pour qui prit tant de peine
Jason, ne valent rien au prix
Des cheveux dont je suis épris

La capra del Tibet

Il vello di questa capra e perfino
Quello d’oro per cui ha tanto penato
Giasone non valgono nulla al confronto
Dei capelli che m’hanno innamorato.

Apollinaire Calligramme

Apollinaire Calligramme

 

 

 

 

 

 

Le chat

Je souhaite dans ma maison:
une femme ayant sa raison,
un chat passant parmi les livres,
des amis en toute saison
sans lesquels je ne peux pas vivre.

Il gatto

In casa mia desidero
Una donna fornita di ragione,
un gatto che passi tra i libri,
amici in ogni stagione
senza i quali non posso vivere.

Apollinaire Calligramme

Apollinaire Calligramme

 

 

 

 

 

 

 

 

La chenille

Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.

.
Il bruco

Il lavoro conduce alla ricchezza.
Poveri poeti, lavoriamo!
Il bruco faticando senza fretta
Diventa la ricca farfalla.

Apollinaire 1

 

 

 

 

 

 

 

La souris

Belles journées, souris du temps,
vous rongez peu à peu ma vie.
Dieu! Je vais avoir vingt-huit ans,
et mal vécus, à mon envie.

Il sorcio

Bei giorni, sorci del tempo,
voi mi rodete a poco a poco la vita.
Dio! Avrò presto ventottanni,
E mal vissuti, a mio capriccio.

Apollinaire Poema calligrafico

Apollinaire Poema calligrafico

Le serpent

Tu t’acharnes sur la beauté
Et quelles femmes ont été
Victimes de ta cruauté!
Eve, Eurydice, Cleopatre;
J’en connais encor trois ou quatre.

.
Il serpente

Tu t’accanisci contro la beltà.
E quelle donne che sono state
Vittime della tua crudeltà!
Eva, Euridice, Cleopatra:
io ne conosco ancora tre o quattro.

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POESIE EROTICHE di Joyce Mansour (1928 – 1986), alcune poesie da “Déchirures” (1955) scelte da Flavio Almerighi

helmut newton Marilyn Monroe

helmut newton Marilyn Monroe

joyce mansur

joyce mansur

Joyce Mansour (1928 – 1986) è stata una poetessa inglese di nascita, ma francese d’adozione. La sua passione ardente è un urlo dei propri desideri fatti versi: versi carnali che la fanno fiorire di lussuria, parafrasando il titolo di una delle sue raccolte in formato plaquette ‘Fiorita come la lussuria’. Il suo grido, rivendica tutta la sua indignazione nei confronti degli amori disattesi, di coloro che l’hanno ferita “Degli uomini che non hanno voluto saperne di me” mentre lei, diveniva “vittima” sacrificale donando tutta se stessa, sentendosi svuotare nell’anima: “Che ti tenga in piedi cieco e devoto/ Guardando dall’alto il mio corpo spiumato”. Tutti gli uomini che l’hanno concupita e il loro non aver compreso la sua esigenza di donna-amante nel momento dell’apoteosi dell’eros più pieno, sacrale: “Voglio mostrami nuda ai tuoi occhi melodiosi. / Voglio che tu mi veda mentre urlo di piacere”, e dar loro la giusta soddisfazione di donna-amante fatta di corpo ed anima, creatura dai profondi occhi di velluto nero, e volto incorniciato da folti capelli bruni.

helmut newton coppia che fuma

helmut newton coppia che fuma

La sua poetica, avendo vissuto molto tempo in Egitto, al seguito del suo secondo marito Samir Mansour, è pregna di essenze orientali e di lemmi che caratterizzano l’architettura di alcuni versi:“E tu farai di me il tuo letto e il tuo pane/La tua Gerusalemme”.

Negli anni parigini importante, per la sua formazione poetica, fu l’incontro con Breton e il movimento surrealista.

Ma Joyce è donna generosa, che sa dispensare amore, incondizionatamente, è nella sua natura, il suo bruciare di passione nei confronti dell’uomo-amante, laddove amori visionari e morte evocano presagi surreali: “Vuoi il mio ventre per nutrirti / vuoi i miei capelli per sfamarti”, sino al sacrificio estremo: ”Vuoi che muoia lentamente  /che mormori morendo parole infantili”, per compiacere l’amato.

Mi piacciono le calze che rassodano le tue gambe.
Mi piace il busto che sostiene il tuo corpo tremante
le tue rughe i tuoi seni ballonzolanti la tua aria affamata
la tua vecchiaia contro il mio corpo teso
la tua vergogna davanti ai miei occhi che sanno tutto
I tuoi vestiti che odorano del tuo corpo marcio.
Tutto questo alla fine mi vendica.
Degli uomini che non hanno voluto saperne di me
Vuoi il mio ventre per nutrirti
vuoi i miei capelli per sfamarti
vuoi le mie reni i miei seni la mia testa rasata
vuoi che muoia lentamente lentamente
che mormori morendo parole infantili.

