Archivi categoria: recensione libri di poesia

A cura di Giorgio Linguaglossa – Antologia Il rumore delle parole 28 poeti del Sud Edilet, Roma, pp. 284 € 18 (Carlo Cipparrone, Fabio Dainotti, Marco De Gemmis, Fortuna Della Porta, Giuseppina Di Leo, Francesca Diano), Commento di Laura Canciani

Antologia Il rumore delle parole (2)Antologia Il rumore delle parole 28 poeti del Sud Edilet pp. 284 € 18 (Sebastiano Adernò, Valentino Campo, Luigi Celi, Rossella Cerniglia, Maria Pina Ciancio, Carlo Cipparrone, Fabio Dainotti, Marco De Gemmis, Fortuna Della Porta, Giuseppina Di Leo, Francesca Diano, Michele Arcangelo Firinu, Maria Grazia Insinga, Abele Longo, Eugenio Lucrezi, Marco Onofrio, Aldo Onorati, Silvana Palazzo, Marisa Papa Ruggiero, Giulia Perroni, Gino Rago, Lina Salvi, Daniele Santoro, Ambra Simeone, Francesco M. Tarantino, Raffaello Utzeri, Adam Vaccaro, Pasquale Vitagliano) a cura di Giorgio Linguaglossa

Commento di Laura Canciani

Com’è noto, Tynianov si opponeva a una concezione evolutiva della letteratura, che secondo lui procede per salti e per spostamenti piuttosto che secondo uno sviluppo uniforme. Ad avviso del noto critico in ogni genere, osservato a un dato momento, si distinguono tratti fondamentali e tratti secondari: sono proprio i tratti secondari, i risultati e le deviazioni «casuali», gli errori, che producono nella storia dei generi mutamenti più cospicui da annullarne in certa misura la continuità. Si può parlare di continuità per la nozione di «estensione», che oppone le «grandi forme» (romanzo, poema, racconto lungo) alle piccole (racconto breve, poesia), e di continuità per i «fattori costruttivi» (per esempio, il ritmo nella poesia e la coerenza semantica – trama – nella prosa) o per i materiali; ciò che cambia è ben più importante per la individualità del genere: è il principio costruttivo che fa utilizzare in modi sempre nuovi i fattori costitutivi e i materiali.

Gli spostamenti all’interno di uno stesso genere, mettiamo la poesia, sono molto importanti per comprendere come a volte delle piccole novità conseguite in periferia possano avere ripercussioni, per vie sotterranee, sulle linee maggioritarie che si esprimono attorno alle due più grandi città italiane (Roma e Milano). Ecco allora la spinta al rinnovamento o la diversa funzione che la periferia viene a svolgere nel rinnovamento di un genere. Questa campionatura di autori del Sud viene incontro alla esigenza di indagare per quali vie sotterranee la poesia del Sud possa contribuire al rinnovamento del genere poesia ma non tanto per la forza specifica delle singole realtà regionali quanto per la capacità di fare, tutte insieme, massa e peso specifico.
Il Sud non è indagato solo come contenitore di diverse sensibilità linguistiche ma come momento propulsivo della ricerca di nuove vie di sviluppo della poesia italiana contemporanea. È un fatto che il Sud, dall’unità d’Italia in poi, se si fa eccezione per l’ermetismo di matrice quasimodiana, non è mai stato capace di produrre una letteratura egemone, grandi personalità sì, ma isolate, e questo vale anche per il genere poetico.

Eidetica

Eidetica

Altra importante problematica è la divaricazione che si è aperta tra Patrimonio e Modernità. Che rapporto c’è fra questi due poli? Patrimonio è ciò che appartiene al padre, Modernità è ciò che appartiene ai figli, ma la Modernità è stata caratterizzata dalla insubordinazione dei figli ai padri, che non vogliono più ereditare alcunché dai padri e abitare la casa paterna, per essi la Tradizione deve essere abbandonata e demolita. La Modernità nasce come critica della Tradizione, rifiuto e disobbedienza verso tutto ciò che il passato invece invita ad essere custodi. La Modernità viene ad essere recepita anche da questi autori antologizzati come la casa che deve essere disabitata, abbandonata, rigettata per poter costruire una casa propria, una casa comune in cui l’eredità dei padri sia stata rimossa. Con l’atto della rimozione, della abitudine all’uso e al riuso degli stilemi della Modernità e all’impossessamento del patrimonio ereditato, esso diventa trafugamento, appropriazione indebita. Con quest’atto la Modernità diventa Postmodernità. È questo, credo, il racconto che tra le righe ci fa l’Antologia Poeti del Sud.
Il nichilismo antitradizionale e anti patrimoniale delle avanguardie storiche è stato progressivo e unilineare, i surrealisti volevano abolire il passato per poter instaurare il regno del Futuro, dell’uomo nuovo della rivoluzione incombente; gli autori di questa Antologia aboliscono contemporaneamente Passato e Futuro, sono nichilisti loro malgrado, adottano il nichilismo come il loro usuale vestito dello Spirito, si muovono nel Presente, il patrimonio poetico europeo viene percepito come inabitabile e inarrivabile, vivono nell’età dell’incertezza e dell’ansia.

carlo cipparrone copertina

Carlo Cipparrone

Nei labirinti del sangue

Spesso mi prende un’ansia
segreta, una libidine.
Sorge dalle mie viscere
domina la mia mente
circola nei labirinti del sangue.

Tutto m’emoziona, tutto mi turba.
Non riesco a trattenere
la mano che masturba le parole
e scrivendo provo insieme piacere
e angoscia, estasi e sofferenza
fino al parossismo dell’orgasmo.

Vivo da sempre in questo
mio paradiso e inferno
di cielo e fango, di fiori e spine,
di verità e menzogne.
Ubriaco di nettare e veleno,
approvo e rifiuto
amo e odio ciò che scrivo.

*

Con povere parole
(ostinata passione
che in me sempre risorge)
do segni d’esistenza.

Vengo da un altro gelo,
dal mistero dell’indifferenza
che ogni tanto si scioglie
e cerca vie d’uscita,
lascia segni di tentati percorsi
orme incerte sulla neve.

.
Linee di fumo

All’incrocio d’umani destini
lungo i margini della via
labili tracce d’un bivacco
segnalano il mio passaggio:
resti d’una segreta fiamma
arsa in petto, d’un fuoco
che non crepita più ma tace,
esile linea di fumo,
sparsa nebbia, residuo calore
di spenta brace sotto la cenere.

*

Ciò che ora dico
serve e non serve, conta poco;
ma si deve parlare,
correre il rischio.
Perché so tutto e niente
imprecise notizie
di cui chiedo conferma.

fabio dainotti 120x120

 

 

 

 

 

 

 

Fabio Dainotti

Otto poesie per Gina
Quando nacqui mia madre ne piangeva
(Umberto Saba)

*

Quando nacqui i parentes
mi affidarono a te, studentes-
sa a Pavia.
(nell’università che poi fu mia).
Così quando gli amici ti chiamavano:
“Usciamo, andiamo al cinema, a ballare”,
mi esibivi trionfante alla finestra:
“Ho il bambino. Non posso
Gli devo dare il latte”.

*

Poi alle elementari, a Frascarolo:
c’erano i pensierini sulla rosa
da fare, che tormento
invece di giocare!
“La rosa è…” dicevi, suggerivi.
Ma a me non veniva mai niente
in mente;
non riuscivo a integrare, completare.
“La rosa è la rosa, scusate”, pensavo.
Queste cose ho saputo da voi dopo.

*

Di quel giardino ricordo le ortensie
blu come il millecento che comprò
lo zio e ci portò tutti ad ammirarlo
nella rimessa di lamiera
dopo cena, una sera.
E tu eri contenta, ma non troppo,
della sorpresa.
– Ah, gli uomini!, pensavi
all’imprevista spesa.

*

Le gite, la domenica mattina:
aspettando che il pranzo fosse pronto,
mio zio mi portava in giro un po’,
nella sua auto nuova; sullo stradone grigio,
poi a un tratto sbucava in un sentiero
e si fermava, per stupirmi; c’era, che scorreva,
un fiume, il Po.

*

Compravo il latte, ero un bravo bambino,
mi dicevo. Guardavo in alto, in cielo:
mi apparivano i volti
dei genitori, lieti,
grandi come gli dei che distruggevano
con una mano le mura di Troia.
Era quella la loro approvazione.
Il premio: la televisione.

marco de gemmis

marco de gemmis

 

 

 

 

 

 

 

Marco De Gemmis

«Dove sia»

.
«Dove sia» inizia Porta la poesia
che ti lascio sul tavolo in cucina
e «Tu che fai stasera?» da un biglietto
ti chiedo, ma se sfogli il libro indietro
a pagina ventisei il poeta dice
«per essere felici bisogna andare lontano»

e spero questa pagina ti sfugga, esco
ma prima monto le chiare a neve,
due, aggiungo crema, mescolo
– ti faccio una cosa dolce –,
mescolo senza sbattere troppo
la testa contro il muro

 

I documenti della nostra vita

i documenti della nostra vita
stanno in briciole sul tavolo in cucina
come nel dopopranzo, quando
in mostra si sono messi i piatti
vuoti, dove le cose sono ridotte
all’osso: noi siamo intanto stesi
saturi in altre stanze e sui divani
ci sta dentro dalla testa ai piedi
un’auto spenta, senza un conduttore
che la possa riavviare e spostare
Leggendo Zanzotto
nell’auto che va
mentre parlate di cibo…

.
[“… le crode del Pedrè. Ebbene, se sono tornato a parlare di questo posto, dove si andava in gita scolastica quando ero bambino, è perché in quel luogo fisico c´è una volontà di resistere, anche se contraddetta da pulsazioni opposte e oscure, che è omologa alla terra e all´uomo…”]

.
voglio dirvi una cosa
ma non c’entra:
le crode del Pedrè
esplorate a ottobre
per capire lui
dove passeggia
e dove prende la poesia:
devo dirvi una cosa
che mi apparve:

acquattata pure lì
c’era la peste:
dentro le colline
stillava gocce
che salivano spedite
quasi si fosse invertito
il senso delle cose
che non c’è alcun perché
per come stanno andando

come anche lui saprà
non conviene più fermarsi
in nessun luogo

 

Libere poesiole

l’inverno che invochi
e giochi a far la pioggia
con la bocca, il ticchìo
sullo zinco al ritmo
delle gocce; o l’estate
che pensi in cagnesco
e giochi sbuffando
a sventagliarti preziosa
bestiola da salotto;
o senza stagione alcuna
(ché il tempo ormai
è cessato) come ora
che stai dormentata
e giochi la giornata
così: posso lasciarti
sola, posso lasciarmi
da solo scrivere
libere poesiole?

