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Rama è padre di Edi Rama, segretario nazionale del Partito Socialista d’Albania, ex-PCA, nonché premier del paese dal 2013.
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Besa Editrice, 2013
Questi slogan agghiaccianti, proposti per la prima volta al lettore occidentale, appartengono al regime stalinista di Enver Hoxha, una delle dittature comuniste più spietate del XX secolo. Accanto alle persecuzioni, alle condanne, alle prigionie, alle torture, ai lager, alle fucilazioni, alle impiccagioni, ai lavori forzati, gli slogan enveristi hanno esercitato, per mezzo secolo, un terrore psicologico impressionante sulla mente dei cittadini albanesi, un vero e proprio lavaggio del cervello, tale da condurre alla pazzia uomini e donne, giovani e anziani.
«Il cervello del compagno Enver è anche il nostro!» era all’ordine del giorno.
Negli slogan è racchiuso mezzo secolo della lotta di classe condotta da Enver Hoxha, e proprio la lotta di classe era uno dei principi su cui basava la sua feroce tirannia.
I primi slogan comparvero già durante la guerra partigiana guidata dai comunisti bolscevichi. Per ogni attività della vita sociale, politica, economica, culturale e spirituale erano stati approntati degli slogan, che inneggiavano alle masse, al Partito e al dittatore Hoxha, al rimanere uniti per costruire e rafforzare il comunismo e per sconfiggere i nemici interni e quelli stranieri.
Gli slogan venivano ripetuti a memoria fino all’ossessione, giorno e notte, non soltanto dai cittadini liberi, ma anche dai detenuti, che spesso venivano costretti a recitare ad alta voce la retorica comunista.
«Erba mangeremo e i principi comunisti non calpesteremo!» era il principio cardine dell’ideologia suicida del dittatore albanese. Ancora più emblematico lo slogan in cui si richiedeva di «innestare cervelli e cuori nel tronco comunista».
Molti furono coloro che finirono dietro le sbarre per non aver accettato di declamare slogan pro regime durante le manifestazioni organizzate dal Partito comunista “fondato su ossa e sangue” e dal dittatore. «Le spade della dittatura del proletariato, sempre sguainate» contro i nemici della patria!
Un destino più atroce, invece, spettava a coloro che esprimevano rabbia e odio contro i versetti della “liturgia rossa”. Gli slogan «Addio compagni, abbasso la dittatura!», «Evviva la libertà!», «Abbasso il comunismo!», «Abbasso il tiranno Enver Hoxha!», «Abbasso il Partito comunista!». «Libertà!», «Evviva l’Albania libera!» e «Basta con gli schivai del comunismo!», venivano ripetuti spesso e ad alta voce nei tribunali e nelle carceri albanesi.
Tutto questo faceva parte del Terrore di Stato, dell’assurdità, della patologia criminale perpetrata contro l’umanità dal regime totalitario di Tirana durante gli anni 1941-1990.
Gli slogan enveristi inneggiavano al Partito, alla dittatura del proletariato e al dittatore Enver Hoxha, al fine di inculcare nelle masse la coscienza rivoluzionaria e il fervore ideologico, come nella Cina maoista. Lo scopo principale di questa allucinazione collettiva era quello di poter diffondere le massime e le direttive del tiranno e quello di tenere viva la famigerata lotta di classe, che causò decine di migliaia di morti nel “Paese delle aquile”, sia tra i civili che tra i detenuti nelle prigioni o nei campi di internamento sparsi in tutta l’Albania.
Gli slogan apparivano ovunque: ai margini delle strade, in cima alle montagne, nelle piazze, sui muri delle case, agli ingressi delle fabbriche e delle miniere, negli stadi, negli uffici, negli asili, nelle scuole, nelle università, nei libri, negli ospedali, lungo il confine, nei porti, sulle spiagge, nei parchi, nelle camere da letto, nelle ninne nanne, nei manicomi, addirittura nei cessi pubblici. Persino l’amore doveva essere dedicato alla causa comunista: «Dobbiamo innamorarci in nome del Partito e del compagno Enver!»
Erano gli anni della pianificazione della nuova estetica di Stato e dell’affermazione del njeriu i ri, l’“uomo nuovo” del socialismo, plasmato dal Partito e temprato sotto l’incudine della classe operaia, “l’uomo muscoloso e stakanovista” che vigilava giorno e notte per difendere le vittorie e la patria dai nemici.
«Dobbiamo seppellire da vivi i nemici del popolo!» recitavano i megafoni nelle piazze ogni domenica.
Ancora oggi alcuni di questi slogan, scritti con vernice rossa, si intravedono sbiaditi sui muri.
Se gli slogan del Libretto Rosso di Mao Tse-Tung erano 286, quelli di Enver Hoxha erano più di 1200. Il dittatore albanese, per aumentare l’influenza ideologica delle sue massime, aveva assoldato le cosiddette “Guardie Rosse”, sparse in ogni angolo del Paese, che diffondevano i comandamenti comunisti e denunciavano i nemici del suo Libretto Rosso. Gli slogan penetravano nella vita quotidiana degli albanesi non soltanto tramite il Sigurimi (la polizia segreta del regime di Enver Hoxha), ma anche attraverso gli scrittori del realismo socialista, che servivano il Partito nell’educazione comunista del popolo.
Alcuni di questi slogan sono tratti dagli scritti di celebri poeti asserviti al regime, i quali non mancavano di osannare la folle dittatura con versi del tipo: «Con l’acqua del comunismo ci siamo purificati!» oppure «Proiettili terribili lanceremo, nel petto del nemico piombo fuso verseremo».