(…) Voglio mostrami nuda ai tuoi occhi melodiosi.
Voglio che tu mi veda mentre urlo di piacere.
Che le mie membra piegate sotto un carico troppo pesante
ti spingano a gesti blasfemi.
Con i capelli lisci della mi testa offerta
rimangano sospesi alle tue unghie ricurve di furore.
Che ti tenga in piedi cieco e devoto
Guardando dall’alto il mio corpo spiumato.
Ti piace dormire nel nostro letto disfatto
non ti disgustano i nostri antichi sudori
le lenzuola sporche di sogni dimenticati
le nostre grida che risuonano nella camera buia
tutto questo esalta il tuo corpo affamato
la tua brutta faccia alla fine s’illumina
perché i nostri desideri di ieri sono i tuoi sogni di domani

da Grida, (1953), traduzione di Mauro Conti

helmut newton in mostra a Roma, particolare

helmut newton in mostra a Roma, particolare

Invitami a trascorrere la notte nella tua bocca
raccontami la giovinezza dei fiumi
premi la mia lingua contro il tuo occhio di vetro
dammi a balia la tua gamba
e poi dormiamo, fratello mio,
perché i nostri baci muoiono più veloci della notte. (…)

da Fiorita di lussuria, (1955), traduzione di Carmine Mangone

Nuoterò verso te
Attraverso lo spazio profondo
Sconfinato
Acida come un bocciolo di rosa
Ti troverò uomo senza freno
Magro sommerso dal fango
Santo dell’ultima ora
E tu farai di me il tuo letto e il tuo pane
La tua Gerusalemme

da Rapaces, traduzione di trad. Rita R. Florit

 

helmut newton Jerry Hall

helmut newton Jerry Hall

 

*
Invitatemi a trascorrere la notte nella vostra bocca
Raccontatemi la giovinezza dei fiumi
Premete la mia lingua contro il vostro occhio di vetro
Datemi a balia la vostra gamba
E poi dormiamo, fratello di mio fratello,
ché i nostri baci muoiono più veloci della notte.
*
C’è del sangue sul giallo d’uovo
C’è dell’acqua sulla piaga della luna
C’è dello sperma sul pistillo della rosa
C’è un dio che in chiesa
Canta e s’annoia.

helmut newman Winnie-al-largo-della-costa-di-Cannes 1975

helmut newman Winnie-al-largo-della-costa-di-Cannes 1975

Ho spiegato al gatto tigrato
Le ragioni delle stagioni e le regole del gufo
I tradimenti degli amici, l’amore dei gobbi,
E il parto della piovra dai tentacoli palpitanti
Che striscia nel mio letto e non ama le carezze.
Il gatto tigrato ha ascoltato senza rispondere né battere ciglio
E quando son partita
Il suo dorso striato
Rideva.
*
Non ci sono parole
Soltanto peli
Nel mondo senza fogliame
Dove i miei seni regnano.
Non ci sono gesti
Soltanto la mia pelle
E le formiche che brulicano tra le mie gambe untuose
Portano le maschere del silenzio lavorando.
Piomba la notte la tua estasi
E il mio corpo profondo questo polipo spensierato
Ingoia il tuo sesso agitato
Durante la sua nascita.

Joyce Mansour Les « prières d'amour »

Joyce Mansour Les « prières d’amour »

*
Un nido di viscere
Sull’albero secco che è il tuo sesso
Un cipresso nero piantato nell’eternità
Fa la veglia ai morti che nutrono le sue radici
Due ladroni crocifissi su costolette d’agnello
Se la ridono del terzo che, a missione compiuta,
Mangia la sua croce di carne
Arrostita.
*
Ho visto salire i peli fulvi ed elettrici
Del mio ventre verso la mia gola spiumata d’uccello
E ho riso.
Ho visto vomitare l’umanità nel catino instabile della chiesa
E non ho compreso il mio cuore.
Ho visto il cammello in camicia partire senza lacrime per La Mecca
Con i mille e un venditore di sabbia e il mostro squamato delle folle nere
Ma non ho potuto seguirlo
Perché la pigrizia ha vinto la sua corsa contro il fervore
E l’abitudine ha ripreso la sua danza col piede
Slogato.
*
Io sono la notte
Questa notte di spazio raggelato dalla fredda imbecillità della luna.
Io sono il denaro
Il denaro che fa il denaro senza sapere perché.
Io sono l’uomo
L’uomo che preme il grilletto e spara all’emozione
Per vivere meglio.

joyce mansour

joyce mansour

*
Ogni mattina un’aquila accaldata
Viene ad affilare il becco
Sulla mia pelle brufolosa
Da rabbino.
Tutte le campane suonano a morte
Quando l’aquila s’addormenta
Senza offrire del cibo ai poveri e ai cani
Che mendicano senza posa alle porte della felicità
E che l’adorano.
Tutti gli uomini ascoltano il mio piede destro che proclama
Le regole del gioco d’azzardo della morte
Che l’uomo gioca con l’aquila
Contro Dio.
*
Il nero mi circonda
Salvatemi
Gli occhi aperti sulla vuota disperazione degli orizzonti marittimi
Mi scoppiano in testa
Salvatemi
I pipistrelli dai corpi ammuffiti
Che vivono nei cervelli torturati dei monaci
S’attaccano alla mia lingua cremosa
La mia lingua gialla di donna accorta.
Salvatemi, voi che sapete
E i vostri giorni saranno moltiplicati
Malgrado i peccati che non vi hanno perdonato
Malgrado lo spessore delle notti nelle vostre bocche
Malgrado i vostri bambini iniziati al male
Malgrado i vostri letti.

joyce mansour

joyce mansour

 

 

 

 

 

 

*
Corpicino deforme
Nel suo buco senza luci.
Testolina liscia
Senza occhi né sorriso
Questa l’infanzia.
Ossicini privi di volontà
Presto spezzati da dita sommarie
Cavia fragile, dolce e condannata,
Figlio non figlio di una madre senza amanti
Condannato ad essere solo, condannato alla scienza.
*

La mia risata vola alta
Più in alto dei cappelli cardinalizi
E della speranza.
I miei seni sorridono quando brilla il sole
Malgrado i miei abiti malgrado mio marito
Felice nell’essere così sporca
Perché gli avvoltoi mi amano
E anche Dio.