Fortuna Della Porta

Fortuna Della Porta

Fortuna Della Porta

Non ho incontrato la rivelazione

da: Inferno

L’orgia della notte rivela ossessione di morte.
Lacci e tridenti artigliano caviglie convulse.
L’inferno ha chiamato avvelenando i pozzi
il respiro accoglie arsenico tra i denti gialli.
Le gomene si sono tarlate.
Fino alla soglia del cielo
schioccano fiamme sulfuree:
l’ubriaco che sciacqua il vomito
al mascherone di pietra
la puttana che appiglia il reggiseno
alla catena di piombo…
Le creature delle tenebre fragili e oscene
col ventre che espelle la vita goccia a goccia
le cosce che spasimano un amante qualsiasi
l’innocenza fulminata per caso ai margini della ragione
per caso ogni miseria sembra uno sparo.

*

Se tu venissi temerario per selve forestiche
per sentieri spinosi, per zanne affilate di lonze lupi e leoni
ti accorgeresti che le strade di oggi
non portano eroi.
Mutile statue, Virgilio agonizza sul colle
braccia spolpate e nudità.
L’erba è marcia per gli amplessi rubati o saldati
per il sangue dei deportati
dalle cornee fosforescenti e i palmi di latte.
Nello Stige melmoso l’anima di pietra si torce
la città dannata rinuncia.
Marmoreo, solo il re che bara la sorte
«Scacco matto!», tripudia.
Tutt’intorno la zizzania avvilisce le onde
gli strazi delle periferie palpitano.
Non mi riconosceresti.

*

I miei genitori vissero da muratori.
Con piglio gentile costruirono scale
saggezza di ponti e scuole verdeggianti
perché all’impazienza delle idee
fosse destinato un sentiero.
Così nel mio tenerissimo tempo
a braccia spalancate e fuoco di profezia
gazzelle di chimere a testimonio
«posso», dissi fiera, ma quando il Muro crollò
prosperarono altri divisori.
Ci siamo persi. Abbiamo consentito.
La nostra saliva ha cristallizzato sale
e oggi la luna galleggia.
Così, mentre il chiarore abbandona la riva
a ridosso di rupi e preda di lupi
la lealtà dell’acqua è macchiata da rigurgiti
che infestano l’Arcadia perduta.
Nel buio le finestre pudiche vorrebbero tacitare la tv.
Nemmeno i colori abbiamo scampato
per lasciarli al futuro
e non si sa come pentirsi o rimediare.

francesca diano

francesca diano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Francesca Diano

Congedi. Viatico in undici stazioni

I

L’esclusa

Andavo per strade coperte di polvere
L’orlo della mia gonna sfilacciato
Non si curava di fango o sterco
I piedi scalzi – segnati dal rifiuto persino della terra.
Signori o plebei – non facevo alcuna differenza
Nessuna presenza era presenza
Ed ogni assenza – assenza.
Mi dolevano le ossa – ero una casa diroccata
Disabitata persino da me stessa
Preda di predatori e depredata di me.
Ero povera – di quella povertà che non conosce
Nemmeno il nome di miseria
Perché al mondo non c’era creatura
Che mi guardasse se non come sgualdrina.

Sospesa in una terra di nessuno
Dove il giorno non vira nella luce e le notti
Sono il delirio di un lebbroso.
Il loro sguardo mi sfiorava col disgusto
Di chi è avvezzo soltanto alla bellezza
Delicata che si rispetta perché consacrata
Dalla legge di Dio e degli uomini.
Io ero buona solo per sfogare la rabbia
L’istinto che si tace nel letto coniugale.
Con la rabbia impotente di uomini malati
D’onnipotenza – sapienti o rozzi contadini
Signori o poveracci – io ero buona per voi
Ma non per me. Non abbastanza
Da avere casa nel vostro cuore.
Avevate forse cuore per me?
Cagna reietta nell’istante stesso
In cui mi possedeva la vostra carne.
Ogni volta eravate assassini
Ogni volta morivo un po’ di più
Finché il mio corpo si disfece
– me viva ancora –
Non vi perdono la disperazione
Vostra sola elemosina per me
Il solo soldo con cui mi pagavate.
Poi venne lui. Mentre stavo morendo.
Lo sguardo dei suoi occhi
non lo dimentico nemmeno ora.
Quel corpo martoriato dalla vita
Lui me lo fece amare
Donandomi il perdono per me stessa.
Sul pagliericcio fetido – che accoglieva la morte
Scintillò la bellezza luminosa
Che lessi nei suoi occhi
Capaci di vedere oltre le piaghe.
E mi diede la pace.

II

Steppa

Non ero che un bambino e tu un adulto.
Ti temevo. Temevo il tuo sorriso
Come una lama sfoderata a colpire
Senza guardarti in faccia.
La tua jurta era grande e molto solida
Però a te non bastava. Eri feroce
Nella tua sete di potere.
Quell’anno fu gelido l’inverno
Più dei passati e il fuoco non bastava.
La nostra gente – gente guerriera
Soffriva il freddo.
Predatori eravamo e predavamo.
Tu più di tutti.
Io non potei evitare che mio padre
Mi abbandonasse nella steppa
Lasciandomi bambino a sostenere
Il peso di un potere non voluto.
Mi piegava le spalle e mi schiantava.
Lo subivo il potere e con che gioia
A te lo avrei ceduto.
Dunque – quando quel giorno con un’ascia
Mi aggredisti alle spalle e mi spezzasti
Le vertebre e la vita – senza guardarmi in faccia
– non eri coraggioso – io non potei capire.
Ma avresti visto – per sempre congelata
Nei miei occhi la sorpresa e l’orrore.
Cadendo altro non vidi che terra congelata
E i licheni – come ricami di trine verdegrigie
A riempire lo spazio breve del mio viso.
I tuoi occhi una steppa – morta – immota.
Non ero che un bambino e tu un adulto.

 

giuseppina di leo

giuseppina di leo

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppina Di Leo

A nonno Leonardo

Su materassi di paglia dormivo da bambina
accanto la voce amata. Su due piedi possibili
il tempo sosta in attesa fino all’ultimo,
un piolo per volta, fino alla lunga stanza;
il pavimento in cemento lo scorgevi infine,
proscenio della camera dalle due finestre.
E sulla scena, l’odore delle pesche sotto il letto.

*

[Le quattro pietre]

Le quattro pietre ancorate al mare sembrano sorelle,
quattro dita in tutto afferrano il mare. Così, se tu temi
la luce vorrebbe dire dover lasciare l’uscio chiuso per
troppo ancora. Rimanda la paura. A dopo. E intanto
siediti. Resta. Con un gesto del piede allontana dunque
il pensiero dalla fronte, troppi angoli mostra il prisma,
troppi colori conta l’arcobaleno, nel sole i raggi,
tanti quanti i visi. Lontano dagli sguardi serba il seme
per piantarlo all’uso del lunario, e di quel che resta
a me basterà l’odore delle cotogne e della paglia.

*

L’uomo onda

All’inizio fu il silenzio e la terra era feconda
foreste lussureggianti racchiudevano suoni di vento
e nel mare era nascosta la voce profonda di un amore
sarebbe arrivato sulla riva nelle vesti di uomo scolpito
dal flusso delle onde, sarebbe salito sulla parte alta
e avrebbe poi urlato al silenzio il suo segreto.

«Dalle tasche del mare altri suoni arriveranno», disse al giovane fiore
e così parlando pensò lo avrebbe colto nel sonno di un’estasi.
«Si giunge lontano stando fermi», gli rispose allora il fiore
«nessuno tra noi due sa chi per primo cederà il suo stelo
al vento». Non si sa se fu lo stato di paura, irrazionale quanto basta
foriero e preannuncio di ogni altro eco terrifico a portarlo via
ma a quel dire colpì dapprima la terra sollevandola
con le mani aperte rivoltò più volte la zolla, afferrò poi
il bastone potente del comando e percosse con quello
stelo a stelo ogni singolo filo d’erba; ogni singolo gambo
si abbassò diventando tutt’uno con la terra
afferrò nuovamente con due mani la spada
l’elsa della forza lo istigò a tracciare scavi profondi nelle viscere
la terra rimasticava le sue radici d’oro e la farfalla si tramontò
in bruco e il bruco in terra, mentre l’uomo continuava a far
marcire nel sonno il silenzio prezioso di un tempo. La parola attesa
si trasformò in bestemmia, la bestemmia in rancore
fino a quando il fiore del silenzio si aperse in rosa di sangue
con due ali sui fianchi scese nell’imbuto del tempo
fino a che insieme al tempo non si squarciò il dolore.

35 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, recensione libri di poesia, Senza categoria

 UNDICI POESIE SCELTE di Angela Passarello da Piano Argento (2014) con un Commento di Giulia Niccolai

gli sposi a Catania

gli sposi a Catania

 Angela Passarello, nata ad Agrigento, vive e lavora a Milano. Ha insegnato nelle scuole elementari lingua francese e la lingua italiana agli alunni stranieri, nelle scuole medie. Crea forme con l’arte ceramica e narrazioni pittoriche. Ha pubblicato le raccolte di racconti Asina Pazza  (ed. Greco @ Greco1997), di poesie La Carne dell’Angelo (ed.  Joker, Novi Ligure 2002), le prose poetiche Ananta delle Voci Bianche ( I Quaderni di Correnti,Crema2008). È presente nelle antologie: Versi Diversi (edizioni Melusine, Milano 1998), Poeti per Milano (Viennepierre, Milano1998), Rane e L’Uomo, Il Pesce e L’Elefante per I Quaderni di Correnti. Ha collaborato con La Mosca di Milano. Ha fatto parte del gruppo  delle Melusine. E’ stata cofondatrice e redattrice della rivista Il Monte Analogo.

città giardino dipalazzo-manganelli-catania

città giardino dipalazzo-manganelli-catania

Abbiamo già detto che Rupe Atenea è una collina che guarda i templi che digradano dall’altra collina di Agrigento. Due colline dunque, quella artigiana della nonna e della mamma infermiera, insomma, quella della città,  che non può che pensarla  diversamente  da quella contadina.