In ogni scuola, asilo, fabbrica, università o villaggio, si recitavano gli slogan inneggianti al partito e al compagno Enver Hoxha prima di cominciare a lavorare o a fare lezione.
Dopo Epicedio albanese, in cui racconto il massacro di cui sono stati vittime poeti e scrittori albanesi dal 1920 al 1989, Slogan dell’Albania di Enver Hoxha è un altro frammento della memoria collettiva del mio Paese. Ho deciso di pubblicare questa raccolta per confrontarmi con la verità storica del passato e per non dimenticare, affinché il Parlamento di Tirana condanni i crimini commessi contro l’umanità durante la dittatura comunista.
- Gëzim Hajdari
Tratti da «EVVIVA IL CANTO DEL GALLO NEL VILLAGGIO COMUNISTA» Besa, 2013
All’Albania finalmente è nato un figlio: il compagno Enver Hoxha!
Il cervello del compagno Enver è anche il nostro!
Evviva il Partito Comunista Albanese con il compagno Enver Hoxha, la nostra guida!
Evviva la dittatura del proletariato!
Il Sigurimi dello Stato è un’arma preziosa nelle mani del Partito!
Innestare cervelli e cuori nel tronco socialista!
L’opera più preziosa del Partito: la creazione dell’uomo nuovo!
Erba mangeremo e i principi comunisti non calpesteremo!
Dobbiamo innamorarci in nome del Partito e del compagno Enver!
Evviva la lotta di classe!
Compagno Lenin, Tu non sei morto e mai morirai finché ci saranno albanesi sulla Terra!
Le spade della dittatura del proletariato, sempre sguainate!
Il Partito Comunista Albanese è fondato su ossa e sangue!
Beato chi trova nel cielo la stella che brilla sull’Albania!
Con te, mio Partito, mi sento alto come le montagne, senza di te, mi sento piccolo come una formica!
Schiacciamo la testa al nemico di classe!
Quanto è fortunata l’Albania rossa!
Tutto il mondo ci invidia!
Le radici delle nostre vittorie sorgono nel sangue!
Non è la Bibbia che parla ma il Partito!
In tutta l’Albania vi erano 21 statue dedicate a Stalin.
Morire in nome del Partito è un grande onore!
Doniamo i nostri figli al Partito!
I capitalisti possiedono le armi, noi il pensiero del compagno Enver!
Gli insegnamenti del compagno Enver: più forti della bomba atomica!
Doniamo al Partito anche l’ultima gocce di sangue!
Collettivizziamo le pecore, le capre e le vacche nelle stalle comuniste!
Guerra alla mentalità borghese!
Continueremo ad oltranza la lotta di classe!
Doniamo i nostri cuori al compagno Enver!
I nemici ci guardano tramite la canna del fucile, noi guardiamo loro tramite la canna dei cannoni!
L’Albania è l’unico baluardo del comunismo nel mondo!
Che ogni spiga di grano sia un proiettile per il nemico!
L’Albania, l’unico Paese al mondo senza scioperi!
Il Partito è stato fondato su ossa e sangue dei nemici di classe!
Vendetta e sangue contro i traditori!
Noi comunisti albanesi danziamo felici nella tana del capitalismo!
Evviva il compagno Mao Tse-Tung!
Due leoni esistono oggi: Mao Tse-Tung in Asia e Enver Hoxha in Europa!
Faremo cenere e polvere di coloro che oseranno torcerci anche un solo capello!
Doniamo al Partito la luce dei nostri occhi!
Il nemico di classe non sfugge all’occhio del Partito!
Quando parla il compagno Enver il mondo trema!
Di Enver Hoxha ne è venuto al mondo solo uno!
Proiettili terribili lanceremo, nel petto del nemico piombo fuso verseremo!
Gli scrittori e gli artisti sono grati al Partito e al compagno Enver!
L’eroe comunista deve essere al centro di ogni opera letteraria e artistica!
Facciamo nostri i preziosi insegnamenti del compagno Stalin su arte e letteratura!
Questo mio canto per te, Partito, sia come una rosa rossa sulla canna del fucile!
L’amore per il Partito e per il compagno Enver viene prima di tutto!
Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista!
Evviva la sposa comunista!
Evviva lo sposo comunista!
Evviva padre Stalin!
Il popolo albanese è assetato per la letteratura del realismo socialista!
Abbasso la donna borghese!
Evviva il latte comunista!
Evviva la lana comunista!
Ciò che dice il Partito, fa il popolo, ciò che dice il popolo, fa il Partito!
L’opera del padre Stalin: grande esempio per il Partito e il compagno Enver!
Alla forca i nemici del Partito!
Per il Partito e il compagno Enver, daremo la nostra vita!
Gli scrittori: leve del Partito per l’educazione comunista della gente!
Siamo soldati fedeli al Partito-padre!
Gli scrittori e gli artisti sono grati al Partito e al compagno Enver!
All’epicentro di ogni opera letteraria ed artistica ci deve essere l’eroe positivo comunista!
Interiorizziamo gli insegnamenti preziosi del compagno Stalin sulla letteratura e le arti!
Donare al Partito il nostro sangue!
Dedicare al Partito e al compagno Enver la propria vita!
Abbasso gli scrittori cattolici reazionari!
Abbasso gli scrittori mistici musulmani!
Il nostro eroe positivo deve essere comunista ogni momento: nella vita quotidiana, in famiglia, in amore, nelle preoccupazioni, nella gioia e nel sangue!
Il giorno in cui è nato il Partito, è nato il nostro sole!
