Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica la sua prima opera poetica, Uccelli (Roma, Edizioni Scettro del Re) e, nel 2000, Paradiso (Edizioni Libreria Croce). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Dal 1992 al 2005 ha diretto la collana di poesia delle Edizioni Scettro del Re di Roma. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dirigerà fino al 2005. Nel 1995 redige e firma, con altri poeti, Giuseppe Pedota, Lisa Stace e Maria Rosaria Madonna, il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicandolo nel n. 7 della rivista da lui diretta. Nel 2001, pubblica il racconto lungo Storia di Omero nel volume collettivo Via Pincherle – Modelli Narrativi a Confronto, per le Edizioni Libreria Croce. Nel 2002 pubblica il libro di saggi sulla poesia, Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Coedizione Libreria Croce – Scettro del Re). Suoi saggi sulla poesia contemporanea sono presenti in Linee odierne della poesia italiana, a cura di Roberto Bertoldo e Luciano Troisio (Torino, Quaderni di Hebenon, 2001), e nel volume Sotto la superficie. Letture di poeti italiani contemporanei a cura di Gabriela Fantato (Milano, Bocca, 2004). Nel 2003 viene raggiunto dalla interdizione a pubblicare presso editori a diffusione nazionale. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio.
Ha curato l’apparato critico del numero speciale 33 di «Poiesis» del 2006 dedicato alle traduzioni di alcuni saggi del poeta russo Osip Mandel’stam e di dieci poesie inedite del poeta russo: Il fornello a petrolio (poesie per bambini). Nel 2006 per la poesia pubblica La Belligeranza del Tramonto (LietoColle 2006). Alcuni suoi saggi sulla poesia contemporanea sono apparsi in “Numen” del 2007, quaderno di critica edito dalla rivista di segni contemporanei «Altroverso» di Campobasso. Ha curato le presentazioni critiche dei poeti inseriti nella La poesia degli anni Novanta. Antologia (Roma, Scettro del Re, 2002) ed è presente con alcune composizioni nella Antologia della poesia erotica contemporanea (Roma, Ati Editore, 2006). Collabora in veste di critico con le riviste di letteratura: «Polimnia», «Hebenon», «Altroverso», «Capoverso», «I fiori del male», nel 2014 fonda il blog lombradelleparole.wordpress.com – Sue poesie sono state tradotte in spagnolo, inglese e bulgaro. In quest’ultima lingua è stata pubblicata nel 2007 la traduzione de La Belligeranza del Tramonto. Nel 2007 è apparso il saggio Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in Atti del Convegno È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo per le edizioni Passigli di Firenze. Nel 2010 esce La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) l’editore Edilet di Roma; nel 2011 per il medesimo editore esce Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945 2010). Nel 2013 esce il saggio Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, Firenze, e la raccolta di poesia Blumenbilder (Natura morta con fiori) per Passigli, Firenze. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni (Achille e la Tartaruga) e l’Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma)
Un Appunto
Le poesie fanno parte di una raccolta inedita Tornare alla corte di Cesare?, scaturita dalla lettura di una poesia di Zbigniew Herbert (“Il ritorno del proconsole”). La figura retorica sulla quale ho costruito le poesie della raccolta è la “trasposizione” (il traslato), ovvero, il parlare dell’oggi fingendo di parlare di personaggi del lontanissimo passato. Se non si capisce questo non si comprenderebbe nulla delle mie poesie. Il problema indagato è la condizione dell’artista nei confronti del Potere, di qualsiasi potere, anche di quello cd. democratico. Anche la figura dell’Imperatore Giuliano (forse la figura più grande degli ultimi due secoli della storia romana) è stata affrontata in questa prospettiva: il grande riformatore dell’Impero (grande generale e grande amministratore, uomo colto e saggio che vedeva lungo, molto al di là della sua epoca). Ecco, l’avere lo sguardo lontano è proprio di ogni artista, ogni vero artista non può che disprezzare il presente, non può accordare la propria cetra alle regole metriche del Presente. Il tono “salottiero” di cui parla Francesca Diano è quello usato, è vero, ma vorrei ricordare anche l’altra figura retorica fondamentale di molta poesia degli ultimi due secoli (tra cui ci metto Brodskij) : quella della “epistola” che consente di scrivere nel’intimità delle cose che altrimenti non potrebbero essere vergate; il pubblico è lontano, le poesie sono indirizzate quindi ad un misterioso “interlocutore” non ben specificato. Tutte le poesie (almeno le mie) sono sempre indirizzate ad un “interlocutore” posto al di fuori del proprio tempo e del tempo, per questo forse appaiono stranianti (ma non sono il solo, ci sono molti poeti europei che scrivono in questo modo!).
