Sapeva di non essere una «narratrice nata» poiché «irrimediabilmente lirica»; fu tuttavia proprio un’opera di narrativa a sancirne l’esordio letterario e a garantirle un primo lancio di notorietà. Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio) racchiude nel tracciato eterodosso di Una donna (1906), a cavallo tra i generi del romanzo di formazione, del diario autobiografico e del saggio, «un pensiero di donna che riflette dinamicamente l’immagine fantastica di sé tra la memoria del passato e l’elaborazione del futuro» (Zancan). La scrittrice di Alessandria plasma la materia del proprio vissuto nella vicenda esemplare di un alter ego femminile e anonimo che si trasfigura per elevarsi, e che lotta coraggiosamente contro le convenzioni di una società retriva per aderire al proprio imperativo interiore, alla legge etica che le comanda di crescere, di evolvere, di diventare ciò che è.
La «parte migliore di me che avevo trascurata», ovvero l’«io profondo e sincero» di Rina, mortificato da vicende eteronome – tipiche di un percorso biografico femminile, in Italia, ai primi del ‘900 – risorge, oltre i vincoli della storia, nella sublimazione creativa di Sibilla. La scrittura stessa è il luogo simbolico della “nuova nascita” dalle ceneri dell’umiliante quotidianità: dai fili delle parole viene pazientemente annodato l’itinerario di una rigenerazione che spinge la protagonista a rendere fecondo il dolore attraversato, cioè a raccogliere i frammenti dispersi di un’esistenza per accedere di nuovo al “sogno di pienezza” perduto dopo l’infanzia felice. Come Rina ha avuto, infatti, una fanciullezza «libera e gagliarda», vissuta in solitudine ma aperta agli interessi e agli studi: «M’avvolgeva allora uno di quegli stupori meditativi che costituivano il secreto valore della mia esistenza». E ha assorbito l’indipendenza intellettuale dal padre, spirito libero, laico e anticonformista. La timidezza muliebre lotta dentro lei con un «nuovissimo impulso di audacia indipendente». Sente stretto, perciò, l’ambiente paesano e provinciale, tutto intramato di paure e ipocrisie, della «cittaduzza del Mezzogiorno» (Porto Civitanova Marche) in cui la sua famiglia si è trasferita, a seguito del nuovo lavoro del padre. Sospira di desiderio pensando alla vita della città, dove è già vissuta (a Milano), «col suo formicolio umano, con la sua esistenza vibrante». Il padre la porta in viaggio a Roma e così rivede la folla:
«mi risentivo piccola, insignificante, sperduta, anelante ad apprendere da tutti e da tutto intorno. Ciò mi produsse una emozione forse maggiore di quella che mi destarono i monumenti (…). Fu quel viaggio come il coronamento della mia adolescenza brada, temeraria, trionfante».
Roma le dà il primo accenno di rivelazione: a se stessa e alla vita. La fanciulla comincia a maturare, prendendo orgogliosamente coscienza dell’intelletto e della dignità che la donna racchiude in fondo a sé, e che un impulso irrefrenabile la spinge a sviluppare, a tirar fuori.
«Ero una persona, una piccola persona libera e forte; lo sentivo, e mi sentivo gonfiare il petto d’una gioia indistinta».
Volersi libera e indipendente, però, è contrario all’opinione comune, che a quei tempi considera la donna un «essere naturalmente sottomesso e servile». Le donne sono prone al peso che da secoli le schiaccia: «la cura pigra ed empirica dei figliuoli, la cucina e la chiesa eran tutta la loro vita». Il destino preordinato di tutte le donne, soprattutto in provincia, è soltanto «amare e sacrificarsi e soccombere». Ovvero: subire sevizie in silenzio e mascherarle sotto un velo di ipocrisia. Non c’è alternativa alla menzogna, alla rassegnazione. I tentacoli sociali avviluppano anche, suo malgrado, la protagonista di Una donna, la quale appunto – a dispetto del titolo del libro – oppone a tale stato di cose la «rivolta selvaggia» di tutta se stessa, che la porta a lottare per non ridursi ad essere “una” donna come tutte, la donna che gli altri vorrebbero che fosse, ma per avere il diritto di diventare semplicemente “la” donna che è – ed è proprio questo che non è concesso. Il primo grande strappo che la allontana dall’infanzia è il tentato suicidio della madre. Il divario si allarga con la scoperta che il padre ha un’amante. L’infanzia muore definitivamente con l’iniziazione sessuale traumatica: subisce uno stupro. Si sposa con un uomo geloso e ottuso che la soffoca e la controlla, e la vuole remissiva. Le nasce un figlio. Il marito la trascura, lei si lascia vincere dalla «smania di vivere» e cede alle lusinghe di un altro uomo. Poi tenta il suicidio con il laudano. Viene salvata per miracolo. Si dà allo studio, alle meditazioni, alla scrittura. Concepisce il Libro capace di «mostrare al mondo intero l’anima femminile moderna, per la prima volta», un libro autobiografico: «il capolavoro equivalente ad una vita». Coltiva intensamente lo sviluppo della sua vita interiore. Comincia a interessarsi di emancipazione femminile: la parità dei diritti della donna come persona umana di uguale dignità.