La teoria di Freud: disgrazia per la letteratura del realismo socialista!
Abbasso i poeti e gli scrittori sentimentali e mistici, seguaci di Nietzsche e di Freud!
La letteratura del realismo socialista: letteratura della classe operaia!
Le opere del compagno Enver e quelle dei classici del marxismo-leninismo sono l’unica arma contro l’arte decadente e revisionista!
Guerra contro le influenze straniere e le teorie reazionarie di Freud!
L’opera di J. V. Stalin: sempre attuale!
Abbasso gli scrittori traditori sovietici, cechi, bulgari, francesi, irlandesi e americani!
Abbasso i servi della degenerata società occidentale come Kafka, Joyce, Sartre, Kamy, Roger Garaudy, Natalie Sarraute, Rob Grijene, Mishel Bytorit, Klod Simon, Solgenitsin, A. Kuznecov A. Demetjev, Tvardovskij, Xhon Hers e L. Andrejev!
Evviva la letteratura e le Arti sotto la luce del Partito!
Freud è la causa di un’epidemia mai vista nella cultura mondiale!
La sua teoria sta divenendo sempre più pericolosa e sta contagiando, una dopo l’altra, le letterature e le generazioni di scrittori e di artisti!
Evviva gli insegnamenti del compagno Mao Tse Tung per i problemi della Letteratura e delle Arti!
Noi poeti e artisti siamo legati più che mai al Partito e al marxismo-leninismo!
L’arte comunista è l’arte della sublimazione della Rivoluzione!
Siamo filgii di Stalin!
Ciò che è importante nella vita dei giovani comunisti non sono gli amori, ma la fedeltà al Partito!
La lotta di classe deve guidare la nostra Letteratura!
La Rivoluzione Culturale Cinese è una grande ispirazione per noi Albanesi!

Gezim Hajdari Siena 2000
Gëzim Hajdari è nato nei Balcani di lingua albanese nel 1957. È il maggior poeta vivente albanese, bilingue, scrive in albanese e in italiano. Nell’inverno del 1991 è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. Nello stesso anno è cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës (Il momento della parola), nel quale svolge la funzione di vicedirettore. Nelle elezioni politiche del 1992 si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA. Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione in Albania, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, la corruzione, gli abusi e le speculazioni della vecchia nomenclatura comunista di Enver Hoxha e dei recenti regimi mascherati post-comunisti. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Ha scritto anche libri di viaggio e saggi e ha tradotto in albanese e in italiano vari autori. È vincitore di numerosi premi letterari. Dal ’92 è esule in Italia.
DUE POEMETTI di Gëzim Hajdari “Maldiluna” “Spine nere” con un Commento di Fulvio Pezzarossa e Andrea Gazzoni
Gezim Hajdari davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012
Gëzim Hajdari, è nato nel 1957, ad Hajdaraj (Lushnje), Albania, in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel paese natale ha terminato le elementari, mentre ha frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnje. Si è laureato in Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma.
In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio in una azienda per la bonifica del terreno, operaio di bonifica, due anni come militare con gli ex-detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Attualmente vive di conferenze e lezioni presso l’università in Italia e all’estero dove si studia la sua opera.
Gezim Hajdari davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012
Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. È cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës, nel quale svolge la funzione di vice direttore. Allo stesso tempo scrive sul quotidiano nazionale Republika. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA. Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione e le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese.
Gezim Hajdari sulle colline del villaggio natale
La sua attività letteraria si svolge all’insegna del bilinguismo, in albanese e in italiano. Ha tradotto vari autori. La sua poesia è stata tradotta in diverse lingue. È stato invitato a presentare la sua opera in vari paesi del mondo, ma non in Albania. Anzi, la sua opera, è stata ignorata cinicamente dalla mafia politica e culturale di Tirana.
È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale e cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone. Dirige la collana di poesia “Erranze” per l’editore Ensemble di Roma. È presidente onorario della rivista internazionale on line “Patria Letteratura” (Roma), nonché membro del comitato internazionale della Revue électronique “Notos” dell’Université Paul-Valery, Montpellier 3. Considerato tra i maggiori poeti viventi, ha vinto numerosi premi letterari. Dal 1992, vive come esule in Italia.
Ha pubblicato in Albania: Antologia e shiut, “Naim Frashëri”, Tirana 1990;Trup i pranishëm / Corpo presente, I edizione “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999 (in bilingue, con testo italiano a fronte). Gjëmë: Genocidi i poezisë shqipe, “Mësonjëtorja”, Tirana 2010.
Gezim Hajdari, Siena 2000
Ha pubblicato in Italia in bilingue: Ombra di cane/ Hije qeni, Dismisuratesti 1993; Sassi controvento/ Gurë kundërerës, Laboratorio delle Arti,1995; Antologia della pioggia/ Antologjia e shiut, Fara, 2000; Erbamara/ Barihidhët, Fara, 2001; Erbamara/ Barihidhët, (arricchita con nuovi testi rispetto alla prima edizione). Cosmo Iannone Editore 2013; Stigmate/ Vragë, Besa, 2002. II edizione Besa 2007; Spine Nere/ Gjëmba të zinj, Besa, 2004. II edizione Besa 2006; Maldiluna/ Dhimbjehëne, Besa, 2005. II edizione Besa 2007; Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, Fara, 2005; Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, II edizione arricchita e ampliata, Fara 2007; Puligòrga/ Peligorga, Besa, 2007; Poesie scelte 1990 – 2007, EdizioniControluce 2008; Poesie scelte 1990-2007, II edizione (arricchita con nuovi testi). EdizioniControluce 2014; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007 (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2008; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007, II edizione (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2014; Corpo presente/ Trup i pranishëm, Besa 2011; Nur. Eresia e besa/ Nur. Herezia dhe besa, Edizioni Ensemble 2012; I canti dei nizam/ Këngët e nizamit (i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012; Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rroftë kënga e gjelit në fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013 -Libri reportage di viaggio: San Pedro Cutud. Viaggio nell’inferno del tropico, Fara, 2004; Muzungu, Diario in nero, Besa, 2006 – Libri sull’opera di Hajdari: Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari, a cura di Andrea Gazzoni. Cosmo Iannone Editore 2010. La besa violata. Eresia e vivificazione nell’opera di Gëzim Hajdari, a cura di Alessandra Mattei. Edizioni Ensemble 2014.
