Antologia Il rumore delle parole 28 poeti del Sud Edilet pp. 284 € 18 (Sebastiano Adernò, Valentino Campo, Luigi Celi, Rossella Cerniglia, Maria Pina Ciancio, Carlo Cipparrone, Fabio Dainotti, Marco De Gemmis, Fortuna Della Porta, Giuseppina Di Leo, Francesca Diano, Michele Arcangelo Firinu, Maria Grazia Insinga, Abele Longo, Eugenio Lucrezi, Marco Onofrio, Aldo Onorati, Silvana Palazzo, Marisa Papa Ruggiero, Giulia Perroni, Gino Rago, Lina Salvi, Daniele Santoro, Ambra Simeone, Francesco M. Tarantino, Raffaello Utzeri, Adam Vaccaro, Pasquale Vitagliano) a cura di Giorgio Linguaglossa
Commento di Laura Canciani
Com’è noto, Tynianov si opponeva a una concezione evolutiva della letteratura, che secondo lui procede per salti e per spostamenti piuttosto che secondo uno sviluppo uniforme. Ad avviso del noto critico in ogni genere, osservato a un dato momento, si distinguono tratti fondamentali e tratti secondari: sono proprio i tratti secondari, i risultati e le deviazioni «casuali», gli errori, che producono nella storia dei generi mutamenti più cospicui da annullarne in certa misura la continuità. Si può parlare di continuità per la nozione di «estensione», che oppone le «grandi forme» (romanzo, poema, racconto lungo) alle piccole (racconto breve, poesia), e di continuità per i «fattori costruttivi» (per esempio, il ritmo nella poesia e la coerenza semantica – trama – nella prosa) o per i materiali; ciò che cambia è ben più importante per la individualità del genere: è il principio costruttivo che fa utilizzare in modi sempre nuovi i fattori costitutivi e i materiali.
Gli spostamenti all’interno di uno stesso genere, mettiamo la poesia, sono molto importanti per comprendere come a volte delle piccole novità conseguite in periferia possano avere ripercussioni, per vie sotterranee, sulle linee maggioritarie che si esprimono attorno alle due più grandi città italiane (Roma e Milano). Ecco allora la spinta al rinnovamento o la diversa funzione che la periferia viene a svolgere nel rinnovamento di un genere. Questa campionatura di autori del Sud viene incontro alla esigenza di indagare per quali vie sotterranee la poesia del Sud possa contribuire al rinnovamento del genere poesia ma non tanto per la forza specifica delle singole realtà regionali quanto per la capacità di fare, tutte insieme, massa e peso specifico.
Il Sud non è indagato solo come contenitore di diverse sensibilità linguistiche ma come momento propulsivo della ricerca di nuove vie di sviluppo della poesia italiana contemporanea. È un fatto che il Sud, dall’unità d’Italia in poi, se si fa eccezione per l’ermetismo di matrice quasimodiana, non è mai stato capace di produrre una letteratura egemone, grandi personalità sì, ma isolate, e questo vale anche per il genere poetico.
Altra importante problematica è la divaricazione che si è aperta tra Patrimonio e Modernità. Che rapporto c’è fra questi due poli? Patrimonio è ciò che appartiene al padre, Modernità è ciò che appartiene ai figli, ma la Modernità è stata caratterizzata dalla insubordinazione dei figli ai padri, che non vogliono più ereditare alcunché dai padri e abitare la casa paterna, per essi la Tradizione deve essere abbandonata e demolita. La Modernità nasce come critica della Tradizione, rifiuto e disobbedienza verso tutto ciò che il passato invece invita ad essere custodi. La Modernità viene ad essere recepita anche da questi autori antologizzati come la casa che deve essere disabitata, abbandonata, rigettata per poter costruire una casa propria, una casa comune in cui l’eredità dei padri sia stata rimossa. Con l’atto della rimozione, della abitudine all’uso e al riuso degli stilemi della Modernità e all’impossessamento del patrimonio ereditato, esso diventa trafugamento, appropriazione indebita. Con quest’atto la Modernità diventa Postmodernità. È questo, credo, il racconto che tra le righe ci fa l’Antologia Poeti del Sud.