«Un fatto di cronaca avvenuto nel capoluogo della provincia, m’indusse irresistibilmente a scrivere un articoletto e a mandarlo ad un giornale di Roma, che lo pubblicò. Era in quello scritto la parola femminismo».
Ecco di nuovo Roma, balenante spiraglio di luce in fondo al tunnel di una vita che la violenza della realtà ha soffocato e riempito di tenebra.
Sin qui il romanzo, dove l’autrice riversa un grumo di vicissitudini in gran parte autobiografiche. Alla fine del febbraio 1902 Rina aveva avuto il coraggio di abbandonare il marito, Ulderico Pierangeli, e il figlio Walter, con cui viveva a Porto Civitanova Marche, per trasferirsi a Roma, dal padre, in zona Pineta Sacchetti. Lì, nell’estate 1902, mette mano ai primi capitoli di Una donna, che conclude in prima stesura l’estate successiva, a casa dello scrittore Giovanni Cena, con cui nel frattempo è andata a vivere, in via Flaminia 45. Il libro prende la sua forma definitiva nel 1904 e viene pubblicato dalla Sten di Torino il 6 novembre 1906. A Roma comincia la seconda vita di Rina/Sibilla; è il luogo fisico e sociale della sua liberazione, lo spazio simbolico della sua esistenza rigenerata che si apre finalmente alla scrittura, alla notorietà, allo scambio intellettuale, all’impegno comunitario (Cena la spinge a prestare la sua opera nelle scuole dell’Agro romano e presso un dispensario di Testaccio). Rina, rinascendo come Sibilla, ha osato ribellarsi al pregiudizio della donna sottomessa al ruolo di madre e moglie: dunque al sottinteso incontrovertibile del sacrificio imposto, da secoli, alle energie creative femminili, con la sistematica repressione dei relativi talenti; e, più in generale, all’idea deprimente di una vita statica e reazionaria, intesa a mo’ di fato immutabile e non di destino fluido in evoluzione, sottoposto per ciò stesso all’incidenza del libero arbitrio, dove cioè non sia possibile cambiare direzione, e quindi chiudere un processo di esperienze per cominciar daccapo, quasi nuovi. Il romanzo mostra, invece, che la vita di un individuo umano è, a prescindere dal sesso, un continuo succedersi diacronico (costituito a sua volta da intersecazioni sincroniche) di morti e rinascite esistenziali, in campiture cicliche legate al ribollire inquieto dell’esperienza: un processo creativo “aperto”. In questa coscienza della complessità del divenire cosmico, e nella serenità di averne giusta parte (per aver adempiuto al proprio imperativo etico interiore) si realizza forse, alla fine del libro, il sogno di armoniosa interezza vagheggiato – post factum – sin dalle prime pagine: malgrado i rimorsi per il figlio abbandonato.
«In cielo e in terra, un perenne passaggio. E tutto si sovrappone, si confonde, e una cosa sola, su tutto, splende: la pace mia interiore, la mia sensazione costante d’essere nell’ordine, di potere in qualunque istante chiudere senza rimorso gli occhi per l’ultima volta.
In pace con me stessa».
Roma stessa le ha allargato e approfondito lo sguardo; le ha fatto capire, dinanzi a un mondo dove tout se tient, quanto inutili, ridicoli e dannosi siano gli schemi di rappresentazione con cui l’uomo sociale cerca di ridurre l’infinito che, a dispetto degli argini di contenimento, appartiene per natura ad ogni cosa. È una lezione che la protagonista del romanzo, rinata a nuova vita, impara proprio dal cielo di Roma:
«Nel cielo le nuvole andavano, tutte avvolte dal sole, mutevoli e continue: le piazze, le fontane, le case di pietra, le cupole, il fiume e le pinete incise sull’orizzonte, il deserto della campagna e i monti lontani, tutto pareva seguire il lento viaggio delle nubi, tutto era com’esse immerso nella luce meravigliosa e com’esse appariva fluido ed eterno. Anch’io ero già passata sotto quel cielo che ora tornavo a guardare; ed anche in quel mio passaggio di adolescente l’anima s’era sentita dilatare al cospetto dell’infinito azzurro. Non ero la medesima, ancora? Non cominciava ora la giovinezza?»