Gezim Hajdari Siena 2000
Ha tradotto in albanese: L’antologia Poesie /Poezi, ( con testo italiano a fronte) di Amedeo di Sora. “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999. Forse la vita è un cavallo che vola, / Ndoshta jeta është një kalë fluturak, (con testo italiano a fronte, Edizioni Empiria 2000. L’antologia/ Eshka dhe guri/ Il muschio e la pietra (con testo italiano a fronte) di Luigi Manzi. Besa 2004.
Ha tradotto in italiano: I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012. Leggenda della mia nascita/ Legjenda e lindjes sime (con testo albanese a fronte) di Besnik Mustafaj. Edizioni Ensemble 2012. Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rrofte kenga e gjelit ne fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013
Gezim Hajdari Siena 2000
Ha tradotto in albanese: L’antologia Poesie /Poezi, ( con testo italiano a fronte) di Amedeo di Sora. “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999. Forse la vita è un cavallo che vola, / Ndoshta jeta është një kalë fluturak, (con testo italiano a fronte, Edizioni Empiria 2000. L’antologia/ Eshka dhe guri/ Il muschio e la pietra (con testo italiano a fronte) di Luigi Manzi. Besa 2004.
Ha tradotto in italiano: I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012. Leggenda della mia nascita/ Legjenda e lindjes sime (con testo albanese a fronte) di Besnik Mustafaj. Edizioni Ensemble 2012. Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rrofte kenga e gjelit ne fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013 È co-curatore in italiano: dell’antologia I canti della vita (con testo arabo a fronte) del maggior poeta tunisino del Novecento, Abū’l-Qāsim Ash-Shābb, Di Girolamo Editore 2008. È curatore e co-traduttore (insieme ad Andrea Gazzoni) dell’antologia Dove le parole non si spezzano (con testo originale a fronte) del poeta più importante delle Filippine, Gémino H. Abad, (Edizioni Ensemble 2014).
Gezim Hajdari a Udine 2011
Commento di Fulvio Pezzarossa
Parte della totalità
Poche righe di prefazione devono prima di tutto rilevare l’intelligenza e il coraggio di Andrea Gazzoni nel realizzare un’impresa che ha i tratti dell’eccezione, offrendo il primo volume critico dedicato in Italia ad uno scrittore migrante. La scelta di una riflessione monografica a più voci sull’opera dell’albanese Gëzim Hajdari non risulta casuale, e si lega alla ricca disponibilità di materiali analitici, affiancati da nuove riflessioni, testimoni del vasto uditorio che quei versi hanno saputo ritagliarsi presso studiosi di varie competenze, collocati in una dimensione internazionale a cui naturalmente tendono le complesse significazioni dei suoi testi. Voce sorprendente, tra le prime che in Italia manifestarono i potenziali di novità derivanti dalla creazione letteraria affidata a una lingua e una cultura di casuale accoglienza, Hajdari ha raccolto successi e riconoscimenti delle superbe capacità poetiche lungo un’intensa parabola, che negli anni Novanta l’ha proiettato dai concorsi per migranti indetti da Eks&Tra, al riconoscimento del premio Montale nel 1997, fino a una serie lunghissima di attestazioni. Ma la capacità di mettere a frutto con un’incessante forza creativa i lunghi anni di residenza italiana, che gli ha consentito di offrire alla nostra cultura l’abnegazione rigorosa di raccolte poetiche frequenti e in continuo sviluppo, si è manifestata in proposte di intelligente varianza formale e di genere, che derivano dall’inquieta frequentazione di esperienze e panorami della vita culturale alle periferie dell’Occidente.
Gezim Hajdari e Laura Toppan (docente all’Università di Lorraine-Nancy 2) durante la presentazione della sua antologia Poesie scelte al Centro Internazionale di Lingua e Cultura Italiana a Parigi, 2008
Assolutamente estraneo al profilo diffuso di one book man, che alimenta una scrittura a ridosso della bruciante intensità del viaggio e dell’approdo, trasformando in forza creativa lo spaesamento dell’essere umano ridotto a precario migrante, Hajdari ha costruito una voce assolutamente distinta in una platea crescente di autori che con percorsi spesso similari mirano alla professione letteraria come occasioni di integrazione e di rifiuto di categorie distintive. Il suo tratto singolare è invece costruito entro la fissità di un esperienza esiliaca, proclamata quale condizione esistenziale dell’umanità intera, che diviene punto di forza quando la condizione individuale sa raccordarsi all’incrocio di culture che i secoli hanno stratificato in un piccolo e aspro angolo dei Balcani. L’identità albanese, non rinnegata se non nella dimensione contingente di una cronaca ostile che l’ha reso fuggiasco, costringe di fatto i lettori del nuovo paese, e del più vasto mondo, a ripensare il continuo di esperienze e di scambi che da mezzo millennio intrecciano l’esistenza dei due popoli raffrontati sulle sponde adriatiche, e la profondità degli scambi resistenti alla deformazione dell’immaginario mediatico, fino a cogliere il perdurare di una responsabilità coloniale e fascista non riscattata.