Il nichilismo antitradizionale e anti patrimoniale delle avanguardie storiche è stato progressivo e unilineare, i surrealisti volevano abolire il passato per poter instaurare il regno del Futuro, dell’uomo nuovo della rivoluzione incombente; gli autori di questa Antologia aboliscono contemporaneamente Passato e Futuro, sono nichilisti loro malgrado, adottano il nichilismo come il loro usuale vestito dello Spirito, si muovono nel Presente, il patrimonio poetico europeo viene percepito come inabitabile e inarrivabile, vivono nell’età dell’incertezza e dell’ansia.
Carlo Cipparrone
Nei labirinti del sangue
Spesso mi prende un’ansia
segreta, una libidine.
Sorge dalle mie viscere
domina la mia mente
circola nei labirinti del sangue.
Tutto m’emoziona, tutto mi turba.
Non riesco a trattenere
la mano che masturba le parole
e scrivendo provo insieme piacere
e angoscia, estasi e sofferenza
fino al parossismo dell’orgasmo.
Vivo da sempre in questo
mio paradiso e inferno
di cielo e fango, di fiori e spine,
di verità e menzogne.
Ubriaco di nettare e veleno,
approvo e rifiuto
amo e odio ciò che scrivo.
*
Con povere parole
(ostinata passione
che in me sempre risorge)
do segni d’esistenza.
Vengo da un altro gelo,
dal mistero dell’indifferenza
che ogni tanto si scioglie
e cerca vie d’uscita,
lascia segni di tentati percorsi
orme incerte sulla neve.
.
Linee di fumo
All’incrocio d’umani destini
lungo i margini della via
labili tracce d’un bivacco
segnalano il mio passaggio:
resti d’una segreta fiamma
arsa in petto, d’un fuoco
che non crepita più ma tace,
esile linea di fumo,
sparsa nebbia, residuo calore
di spenta brace sotto la cenere.
*
Ciò che ora dico
serve e non serve, conta poco;
ma si deve parlare,
correre il rischio.
Perché so tutto e niente
imprecise notizie
di cui chiedo conferma.
Fabio Dainotti
Otto poesie per Gina
Quando nacqui mia madre ne piangeva
(Umberto Saba)
*
Quando nacqui i parentes
mi affidarono a te, studentes-
sa a Pavia.
(nell’università che poi fu mia).
Così quando gli amici ti chiamavano:
“Usciamo, andiamo al cinema, a ballare”,
mi esibivi trionfante alla finestra:
“Ho il bambino. Non posso
Gli devo dare il latte”.
*
Poi alle elementari, a Frascarolo:
c’erano i pensierini sulla rosa
da fare, che tormento
invece di giocare!
“La rosa è…” dicevi, suggerivi.
Ma a me non veniva mai niente
in mente;
non riuscivo a integrare, completare.
“La rosa è la rosa, scusate”, pensavo.
Queste cose ho saputo da voi dopo.
*
Di quel giardino ricordo le ortensie
blu come il millecento che comprò
lo zio e ci portò tutti ad ammirarlo
nella rimessa di lamiera
dopo cena, una sera.
E tu eri contenta, ma non troppo,
della sorpresa.
– Ah, gli uomini!, pensavi
all’imprevista spesa.
*
Le gite, la domenica mattina:
aspettando che il pranzo fosse pronto,
mio zio mi portava in giro un po’,
nella sua auto nuova; sullo stradone grigio,
poi a un tratto sbucava in un sentiero
e si fermava, per stupirmi; c’era, che scorreva,
un fiume, il Po.
*
Compravo il latte, ero un bravo bambino,
mi dicevo. Guardavo in alto, in cielo:
mi apparivano i volti
dei genitori, lieti,
grandi come gli dei che distruggevano
con una mano le mura di Troia.
Era quella la loro approvazione.
Il premio: la televisione.
Marco De Gemmis
«Dove sia»
.
«Dove sia» inizia Porta la poesia
che ti lascio sul tavolo in cucina
e «Tu che fai stasera?» da un biglietto
ti chiedo, ma se sfogli il libro indietro
a pagina ventisei il poeta dice
«per essere felici bisogna andare lontano»
e spero questa pagina ti sfugga, esco
ma prima monto le chiare a neve,
due, aggiungo crema, mescolo
– ti faccio una cosa dolce –,
mescolo senza sbattere troppo
la testa contro il muro
I documenti della nostra vita
i documenti della nostra vita
stanno in briciole sul tavolo in cucina
come nel dopopranzo, quando
in mostra si sono messi i piatti
vuoti, dove le cose sono ridotte
all’osso: noi siamo intanto stesi
saturi in altre stanze e sui divani
ci sta dentro dalla testa ai piedi
un’auto spenta, senza un conduttore
che la possa riavviare e spostare
Leggendo Zanzotto
nell’auto che va
mentre parlate di cibo…
.