Joyce Mansour Cette jeune femme à la très étrange beauté sombre et exotique, fraîchement débarquée à Paris, aux cheveux de jais volontairement coiffée à l’égyptienne pour étonner

Joyce Mansour Cette jeune femme à la très étrange beauté sombre et exotique, fraîchement débarquée à Paris, aux cheveux de jais volontairement coiffée à l’égyptienne pour étonner

*
Era ieri.
Il primo poeta urinava il proprio amore
Il suo sesso a lutto cantava rumorosamente
Le canzoni rauche
Delle montagne
Il primo dio in piedi sul suo nimbo
Annunciava la propria venuta sulla terra svanita
Era domani.
Ma gli uomini dalla testa di gatto
Mangiavano gli occhi confusi
Senza notare le chiese che bruciavano
Senza salvarsi l’anima che fuggiva
Senza salutare gli dèi che morivano
Era la guerra.

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Paul Valéry OPERE SCELTE a cura di Maria Teresa Giaveri “I Meridiani” Mondadori, 2014 pp. 1770 € 80 Presentazione di Giorgio Linguaglossa e una nota critica di André Durand – La jeune Parque

Paul Valéry

Paul Valéry

 Paul Valéry (Sète, 30 ottobre 1871 – Parigi, 20 luglio 1945) è un poeta chiave per comprendere la poesia europea del Novecento; finalmente abbiamo qui riunite in un unico volume le opere poetiche del poeta francese insieme alle più importanti riflessioni sull’arte poetica e sulla Poetica. Valéry è il primo poeta europeo che crea una teoria del linguaggio e una teoria della composizione poetica, per lui il linguaggio è la fonte della metafisica come illusione intellettuale e la zona di massima dispersione e confusione intellettuale e linguistica. È caratteristico di Valéry che lui pervenga alla poesia da una teoria critica della poesia, da una via fino allora considerata impensabile. È un poeta e un teorico della poesia allo stesso tempo di straordinaria importanza.

«Tutta la mia filosofia – scrive Valéry – si riduce ad accrescere quella precisione o coscienza di sé che ha per effetto di separare nettamente le domande dalle risposte […] Bisogna imparare a pensare che ciò che è non è necessariamente una domanda. E che non ogni domanda ha necessariamente un senso». Valéry pensa che il linguaggio sia  il luogo stesso della confusione. Di qui quella sua forsennata ricerca di una poesia che fosse applicazione di una geometria assoluta, di un rigore quasi matematico. Il superamento del linguaggio naturale in Valéry non può essere compiuto grazie a un linguaggio ideale ma grazie alla vita, che pone dei problemi reali per dei bisogni reali e grazie all’azione.

Paul Valéry cop Scrive Valéry: «Si potrebbe – e forse lo si dovrebbe – assegnare come unico oggetto alla filosofia quello di porre e di precisare i problemi, senza preoccuparsi di risolverli. Si tratterebbe allora di una scienza degli enunciati, e dunque di una purificazione delle domande».  «Una riflessione semplicissima ci fa pensare che la Letteratura è e non può essere altro che una specie di estensione e di applicazione di certe proprietà del linguaggio. Essa utilizza per esempio ai propri fini le proprietà foniche e le possibilità ritmiche del parlare, che sono trascurate nel discorso comune […] È questo il mondo delle “figure”, di cui si preoccupava l’antica Retorica […] La formazione delle figure è indivisibile da quella dello stesso linguaggio, in cui tutte le parole “astratte” sono ottenute tramite qualche dilatazione d’uso o trasferimento di significato, seguito da un oblio del senso primiero. Il poeta che moltiplica le figure non fa dunque che ritrovare in se stesso il linguaggio allo stato nascente […] La Poetica si proporrebbe non tanto di risolvere i problemi quanto di enunciarli. Il suo insegnamento non sarebbe separato dalla ricerca stessa… dovrebbe essere trattato e mantenuto in uno spirito di massima generalità… quest’ultima considerazione conduce… a un’importante distinzione: quella delle opere che sono come create dal loro pubblico (di cui rispondono all’attesa e sono perciò quasi determinate dalla sua conoscenza) e delle opere che, invece, tendono a creare il loro pubblico». (qui pp. 380-381)

Paul Valéry 13 «Una poesia su un foglio di carta non è che uno scritto, sottoposto a tutto quel che si può fare di uno scritto. Ma fra le sue varie possibilità, ce n’è una, e una soltanto, che pone infine quel testo nelle condizioni in cui prenderà forza e forma d’azione. Una poesia è un discorso che esige e che provoca un legame continuo fra la voce che è e la voce che viene e che deve venire. E questa voce deve essere tale da imporsi, e da stimolare lo stato emotivo di cui il testo sia l’unica espressione verbale. Togliete la voce, e la voce che occorre, e tutto diventa arbitrario. La poesia diviene una serie di segni legati l’uno all’altro solo dal fatto di essere stati materialmente tracciati uno dopo l’altro. (qui p. 394) «Anche nella testa più solida la contraddizione è la norma; la consequenzialità è l’eccezione […] Ma ecco una circostanza stupefacente: tale dispersione, sempre imminente, importa e concorre alla produzione dell’opera quasi quanto la stessa concentrazione». (qui 396) «L’opera d’arte è un’opera in sé inutile, in rapporto al senso preciso di utilità: è una categoria completamente a parte». (qui p. 416) «Una poesia deve essere una festa dell’intelletto».

Paul Valéry

Paul Valéry

 Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1892, a Genova, cade in quella che in seguito avrebbe  indicato come una profonda crisi esistenziale intellettuale. Al mattino decide di ripudiare gli idoli dell’estetica simbolista tutta volta alla ricerca di una sopra-realtà e si concentra su una concezione  tutta razionale dell’arte quale mezzo di conoscenza e di auto-costruzione; l’opera sarà un espediente per l’affinamento delle doti spirituali e intellettuali, un «esercizio spirituale», una «ginnastica», una «danza», un «fare», una «scherma», un «gioco di scacchi», una «strategia».  La via dello spirito è una via anagogica, ce lo testimoniano i suoi cahiers, (diari) nei quali annota ogni mattino le sue riflessioni. Aggiunge, come battuta di spirito, «avendo consacrato queste ore alla via dello spirito, mi sento in diritto di essere sciocco per il resto del giorno». «Ogni poema che non avesse la precisione esatta della prosa non ha nessun valore» dichiara Valéry, oppure, segue le orme di Malherbe il quale aveva detto che «un buon poeta non è più utile al suo paese di quanto non sia un buon giocatore di bocce».