La trama esistenziale del poeta subisce gli esiti di quella drammatica e inconclusa decolonizzazione, e origina una tensione al riscatto di sé e del proprio popolo che si fa sguardo aperto sui grandi modelli della poesia mondiale, attivando con quella un colloquio diretto entro un’operazione singolare, che concentra quelle suggestioni nello scavo di forme e temi di arcaica misura, da cui si alimenta una poesia all’apparenza elementare, composta da un universo di frammenti e di immagini cariche di potenza evocativa, dove le profonde tensioni dell’animo si materializzano nella vivezza densa di cose e di scene quotidiane senza tempo. Il discorso non pretende una frantumazione indicibile, ma all’opposto vi alimenta la necessità di una resistenza, basilare per la rifondazione di un universo immaginativo a contrasto con la crisi totale che travolge la vita economica, le consuetudini sociali, gli assetti politici, i tratti ambientali, e i riferimenti ostili fra le culture. A fronte della catastrofe, che dalla nazione albanese si proietta su scala globale, l’intellettuale rintraccia nella dimensione locale le radici di una vita nuova, salda sui principi atavici, e che la sua responsabile narrazione propone con forza rigenerativa.
La complessità di uno sguardo simultaneo tra locale e globale manifesta la reattività della doppia coscienza, e si esprime in una lingua doppia, capace di moltiplicare potenziali espressivi e stimolo a percorsi differenti, necessari a superare l’oscurità di un cupo velo (per rimanere nelle categorie di DuBois) dovunque incombente, che solo la parola disperata sa attraversare. Alla gigantesca ombra, che nell’immediato esprime l’oppressione politica del sistema mondiale, e pretende la poesia asservita e racchiusa in riferimenti canonici, si oppone la forza di un verso che si fa esperienza tangibile, capacità di rendere la sofferenza universale manifesta attraverso il corpo del poeta veggente, sottomesso ad un’operazione sacrificale per consentire la celebrazione di un rito di rinnovamento, al quale sono indispensabili coordinate all’apparenza contraddittorie nell’incrociare fitta presenza delle cose terrene e slancio dell’esperienza mistica del sufismo.
È su questo corpus poetico, così ricco e sfaccettato nel suo progressivo manifestarsi da aver consentito per primo una ricostruzione antologica di poesie scelte, offerte come sfida continua alle tensioni cruciali fra i due millenni, che risulta possibile aprire percorsi critici tesi a considerare le scritture di migrazione oltre il dato etnico e il portato delle novità tematiche e delle ragioni sociali messe in rilievo, anche nell’ambito italiano, da metodi interpretativi esito degli studi culturali. Pertanto queste pagine saggistiche accostano l’attenzione alle valenze della ricezione con un approccio mirato alla dimensione più strettamente letteraria, linguistica e stilistica, dove la poesia pur sempre attinge la propria forza d’origine, e gli esiti universalmente riconosciuti.
Gezim Hajdari a Filettino 2012
Una forza attiva su un orizzonte totale, che nell’esibire un radicamento nell’immaginario di culture periferiche, riesce nello sforzo di dislocare il centro dell’universo, anche letterario, attraverso un’operazione che mette in scena un io smarrito, non titanico, la coscienza di una piccolezza marginale rispondente a una letteratura minore. Voce marginale e minore, il poeta diviene obiettivo di persecuzioni quando pretende di rompere schemi, quando costringe al dialogo materializzandosi come altro e diverso, quando suggerisce con la propria scrittura vertigini di mondi aperti oltre ogni ristretta barriera e confinazione. Obbligatoriamente Hajdari sceglie i toni e le risorse dell’epica, tipica dei grandi momenti fondativi, per misurarsi a tutto campo con la Storia, che trascina ormai, travalicandole, le frontiere di incoerenti nazioni, inutili fossili su uno scacchiere in cui si manifesta la totalità mondo, secondo Glissant.
Il poeta si fa allora tessitore di trame ancora fragili, ma proiettate su una messa in forma futura, che può irrobustirsi solo con l’incessante lavoro di ricomposizione dei modi inventivi, divaricati nelle forme scrittorie e nelle lingue, e che vanno alimentati col paziente lavoro per connettere le voci di ogni provenienza, dal vicino Mediterraneo, altrettanto potenti di quelle delle Filippine o dell’Africa. Ma non è contraddittorio aggiungere che nella parabola della creazione poetica albanese, italofona, mondiale di Hajdari si rintracciano anche gli esiti di una sensibilità diacronica, che guarda al filone più aperto della nostra tradizione novecentesca; i debiti riconosciuti verso due interpreti della modernità internazionale quali Saba ed Ungaretti, raccolgono la spinta a fare tesoro degli inesausti potenziali della lingua italiana, evoluta anche attraverso le voci più recenti di coloro che l’hanno incontrata fra le tribolazioni dell’età adulta. Essi le hanno consegnato una gamma di sensazioni e di potenziali estranei, che rispondono all’investimento emozionale ed al carico di aspettative tipici di un atteggiamento denso di stupore infantile, che ha la convinzione tipica di una coscienza netta e intensa di poterle garantire vitalità e rinascita, da porre a disposizione di figure umane deboli e spaesate, in grado di superare la fragilità caduca del corporeo e del contingente soltanto attraverso il sopravvivere pieno della voce poetica, che sa travalicare spazi e tempi.