E lo si capisce da Lia (il nome di una bella ragazza) che abita a Landaru, una frazione della Valle dei Templi :

 Un nastrino ocra lega la tua treccia
neri lisci sembrano fili di seta i tuoi capelli
cosa rara in quest’epoca di lacche di tinture
con la messa in piega somigliavi a una signorina di città
La sera con le redini della mula il padre
veni ccà, chi facisti, i capiddi ti tagliasti? Dibbusciata
fammi a vidiri, levatillu da testa u’ fazzulettu, livatillu
gridava alle ombre nel buio du Laerdaru.
 

Dato che in ambiente contadino era proibito tagliarsi i capelli – era sintomo di indocilità, ribellione, trasgressione –  il padre così l’apostrofò, tentando anche di frustarla con le redini.

Abbiamo poi tue testi inevitabili, onesti, perché rivelano un’ assoluta indifferenza alla morte animale che ora non c’è più, ma che c’era, altroché se c’era, quando anche la vita dell’uomo (per fame o per guerra), era in costante pericolo.

E lo conferma la poesia che segue e ha per titolo la chiesetta delle Forche, sconsacrata, con un suo campetto ripulito e due reti metalliche che “indicano ai giocatori la mira”, sopra ciò che ormai pochi sanno, ma che un tempo era la fossa comune.

Dunque una Morte, come quella spagnola o messicana , che è sempre presente, a due passi da noi tutti.

angela passarelloCon la roccia ippogrifo, abbiamo di nuovo la presenta del mito, del trascendente, “li aspettava sul suo dorso/ stretti l’un l’altro i bambini/ […] “sembrava guardarli con la sua forma animale/ di sera poggiata sul prato”.

 L’ultimo poemetto del volume è: a mia madre, e ha titolo flashback:

 davanti al Duomo con il piccione
che becca il granoturco dalle nostre mani
messe in posa dal fotografo d’occasione
la prima volta che siamo arrivate a Milano
[…]

 non ho potuto fare a meno di citare questa prima strofa, perché essendo una foto ricordo di Milano, non si può fare a meno di pensarla ad Agrigento, e così diviene simbolica  anche del fatto che la mente della poesia, la mente che fa poesia di Angela Passarello sia sempre là. Non qua.

(Giulia Niccolai)

Angela Passarello da Piano Argento edizioni del verri 2014 pp. 90 € 12

angela passarello cop

 

il gelataio

di gelataio ce n’era uno solo
dentro una casetta arrangiata
solo le tegole del tetto erano vere
di terracotta coperte di muschio
il gelato si comprava per le feste
alla mandorla aveva scaglie
simili alle foglie dell’albero in fiore

.

.
il lattaio

in una mano stringeva il bidone di latta
nell’altra il misurino forgiato con lo stagno
la sera al ritorno dal giro dei clienti
il lattaio si fermava sulla piazza a recitare
i versi di Cielo d’Alcamo ai pochi rimasti
nessun libro o scrittura solo voce e poesia
nel discendere per la via la sua ombra
si allungava sulle pareti delle case

.
la gobba

le sere di Natale giocavano d’azzardo
al primo piano nella casa della gobba
a zecchinetta a sette e mezzo a teresina
il banco non perdeva mai
le eleganti figure disegnate sulle carte
sembravano proteggerlo
Dono dei vicerè
diceva con voce stridula la gobba
indicando alle perdenti il mazzo sul tavolo

.
il cantastorie

accompagnava con il corpo la voce
mentre cantilenava miserie delitti
il sorriso segnava di amaro il suo volto
certe volte tra le parole recise si coglieva
un episodio di fuga della Chanson de geste

.
signorina Gallo

la sua voce rauca nel buio della sera
attraversa la persiana chiusa
chiede dei morti dei sopravvissuti
nel fitto buio mi raggiunge
centenaria dagli artigli aperti
farfuglia date nomi di vecchi abitanti
dal vicolo degli Ospitalieri di Malta
echi voci arrivano
salaam aleikum salaam aleikum

Catania sposi al mercato del pesce

Catania sposi al mercato del pesce

 

 

 

 

 

 

 

 

Lia

Un nastrino ocra lega la tua treccia
neri lisci sembrano fili di seta i tuoi capelli
cosa rara in quest’epoca di lacche di tinture
con la messampiega somigliavi a una signorina di città
La sera con le redini della mula parlante
veni ccà, chi facisti, i capiddi ti tagliasti? Dibbusciata
fammi a vidiri, levatillu da testa u’ fazzulettu, levatillu
gridava alle ombre nel buio du Lardaru*

*Lardaru è una contrada di campagna nelle vicinanze della Valle dei Templi

.
garofani

i garofani rossi nei vasi sul balcone
li annaffiava con orgoglio ogni mattina
diceva che la natura dei petali aiutava
l’ anima dei defunti al cimitero
i primi giorni del trapasso
inondavano Piano Argento di profumo

.
telefunken

arrivavano la sera con la sedia di saggina
i vicini per vedere le puntate di Canne al Vento
sullo schermo della ventunpollici appena installata
con il sonoro la luce i personaggi
nel chiaroscuro della stanza i commenti
si facevano portatori di nuovi rinascimenti

 

il ferro da stiro

lo muoveva nero nero
sulla superficie di lenzuola di camicie
dai fori il chiarore dei carboni
percorreva valichi piste fra le pieghe
impugnava con forza il manico antico
girava la punta solcava angoli lati
diceva dal piego dipende la forma
gli indumenti lisi li ricomponeva
nell’ordine da lei stabilito

Agrigento Valle dei templi

flashback

davanti al Duomo con il piccione
che becca il granturco sulle nostre mani
messe in posa dal fotografo d’occasione
la prima volta che siamo arrivate a Milano

ti rivedo sicura attraversare la Piazza
lanci con un soffio sulla mano un bacio
alle guglie verso la bela Madunina
Quando sei partita nella tua lettera settimanale
scrivevi
mia cara figlia noi stiamo tutti bene così spero di te
Nella mia non ti dicevo dei miei smarrimenti
né di rivoluzioni in corso nella città

.
La pazza del tirassegno

la vecchia con la schiena curva e il cane
uscivano di rado
apparivano sul sentiero della rupe
il cane la precedeva marcando il territorio
la vecchia sovrastata da un fagotto di stoffa sbiadita
entrambi ritornavano poi verso la casa diroccata
al confine con il tempio di Demetra

6 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, recensione libri di poesia

DIECI POESIE di Mario Santagostini da “Felicità senza soggetto”(2014) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Mario Sironi periferie

Mario Sironi periferie

Mario Santagostini è nato a Milano, dove ha sempre vissuto, nel 1951. Fra le sue raccolte di poesie ricordiamo: Uscire di Città (1972, 2012) Come rosata linea (1981), L’Olimpiade del ’40 (1994), L’idea del bene (2001), Versi del malanimo (2007). Ha inoltre scritto il saggio Manuale del poeta (1988).

Milano Mario Sironi paesagio urbano

Milano Mario Sironi paesagio urbano

Commento di Giorgio Linguaglossa

Ut «pictura poesis», dicevano gli antichi pagani. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Questo semplice assunto ci porta dentro la problematica di che cosa debba raffigurare una poesia. Ecco il punto. Ed è molto semplice la risposta. La poesia deve adottare il punto di vista della pittura, deve raffigurare l’oggetto come se esso fosse un oggetto da dipingere linguisticamente, con le risorse della Lingua. Per alcune ragioni storiche che non sto qui a sintetizzare, la poesia italiana del secondo Novecento ha perduto questo concetto rimanendo impaniata nello pseudo concetto di “meta-poesia”, cioè di un discorso fatto su un altro discorso…(il che sarebbe un bene a patto che ci sia un discorso che precede o a latere). E così via all’infinito la poesia si è amputata le proprie possibilità espressive riducendosi ad un discorso di secondo grado, e poi di terzo grado e così via… ma era (ed è) una falsa strada che non conduce in alcun luogo e che perde di vista l’orizzonte di senso e l’obiettivo dell’oggetto del «che cosa dire in poesia», che è necessariamente diverso dal «che cosa dire in prosa».

Czeslaw Milosz ha scritto: «Certe scene dei film di Fellini e di Antonioni sembrano la traduzione di una poesia, spesso di una poesia di Eliot: basti citare la stanza dell’intellettuale ne “la Dolce Vita” di Fellini, che sembra tratta dal “Canto d’amore di J. Alfred Prufrock” (In the room the women come and go / Talking of Michelangelo); e poco importa che autore o regista abbiano preso in prestito il tema direttamente o indirettamente. In tal modo anche le persone più digiune di poesia finiscono per riceverla, in forma facilitata, dal teatro o dal cinema…».

domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Ho visto di recente il film di Martone sul “Giovane favoloso” Giacomo Leopardi. Bene ha fatto il regista a tradurre la poesia di Leopardi in immagini filmiche. Non poteva fare diversamente. Ma è vero anche il contrario, si può tradurre una immagine flimica o fotografica in poesia, basta essere consapevoli dell’operazione che si sta facendo.

Ecco, io ritengo che la poesia di oggi possa ricominciare appunto dalle immagini dei film, della fotografia, delle immagini mentali, della pittura etc. Perché ha perso il bandolo del senso, il «che cosa fare e dire» in poesia e mediante la poesia, che è cosa diversa dal «che cosa fare e dire» in prosa.