[“… le crode del Pedrè. Ebbene, se sono tornato a parlare di questo posto, dove si andava in gita scolastica quando ero bambino, è perché in quel luogo fisico c´è una volontà di resistere, anche se contraddetta da pulsazioni opposte e oscure, che è omologa alla terra e all´uomo…”]
.
voglio dirvi una cosa
ma non c’entra:
le crode del Pedrè
esplorate a ottobre
per capire lui
dove passeggia
e dove prende la poesia:
devo dirvi una cosa
che mi apparve:
acquattata pure lì
c’era la peste:
dentro le colline
stillava gocce
che salivano spedite
quasi si fosse invertito
il senso delle cose
che non c’è alcun perché
per come stanno andando
come anche lui saprà
non conviene più fermarsi
in nessun luogo
Libere poesiole
l’inverno che invochi
e giochi a far la pioggia
con la bocca, il ticchìo
sullo zinco al ritmo
delle gocce; o l’estate
che pensi in cagnesco
e giochi sbuffando
a sventagliarti preziosa
bestiola da salotto;
o senza stagione alcuna
(ché il tempo ormai
è cessato) come ora
che stai dormentata
e giochi la giornata
così: posso lasciarti
sola, posso lasciarmi
da solo scrivere
libere poesiole?
Fortuna Della Porta
Non ho incontrato la rivelazione
da: Inferno
L’orgia della notte rivela ossessione di morte.
Lacci e tridenti artigliano caviglie convulse.
L’inferno ha chiamato avvelenando i pozzi
il respiro accoglie arsenico tra i denti gialli.
Le gomene si sono tarlate.
Fino alla soglia del cielo
schioccano fiamme sulfuree:
l’ubriaco che sciacqua il vomito
al mascherone di pietra
la puttana che appiglia il reggiseno
alla catena di piombo…
Le creature delle tenebre fragili e oscene
col ventre che espelle la vita goccia a goccia
le cosce che spasimano un amante qualsiasi
l’innocenza fulminata per caso ai margini della ragione
per caso ogni miseria sembra uno sparo.
*
Se tu venissi temerario per selve forestiche
per sentieri spinosi, per zanne affilate di lonze lupi e leoni
ti accorgeresti che le strade di oggi
non portano eroi.
Mutile statue, Virgilio agonizza sul colle
braccia spolpate e nudità.
L’erba è marcia per gli amplessi rubati o saldati
per il sangue dei deportati
dalle cornee fosforescenti e i palmi di latte.
Nello Stige melmoso l’anima di pietra si torce
la città dannata rinuncia.
Marmoreo, solo il re che bara la sorte
«Scacco matto!», tripudia.
Tutt’intorno la zizzania avvilisce le onde
gli strazi delle periferie palpitano.
Non mi riconosceresti.
*
I miei genitori vissero da muratori.
Con piglio gentile costruirono scale
saggezza di ponti e scuole verdeggianti
perché all’impazienza delle idee
fosse destinato un sentiero.
Così nel mio tenerissimo tempo
a braccia spalancate e fuoco di profezia
gazzelle di chimere a testimonio
«posso», dissi fiera, ma quando il Muro crollò
prosperarono altri divisori.
Ci siamo persi. Abbiamo consentito.
La nostra saliva ha cristallizzato sale
e oggi la luna galleggia.
Così, mentre il chiarore abbandona la riva
a ridosso di rupi e preda di lupi
la lealtà dell’acqua è macchiata da rigurgiti
che infestano l’Arcadia perduta.
Nel buio le finestre pudiche vorrebbero tacitare la tv.
Nemmeno i colori abbiamo scampato
per lasciarli al futuro
e non si sa come pentirsi o rimediare.