Roma è il catalizzatore positivo del cambiamento: «l’itinerario di formazione e di crescita della nuova donna riparte da lì». Vi ha sede, da qualche tempo, un periodico femminile: Mulier. La chiamano a collaborare. Il marito, che nel frattempo ha rotto con il suocero (con cui lavorava), teme di non saper fronteggiare l’ambiente mondano della Capitale. E poi non saprebbe che fare. Si risolve ad impiantare a Roma il commercio di alcuni prodotti locali. Ecco dunque il trasferimento a Roma. Ed ecco il travaso della Città Eterna, siccome affiora, dopo aver sedimentato, dal tessuto sottile dello sguardo, dentro la coscienza:
«Roma appartiene allo spirito che la desidera con volontà, e mantiene tutto quanto le si chiede con vigore d’anima. E forse non era tanto lontano il giorno in cui avrei compreso in un solo sguardo la città unica, l’avrei sentita tutta nel palpito del mio cuore… Frattanto, che ebbrezza e che estasi assistere con mio figlio ai lunghi tramonti di fiamma dalla terrazza del nostro quartierino, con dianzi il fiume e Monte Mario, dopo aver lavorato ore e ore nel silenzio dell’alto studiolo!
Mi sembra di non poter raccontare quei miei primi mesi di vita romana (…) … Città di esaltamento e di pace!
Riserbandomi di penetrare poco per volta la bellezza e la maestà dei luoghi sacri, esploravo lietamente le parti moderne, che mi risuscitavano il senso dell’energia umana avuto nella fanciullezza. Ma ad ogni tratto, dalla confusione e dal frastuono della vita febbricitante mi trovavo repentinamente trasportata davanti a quadri di silenzio e di sogno, lontano, in epoche non conosciute quasi, fuorché in leggende. Ed erano anche aspetti improvvisi di civiltà più prossime e più note al mio spirito, e l’impressione talora della presenza di grandi anime non ancora estinte, non ancora lontane dalla terra così improntata di loro. Se ero sola o col piccino soltanto e nulla d’estraneo mi turbava, l’intensità della commozione mi faceva qualche volta salire alla gola un singhiozzo. L’avvenire si velava, s’allontanava: il presente appariva più indecifrabile. Ed io, piccola accanto al mio piccino, quasi dileguavo alla mia stessa coscienza.
Mi riscuotevano presentimenti vaghi di un’altra parola ancora che la città doveva dirmi. Intorno ai nuclei di pietra che rappresentavano memorie grandiose o attualità mediocri, sapevo che esistevano cinture di miseria, agglomeramenti di esseri che la società fingeva d’ignorare e nei quali intanto fermentava forse il segreto del domani…».
Roma parla di eternità attraverso la sua storia: è un muto colloquio interiore, di segni e simboli, che allarga l’anima e talvolta la confonde, aprendola anche alla contemplazione del futuro, sia pur enigmatico, che trapela dagli squarci di un presente non sempre generoso. È il «cuore del mondo» che parla al cuore dell’Uomo, e lo raccoglie – sparso da ogni luogo – sul più vasto cammino della crescita, dell’evoluzione. A Roma convergono e si incontrano gli spiriti eletti chiamati ad operare il bene, a migliorare il mondo. Uno lo incontra anche lei: una specie di “santone” ieratico (che nella realtà corrisponde a Umano, alias Eugenio Meale) col quale approfondisce la coscienza di una urgente evoluzione sociale, per l’avvento di una nuova epoca, «l’epoca dello spirito liberato».
«Roma, sì, era il centro ideale, la comune patria delle stirpi privilegiate. Ripartivano quei pellegrini che avevano tante, tante aspirazioni comuni e che non potevano contemplare una comune opera irradiata da questo cuore del mondo, Roma!».
Mulier ha i suoi uffici accanto a Piazza di Spagna. Ci va due o tre volte la settimana, e poi svolge il lavoro a casa: rassegna stampa, riassunti di libri o di articoli, traduzioni. Il marito non le perdona di «averlo indotto a gettarsi nel caos cittadino» e attende fiaccamente alle sue attività. E intanto lei, elettrizzata dalla città e dal lavoro (che la fanno sentire utile, parte di un immenso meccanismo e, quindi, viva come non mai) si gode la sinfonia delle stagioni.
«L’autunno romano svolgeva intorno la sua magnificenza. Io proseguivo ne’ miei vagabondaggi assaporando tutto l’incanto misterioso degli spettacoli che mi si svolgevano dinanzi come altrettanti simboli (…) prima di riprendere il mio povero lavoro di giornalista guardo dalla terrazza il disco abbagliante del sole sopra i cipressi di Monte Mario, e le due fasce incandescenti che lo attraversano e arrossano l’orizzonte. E mi pare che quel tramonto si fisserà per sempre nel mio ricordo».
Inverno:
«Venne Natale, cogli arbusti delle rosse bacche sui gradini della Trinità dei Monti, coi presepii di Piazza Navona, delizia del mio piccino; venne la stagione dei teatri e delle conferenze, ed il febbraio coi primi rami fioriti; per le vie stormi di giovani straniere, alte, bionde e ridenti, passavano recando sulle braccia le candide nuvole di petali (…). Lavorando, continuavo a sentirmi alitar nello spirito, in maniera confusa, le idee e le immagini accolte durante la passeggiata, nei prati di Villa Borghese o sulla deserta duna del fiume». Continua a leggere