Paul Valéry 8 Nel 1894, si trasferisce a Parigi, dove lavora come redattore al ministero della guerra. Rimane volontariamente lontano dalla scrittura poetica per consacrarsi alla conoscenza di sé e del mondo. Segretario personale di Edouard Lebey, amministratore della Havas, la prima agenzia di stampa, si dedica ogni mattino, dalle quattro alle sette, alla redazione dei suoi Cahiers, diari intellettuali, che vedranno la parziale pubblicazione solo dopo la sua scomparsa. Nel 1917, sotto l’influenza principalmente di André Gide, ritorna alla poesia, con La Jeune Parque, pubblicato presso Gallimard. In piena epoca di avanguardie e di libertà formale, Valéry ritorna all’alessandrino di Racine, a un modello formale seicentesco riproposto con due secoli di ritardo; sembra una provocazione, un lavoro a ritroso, e invece è subito un successo; il poema non è altro che «una fabbricazione artificiale che ha preso una sorta di sviluppo naturale» scriverà in seguito Valéry. Seguono Le Cimetière marin (1920) e una raccolta, Charmes (1922). Valéry non finisce mai di stupire, a proposito dei poeti simbolisti, durante una conferenza nega l’esistenza dei poeti simbolisti in quanto alla loro epoca nessuno di essi sapeva di essere dei simbolisti. Scrive:

«Quanto a loro, i nostri simbolisti dell’86 [concordi in una comune risoluzione di rinuncia al suffragio della massa], senza appoggi nella stampa, senza editori, senza approdi […], si adattano a questa vita fuori norma; si fanno le loro riviste, le loro edizioni, la loro critica interna; e si formano a poco a poco quel piccolo pubblico di loro scelta […]. Operano così una sorta di rivoluzione nell’ordine dei valori, poiché sostituiscono progressivamente alla nozione di opere che sollecitano il pubblico, che lo prendono per il suo lato debole o abitudinario, quella di opere che creano il loro pubblico». (pp. 1109-10) Scrive ancora Valéry: «I miei versi hanno il senso che si dà loro […] È un errore che va contro la natura della poesia potrebbe esserle fatale pretendere che a ogni poesia corrisponda un significato autentico, unico, conforme o identico a un pensiero dell’autore» (pp. 1298-9).

Paul Valéry

Paul Valéry

 Scrive nella prefazione la Giaveri: «diversamente dalle opere giovanili (a cui d’altra parte rivendicava un senso preciso), le poesie della raccolta non vivono di un gioco metaforico costruito a posteriori, tramite la mediazione letteraria, ma di una analogia originaria fra due stati psicofisici che si strutturano secondo le stesse leggi e permettono le stesse varianti» (p. XXXIII). Diventa il “poeta ufficiale” di Francia ma resta schivo ed estraneo ai riconoscimenti e agli onori. Nel 1924, viene eletto presidente del Pen Club francese e componente dell’Académie Francaise. Seguono anni di riconoscimenti e di onori e la cattedra (quella di poetico al Collège de France).

Ma durante tutto questo tempo, la sua vera professione continua nell’ombra: la profondità delle riflessioni che dà alle stampe in opere consistenti (Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, La soirée avec monsieur Teste), i suoi studi sul divenire della civiltà (Regards sur le monde actuel) e la sua viva curiosità intellettuale ne fanno un interlocutore ideale per Raymond Poincaré, Louis de Broglie, Henry Bergson e Albert Einstein. Sotto l’occupazione nazista, si rifiuta di collaborare e perde il suo posto d’amministratore a Nizza. Muore  il 20 luglio 1945, poche settimane dopo la fine della seconda guerra mondiale. Charles de Gaulle richiede per lui i funerali di Stato e viene sepolto a Sète, nel cimitero marino che aveva già celebrato nel suo famoso poema.

(Giorgio Linguaglossa)

Paul Valéry 9Ecco come il critico André Durand presenta La jeune Parque (1917):

Depuis 1892, Valéry n’avait publié qu’un très petit nombre de poèmes d’une esthétique fort différente des compositions antérieures, en particulier pour la nature et le fonctionnement des métaphores. Vers le milieu de 1912, sur l’insistance d’André Gide et de Gaston Gallimard, il accepta d’éditer l’ensemble de ses œuvres de jeunesse, vers et prose. Mais, ne sachant comment transformer ces vers anciens qui lui paraissaient étrangers, il entreprit un poème d’une quarantaine de vers, qui serait un adieu à la poésie.

Dans sa dédicace à André Gide, il déclara : «Depuis des années, j’avais laissé l’art des vers ; essayant de m’y astreindre encore, j’ai fait cet exercice que je te dédie.» Et il précisa ses intentions : «Lorsque j’ai voulu me remettre à la poésie, j’ai voulu faire œuvre de volonté, combiner dans une oeuvre, tout d’abord les idées que je m’étais faites sur l’être vivant et le fonctionnement même de son être en tant qu’il pense et qu’il sent ; ensuite…, ne pas verser dans l’abstraction, mais au contraire incarner dans une langue aussi imagée que possible, et aussi musicale que possible, le personnage fictif que je créais.» Nulle contrainte n’était plus précieuse à cet athlète mental que celle de la versification traditionnelle, de la prosodie la plus rigoureuse. Il voulait que le poème en vers soit le chant continu d’une voix portée par un «je»  et dont l’efficacité poétique tienne aux ressources souplement modulées d’une matière verbale où la musique du sens est étroitement nouée à la musique du son. Son projet n’était pas de dire quoi que ce soit mais chercher à faire, c’est-à-dire à rigoureusement composer un poème dont le sens ne se dégagerait que plus tardivement.