(Tratto da Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari. Cosmo Iannone Editore, 2010. A cura di Andrea Gazzoni)
Gezim Hajdari con la sua compagna Iris Hajdari, Marsiglia 2012
Andrea Gazzoni Introduzione. Cantare nel sisma dell’esilio
Qui si raccolgono quattordici testi critici dedicati all’opera di Gëzim Hajdari, quelli che chi scrive ritiene i più importanti.[1] Ancora mancano studi monografici di rilevante ampiezza, mentre sono ormai numerosi sia i saggi, in volume o rivista, sia gli interventi a conferenze, convegni, presentazioni. Da questa messe il libro raccoglie i suoi materiali (con l’aggiunta di alcuni inediti) e li propone nel loro insieme come uno strumento utile per chi voglia studiare o avvicinare l’opera di Hajdari.
È una ricapitolazione critica di un percorso letterario che di libro in libro, raddoppiandosi tra italiano e albanese (due lingue, due immaginari, due mondi), ci ha rivelato una costellazione di leggibilità solo in parte decifrata e ancora da scoprire. Ogni opera di Hajdari sembra gettare fasci di luce retrospettiva su tutto il resto, portando allo stesso tempo alla nostra coscienza ombre, zone oscure, esperienze opache e refrattarie.
I saggi qui riuniti sono raggruppati in sezioni che si definiscono in base ai loro approcci e ai nessi di problemi dai quali muovono. Con la prima sezione vengono proposti saggi che lavorano sul senso dell’esilio in Hajdari: quelli di Simona Wright e Franca Sinopoli, i primi in ordine cronologico, partono da ricognizioni della nascente letteratura italiana della migrazione per poi misurarne alcune questioni sul corpo della poesia di Hajdari. Se Wright sceglie una prospettiva diacronica, Sinopoli si concentra su una tipologia di scrittura e su un singolo testo poetico e, d’altra parte, lo affianca ad un secondo testo esemplare delle scritture migranti in italiano: Immigrato di Salah Methnani. Anche Ugo Fracassa sceglie il confronto con un altro autore, vissuto però nella prima metà del Novecento: Emanuel Carnevali. L’analisi serrata e incrociata permette di tracciare somiglianze decisive in due scrittori coinvolti, a distanza di tempo, in simili e simmetriche esperienze di dispatrio e di scrittura (Carnevali è italiano e, emigrato negli Stati Uniti, scrive in inglese). Nel saggio L’intentio epica dell’esilio ho tentato invece di portare alla luce, a partire dal Poema dell’esilio, i gesti epici coi quali Hajdari investe la sua poesia.
La seconda sezione è dedicata all’inscindibile relazione lingua-patria, vissuta da Hajdari attraverso il bilinguismo. Fausto Pellecchia, leggendo Stigmate, ci conduce attraverso le tensioni della lingua di Hajdari per coglierne la radicale portata filosofica, che irrompe ogniqualvolta la poesia, dentro la lingua, faccia balenare il non-linguistico, l’infans. Silvia Vajna de Pava, lavorando sul sostrato albanese della poesia di Hajdari, descrive il passaggio tra le lingue e le patrie come perdita e ritrovamento del canto, intuibile attraverso la ricorrente nominazione ornitologica. Constantina Evanghelou descrive (attraverso le relazioni tra lingua, madre, sensi e luogo) le patrie che costruiscono l’io di Hajdari: la memoria, il luogo e la poesia.
La terza sezione raccoglie saggi dedicati a singoli libri, attraverso i quali emergono, di volta in volta, elementi o funzioni particolari della scrittura di Hajdari: Simona Wright analizza Corpo presente sotto il segno dell’assenza; Laura Toppan attraverso Maldiluna ricapitola l’itinerario di Hajdari nella congiunzione di vita e parola; Massimo Fabrizi offre un commento puntuale di Péligorga, con particolare attenzione al carattere di ricapitolazione e nuovo inizio che segnano il libro; Ugo Fracassa legge San Pedro Cutud e Muzungu discutendo i sottili slittamenti che Hajdari impone agli schemi della scrittura di viaggio e il gioco di sovrapposizioni e sfasature che essa instaura con l’opera poetica.
Gezim Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell’artista Marica Bisacchi
La quarta sezione, infine, è composta da testi che costituiscono un minimo ma essenziale campionario di quelle figure in Hajdari ricorrono come emblemi della poesia stessa, in un certo senso come “doppi” del poeta. Laura fa un excursus sulla donna che è l’assente/presente dal teatro della poesia di Hajdari e allo stesso tempo ne è il punto di fuga, il termine mai raggiunto, non nominabile, non visibile: madre, amante, patria. Viktor Berberi insegue le ombre del corpus di Hajdari: doppia, transitoria, oscura, l’ombra è il segno del rapporto di unione e disunione tra vita e scrittura. In conclusione l’intervento di Luigi Manzi, poeta che Hajdari ha antologizzato e tradotto nel libro Il muschio e la pietra, ci riporta alle ragioni prime dell’interesse per la poesia di Hajdari, a una lettura intensa fatta di intuizioni folgoranti, a un corpo a corpo doloroso ed estatico, a formule e parole che passano dalla parola di Hajdari a quella dello stesso Manzi: una restituzione del libro all’opera che ne è la “materia”.
(Tratto da Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari. Cosmo Iannone Editore, 2010. A cura di Andrea Gazzoni)
[1] Nella scelta non si è tenuto conto di forme testuali estremamente sintetiche, come le prefazioni, o non primariamente critiche, come le testimonianze.