E questo è probabilmente il modo migliore per riallacciarci alla più alta tradizione della poesia europea degli anni Venti e a quella del tardo Novecento Europeo. Oggi che il Modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di Esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico e ideologico che aveva costituito le basi del Modernismo. Il Modernismo, era il prodotto di un mondo (occidentale) di stati nazionali in competizione e in disfacimento e aveva accompagnato quel mondo alle tre guerre mondiali. Quel Modernismo oggi non ha più alcuna validità dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale tra continenti con economie interdipendenti in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle metropoli dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma la minaccia è ovunque, diffusa, invisibile. Ben venga dunque anche una poesia della normalità (apparente), purché si abbia consapevolezza che quella normalità è finta, fittizia, ideologicamente locataria della ideologia totalitaria dell’omologismo.

mario sironi paesaggio urbano 1921

mario sironi paesaggio urbano 1921

Poiché avevo un dubbio, ho trascritto in prosa, per i lettori, (cioè senza l’a-capo), le prime sei composizioni di Santagostini, e mi sono accorto che funzionano meglio in prosa che in forma-poesia. Il che, in sé, non vuole essere una osservazione limitativa. La resa in prosa forse aggiunge e non toglie nulla alla resa in forma-poesia.

da Mario Santagostini Felicità senza soggetto Specchio Mondadori, 2014

L’ex comunista

Sono tornato a Cinisiello,
una domenica afosa.
Un motocarro scoperto portava via un cane.
Questa è stata zona operaia.
E io ero, come tanti, comunista.
E pensavo a un avvenire
senza il lavoro, a quando i corpi
ci sarebbero serviti a poco,
quasi a niente. Sono
arrivato a chiedermi di cosa è fatto
un corpo, se merita
soltanto la vita, o già altro.

[Sono tornato a Cinisiello, una domenica afosa. Un motocarro scoperto portava via un cane. Questa è stata zona operaia. E io ero, come tanti, comunista. E pensavo a un avvenire senza il lavoro, a quando i corpi ci sarebbero serviti a poco, quasi a niente. Sono arrivato a chiedermi di cosa è fatto un corpo, se merita soltanto la vita, o già altro].

.
Arietta

Ci si ritrovava al bar
all’aperto tra la Breda e via Metauro.
Chi giocava al pallone
contro il muro, o stanava serpi,
o andava per cicute
tra le rotaie dismesse e senza traversine.
Provato come tutti dalla noia
una specie di reduce
esibiva il suo mancinismo
smodato, mi diceva – Tu,
che farai almeno
un miracolo, prima di morire.

[Ci si ritrovava al bar all’aperto tra la Breda e via Metauro. Chi giocava al pallone contro il muro, o stanava serpi, o andava per cicute tra le rotaie dismesse e senza traversine. Provato come tutti dalla noia una specie di reduce esibiva il suo mancinismo smodato, mi diceva – Tu, che farai almeno un miracolo, prima di morire].

.
(Pascoli, in prima persona)

E c’erano i colloqui
uomo-rondine,
uomo e rondine e anche te, tuono.
Quando ci racconti
che la scala di Giacobbe
non portava alla lotta con l’Angelo,
ma con le tempeste.
O fai che il volo di due tortore
sia basso, da insetti.

[E c’erano i colloqui uomo-rondine, uomo e rondine e anche te, tuono. Quando ci racconti che la scala di Giacobbe non portava alla lotta con ’Angelo, ma con le tempeste. O fai che il volo di due tortore sia basso, da insetti].

mario santagostini copertina

 

Coda

E come sarà il primo gabbiano
in volo sulle discariche?
Forse, una creatura
ignobile, e attratta dal pattume.
Ma disposta a tutto,
pur di raspare qualcosa.
L’amatissimo Ovidio vedeva gabbiani
dai becchi ferrati.
Eppure, rimanevano in aria.

[E come sarà il primo gabbiano in volo sulle discariche? Forse, una creatura ignobile, e attratta dal pattume. Ma disposta a tutto, pur di raspare qualcosa. L’amatissimo Ovidio vedeva gabbiani dai becchi ferrati. Eppure, rimanevano in aria].

.
Arietta delle vespe

Era già luglio, ma qualcuno
riusciva ancora
a sentire gli ultimi temporali di aprile, come
solo le vespe sanno fare
(specie quando si riposava nel pergolato,
ci sentivamo vespe).
Quel qualcuno era Pascoli.
Però che errore, il suo,
il continuare credere ai morti.
Io ho smesso da anni.
Ma quell’uomo beveva.

[Era già luglio, ma qualcuno riusciva ancora a sentire gli ultimi temporali di aprile, come solo le vespe sanno fare (specie quando si riposava nel pergolato, ci sentivamo vespe). Quel qualcuno era Pascoli. Però che errore, il suo, il continuare credere ai morti. Io ho smesso da anni. Ma quell’uomo beveva].

mario santagostini

mario santagostini

Io

Seduto al bar di viale Sarca,
guardavo il giovane cercare un passaggio
verso la camionabile,
dei muti al tavolino quando
si scambiavano segni, e uno diceva
– tra non molto, anche qui.
Gli altri assentivano.
E intorno, solo delle mosche.
Mi sono chiesto se c’è qualcosa
di meglio che essere vivo.

[ Seduto al bar di viale Sarca, guardavo il giovane cercare un passaggio verso la camionabile, dei muti al tavolino quando si scambiavano segni, e uno diceva
– tra non molto, anche qui. Gli altri assentivano. E intorno, solo delle mosche. Mi sono chiesto se c’è qualcosa di meglio che essere vivo].

.
Io, appendice. In piazza Tirana, forse nel ’63

C’è chi ha già rubato
tutto il rame del tram ridotto
a carcassa smetallizzata.
Certo, non dovrebbe mai succedere,
però è così. Amen.
Intorno, la passione per quanto
è dismesso ha toccato
l’apice. Si sente che nemmeno
la materia ama finire.
E delegherebbe me a farlo, se potesse.
O l’intera massa umana.

Mario Sironi paesaggio urbano

Mario Sironi paesaggio urbano

Io, nel 1970. Premessa

Era il ’60, qualcuno
parlava di sterminate domeniche.
L’Olona non era stata
ricoperta. Si sentivano le radio
da argine a argine.
L’odore dell’acqua oleosa di benzina
arrivava fino ad uno, due isolati
più lontano. Anche allora, vapori d’agosto nei cortili.
Pensavo: non amo me stesso,
amo questi anni,
la loro felicità senza soggetto.

.

.

(Io, nel 1970)

Ieri, lunedì, sono arrivato
a piedi oltre il dazio,
e ho camminato lungo il Seveso.
C’erano delle vanesse
dal volo sghembo e raso dopo due tuoni in fila.
Ho pensato che le pietre
sanno fare a meno della vita.
Mi chiedo fino a quando.
Forse, il mondo esiste solo
per dare loro la parola, un giorno.

.

(Nuovi versi del malanimo)

L’aria è povera d’ozono,
buona solo per i grilli.
Animali sciatti, e in fuga da tutto.
Hanno il loro mondo:
che se lo tengono stretto.
Certo, qui una volta si creava,
poi si è passati al vivere.
Adesso, aspettiamo.

26 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, recensione libri di poesia

TRE POEMETTI di Milan Nápravník da “Il nido del buio” “Ruggine di sangue”, “Samovar siamese”, “All’imbrunire”, traduzione dal ceco di Antonio Parente

Foto Bronislava Nijinska by Man Ray, 1922; November 1922Milan Nápravník Il nido del buio traduzione dal ceco di Antonio Parente Mimesis Hebenon, 2009 pp. 124 € 13

   MILAN NÁPRAVNÍK nasce in Cecoslovacchia nel 1931 e da circa quarant’anni vive in Germania. Conseguita a Praga la maturità scientifica, lavorò per un anno nelle miniere d’oro di Jílové, vicino Praga, dopo essere stato etichettato, essendo uno studente appassionato di jazz, come un “ammiratore dello stile di vita americano”. Dal 1952 al 1957 studiò drammaturgia alla Facoltà di Studi cinematografici dell’Accademia delle arti performative di Praga. Dopo tre anni di lavori provvisori, nel 1960 iniziò a lavorare alla Televisione cecoslovacca come direttore artistico della redazione per le Trasmissioni per bambini e ragazzi. Dalla seconda metà degli anni 1950 collaborò con il Gruppo surrealista di Praga, la cui attività non fu immune da intrichi perpetrati dalla polizia segreta e i cui tentativi di  esporre o pubblicare le proprie opere furono ostacolati dai divieti delle Autorità. Fece il suo debutto letterario nel 1966 con la raccolta Básně, návěstí a pohyby (Poesie, avvisi e movenze), pubblicata privatamente e in numero limitato nell’edizione Speciálky dal pittore František Muzika.  Emigrò dopo l’occupazione sovietica del 1968, dapprima a Berlino occidentale per alcuni mesi e successivamente a Parigi. Dal 1970 si è stabilito definitivamente a Colonia. Duranti gli anni dell’esilio, lavorò prima come redattore radiofonico e successivamente, dalla metà degli anni 1980, come pittore, scultore e fotografo artistico freelance.

Praga

Praga

Nel 1977 ha scoperto l’originale metodo fotografico dell’inversaggio: “l’unione inversa di parti bilateralmente simmetriche” di una struttura naturale (cortecce, pietre, ecc.). Nel 1978 organizzò a Bochum, in Germania, un’ampia mostra internazionale dell’arte surrealista e immaginativa, Imaginace (Immaginazione). Ha soggiornato più volte per lunghi periodi in Indonesia, dove ha portato avanti studi etnografici sulle isole Borneo (Kalimantan), Giava, Sulawesi, Bali e Nuova Guinea (Irian Jaja). Ha scritto varie opere poetiche, dalle quali è possibile tracciare lo sviluppo della sua arte, a partire dagli esperimenti linguistici, che sottolineano il carattere emozionale dell’espressione e dell’attività poetiche, fino alla poetica plasmata dalla contemplazione, che registra il movimento della realtà interiore. Quello che al momento è possibile considerare  il culmine dell’opera di Nápravník, l’opus magnum Příznaky pouště (Deserte visioni, 2001), è una vasta parabola sul minaccioso stato della civiltà contemporanea; contro il nostro mondo inquinato e sovrappopolato, contro l’aggressività e le tendenze distruttive, si pone il flusso iettatorio di pensieri e immagini della vita interiore, – “l’assiduo tentativo del narratore di conservare desideri, speranze, amore e immaginazione,  ‘e di non lasciare che alle nostre spalle le vie dei nostri desideri si coprano d’erba’ (A. Breton) e ciò nonostante tutto il pessimismo di Nápravník.” (rivista Tvar, aprile 2002). È autore anche di vari studi e saggi teorici. Negli anni 1990, suscitarono grande interesse alcuni suoi saggi dove metteva a frutto lo studio sistematico pluriennale nel campo della storia delle religioni.