Paul Valéry

Paul Valéry

 Si, après un long silence, il était revenu à la poésie, il n’en avait pas, pour autant, abandonné ses idées centrales. Leur restant fidèle ou ne parvenant pas à s’en détacher, les jugeant essentielles, il voulait traiter, dans un poème aussi, le thème de la passion de l’intellect ou, mais c’est la même chose, de la connaissance et de la conscience. Il voulut d’abord l’intituler “Psyché” (l’âme) et a d’ailleurs défini son objectif de la manière la plus claire : «Songez que le sujet véritable du poème est la peinture d’une suite de substitutions psychologiques et en somme le changement d’une conscience pendant la durée d’une nuit.» Il voulut montrer l’opposition entre deux états et le passage de l’un à l’autre : du non-être de la conscience à l’existence de la conscience, cette prise de conscience de la conscience étant le motif central de toute sa réflexion.

La difficulté était donc quasi insurmontable : unir la matière abstraite la plus éloignée de toute forme poétique à la forme poétique la plus éloignée de l’abstraction. Au surplus, il était obligé de compter avec les exigences propres à la poésie, sachant qu’elle ne concède rien et qu’elle veut rester rythme, image, chant. Il a donc tenté de tenir cette gageure : rendre l’abstrait voluptueux sans qu’il perde rien de son austérité et créer une plasticité sans qu’elle perde rien de son rayonnement sensoriel. Puisque l’étude du mécanisme de l’intelligence, surpris dans le moment propice de l’élaboration ou de l’invention, restait sa curiosité profonde, il a corrigé la sécheresse d’un tel dessein et il en a vécu l’émotion.

Par une sorte de miracle, l’objet même qui devait l’obliger à l’usage de la prose et au vocabulaire technique l’a conduit à une prosodie rigoureuse, une syntaxe audacieuse et puriste, un choix de mots rares, des images, des symboles, des métamorphoses, une langue sensuelle, chatoyante et précieuse, si harmonieuse et si pleine que sa beauté paraît se séparer de son sens et autorisa, en son temps, l’extravagante erreur de tenir ses poèmes pour de la poésie pure, soit sans signification.

Paul Valéry

Paul Valéry

 Cette tentative apparut d’abord à travers un brouil­lon intitulé ‘’Hélène’’. Ainsi, la mythologie grecque ajoutait aux différentes significations du poème des effets complexes de résonance. Hélène sortait de la grotte de la Nuit et voulait exister par elle-­même et non par le désir des autres («Suis-je quelque chose Moi qui ne me vois que dans le vertige des autres. Et qu’y suis-je?»), explorer les mystères de son être «en tant qu’il pense et qu’il sent». Mais, se regardant dans un miroir, elle se voyait séparée de ce reflet par des larmes, qui provoquaient aussitôt la question : «Si je me vois au miroir, des larmes me viennent, d’où?»). Puis elle se posait des questions sur un lieu inconnu, sur une identité autre et mystérieuse : «Mais qui pleure / seule et de diamants séparés?» Questions inachevables qui s’articulaient déjà sur un décor «élémental» : Astres, Nuit, Distance, Larmes, Regard, ­et cette objet indispensable à tout questionnement chez Valéry : le Miroir. Mais, en quarante vers, c’était trop. D’autant plus que l’écri­ture fit surgir en s’accomplissant les problèmes du «système» auquel il ne cessait de travailler : les substitutions, l’acte de conscience et la mémoire, les déplacements et les condensa­tions du Moi par la pratique du langage, le fonctionnement des figures, la production de l’imaginaire par les structures for­melles, etc.

Gardant la préoccupation du double manque, le manque qui cause les larmes, le manque qui fait de cette autre d’Hélène dans Hélène un être sans nom, il envisagea donc une œuvre plus ample, qu’il appelait d’ailleurs «mon opéra», dans laquelle il voulut donner à la poésie les valeurs des récitatifs des drames lyriques (« Glück et Wagner m’étaient des modèles secrets» (lettre à  Aimé Lafont, septembre 1922), pour laquelle différents titres furent ébauchés à mesure pour aiman­ter diversement le travail : ‘’Pandora’’, ‘’Vers anciens’’, ‘’Ébauche’’, ‘’Étude ancienne’’, ‘’Discours’’, ‘’La seule Parque’’, ‘’L’aurore’’, puis ‘’Psyché’’ qui fut proposé par Pierre Louÿs, ‘’Île’’, enfin ‘’La jeune Parque’’ en 1916. Le poète a choisi de faire parler une Parque, non une des trois Parques qui, chez les Anciens, étaient les divinités du Destin, symbolisaient les étapes de la destinée humaine, la troisième coupant le fil de la vie ; mais une Parque qui est une mortelle et qui, surtout, est jeune, se trouvant à l’âge où l’individu doit définir son identité, voit naître «la conscience de soi-même», rencontre les divers problèmes de «la conscience consciente».

La composition dura plus de quatre ans. Le poème se développa par fragments remis vingt fois sur le métier : il y eut plus parfois plus de trente états successifs. Une note d’un ‘’Cahier’’ de 1917, intitulée «Comment j’ai fait la J.P.»,  précisa la chronologie du travail :

– 1912 : Genèse              
– 1913 :  Serpent                            
– 1914 
– 1915 : «Harmonieuse Moi», Sommeil    
– 1916 : Îles
– 1917.