– Testi tratti da Poesie scelte, Edizioni Controluce I edizione 2008, II edizione ampliata con nuovi testi 20014 –
Gezim Hajdari Frosinone 2007
MALDILUNA
Io, Gëzim Hajdari,
creazione di tremule ombre notturne,
errante maledetto delle sacre dimore,
confesso davanti agli dei,
ai templi e all’oblio.
Confesso davanti ai campi abbandonati della patria
e ai fuochi dell’Inferno:
sono maschera della mia maschera,
e ciò che ho scritto sono fandonie,
non sono stato io
ma un indegno delirante,
chiuso in una stanza sgombra.
Giuro e scomunico i miei versi maledetti
ovunque siano
e chiedo perdono ai pazienti lettori
per averli ingannati
con il mio fango.
Che possano cadere tutti i fulmini del cielo
e l’ira dei demoni su di te,
Cerbero possa giudicare la tua anima tenebrosa
tra le fiamme impietose.
Hai perso la nostra fiducia
nelle paludi invernali vagherà la tua ombra orfana
come uno spirito maligno,
che tu non possa trovare mai pace sulla terra degli uomini!
Piogge cadranno, nevi e melma dall’alto,
soffieranno venti gelidi sulla tua parola,
fiumi neri cancelleranno il tuo nome.
Con polvere e pietre copriremo le tue orme passo per passo
e con l’oblio sarai condannato
dalla tua stirpe!
O stagioni finte con fiori di ginestre e profumo di viole
nei cespugli in primavera
dove il passero gioioso insegue il cuculo;
rosa canina,
petali di papaveri
caduti nella terra del crimine,
sentieri con fischi di vipere.
O anni persi nei ruderi di merli e civette,
labirinti oscuri e tremendi dove ho errato
come un monaco mesto
per tutto questo tempo,
in nome di un Padre che non si è fatto mai uomo.
O bei giorni consumati invano
in una patria castrata
lanciando sassi controvento
e scrivendo con la punta del coltello sulla mia carne
canti d’amore e di pena.
O vortici di sogni incantevoli
che continuate ad uccidere poeti ingrati
senza una guerra, né una goccia di sangue.
Io, ombra della mia ombra,
condannato all’esilio per un altro esilio
bestemmio il mondo
e sputo in faccia al dio ipocrita e crudele,
ho amato solo il mio terrore e non il canto dell’uomo.
Ma tu, mia vecchiarella,
continui a volermi bene come sempre,
nomina il mio nome come facevi ogni sera
nella piccola e umida casetta di campagna
e non dar retta a quel che scrivo.
Sgomento è il mio cervello,
avvelenati i miei pensieri,
e se in un’alba m’impiccassi,
sarà per una vergine puttana
per un poeta la vita conta poco,
è la morte che vale.
Ho deciso di svendere questa vita
in cambio di uno squallido poema,
ma tu, grazia il tuo figlio prediletto
che amava gli alberi
stretti l’uno all’altro.
Ritornerà il mio nome
e busserà ad ogni crepuscolo alla tua porta
come un uccello che cerca di ripararsi dalla pioggia,
come un fragile amante pentito.
Sia castigato il tuo verbo maledetto in tutto il regno dei vivi
e che sia impedito al tuo seme di fiele di attecchire
nella terra di Adamo,
pèntiti del peccato orribile
e che dio misericordioso ti assolva!
Gezim Hajdari nello suo studio con la sua compagna Iris
Sono vissuto sempre in mezzo ai miei simili
solitario ed estraneo ad essi,
affascinato dalla mia follia
e dagli occhi teneri degli uccelli,
celebrando le mie ceneri oscure e chiare
sotto la luce di una luna spaventata,
testimone di atroci delitti.
Come un assassino in fuga,
attraversando regioni di neve,
rivendicavo a piena voce nel silenzio cieco e macabro
il mio potere .
Ridi tu, valle,
e nascondi il mio panico,
sorgi tu, collina
e copri il mio terrore,
germoglia tu, stagione funebre
e distruggi i miei sogni veggenti.
Con il pettirosso del cortile
che m’insegue nel bagliore del ghiaccio
divido il tormento
in questo autunno pallido.
Nessuno crede alla mia gioia,
i giorni per me sono cieli chiusi di pietre
e le notti paradisi di orge.
I primi che ho conosciuto nell’infanzia
furono i falchi nella mia collina;
si nutrivano delle allodole dei prati
ed io mi beavo ai pianti delle vittime,
mettevo in testa corone di ginestre
e passavo davanti alla battaglia dei predatori
come un re vincitore.
Chi non applaudiva con me era un vigliacco,
questo sono io,
ho adorato i volti sorridenti dei tiranni
ed ho odiato prima di amare.
Avanzate miei amori crudeli
mordete la mia carne innocente
lapidate con pietre i miei occhi castani;
incendiate la mia angoscia,
affinché vengano placati i miei gemiti
e sia fatta la vostra volontà malvagia.
Che aspettate,
inchiodatemi con le mie parole
fino al sangue,
flagellatemi il corpo con i miei versi;
impiccate il mio cuore rosso
ai rami
prima che io corvo dei corvi
entri nelle vostre vene
a bere del vostro sangue impuro,
per risorgere mostro.
Oh, cose inaudite e blasfeme ascoltiamo
in questa notte di stelle gelide,
mentre canta il primo gallo rivolto ad Oriente:
morirai lontano dalla tua terra oscura,
distrutto dal dolore dell’esilio immenso,
spine mortali cresceranno dalle tue ceneri.