(Antonio Parente)

Praga Agosto 1968 i tank sovietici sono nelle strade di Praga una ragazza fischia gli invasori

Praga Agosto 1968 i tank sovietici sono nelle strade di Praga una ragazza fischia gli invasori

Milan Napravnik

Milan Napravnik

RUGGINE DI SANGUE

Nebbie autunnali sfumano nelle vallate di ogni supplica
Soffi di vento schivo si spargono in baratri d’erba
E solo le canne d’india si raddrizzano
Quando sentono la parola forse
Oppure la parola spero
La realtà però nel frattempo si è ammantata di brina
E una lontana risata che frana dai monti
Sul granito dei rupi rocciosi si frange in grida
Che si accrescono nel vento degli echi come cellule maligne
in metastasi d’impotenza

Persino la roccia clastica di errori e proprie limitazioni
È capace di sanguinare
Sospesa sul proprio essere su rugginosi ganci di dolore
Il suo capo stanco pieno di domande che sobbalzano confusamente
fa cenni indecisi su tutti i lati
Non è chiaro se si tratti di un’espressione di assenso o di disaccordo
Invano ricorda il posto al caldo nell’incrinatura del contesto
Dove una volta inalava l’odore dei cespi di spigo
E osservava le eleganti movenze della mantide religiosa
Che ricambiava il suo sguardo con ostentose simpatie
Come può dimostrare soltanto una serva sanitaria
alla lampante sfortuna
Del resto la sua ingordigia risanata sa bene
Ciò che si è indebolito e non può null’altro che ruggine
Chiunque fissi è condannato a morte

Il primo gelo porta il romantico bestiame dai monti
Verso la valle della realtà
Sfuggenti profezie che strisciano tra le rovine del convento
I cui abitanti sembra si fossero un tempo sterminati da soli
mordendosi a vicenda i peni
E questo dimenticato anfratto dei Pirenei
Dove fortunatamente non porta più nessun cammino
Percepisce il loro mormorio funesto
Come un magico ologramma per lo stoccaggio di quanti
di orrore contrattato

Mentre il vento autunnale lo barcolla di speranza in speranza
Mentre le arterie coronariche sono costrette dal gelo
Questo fantasma si aggira coi ganci tra le costole
Con le pietre delle illusioni nello stomaco
E con in pugno i cristalli di ghiaccio del proprio seme
Accecato dal dolore
E schiacciato dal peso di propositi derisi
Come incarnazione di uno stupido Minotauro
Nell’infinita spirale della poesia
Che ingorda continua a divorare i propri figli

Sì è un poeta
Lo certificano centinaia di pedate
Che ha incassato direttamente in faccia
Alcuni coltelli alle spalle
E le profonde ferite per le frustate di derisione
Poiché ha peccato contro il pio e sensato alternarsi
dei giorni e delle notti
Dei giorni zeppi di proficuo lavoro
Della lotta per il potere
E della costruzione di argini contro la paura archetipica
di un’esistenza senza ripe
Poiché cocciutamente sostiene che all’irrazionalità del desiderio
Di libertà e amore
Si deve in ogni circostanza sacrificare
qualsiasi razionalità di arricchimento

È una torbida mattina di un settembre macchiato
Una giornata di pallida lama
Dall’ancor caldo giaciglio si diffonde l’aroma della notte vegliata
Il lenzuolo è coperto di spine di rosa sanguinanti
Oltre la finestra imbrunisce
E la colonna della pallida cella
È coperta dall’edera immune dell’implacabile disprezzo

Milan Napravnik Il nido del buio
SAMOVAR SIAMESE

Mentre vagabonda per il mercato
Dalle tasche bucate gli scorrono zolle di silenzio
Scruta le crudeli palle d’oro
E le collane di diamanti di pretzel appesi al filo
della magia nera
La vecchietta in cappotto che vende mobili Luigi XIV
Frammenti di macchinette
Lunghi sipari di facezie
Curvi bilancieri iridescenti tubi degli obblighi e un coltello patrizio
Poi stringe la mano al venditore di baccani
E si ferma davanti alla mostra di specchi scannatori
Dall’amico Jean-Louis Bedouin uomo dal vino amaro
E dal carattere forte
Armadi di umorismo schietto e di rabbia creativa
Je n’écris rien au cours de douze ans! urla
con disperata alterigia
Je n’ai pas perdu l’usage de mom sens!

Mon sens
Si fa strada nel labirinto di cerchi veneziani
E dà una scorsa a libri di autori ignoti
che immolarono ai propri scritti tutto il loro sangue
S’incurva di cordoglio per l’eccedenza di chiavi
Per la brillantezza delle lucerne delle barche
Per le scatole di fotografie brunite di sconosciuti bruniti
Palpeggiate consunte e ingiallite
Per i documenti di bruniti destini e speranze
Che ancor oggi vanno a fargli visita in sogno
Qui si trovano anche schiere di cent’occhi di bottiglie più disparate
Mare di spezie
Lacrime di strumenti d’ottone per conciare i palmi
E casse e riviste opache che ricordano i tempi di una volta

Non ha ancora fame ma già lo stuzzicano con crauti e senape
Qui c’è anche una credenza stile impero del diciannovesimo secolo
E un antico cassettone su cui posò la mano Mirabeau
Alcuni abiti difettati
Un calamaio di stagno e un frac piomboso
Le grezzi reti di bimbi sgomenti accecati dalle curve
Che sottraggono la lesina
Scogli d’intralcio lame di morti muraglie agglomerate
E profezie
Che lo illudono che incontrerà una donna
Con la quale potrebbe fondersi per dar vita ad una creatura androgena
Senza dover per questo perderla
Soltanto astiose profezie che simulano grandine dorata
Astiosa sfera dell’impossibile

Certo
Tutto è solo ciarpame
Le grezze scodelle per il male hanno migliaia di anni
Così come i ciottoli di agata
Lo zolfo postumo dei sogni
Dune di morte e vento nel non lontano cimetière de Batignolles
dove riposa il siderale André Breton
La curva del girasole
Che segue la luce della Luna da sud a nord
Il cratere della solitudine nel bel mezzo di monti forestieri
Pietra-stella
L’oro del tempo
L’istinto sovversivo dei geni creativi
L’acciaio degli spari
L’infinita preghiera della poesia all’infinita indifferenza dell’essere

Che farne delle angosce che nessuno vuole?
Non si può pagare qualcosa in più affinché qualcuno le porti via da lui
Non le si possono regalare a meno che il regalo non debba somigliare ad un assassinio
Non ci si può far strada da vedenti attraverso i vicoli ciechi
Alla fine del cimitero compra la statua spezzata del figlio
Veritiera solo perché
È senza testa

milan napravnik cop

ALL’IMBRUNIRE

È l’ora dell’eterna notte
Alcuni sono morti altri sono usciti barcollando dal cinematografo
pallidi come lenzuoli
Una foglia d’acero ha traslocato lungo il marciapiede
Dal tavolato di un bar sbarrato al negozio di generi alimentari
Ha danzato tra piedi pazientemente in fila
per un pezzo di carne
È salita all’altezza del primo piano di un fatiscente casamento
Ha dato un’occhiata alla stantia camera da letto degli amanti
Ha volteggiato oltre i fili del tram fino al recinto-orinatoio
E da lì via verso la grande lavanderia esalante il tanfo di sapone
Finché non si attaccò alla cornice del negozio
dove si vendono teste di gesso

Croci ornamentali ad uncini e senza
Semplici convinzioni e istruzioni per strangolare i miscredenti
Al negozio
Dove ogni acquirente è accolto con un dirugginio di denti
in caso
Avesse intenzione di chiedere il prezzo reale
di questa merce vergognosa

Come un animale randagio
Un cane senza litorale
Scalciato da ogni tempo nell’inguine scheletrico
Che si nasconde in biblioteche e musei inariditi
Animale senza seta ma compagno perseverante degli incubi notturni
Striscia per le gallerie di quadri lungo ritratti di nuvole morte
Lungo nature morti olandesi con la frutta fresca e una mosca
Lungo paesaggi roccoco scintillanti di sole
e popolati di pastori di pecore
Lungo battaglie navali dove gli eroi assassinati
cadono pittoreschi dal ponte di navi da guerra
In onde marine dipinte con maestria
E lungo visioni incurvate dei santi dipinti
Dell’altare di pingui cardinali
e macilenti eremiti
Di fetide monache con le fiche ricucite
Tutto in un sol boccone di manipolazione estetica
Nulla solo l’Arte un’unica e sola stronzata una truffa
Tutto solo un unico e solo aborto della civiltà

Mi dispiace, signor Péret
I tuoi tentativi di riconciliare la poesia con la lotta sui monti catalani
non hanno avuto successo
Non ti sei mai tradito ma i tuoi occhi mi raccontavano la storia
Le gocce di sangue anarchico sulla foglia di fragola riverberavano di purezza
Come il sole nel calice di Rémy Martin
Che bevemmo in primavera in un bar
della rumorosa Place Blanche
Non potevi morire con un’espressione di soddisfazione
Solo scomparire con tristezza
Meraviglioso amico dell’inflessibile disperazione
Sei vissuto sul solatio di un intelletto come oggi
non ci tocca più
Del quale sappiamo solo grazie alle testimonianze dei nostri antenati
Testimoni aviti di una tradizione remota
Viviamo al gelo
Il cielo è eternamente coperto da un triplo strato di nubi
La città è soffocata da veli di grevi zeli
E dal timore del quotidiano stritolamento dell’inutile desiderio