Paul Valéry 10 Il commenta : «D’écart en écart, cela s’est enflé aux dimensions définitives». Pour ces 512 vers, il avait rédigé plus de cent brouillons dont la reproduction occuperait 600 pages ! La pression de la guerre accompagna l’invention du poème. Il avait fini par considérer comme un devoir de léguer à notre langue menacée cet ouvrage «fait de ses mots les plus purs et de ses formes les plus nobles». – «Je ne me l’explique à moi-même, je ne puis concevoir que je lai fait, quen fonction de la guerre. Je l’ai fait dans l’anxiété et à demi contre elle. J’avais fini par me suggérer que j’accomplissais un devoir; que je rendais un culte à quelque chose en perdition. Je m’assimilais à ces moines du premier Moyen Âge qui écoutaient le monde civilisé autout de leur cloître crouler, qui ne croyaient plus qu’en la fin du monde ; et toutefois qui écrivaient difficilement, en hexamètres durs et ténébreux, d’immenses poèmes pour personne […] Il n’y avait aucune séré­nité en moi.» (lettre à Georges Duhamel, 1929). Mais les bruits de la guerre n’étaient peut-être pas nécessaires car il avoua : «angoisse, mon vrai métier».

Dans une lettre à Aimé Lafont (septembre 1922), il a ainsi défini son poème : «C’est une rêverie qui peut avoir toutes les rup­tures, les reprises et les surprises d’une rêverie dont le person­nage en même temps que l’objet est la conscience consciente. Figurez-vous que l’on s’éveille au milieu de la nuit, et que toute la vie se revive, et se reparle à soi-même […] Sensualité, souvenirs, paysages, émotions, sentiment de son corps, profondeur de la mémoire et lumière ou cieux antérieurs revus, etc.. Cette trame qui n’a ni commencement ni fin, mais des nœuds, j’en ai fait un monologue auquel j’avais imposé avant de l’entreprendre des conditions de ‘’forme’’ aussi sévères que je laissais au fond de liberté. Je voulais faire des vers non seulement réguliers mais césurés, sans enjambement, sans rimes faibles.»

Paul Valéry

Paul Valéry

 Dans une lettre à A. Mockel (1917), il précisa le but qu’il s’était donné : «Faire un chant prolongé, sans action, rien que l’incohérence interne aux confins du sommeil ; y mettre autant d’intellectualité que j’ai pu le faire et que la poésie en peut admettre sous ses voiles ; sauver l’abstraction prochaine par la musique, ou la racheter par des visions, voilà ce que j’ai fini par me résoudre à essayer, et je ne l’ai pas toujours trouvé facile […] Il y a de graves lacunes dans l’exposition et la composition, je n’ai pu me tirer de l’affaire qu’en travaillant par morceaux. Cela se sent, et j’en sais trop sur mes défaites !» Son projet était aussi de composer un poème «cent fois plus difficile à lire qu’il n’eût convenu», dont le sens ne se dégagerait que plus tardivement. Cette obscurité résulterait d’abord de la nature du sujet. Il a voulu rassembler dans ce poème un grand nombre d’idées qui l’occupaient depuis longtemps

Ces «morceaux», les divers états du manuscrit font voir qu’ils ne se sont pas toujours succédé dans l’ordre où le texte définitif les présente, le plus important de ces déplacements concernant le dernier épisode. C’est que l’œuvre s’est formée en restant volontairement aveugle à son destin.

Ailleurs encore, on peut lire : «Ce chant est une autobiographie. J’ai supposé une mélodie, essayé d’attacher, de «ritardare», d’enchaîner, de couper, d’intervenir, de conclure, de résoudre, et ceci dans le sens comme dans le son…» (‘’Cahiers’’, VI, 508-509).

Armé de ces renseignements, invité par Valéry lui-même qui disait : «Il ne suffit pas d’expliquer le texte, il faut aussi expliquer la thèse», on peut essayer de déchiffrer ce poème dense et difficile dont l’obscurité ne résulterait pas d’une intention délibérée d’hermétisme (les raccourcis et les ellpises étant exigés par l’harmonie) et qui, grâce à la musique verbale, transpose une idée abstraite et revêche dans un érotisme onduleux, la pureté de l’idée étant atteinte à travers la pureté de la sensation, sans l’intermédiaire du sentiment.

 

Paul Valéry nel suo studio

Paul Valéry nel suo studio

La jeune Parque” (1917)

Poème de 512 alexandrins

«Le Ciel a-t-il formé cet amas de merveilles
Pour la demeure d’un serpent?»
Pierre Corneille

Qui pleure là, sinon le vent simple, à cette heure
Seule avec diamants extrêmes?… Mais qui pleure,
Si proche de moi-même au moment de pleurer?

Cette main, sur mes traits qu’elle rêve effleurer,
Distraitement docile à quelque fin profonde,
Attend de ma faiblesse une larme qui fonde,
Et que de mes destins lentement divisé,
Le plus pur en silence éclaire un cœur brisé.
La houle me murmure une ombre de reproche,
10 Ou retire ici-bas, dans ses gorges de roche,
Comme chose déçue et bue amèrement,
Une rumeur de plainte et de resserrement…
Que fais-tu, hérissée, et cette main glacée,
Et quel frémissement d’une feuille effacée
Persiste parmi vous, îles de mon sein nu?
Je scintille, liée à ce ciel inconnu…
L’immense grappe brille à ma soif de désastres.

Tout-puissants étrangers, inévitables astres
Qui daignez faire luire au lointain temporel
20 Je ne sais quoi de pur et de surnaturel ;
Vous qui dans les mortels plongez jusques aux larmes
Ces souverains éclats, ces invincibles armes,
Et les élancements de votre éternité,
Je suis seule avec vous, tremblante, ayant quitté
Ma couche ; et sur l’écueil mordu par la merveille,
J’interroge mon cœur quelle douleur l’éveille,
Quel crime par moi-même ou sur moi consommé?…
… Ou si le mal me suit d’un songe refermé,
Quand (au velours du souffle envolé l’or des lampes)
30 J’ai de mes bras épais environné mes tempes,
Et longtemps de mon âme attendu les éclairs?
Toute? Mais toute à moi, maîtresse de mes chairs,
Durcissant d’un frisson leur étrange étendue,
Et dans mes doux liens, à mon sang suspendue,
Je me voyais me voir, sinueuse, et dorais
De regards en regards, mes profondes forêts.