Francesca Diano
Congedi. Viatico in undici stazioni
I
L’esclusa
Andavo per strade coperte di polvere
L’orlo della mia gonna sfilacciato
Non si curava di fango o sterco
I piedi scalzi – segnati dal rifiuto persino della terra.
Signori o plebei – non facevo alcuna differenza
Nessuna presenza era presenza
Ed ogni assenza – assenza.
Mi dolevano le ossa – ero una casa diroccata
Disabitata persino da me stessa
Preda di predatori e depredata di me.
Ero povera – di quella povertà che non conosce
Nemmeno il nome di miseria
Perché al mondo non c’era creatura
Che mi guardasse se non come sgualdrina.
Sospesa in una terra di nessuno
Dove il giorno non vira nella luce e le notti
Sono il delirio di un lebbroso.
Il loro sguardo mi sfiorava col disgusto
Di chi è avvezzo soltanto alla bellezza
Delicata che si rispetta perché consacrata
Dalla legge di Dio e degli uomini.
Io ero buona solo per sfogare la rabbia
L’istinto che si tace nel letto coniugale.
Con la rabbia impotente di uomini malati
D’onnipotenza – sapienti o rozzi contadini
Signori o poveracci – io ero buona per voi
Ma non per me. Non abbastanza
Da avere casa nel vostro cuore.
Avevate forse cuore per me?
Cagna reietta nell’istante stesso
In cui mi possedeva la vostra carne.
Ogni volta eravate assassini
Ogni volta morivo un po’ di più
Finché il mio corpo si disfece
– me viva ancora –
Non vi perdono la disperazione
Vostra sola elemosina per me
Il solo soldo con cui mi pagavate.
Poi venne lui. Mentre stavo morendo.
Lo sguardo dei suoi occhi
non lo dimentico nemmeno ora.
Quel corpo martoriato dalla vita
Lui me lo fece amare
Donandomi il perdono per me stessa.
Sul pagliericcio fetido – che accoglieva la morte
Scintillò la bellezza luminosa
Che lessi nei suoi occhi
Capaci di vedere oltre le piaghe.
E mi diede la pace.
II
Steppa
Non ero che un bambino e tu un adulto.
Ti temevo. Temevo il tuo sorriso
Come una lama sfoderata a colpire
Senza guardarti in faccia.
La tua jurta era grande e molto solida
Però a te non bastava. Eri feroce
Nella tua sete di potere.
Quell’anno fu gelido l’inverno
Più dei passati e il fuoco non bastava.
La nostra gente – gente guerriera
Soffriva il freddo.
Predatori eravamo e predavamo.
Tu più di tutti.
Io non potei evitare che mio padre
Mi abbandonasse nella steppa
Lasciandomi bambino a sostenere
Il peso di un potere non voluto.
Mi piegava le spalle e mi schiantava.
Lo subivo il potere e con che gioia
A te lo avrei ceduto.
Dunque – quando quel giorno con un’ascia
Mi aggredisti alle spalle e mi spezzasti
Le vertebre e la vita – senza guardarmi in faccia
– non eri coraggioso – io non potei capire.
Ma avresti visto – per sempre congelata
Nei miei occhi la sorpresa e l’orrore.
Cadendo altro non vidi che terra congelata
E i licheni – come ricami di trine verdegrigie
A riempire lo spazio breve del mio viso.
I tuoi occhi una steppa – morta – immota.
Non ero che un bambino e tu un adulto.
Giuseppina Di Leo
A nonno Leonardo
Su materassi di paglia dormivo da bambina
accanto la voce amata. Su due piedi possibili
il tempo sosta in attesa fino all’ultimo,
un piolo per volta, fino alla lunga stanza;
il pavimento in cemento lo scorgevi infine,
proscenio della camera dalle due finestre.
E sulla scena, l’odore delle pesche sotto il letto.
*
[Le quattro pietre]
Le quattro pietre ancorate al mare sembrano sorelle,
quattro dita in tutto afferrano il mare. Così, se tu temi
la luce vorrebbe dire dover lasciare l’uscio chiuso per
troppo ancora. Rimanda la paura. A dopo. E intanto
siediti. Resta. Con un gesto del piede allontana dunque
il pensiero dalla fronte, troppi angoli mostra il prisma,
troppi colori conta l’arcobaleno, nel sole i raggi,
tanti quanti i visi. Lontano dagli sguardi serba il seme
per piantarlo all’uso del lunario, e di quel che resta
a me basterà l’odore delle cotogne e della paglia.