Leggende dappertutto crude come la carne sui ganci delle sale
alle tre e mezzo di mattina
Non si può raccontare una storia che scaturisce dalla struttura
molecolare del vino
Le inesauribili sfere di piselli con un mormorio si mescolano
al vello stradale
Dove ci sono i caffè c’è anche il caffè da asporto e le cartine di catene
Punte di seni cresciuti sulle conchiglie del tempo
L’incantevole patina di rosa
Le graticce marine di svettati come un bicchiere di Bordeaux
Se dico graticce intendo graticce
Non la fine del mondo
E nemmeno memorie astanti di cerchi alla mano e cravatte orbe
Qualche cancello di interminabili campi di patate
Rime guaste di colla
Indescrivibili cortocircuiti di sterco
E le selvagge carceri della metro che sfumano nel buio dietro ciglia
aggettanti
I tunnel affondano nella terra

Pourquoi j’écris moi-même?
Dis-moi reflet de cobalt
Pourquoi le vol de corbeaux qui t’entoure
comme le charbon étreint le feu?
Non conosco la ragione del mio respiro
Né la mia passione per le fiamme che di solito spegne la birra della ragione
Tanto meno l’indirizzo dei miei destinatari
Ad ogni modo dicono che ce ne siano pochissimi
Sembra che alcuni siano irrintracciabili
Alcuni non ne hanno il coraggio
Altri hanno fretta
Altri forse non sanno leggere
Ma la maggior parte è in effetti defunta dalla nascita

9 commenti

Archiviato in poesia ceca, recensione libri di poesia

POESIE SCELTE di Nicola Bultrini da La specie dominante (2014) Con un commento di Andrea Monda

Paul Klee-Drawing-365x365

Paul Klee-Drawing

  Nicola Bultrini è nato nel 1965 a Civitanova Marche (MC), vive e lavora a Roma. Ha pubblicato le raccolte di versi La specie dominante (Aragno 2014) La coda dell’occhio (Marietti, 2011), I fatti salienti (Nordpress, 2007). La sua raccolta Occidente della sera è presente nell’VIII° Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos, 2004). Per la poesia ha vinto il Premio Montale, sezione “Inediti”, edizione 2002. Sue poesie e scritti vari sono stati pubblicati su riviste (tra cui “Poesia”, “Nuovi Argomenti”, “Galleria”). Alcune traduzioni di poeti iraniani contemporanei sono state da lui curate con Chiara Riccarand e pubblicate su “Poesia” e “Testo a fronte”. Alcuni racconti  sono stati pubblicati su “Il Racconto”.  Scrive per il quotidiano “Il Tempo”. Come studioso della Prima Guerra Mondiale, ha pubblicato per Nordpress Edizioni vari saggi, tra cui.: La grande guerra nel cinema (2008 – prefazione di Mario Monicelli); Pianto di pietra – la grande guerra di Giuseppe Ungaretti (2007 – prefazione di Andrea Zanzotto); Gli Ultimi – i sopravvissuti ancora in vita raccontano la Grande Guerra (2005); L’ultimo fante – la Grande Guerra sul Carso nelle memorie di Carlo Orelli (2004).

Paul Klee

Paul Klee

Commento

Il tempo è se le cose si consumano/ la poesia è un resistere audace” canta Nicola Bultrini a metà della sua ultima raccolta di poesie La specie dominante e audace è lui, l’autore, marchigiano trapiantato a Roma dove esercita la professione di avvocato tra una suonata con il suo sassofono jazz e il lavoro meticoloso di cantore-archeologo della Grande Guerra tema sul quale ha sfornato diversi saggi dove la ricostruzione storica si intreccia con la passione poetica (ovviamente nella figura emblematica di Ungaretti). E Ungaretti lo ritroviamo affiorante in modo implicito in diverse pagine di questa breve e intensa raccolta che da subito mette in luce un’idea che sta molto a cuore all’autore: la vita e la poesia, insieme, come resistenza, come tenacia, come forza di andare “controvento” (espressione significativamente ricorrente in più liriche).  Per Bultrini è molto importante la Storia, la sua “distanza” che permette alle parole di diventare “immense” e “tenaci”, realizzando come per Manzoni un’aspra lotta contro il tempo, questo Cronos della mitologia greca che divora i suoi figli; una lotta che trova nella poesia il suo campo e il suo eroe audace perché solo la poesia può resistere, custodire, salvare. L’idea che però emerge è che la vera poesia sia orale e feriale, nasca dalla vita quotidiana e ad essa riconduca, evitando il rischio della scrittura intesa come fissazione del flusso vitale in un’idea o, peggio in una ideologia perchè “la cosa peggiore è scrivere il dolore/ illude di poterlo decifrare”. Evitare il rischio della scrittura e, ancora di più, quello della letteratura: “E’ una fragilità che mi corrode./ Perciò tenete voi la grande letteratura/ e tutta l’arte/ A me lasciate solo la speranza”. Ancora una volta, Bultrini fa i conti con l’erosione che la vita comporta, erosione di senso, di significato, di memoria, di forza, e contro questa corruzione dichiara di voler resistere: “ma io voglio restare /immobile non visto/ un osservante”. L’osservazione conta più dello scrivere, è la natura più profonda del poeta, stare fermo e vedere, senza la premura di scrivere o l’illusione di sapere: “ma scrivere per oggi non mi salva/ le parole cui contavo/ di affidare tutto il male del mondo […] tu credimi, che a volte/ vorrei il coraggio di non sapere”.

Paul Klee

Paul Klee

Ci vuole coraggio, audacia, per andare e vivere di una “gioia controvento” che ci porta anche ad immergerci nelle ombre della vita, quotidianamente: “Suona la sveglia all’alba, la casa/ negli odori che riposa./ Anche noi obbediamo a una luce/ nella foschia che forza l’inverno”. Se la vita è oscura, questo permette alla luce di brillare più forte e allora non resta altro che obbedire, essere “osservante” dove la parola assume anche i colori religiosi, una sfumatura che traspare anche nei testi apparentemente più prosaici e cronachistici come quando l’autore si sofferma sulle vicende della propria storia famigliare, piccole saghe delle provincia italiana con la guerra sempre sullo sfondo: “Così Nicola prese moglie, le figlie/ e quattro biciclette/ Passò il ponte e tuonavano le bombe./ In uno stagno gettò quel che poteva/ pregando di fuggire la razzia”, un incipit che risuona fortemente dell’episodio della Genesi di Giacobbe al guado dello Yabbok, prima dell’incontro-scontro con il fratello Esaù e con l’angelo di Dio. E’ un corpo a corpo con la propria vita la poesia per Bultrini, uno scontro che non si consuma istantaneamente ma si dipana nello spazio e nel tempo, con una speranza forte che proprio nella trappola delle abitudini ci può essere gioia, riscatto, compimento, per cui bisogna affidarsi a quel tempo che “francescanamente” (nel senso di Bergoglio) è più importante dello spazio: “ci penserà il tempo/ a rendere il dolore un’abitudine […] sarà il tempo a darci spazio/ i gesti ordinari ci salveranno

(Andrea Monda da Il Foglio il 22 agosto 2014)

Nicola Bultrini, La specie dominante, Nino Aragno editore, 2014 Euro 8.00

Nicola Bultrini foto di Dino Ignani

Nicola Bultrini foto di Dino Ignani

 

Guarda quant’è grande
il mio corpo
quanta carne e sangue

è un peccato tenerlo tutto insieme
occupare lo spazio

vorrei farlo a pezzi
e regalarlo

che me ne faccio da solo
di questo corpo gigante

quanto è più dolce
lasciarlo per amore
nell’aria a consumarsi.

*

Noi giganti siamo rimasti in pochi
circondati da uomini piccoli
senza ombra.
Alcuni ci graffiano rabbiosi le caviglie
altri ci ignorano
fingendo di dormire.

Ma a noi giganti non va di partire.
La terra che abbiamo è una misericordia
colma di frutti e soli del mattino.
Abbiamo figli e una ricchezza
di doveri che è tutta la nostra libertà.

Non abbiamo paura del dolore
dello spettro luminoso del silenzio

e se la notte si muovono i fantasmi
ci chiamiamo per nome, uno per uno
e ci abbracciamo come capita
nel buio.

Mentre agli uomini tremano
le vene ai polsi, noi giganti
continuiamo a camminare
nel gelo luminoso di gennaio
saldi nelle gambe, controvento.

*

La terra che esploriamo
non ci appartiene
possiamo anche dimenticarla
se capita.
La abitano migliaia di viventi
che neppure conosciamo.

Però possiamo camminare
poggiare i piedi
sulle piazze maestose

se piove ci bagniamo come l’erba dei prati
piegandoci
e poi ci alziamo, finito il temporale.

Allora qualcosa rimane sottopelle
come un umore.

Possiamo quindi osservare e ascoltare
vivere silenziosi
molecole nell’aria che popolano il mondo
non sapendo.

Nicola Bultrini Aragno

*

La notte ha il sapore d’acqua amara
il giorno è corpo.
Se tu sapessi quanto
sono stanco.
Però non abbastanza
per il sonno.

Puoi vedermi
ripiegato in un angolo
mentre la mente rauca ancora ringhia

contro la notte
intera.
Vorrei dissolvermi
tacere finalmente.

Non sembra neanche mio
il cuore rumoroso
che si sente.

*

Le lampade a carburo
funzionavano circa otto ore.
Ognuno doveva comprane una e caricarla,
che facesse appesa al muro luce
almeno per tre metri.

Parlano ancora di quando
giù in miniera si spensero tra i morti
senza fiato, respirando la terra.

Eppure se ci penso, sapermi sotto
mi fa sentire vivo. E quando torno
tutta quest’aria pare troppo,
un privilegio che non mi riguarda

perché le mie radici
così come ho vissuto sono
carne, muscolo e fango.

*

E io che guardo e chiedo
se potrà mai finire. Ancora un’ora
triste e non ho nulla
più da offrire. Però c’è stato
un tempo, sì, c’è stato

ma scrivere per oggi non mi salva
le parole cui contavo
di affidare tutto il male del mondo.

Suona un disco fatto di vinile
l’onda celeste e meccanica
sale dentro il cielo di polvere
tu credimi, che a volte
vorrei il coraggio di non sapere.

Siamo sempre più felici
se crediamo di non essere in pericolo.

Paul Klee, Blue Night 1937

Paul Klee, Blue Night 1937

*

Non sono io che parlo
a un gigante neppure somiglio
mi vedi alto, pesante
ma non più forte.