J’y suivais un serpent qui venait de me mordre.

Quel repli de désirs, sa traîne !… Quel désordre
De trésors s’arrachant à mon avidité,
40 Et quelle sombre soif de la limpidité ! Continua a leggere

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POESIE SCELTE di José-Flore Tappy  da   “Poesie  lunari” (2001)  (Losanna – 1954) traduzione a cura di Marco Morello

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José-Flore Tappy è nata a Losanna nel 1954 ed è autrice di sei volumi di poesia. Ha vinto due prestigiosi premi letterari svizzeri: il Premio Ramuz per Errer mortelle e il Premio Schiller per Hangars e l’opera omnia. Tappy ha anche scritto un saggio sull’artista Loul Schopfer, ha tradotto poesie dallo spagnolo e, in collaborazione con Marion Graf, le poesie di Anna Achmatova. Lavora come editor e ricercatrice presso il Centro di Ricerche sulla Letteratura Romanza all’Università di Losanna.

José-Flore Tappy  da   “Poesie  lunari” (2001)

da Lunaires , Geneva : La Dogana, 2001 “Sheds / Hangars : Collected Poems 1983 – 2013″ (bilingual edition, Fayetteville, New York, 2014).

 En plein jour
Une fourmi
Elle me hante cette nuit
 

Seishi

 
Dans ma robe de drap fruste
osseuse
plus aiguë qu’un silex
je creuse
l’étouffante noirceur
je gratte avec mes ongles
le salpêtre de la nuit
 

*

Nella mia veste logora
ossuta
più aguzza d’una selce
scavo
nella soffocante nerezza
gratto con le unghie
il salnitro della notte

*

La nuit tient tout contre elle
l’astre de sel sa poupée chauve
aux yeux troués
si sombre sa robe si taciturne
elle se confond avec le ciel

Sans refuge
partout l’emmène
poupée blafarde
d’avoir traîné
à travers toute l’immensité

jusqu’au matin
la serre la baigne
de sa sueur mobile

bouclier de nuées
contre les pluies fantômes
*

La notte tiene tutto per sé
l’astro di sale la sua bambola calva
dagli occhi forati
così scura la sua veste taciturna
si confonde col cielo

Senza rifugio
la porta dappertutto
pallida bambola
da trascinare
per tutta l’immensità

fino al mattino
la stringe la bagna
col suo sudore mobile

scudo di nuvole
contro le piogge fantasma

José-Flore Tappy

José-Flore Tappy

Les hanches serrées
dans une étoffe rêche
j’avance
compacte
portée par mes chevilles

tout autour
cratères lumière d’écume
et de mercure

à peine si l’astre sous mes pieds
vibre

moi l’insecte elle la toile
moi l’agitée elle la sphère
moi debout elle circulaire

pétrie de terre et de fumée
avec mes rêves mes cires et mes boues

moi la chair elle la pierre
moi l’anarchie elle souveraine
moi la naine elle géante

j’irrite le silence
véhicule en tous sens
l’eau potable et de troubles marchandises
et je vaque aux besognes et j’entretiens le feu

moi la fauve elle nuée
moi païenne elle l’extase
moi la rauque elle fluide

et je raie l’espace de ma stridente aiguille

moi l’oreille elle la sourde
moi violente elle muette
moi la houle elle néant

.
Seishi

I fianchi costretti
in una stoffa ruvida
avanzo
compatta
sorretta dalle caviglie
tutto attorno
crateri luce di schiuma
e di mercurio

la luna vibra appena sotto i miei piedi

io l’insetto lei la ragnatela
io l’agitata lei la sfera
io in piedi lei circolare

impastata di terra e di fumo
coi miei sogni le mie cere i miei fanghi

io la carne lei la pietra
io l’anarchia lei sovrana
io la nana lei gigante

irrito il silenzio
trasporto in ogni direzione
l’acqua potabile e oscure merci
mi dedico alle faccende e curo il fuoco

io la belva lei nuvola
io pagana lei l’estasi
io la rauca lei fluida

e graffio lo spazio col mio ago stridente

io l’orecchio lei la sorda
io violenta lei muta
io l’onda lunga lei il nulla

José-Flore Tappy

José-Flore Tappy

 

 

 

 

 

 

 

 

Kaos

Têtes coupées crânes vides
roulent dans la poussière
tellement sonores
sur la terre nue
leurs fronts cognent
contre le sol

les boules
dans la main des joueurs
quand le lancer est courbe
s’entrechoquent
comme des cailloux

jeu de bandits
jeu d’assassins

Kaos

Teste tagliate crani vuoti
rotolano nella polvere
risuonano
sulla terra nuda
le fronti colpiscono
il suolo

le bocce
dalla mano dei giocatori
concludono la parabola
scontrandosi
come sassi

gioco da banditi
gioco da assassini

*

Comment user l’angoisse
comment l’exténuer

vertiges tournis
amoncellements
caillots des nuits

sous la poitrine
bolides lancés
dans une course
aveugle

*
Come stancare l’angoscia
come estenuarla

vertigini capogiri
accumuli
coaguli delle notti

sotto il petto
bolidi lanciati
in una corsa
cieca

José-Flore Tappy

José-Flore Tappy

Mais c’est elle
qui l’hallucine
l’attractive
la fait rire ou crier
c’est elle
qui tangue et l’appelle
c’est l’iode et le chant
des sirènes et la tête
lui tourne sur le roulis
des vagues
*