Parlo meglio di me e della mia epoca quando assumo la finzione di parlare di un’altra lontanissima epoca. Tutto qui. Però oggi in Europa ci sono poeti che trovano invece la contemporaneità molto più poetica e preferiscono fare delle poesie sulla Minetti. Oggi Tutto è permesso, la democrazia dispiegata afferma che questo è libertà. Sì, rispondo io, la libertà degli eunuchi.
Confessione del poeta Cornelio Viburno: «E adesso che farà il Console?»
Adesso spero proprio di essere inessenziale,
invisibile, trascurabile come un piccione
che becca tra gli orti del Foro.
«Chi vivrà vedrà», mi dico tanto per consolarmi.
«In fin dei conti il Console può essere sconfitto dai barbari
o dalla guerra civile o da se stesso».
Ma ecco il Console, nel manto di porpora, sulla biga addobbata,
di ritorno dalla guerra vittoriosa,
l’ennesima guerra tra le mura della Repubblica,
che fa ingresso con le sue legioni, tra squilli di trombe
e rullio di tamburi sotto l’Arco di Trionfo.
«È il suo trionfo o il nostro?», chiedo al mio fidato amico Claudio
assiepati alla transenna del Foro della Repubblica.
Ogni mattino mi reco in allarme ai piedi del Campidoglio, negli uffici del Consolato, cerco il mio nome tra quelli inscritti nelle liste di proscrizione.
«E se lo trovassi? – mi chiedo – che cosa farei se trovassi
il mio nome nelle liste di proscrizione?
Andrei subito dal Console per rendergli omaggio?
Lo supplicherei di essere risparmiato?
Rinnegherei la mia fede repubblicana?
Reclamerei la mia fedeltà in lui, nel console vittorioso
che ha risolto con le armi il contenzioso?
Mi prostrerei ai suoi piedi a invocare clemenza?».
Così, ogni mattino mi reco pieno di angoscia al Campidoglio,
ma ormai spero davvero di trovare il mio nome
tra quelli iscritti nelle liste di proscrizione;
finalmente sarei libero, libero di fuggire o di umiliarmi
dinanzi alla toga del Console, mi getterei ai suoi piedi
scongiurandolo di risparmiare me e la mia famiglia,
lo invocherei di liberarmi della mia angoscia,
di mozzarmi subito la testa o, peggio, di lasciarmi libero tra gli orti
del Foro, proprio come un piccione.
Druso ha sempre i piedi sporchi nei calzari di cuoio,
il ventre prominente e parla un latino infarcito di dialettismi della Sabina;
inoltre, a tavola non è mai sobrio, ama l’eccesso
in libagioni e in amorazzi con le sue schiave
e con i mori che acquista al mercato al suono di sesterzi d’oro.
Nel Foro non prende mai una posizione univoca,
ciò che dice in privato non lo ripete certo in pubblico.
È abile, sfuggente come una biscia, oleoso come la resina del Ponto Eusino,
dire che non lo amo sarebbe un eufemismo,
una ipocrisia, ma ciò che è più grave, non riesco
neanche a detestarlo.
Mi dico: «Druso è un codardo, un mentitore,
un fingitore, un voltagabbana» ma, ciononostante,
non riesco a detestarlo. Forse che dovrei rimproverargli
il suo faccione impolverato di cerusso?
In fin di conti, è un mio simile: un teatrante, un attore,
ha un mento, un naso aquilino, proprio come me.
«Non c’è alcuna differenza – mi dico – tra noi».
Druso ha il volto foderato di cerone da teatro,
scivoloso di biacca, il mento leporino e gli occhi cisposi
per il vino in eccesso della notte innanzi, ascolta
ciò che gli torna immediatamente utile,
quando non gli conviene fa il pesce in barile;
dei nostri discorsi sulla res publica, dice
«che sì, che no, che forse, che insomma…».