Ricorda il saggio della scuola
il maestro e voi bambini in coro
timidi e fieri cercando
tra i volti quelli familiari.

Ci sono nel mondo anime immortali
che fanno le parole corpi potenti
amano la vita sfidandola,
il tempo stretto nella gola.

Io sono un’eco soltanto
che imita le cose
mentre dispero contro i venti.

Ma tutto partecipa nei grandi numeri.
Continua tu, a credere ai giganti
il tuono, il lampo che li avvolge.

*

I pastori venivano dalla campagna
romana all’inizio dell’estate
di notte, lungo la via Valeria.
In capo i muli, le greggi
e quindi ragazzi silenziosi
con i lumi a petrolio.

A quel tempo l’altopiano
era coltivato a grano, si doveva
salire i monti per i pascoli
aperti e non si scendeva
mai, fino a settembre.

Allora si dormiva tra le greggi
portando in spalla una capanna
di rami teneri di nocciolo.
Intrecciati come un cesto facevano
riparo solo per un corpo
che di notte si sdraiava.

Un occhio tra le stelle, l’orecchio attento
perché a quel tempo la montagna
era regno di lupi e di misteri. Continua a leggere

4 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, recensione libri di poesia

Paul Valéry OPERE SCELTE a cura di Maria Teresa Giaveri “I Meridiani” Mondadori, 2014 pp. 1770 € 80 Presentazione di Giorgio Linguaglossa e una nota critica di André Durand – La jeune Parque

Paul Valéry

Paul Valéry

 Paul Valéry (Sète, 30 ottobre 1871 – Parigi, 20 luglio 1945) è un poeta chiave per comprendere la poesia europea del Novecento; finalmente abbiamo qui riunite in un unico volume le opere poetiche del poeta francese insieme alle più importanti riflessioni sull’arte poetica e sulla Poetica. Valéry è il primo poeta europeo che crea una teoria del linguaggio e una teoria della composizione poetica, per lui il linguaggio è la fonte della metafisica come illusione intellettuale e la zona di massima dispersione e confusione intellettuale e linguistica. È caratteristico di Valéry che lui pervenga alla poesia da una teoria critica della poesia, da una via fino allora considerata impensabile. È un poeta e un teorico della poesia allo stesso tempo di straordinaria importanza.

«Tutta la mia filosofia – scrive Valéry – si riduce ad accrescere quella precisione o coscienza di sé che ha per effetto di separare nettamente le domande dalle risposte […] Bisogna imparare a pensare che ciò che è non è necessariamente una domanda. E che non ogni domanda ha necessariamente un senso». Valéry pensa che il linguaggio sia  il luogo stesso della confusione. Di qui quella sua forsennata ricerca di una poesia che fosse applicazione di una geometria assoluta, di un rigore quasi matematico. Il superamento del linguaggio naturale in Valéry non può essere compiuto grazie a un linguaggio ideale ma grazie alla vita, che pone dei problemi reali per dei bisogni reali e grazie all’azione.

Paul Valéry cop Scrive Valéry: «Si potrebbe – e forse lo si dovrebbe – assegnare come unico oggetto alla filosofia quello di porre e di precisare i problemi, senza preoccuparsi di risolverli. Si tratterebbe allora di una scienza degli enunciati, e dunque di una purificazione delle domande».  «Una riflessione semplicissima ci fa pensare che la Letteratura è e non può essere altro che una specie di estensione e di applicazione di certe proprietà del linguaggio. Essa utilizza per esempio ai propri fini le proprietà foniche e le possibilità ritmiche del parlare, che sono trascurate nel discorso comune […] È questo il mondo delle “figure”, di cui si preoccupava l’antica Retorica […] La formazione delle figure è indivisibile da quella dello stesso linguaggio, in cui tutte le parole “astratte” sono ottenute tramite qualche dilatazione d’uso o trasferimento di significato, seguito da un oblio del senso primiero. Il poeta che moltiplica le figure non fa dunque che ritrovare in se stesso il linguaggio allo stato nascente […] La Poetica si proporrebbe non tanto di risolvere i problemi quanto di enunciarli. Il suo insegnamento non sarebbe separato dalla ricerca stessa… dovrebbe essere trattato e mantenuto in uno spirito di massima generalità… quest’ultima considerazione conduce… a un’importante distinzione: quella delle opere che sono come create dal loro pubblico (di cui rispondono all’attesa e sono perciò quasi determinate dalla sua conoscenza) e delle opere che, invece, tendono a creare il loro pubblico». (qui pp. 380-381)

Paul Valéry 13 «Una poesia su un foglio di carta non è che uno scritto, sottoposto a tutto quel che si può fare di uno scritto. Ma fra le sue varie possibilità, ce n’è una, e una soltanto, che pone infine quel testo nelle condizioni in cui prenderà forza e forma d’azione. Una poesia è un discorso che esige e che provoca un legame continuo fra la voce che è e la voce che viene e che deve venire. E questa voce deve essere tale da imporsi, e da stimolare lo stato emotivo di cui il testo sia l’unica espressione verbale. Togliete la voce, e la voce che occorre, e tutto diventa arbitrario. La poesia diviene una serie di segni legati l’uno all’altro solo dal fatto di essere stati materialmente tracciati uno dopo l’altro. (qui p. 394) «Anche nella testa più solida la contraddizione è la norma; la consequenzialità è l’eccezione […] Ma ecco una circostanza stupefacente: tale dispersione, sempre imminente, importa e concorre alla produzione dell’opera quasi quanto la stessa concentrazione». (qui 396) «L’opera d’arte è un’opera in sé inutile, in rapporto al senso preciso di utilità: è una categoria completamente a parte». (qui p. 416) «Una poesia deve essere una festa dell’intelletto».

Paul Valéry

Paul Valéry

 Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1892, a Genova, cade in quella che in seguito avrebbe  indicato come una profonda crisi esistenziale intellettuale. Al mattino decide di ripudiare gli idoli dell’estetica simbolista tutta volta alla ricerca di una sopra-realtà e si concentra su una concezione  tutta razionale dell’arte quale mezzo di conoscenza e di auto-costruzione; l’opera sarà un espediente per l’affinamento delle doti spirituali e intellettuali, un «esercizio spirituale», una «ginnastica», una «danza», un «fare», una «scherma», un «gioco di scacchi», una «strategia».  La via dello spirito è una via anagogica, ce lo testimoniano i suoi cahiers, (diari) nei quali annota ogni mattino le sue riflessioni. Aggiunge, come battuta di spirito, «avendo consacrato queste ore alla via dello spirito, mi sento in diritto di essere sciocco per il resto del giorno». «Ogni poema che non avesse la precisione esatta della prosa non ha nessun valore» dichiara Valéry, oppure, segue le orme di Malherbe il quale aveva detto che «un buon poeta non è più utile al suo paese di quanto non sia un buon giocatore di bocce».

Paul Valéry 8 Nel 1894, si trasferisce a Parigi, dove lavora come redattore al ministero della guerra. Rimane volontariamente lontano dalla scrittura poetica per consacrarsi alla conoscenza di sé e del mondo. Segretario personale di Edouard Lebey, amministratore della Havas, la prima agenzia di stampa, si dedica ogni mattino, dalle quattro alle sette, alla redazione dei suoi Cahiers, diari intellettuali, che vedranno la parziale pubblicazione solo dopo la sua scomparsa. Nel 1917, sotto l’influenza principalmente di André Gide, ritorna alla poesia, con La Jeune Parque, pubblicato presso Gallimard. In piena epoca di avanguardie e di libertà formale, Valéry ritorna all’alessandrino di Racine, a un modello formale seicentesco riproposto con due secoli di ritardo; sembra una provocazione, un lavoro a ritroso, e invece è subito un successo; il poema non è altro che «una fabbricazione artificiale che ha preso una sorta di sviluppo naturale» scriverà in seguito Valéry. Seguono Le Cimetière marin (1920) e una raccolta, Charmes (1922). Valéry non finisce mai di stupire, a proposito dei poeti simbolisti, durante una conferenza nega l’esistenza dei poeti simbolisti in quanto alla loro epoca nessuno di essi sapeva di essere dei simbolisti. Scrive:

«Quanto a loro, i nostri simbolisti dell’86 [concordi in una comune risoluzione di rinuncia al suffragio della massa], senza appoggi nella stampa, senza editori, senza approdi […], si adattano a questa vita fuori norma; si fanno le loro riviste, le loro edizioni, la loro critica interna; e si formano a poco a poco quel piccolo pubblico di loro scelta […]. Operano così una sorta di rivoluzione nell’ordine dei valori, poiché sostituiscono progressivamente alla nozione di opere che sollecitano il pubblico, che lo prendono per il suo lato debole o abitudinario, quella di opere che creano il loro pubblico». (pp. 1109-10) Scrive ancora Valéry: «I miei versi hanno il senso che si dà loro […] È un errore che va contro la natura della poesia potrebbe esserle fatale pretendere che a ogni poesia corrisponda un significato autentico, unico, conforme o identico a un pensiero dell’autore» (pp. 1298-9).

Paul Valéry

Paul Valéry

 Scrive nella prefazione la Giaveri: «diversamente dalle opere giovanili (a cui d’altra parte rivendicava un senso preciso), le poesie della raccolta non vivono di un gioco metaforico costruito a posteriori, tramite la mediazione letteraria, ma di una analogia originaria fra due stati psicofisici che si strutturano secondo le stesse leggi e permettono le stesse varianti» (p. XXXIII). Diventa il “poeta ufficiale” di Francia ma resta schivo ed estraneo ai riconoscimenti e agli onori. Nel 1924, viene eletto presidente del Pen Club francese e componente dell’Académie Francaise. Seguono anni di riconoscimenti e di onori e la cattedra (quella di poetico al Collège de France).

Ma durante tutto questo tempo, la sua vera professione continua nell’ombra: la profondità delle riflessioni che dà alle stampe in opere consistenti (Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, La soirée avec monsieur Teste), i suoi studi sul divenire della civiltà (Regards sur le monde actuel) e la sua viva curiosità intellettuale ne fanno un interlocutore ideale per Raymond Poincaré, Louis de Broglie, Henry Bergson e Albert Einstein. Sotto l’occupazione nazista, si rifiuta di collaborare e perde il suo posto d’amministratore a Nizza. Muore  il 20 luglio 1945, poche settimane dopo la fine della seconda guerra mondiale. Charles de Gaulle richiede per lui i funerali di Stato e viene sepolto a Sète, nel cimitero marino che aveva già celebrato nel suo famoso poema.