*
L’uomo onda
All’inizio fu il silenzio e la terra era feconda
foreste lussureggianti racchiudevano suoni di vento
e nel mare era nascosta la voce profonda di un amore
sarebbe arrivato sulla riva nelle vesti di uomo scolpito
dal flusso delle onde, sarebbe salito sulla parte alta
e avrebbe poi urlato al silenzio il suo segreto.
«Dalle tasche del mare altri suoni arriveranno», disse al giovane fiore
e così parlando pensò lo avrebbe colto nel sonno di un’estasi.
«Si giunge lontano stando fermi», gli rispose allora il fiore
«nessuno tra noi due sa chi per primo cederà il suo stelo
al vento». Non si sa se fu lo stato di paura, irrazionale quanto basta
foriero e preannuncio di ogni altro eco terrifico a portarlo via
ma a quel dire colpì dapprima la terra sollevandola
con le mani aperte rivoltò più volte la zolla, afferrò poi
il bastone potente del comando e percosse con quello
stelo a stelo ogni singolo filo d’erba; ogni singolo gambo
si abbassò diventando tutt’uno con la terra
afferrò nuovamente con due mani la spada
l’elsa della forza lo istigò a tracciare scavi profondi nelle viscere
la terra rimasticava le sue radici d’oro e la farfalla si tramontò
in bruco e il bruco in terra, mentre l’uomo continuava a far
marcire nel sonno il silenzio prezioso di un tempo. La parola attesa
si trasformò in bestemmia, la bestemmia in rancore
fino a quando il fiore del silenzio si aperse in rosa di sangue
con due ali sui fianchi scese nell’imbuto del tempo
fino a che insieme al tempo non si squarciò il dolore.
POESIE SCELTE di Andrea Zanzotto (1922 – 2011) da “Meteo” (1996) con un Commento di Giorgio Linguaglossa del 1996
Andrea-Zanzotto di Andre-Aciman il paesaggio come stato d’animo
Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 Conegliano, 18 ottobre, 2011), nasce da Giovanni, pittore e professore di disegno inviso al fascismo, e da Carmela Bernardi, consegue il diploma magistrale nel ’37. Ottenuta anche la maturità classica (’38), si iscrive a Lettere a Padova: tra i suoi maestri ci sono Diego Valeri e Concetto Marchesi. Sono anni densi di novità per l’autore che, oltre a coltivare la scrittura poetica – alcuni testi composti in questo periodo sono inclusi nella plaquette A che valse? (versi 1938-1942), edita nel ’70 – approfondisce la lettura di Baudelaire, conosce l’opera di Rimbaud e Hölderlin, studia la lingua tedesca. Laureatosi con una tesi sull’opera di Grazia Deledda nel ‘42, l’anno successivo è richiamato alle armi: inviato ad Ascoli Piceno per il corso allievi ufficiali, è sospeso dall’addestramento a causa di una grave allergia e destinato ai servizi non armati. Dopo l’8 settembre trova riparo nei luoghi d’origine e, nelle file di Giustizia e Libertà, collabora con la stampa della Resistenza.
andrea zanzotto
Tornato all’insegnamento con la fine del conflitto, per qualche tempo è in Svizzera; dal ’46 prosegue la sua attività in varie scuole del Veneto. Nel ’51 esce la raccolta Dietro il paesaggio, in cui confluiscono gli inediti insigniti in precedenza (’50) del Premio San Babila. Nel ’54, superato il concorso a cattedre, Zanzotto prende servizio in una scuola media di Conegliano; pubblica nello stesso anno Elegia e altri versi, con prefazione di Giuliano Gramigna. Lavora intanto alle liriche poi raccolte in Vocativo, edito nel ’57. Sposatosi nel ’59 con Marisa Michieli, da cui avrà i figli Giovanni e Fabio, nel ’61 accetta di organizzare la scuola media inferiore di Col San Martino, dove svolge per due anni la funzione di preside. Pubblica, nel ’62, le IX Ecloghe; nello stesso anno, sulle pagine di «Comunità», firma un intervento in cui prende le distanze dalle motivazioni che hanno ispirato la raccolta antologica I Novissimi, uscita nel ’61 per le cure di Alfredo Giuliani. Dopo la raccolta di prose creative Sull’altipiano (’64), dà alle stampe La beltà (’68) e il poemetto Gli sguardi i fatti e senhal (’69). Abbandonato l’insegnamento nel ’70 (ma fino al ’75 continuerà a occuparsi di formazione degli insegnanti), Zanzotto licenzia Pasque (’73) e la raccolta Filò (’76) per il film Casanova di Fellini. Attende inoltre alla trilogia comprendente Il Galateo in Bosco (’78), Fosfeni (’83) e Idioma (’86). Insignito di diversi riconoscimenti – come il Premio Viareggio nel ’78, il Librex- Montale nell’83, il Premio Feltrinelli dell’Accademia nazionale dei Lincei nell’87 –, raccoglie parte della sua produzione critica e saggistica nei volumi Fantasie di avvicinamento (’91) e Aure e disincanti (’94). Negli ultimi anni, ha pubblicato le raccolte Meteo (’96) e Sovrimpressioni (2001). La sua produzione poetica, con una scelta delle prose, è stata riunita e ordinata nel «Meridiano» edito nel 2000.