Sono uno straniero di passaggio,
nulla rimpiango del tuo regno di perdizione,
un altro destino rivendico;
conosco i segreti della vita infedele
come l’arma il proprio delitto,
Non c’è veleno che calmi la mia pazzia
donatami dal Padre
prima che diventassi
figlio di cannibali
nel deserto promesso.
Accoltellato dai fedeli
in una notte fonda
di comunione
e tradimento,
mostro alla gente la mia ferita che sanguina:
desiderio del mistero voluto.
Dal giorno che ho perso Atlantide,
erro senza meta nelle strade e nei campi
con la mia ossessione nelle mani
e maldiluna,
incendiando
alfabeti,
eros,
addii.
Oblio del tempo, salvami.
So quel che faccio mio dio
e non chiedo grazia a nessuno;
io contadino di capre,
abitante di ex-cooperative agricole di buio e fulmini,
che un tempo correva dietro ai tori insanguinati e alle ombre,
non obbedisco al tuo disordine,
ben venga il rogo
e questi versi come castigo dell’eterno.
Gezim Hajdari nel suo studio 2006
SPINE NERE
C’era una volta un ragazzo magro dall’animo fragile
con occhi castani e sguardo penetrante come un corvo nero,
nato in un inverno magico di lampi e tuoni marini
e cresciuto sulla collina brulla vicino alle stelle ardenti.
Quando vide i primi raggi del sole pallido:
«Il suo nome vivrà in eterno -dissero i laghi e le nebbie cieche –
di pietra in pietra verrà scolpito il suo verbo,
nei secoli la sua storia d’uomo verrà narrata».
«O donne, lo renderemo immortale –
giurarono i folletti delle valli oscure –
gli insegneremo la lingua degli uccelli e delle Fate,
e lo affideremo all’amore».
Per sette giorni e sette notti egli dormì nelle ali delle Ore
senza mangiare, né succhiare al seno di donna.
Fu un patto stipulato con sua madre,
nel caso la creatura nascesse maschio.
Con un bel nome lo battezzarono nel paese natio i saggi
giunti di notte dalle regioni di mezzaluna.
Con l’acqua fresca del pozzo lo benedissero una mattina di febbraio
donne zingare dai volti scavati e dalle trecce nere.
Lui veniva dall’Est, paese del sole nascente,
tra riti e falchi trascorreva la sua infanzia.
Con fiori di ginestre intrecciava ghirlande per la sua capra
e le infilava tra le vecchie corna.
«Lo chiameremo col titolo nobile di bey
e aumenteremo i terreni – brindavano spesso i nonni paterni –
prima diventerà il principe della sua gente
poi il Re del paese».
Passarono anni ed egli crebbe con il latte di rondine,
mentre il sole seccava le spine della sua futura corona
e il bosco allargava il tronco del suo trono bianco come la neve,
nei campi lunari cadevano piogge feconde.
Nel suo paese tirava sempre vento e l’erba cresceva incurvata,
mentre di notte sulla riva del fiume danzavano belle spose.
Dalle faide sanguinarie sorgeva la sua stirpe antica:
guaritori di morsi di serpenti, indovini di destini furono i suoi avi.
Sul fango e la polvere camminava la sua gente umile
con la speranza nella terra e nella benedizione del Signore.
Quando moriva qualcuno veniva seppellito all’ombra dell’ulivo,
senza né croce, né mezza luna.
Fu allora che il ragazzo di notte e di nascosto,
decise di scendere dalla collina fino al fiume profondo
aspettando impaurito nel silenzio e nel buio
di incontrare le belle spose danzatrici.
«O bel fanciullo – gli dissero appena lo videro –
dicci quale bontà ti ha portato fin qui? –
mentre danzavano intorno a lui
legate con le proprie trecce –
Nessuno fino ad oggi ha osato
assistere alla nostra danza notturna,
che il tuo seme non possa crescere sulla terra,
sarai maledetto in eterno.
Morirai in esilio solo e di crepacuore,
lontano dal paese che amavi.
Divoreranno impietosamente la tua debole carne
pietre ed aquile nere a due teste.
Mai nessuno pronuncerà il tuo nome
nei richiami quotidiani.
Il peccato lugubre ti peserà
come un vecchio chiodo nella fronte.
La tua anima non sarà mai amata,
nessuna donna ospiterà il tuo corpo.
Vivrai dimenticato per il mondo
come una pietra buttata al margine della strada».
E nel fiume oscuro le bianche spose scomparvero
cantando e danzando nella lingua dei fiumi.
Vortici di fuoco avvolsero il ragazzo sette volte
senza lasciare segni di sangue,né ferite.
Da quella notte fonda
gli spiriti abbandonarono le valli.
Le donne misero la sciarpa nera in testa
una nenia sgomenta si udì nel paese.
Cessarono i lampi, i tuoni marini,
i galli del paese cantavano giorno e notte.
Siccità e spine crescevano nei campi seminati,
ovunque regnavano le ombre.
Un giorno di pioggia egli attraversò il mare
avvolto da canti marini e nebbie cieche.
Gli sembrò che qualcuno lo seguisse nell’oblio,
come se lo volesse accoltellare.
Nulla si sa della sua vita errante,
nel profondo racchiude i suoi misteri.
Come un monaco mesto fugge per il mondo
con una vecchia sciarpa intorno al collo.
Così narra la leggenda:
si dice che egli, di notte, torni
nel paese dell’Est che tanto amava
su di un cavallo bianco.
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