Del resto, sto molto attento quando il fedifrago
nei conviti mi porge il cratere colmo di vino,
fingo di bere con un sorriso sordido… mentre con la coda dell’occhio
sbircio sempre in allarme la porta d’entrata.
in casa di Mecenate evito di guardare in volto il capo delle guardie
quando fa ingresso con il codazzo di pretoriani e di ottimati profumati.
Anch’io parlo sempre meno in pubblico
dei miei pensieri privati, e in privato
dei miei pensieri pubblici…
Monologo dell’Imperatore Giuliano l’apostata
Come quando sei a teatro e vedi
sul fondale trascorrere delle ombre indecifrabili,
incomprensibili icone, però, che parlano
una loro lingua muta;
geroglifici, criptogrammi, tracce misteriose
degli dèi scomparsi, di infausti eventi;
e credi di riconoscere un profilo,
un volto, una immagine, un segmento,
una mano tesa in aiuto
o pronta ad impugnare una spada…
Io Cesare, davanti allo specchio, chiedo a Cesare:
«È il tuo quel volto?», «Sono per te quei segni?»
Il mio dèmone mi dice che «le Moire
sono più antiche del Fato, che la mia filosofia
è aggiogata ad un carro più antico».
Mi dice anche: «guardati dai tuoi generali, Cesare!»*.
«È tua l’immagine che vedi riflessa nello specchio!»
«Una mano compirà quel gesto. Ti colpirà alle spalle.
Una Moira l’ha deciso.
Che tu forse speravi avesse dimenticato.
Ma è lì il gesto, nel nodo che Lachesi ha intessuto nel filato
del tuo manto di porpora, che dimora
nel secchio senza fondo della tua anima».
Mi chiede ancora il dèmone: «È tua quella mano,
la mano che ha impugnato la spada?
La spada chiama altra spada, Giuliano,
l’odio chiama altro odio».
«Chiedo al dèmone: quel volto che vedi riflesso nell’immagine
dello specchio corrisponde alla mia “anima”?».
«Sì, – risponde il dèmone – quel volto corrisponde al tuo profilo,
alla linea sghemba del tuo mento leporino,
alle rughe che hai agli angoli degli occhi
almeno nelle sue linee, diciamo così, generali».
«Sì ritengo di essere sempre io
il riflesso di quel volto che ho considerato,
troppo spesso, in modo incongruo, discontinuo,
a volte fraudolento,
scambiando l’effetto per la causa, o la causa per l’effetto.
Sì, sono proprio io quel volto,
il volto che gli dèi mi hanno dato,
il destino che le Moire mi hanno concesso».
*giunto nel 363 d.c. con il suo esercito a Ctesifonte, Giuliano, a soli 33 anni, fu assassinato da una congiura di alcuni ufficiali cristiani. Ecco il resoconto di Ammiano Marcellino sugli ultimi istanti di vita dell’imperatore:
“Giuliano, giacendo sotto la tenda, rivolse la parola ai circostanti depressi e tristi “é venuto il tempo, amici, di uscire dalla vita. Sono in procinto di pagare alla natura il debito che chiede, non afflitto e addolorato, ma ammaestrato dai pareri dei filosofi su quanto l’animo sia più beato del corpo, conscio che tutti i dolori, come infieriscono sui codardi, così cedono il passo a chi persiste. Non rimpiango alcuna delle mie azioni nè mi opprime il ricordo di un grave delitto, sia quando venivo relegato nell’ombra e nelle ristrettezze, sia dopo la mia ascesa al principato. Ho conservato l’animo esente da macchie, come penso, reggendo l’impero con moderazione. Considerando che il fine di un giusto impero fosse l’interesse e la salvezza dei sudditi, fui sempre alquanto propenso ad una situazione tranquilla. Ora me ne vado lietamente, e ho venerazione per il nume eterno, poiché prendo congedo non dopo una lunga e dolorosa malattia, ma nel mezzo della gloria fiorente”
(Inediti, da Tornare alla corte di Cesare? – 2010)