Andrea Zanzotto (1921 – 2012) da “Meteo” Donzelli 1996 pp. 82 £ 16.000
da “Poiesis” n. 10 maggio-agosto 1996
Sangue e pus, e dovunque le superflue
superfluenti vitalbe che parassitano gli occhi,
un teleschermo, fuori tempo massimo.
Dirette erutta e Balocchi
Tu sai che
La città dei papaveri
così concorde e gloriosa
così di pudori generosa
così limpidamente inimmaginabile
nel suo crescere,
così furtiva fino a ieri e così,
oggi, follemente invasiva…
Voi cresciuti in monte su un monticello
di terra malamente smossa
ma ora pronta alla vostra voglia rossa
di farvi in grande-insieme vedere
insieme notare in pura
partecipazione e
naturalmente, naturalmente adorare
Che ridere che gentilezze che squisitezze
di squilli e vanti per la sorpresa infusa
a chi nella note ottusa
non potè vedervi aggredire-blandire
il monticello che fu le vostre mire!
E sembra che là installati
solo ardiate di sfidare a sangue
per nanosecondo il niente, ma
deridendoci, noi e voi stessi.
nella nostra corsiva corriva instabilità e
meschina nanosecondità –
sì quel vostro millantarvi
e immillarvi in persiflages
butta tutto ciò che è innominabile
fuori dal colore
del vostro monticello seduttore…
Un saluto ora non bizzoso, tutto per voi-noi,
sternuto
*
Topinambùr* tuffi del giallo
atti festivi improvvisi del giallo
gialli brividi baci
bacilli-baci
*
Topinambùr
to to torotorotix
augellini lilix
lontani insettini di
vespificato giallo
Ur-giallo lilix
*Pianta erbacea dai fiori gialli accesi che crescono spontanei lungo i fiumi, diffusissima nell’Italia settentrionale
Commento
Dopo dieci anni di silenzio Andrea Zanzotto stampa questo libro di versi Meteo (1996), «Incerti frammenti» li chiama l’autore; alcune poesie sono di discreta lunghezza, altre sono brevi frammenti. «Più che in passato – scrive l’autore – l’idea che per la poesia non esiste un punto terminale, quello che una volta si diceva “ne varietur”, si è fatta più labile. Molto spesso affido questi frammenti alla carta, come mi vengono, e li ammucchio in un cassetto, anche disordinatamente. La poesia non si scrive su carta speciale. Viene a colpi e a lampi». Zanzotto in una recentissima intervista ha ripetuto che «forse prediligo il frammento, che è anche una composizione un po’ lunga e scherzosa, ma di umorismo nero se si guarda bene (ad es. in quello) intitolato “Tempeste e nequizie equinoziali” dove parlo di una specie di distruzione del cielo operata da una serie di fenomeni che non ci danno più l’idea di un cielo meteorologico, come ad esempio il buco nell’ozono che recita: “Mille teatrini in batuffoli, frammenti / nell’insieme dispettosissimi / ora è quanto è rimasto / di un sospetto di cielo…”, con il finale: “Non ottenesti tu forse la massima pratica orgastica / a testa infilata entro un sacchetto di plastica?”. Continua a leggere →
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