Ma è la luna
ad allucinare il mare
l’attraente
lo fa ridere o piangere
è lei
che beccheggia e lo chiama
è lo iodio e il canto
delle sirene e la testa
le gira al rollìo
delle onde

*

Le ciel agite
Son bout d’étoffe
sa lune grise
dans la nuit rare

il voudrait dire
il voudrait dire

au grand train qui dévale
le temps ferraille
le temps sur rails
tout ce vacarme

le ciel agite
sa lune pâle
dans la nuit rare
aromatique

*

Il cielo agita
il suo pezzo di stoffa
la sua luna grigia
nella notte rara

vorrebbe dire
vorrebbe dire

al grande treno che viene giù
il tempo sferraglia
il tempo sulle rotaie
tutto questo fracasso

il cielo agita
la sua luna pallida
nella notte rara
aromatica

José-Flore Tappy

José-Flore Tappy

Engourdis
bleuis de froid
là-bas
leurs yeux se perdent
au fond de leurs visages

on y cherche
on voudrait

mais l’oubli
l’oubli seul les recouvre
de la neige plein la bouche

*

Intirizziti
resi blu dal freddo
laggiù
i loro occhi si perdono
in fondo ai loro volti

vorremmo
cercarli

ma l’oblio
solo l’oblio li ricopre
le bocche piene di neve

*

L’eau des rivières
a beau couler
rien ne guérit
quand la mort creuse
des ventres déjà vides

*

Di acqua può passarne
sotto i ponti
ma niente guarisce
quando la morte perfora
dei ventri già vuoti

*

Lentement
à travers l’insomnie
descend
l’âpre théine
des larmes

*

Lentamente
attraverso l’insonnia
scende
l’aspra teina
delle lacrime

José-Flore Tappy

José-Flore Tappy

Le jour fendu
crachera-t-il ses pépins
dans nos bouches affamées

ou peut-être faudra-t-il
à nouveau
patienter jusqu’au soir
se contenter de boire
boire à la blanche mamelle
à son lait d’autrefois
doux-amer

*

Il giorno spezzato
sputerà i suoi semi
nelle nostre bocche affamate
o forse bisognerà
di nuovo
pazientare fino a sera
accontentarsi di bere
bere alla bianca mammella
il suo latte stantìo
dolce-amaro

*

Chaque matin
poser nos voix debout
sur la toile cirée
rompre le pain casser le sel

avant que la fatigue
encore une fois ne vienne
ne nous fauche
une fois de plus
hâtive
de sa grande pelle

*

Ogni mattina
posare le nostre voci dritte
sulla tela cerata
spezzare il pane sminuzzare il sale

prima che la fatica
ancora una volta venga
a falciarci
una volta di più
frettolosa
col suo grosso badile

José-Flore Tappy photo Yvonne Bohler

José-Flore Tappy photo Yvonne Bohler

Pendant qu’un homme
harassé se replie
sur son matelas
que toujours
plus près de lui
s’amenuise le souffle

la lumière
par vagues se déploie
balaie l’espace
de grands mouvements
fluides

Ou suspendue
descend
dans les jardins

sous une toiture de paille
l’hibiscus ouvre
chaque jour
cinq pétales rouges

*

Mentre un uomo
sfinito si rifugia
sul suo materasso
sempre più
vicino a lui
il respiro s’affievolisce

la luce
si diffonde a ondate
spazza lo spazio
con grandi movimenti
fluidi

o sospesa
scende
nei giardini

Sotto un tetto di paglia
l’ibisco spalanca
ogni giorno
cinque petali rossi

*

Elle transpire
l’humide la verte
terre qui persévère
bol de vapeur où
je plonge mon visage

monte
jusqu’à l’opaque
toute sa moiteur

ne rien dire
peut-être est-ce
juste pour respirer
quand le corps
n’a plus d’ombre

*

L’umida
terra verde
prosegue a traspirare
una bolla di vapore
dove tuffo la faccia

tutta la sua umidità
cresce
fino all’opacità

non dire nulla
forse è
giusto per respirare
quando il corpo
non fa più ombra

*

Sur le sol torride
je fume des herbes
devenues vénéneuses
et soumise j’attends
j’attends la nuit
qu’elle me recouvre
de son sel noir
et de ses bûches

*

Sul suolo torrido
fumo delle erbe
diventate velenose
e quieta attendo
attendo che la notte
mi ricopra
col suo sale nero
e i suoi ciocchi

*

Aux deux extrémités du champ
une chèvre brune une chèvre noire
poignées d’un même récipient vide

ou clés de poils
qui ferment en tournant
sur elles-mêmes
à chaque nuit tombante
les deux battants de l’île

*
Alle due estremità del campo
una capra bruna una capra nera
manici dello stesso recipiente vuoto
o chiavi pelose
che chiudono girando
su se stesse
i due battenti dell’isola
ad ogni tramonto.

(traduzione di Marco Morello  –  6.9.14)

 

Marco Morello nasce a Torino nel 1956, insegnante alle superiori dal 1980. Direttore dell’aperiodico “Poesia nella Strada” negli anni ’80. Ha pubblicato “Quartine per ‘Lù” presso Joker e “111 haiku” per Genesi. Ha tradotto “Gli arazzi dell’Apocalisse” e “Se cade la notte” di John Taylor rispettivamente per i Quaderni di Hebenon e Joker. Recentemente, in collaborazione con John Taylor, ha tradotto in anglo-americano una raccolta miscellanea dei migliori aforisti italiani. Ludolinguista dal ’79, ha fornito numerosi spunti creativi per le rubriche e i testi di Stefano Bartezzaghi (sua l’ideazione dell’accavallavacca). Da un decennio cura due rubriche on line sul “Giornalaccio”: ‘devi sapere che’ di punzecchiature letterarie e ‘l’alce mormorò’ di liriche e giochi di parole. Suoi contributi sono apparsi su ‘Hebenon’ e su ‘corto circuito’.

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