(Giorgio Linguaglossa)

Paul Valéry 9Ecco come il critico André Durand presenta La jeune Parque (1917):

Depuis 1892, Valéry n’avait publié qu’un très petit nombre de poèmes d’une esthétique fort différente des compositions antérieures, en particulier pour la nature et le fonctionnement des métaphores. Vers le milieu de 1912, sur l’insistance d’André Gide et de Gaston Gallimard, il accepta d’éditer l’ensemble de ses œuvres de jeunesse, vers et prose. Mais, ne sachant comment transformer ces vers anciens qui lui paraissaient étrangers, il entreprit un poème d’une quarantaine de vers, qui serait un adieu à la poésie.

Dans sa dédicace à André Gide, il déclara : «Depuis des années, j’avais laissé l’art des vers ; essayant de m’y astreindre encore, j’ai fait cet exercice que je te dédie.» Et il précisa ses intentions : «Lorsque j’ai voulu me remettre à la poésie, j’ai voulu faire œuvre de volonté, combiner dans une oeuvre, tout d’abord les idées que je m’étais faites sur l’être vivant et le fonctionnement même de son être en tant qu’il pense et qu’il sent ; ensuite…, ne pas verser dans l’abstraction, mais au contraire incarner dans une langue aussi imagée que possible, et aussi musicale que possible, le personnage fictif que je créais.» Nulle contrainte n’était plus précieuse à cet athlète mental que celle de la versification traditionnelle, de la prosodie la plus rigoureuse. Il voulait que le poème en vers soit le chant continu d’une voix portée par un «je»  et dont l’efficacité poétique tienne aux ressources souplement modulées d’une matière verbale où la musique du sens est étroitement nouée à la musique du son. Son projet n’était pas de dire quoi que ce soit mais chercher à faire, c’est-à-dire à rigoureusement composer un poème dont le sens ne se dégagerait que plus tardivement.

Paul Valéry

Paul Valéry

 Si, après un long silence, il était revenu à la poésie, il n’en avait pas, pour autant, abandonné ses idées centrales. Leur restant fidèle ou ne parvenant pas à s’en détacher, les jugeant essentielles, il voulait traiter, dans un poème aussi, le thème de la passion de l’intellect ou, mais c’est la même chose, de la connaissance et de la conscience. Il voulut d’abord l’intituler “Psyché” (l’âme) et a d’ailleurs défini son objectif de la manière la plus claire : «Songez que le sujet véritable du poème est la peinture d’une suite de substitutions psychologiques et en somme le changement d’une conscience pendant la durée d’une nuit.» Il voulut montrer l’opposition entre deux états et le passage de l’un à l’autre : du non-être de la conscience à l’existence de la conscience, cette prise de conscience de la conscience étant le motif central de toute sa réflexion.

La difficulté était donc quasi insurmontable : unir la matière abstraite la plus éloignée de toute forme poétique à la forme poétique la plus éloignée de l’abstraction. Au surplus, il était obligé de compter avec les exigences propres à la poésie, sachant qu’elle ne concède rien et qu’elle veut rester rythme, image, chant. Il a donc tenté de tenir cette gageure : rendre l’abstrait voluptueux sans qu’il perde rien de son austérité et créer une plasticité sans qu’elle perde rien de son rayonnement sensoriel. Puisque l’étude du mécanisme de l’intelligence, surpris dans le moment propice de l’élaboration ou de l’invention, restait sa curiosité profonde, il a corrigé la sécheresse d’un tel dessein et il en a vécu l’émotion.

Par une sorte de miracle, l’objet même qui devait l’obliger à l’usage de la prose et au vocabulaire technique l’a conduit à une prosodie rigoureuse, une syntaxe audacieuse et puriste, un choix de mots rares, des images, des symboles, des métamorphoses, une langue sensuelle, chatoyante et précieuse, si harmonieuse et si pleine que sa beauté paraît se séparer de son sens et autorisa, en son temps, l’extravagante erreur de tenir ses poèmes pour de la poésie pure, soit sans signification.

Paul Valéry

Paul Valéry

 Cette tentative apparut d’abord à travers un brouil­lon intitulé ‘’Hélène’’. Ainsi, la mythologie grecque ajoutait aux différentes significations du poème des effets complexes de résonance. Hélène sortait de la grotte de la Nuit et voulait exister par elle-­même et non par le désir des autres («Suis-je quelque chose Moi qui ne me vois que dans le vertige des autres. Et qu’y suis-je?»), explorer les mystères de son être «en tant qu’il pense et qu’il sent». Mais, se regardant dans un miroir, elle se voyait séparée de ce reflet par des larmes, qui provoquaient aussitôt la question : «Si je me vois au miroir, des larmes me viennent, d’où?»). Puis elle se posait des questions sur un lieu inconnu, sur une identité autre et mystérieuse : «Mais qui pleure / seule et de diamants séparés?» Questions inachevables qui s’articulaient déjà sur un décor «élémental» : Astres, Nuit, Distance, Larmes, Regard, ­et cette objet indispensable à tout questionnement chez Valéry : le Miroir. Mais, en quarante vers, c’était trop. D’autant plus que l’écri­ture fit surgir en s’accomplissant les problèmes du «système» auquel il ne cessait de travailler : les substitutions, l’acte de conscience et la mémoire, les déplacements et les condensa­tions du Moi par la pratique du langage, le fonctionnement des figures, la production de l’imaginaire par les structures for­melles, etc.

Gardant la préoccupation du double manque, le manque qui cause les larmes, le manque qui fait de cette autre d’Hélène dans Hélène un être sans nom, il envisagea donc une œuvre plus ample, qu’il appelait d’ailleurs «mon opéra», dans laquelle il voulut donner à la poésie les valeurs des récitatifs des drames lyriques (« Glück et Wagner m’étaient des modèles secrets» (lettre à  Aimé Lafont, septembre 1922), pour laquelle différents titres furent ébauchés à mesure pour aiman­ter diversement le travail : ‘’Pandora’’, ‘’Vers anciens’’, ‘’Ébauche’’, ‘’Étude ancienne’’, ‘’Discours’’, ‘’La seule Parque’’, ‘’L’aurore’’, puis ‘’Psyché’’ qui fut proposé par Pierre Louÿs, ‘’Île’’, enfin ‘’La jeune Parque’’ en 1916. Le poète a choisi de faire parler une Parque, non une des trois Parques qui, chez les Anciens, étaient les divinités du Destin, symbolisaient les étapes de la destinée humaine, la troisième coupant le fil de la vie ; mais une Parque qui est une mortelle et qui, surtout, est jeune, se trouvant à l’âge où l’individu doit définir son identité, voit naître «la conscience de soi-même», rencontre les divers problèmes de «la conscience consciente».

La composition dura plus de quatre ans. Le poème se développa par fragments remis vingt fois sur le métier : il y eut plus parfois plus de trente états successifs. Une note d’un ‘’Cahier’’ de 1917, intitulée «Comment j’ai fait la J.P.»,  précisa la chronologie du travail :

– 1912 : Genèse              
– 1913 :  Serpent                            
– 1914 
– 1915 : «Harmonieuse Moi», Sommeil    
– 1916 : Îles
– 1917.

Paul Valéry 10 Il commenta : «D’écart en écart, cela s’est enflé aux dimensions définitives». Pour ces 512 vers, il avait rédigé plus de cent brouillons dont la reproduction occuperait 600 pages ! La pression de la guerre accompagna l’invention du poème. Il avait fini par considérer comme un devoir de léguer à notre langue menacée cet ouvrage «fait de ses mots les plus purs et de ses formes les plus nobles». – «Je ne me l’explique à moi-même, je ne puis concevoir que je lai fait, quen fonction de la guerre. Je l’ai fait dans l’anxiété et à demi contre elle. J’avais fini par me suggérer que j’accomplissais un devoir; que je rendais un culte à quelque chose en perdition. Je m’assimilais à ces moines du premier Moyen Âge qui écoutaient le monde civilisé autout de leur cloître crouler, qui ne croyaient plus qu’en la fin du monde ; et toutefois qui écrivaient difficilement, en hexamètres durs et ténébreux, d’immenses poèmes pour personne […] Il n’y avait aucune séré­nité en moi.» (lettre à Georges Duhamel, 1929). Mais les bruits de la guerre n’étaient peut-être pas nécessaires car il avoua : «angoisse, mon vrai métier».

Dans une lettre à Aimé Lafont (septembre 1922), il a ainsi défini son poème : «C’est une rêverie qui peut avoir toutes les rup­tures, les reprises et les surprises d’une rêverie dont le person­nage en même temps que l’objet est la conscience consciente. Figurez-vous que l’on s’éveille au milieu de la nuit, et que toute la vie se revive, et se reparle à soi-même […] Sensualité, souvenirs, paysages, émotions, sentiment de son corps, profondeur de la mémoire et lumière ou cieux antérieurs revus, etc.. Cette trame qui n’a ni commencement ni fin, mais des nœuds, j’en ai fait un monologue auquel j’avais imposé avant de l’entreprendre des conditions de ‘’forme’’ aussi sévères que je laissais au fond de liberté. Je voulais faire des vers non seulement réguliers mais césurés, sans enjambement, sans rimes faibles.»

Paul Valéry

Paul Valéry

 Dans une lettre à A. Mockel (1917), il précisa le but qu’il s’était donné : «Faire un chant prolongé, sans action, rien que l’incohérence interne aux confins du sommeil ; y mettre autant d’intellectualité que j’ai pu le faire et que la poésie en peut admettre sous ses voiles ; sauver l’abstraction prochaine par la musique, ou la racheter par des visions, voilà ce que j’ai fini par me résoudre à essayer, et je ne l’ai pas toujours trouvé facile […] Il y a de graves lacunes dans l’exposition et la composition, je n’ai pu me tirer de l’affaire qu’en travaillant par morceaux. Cela se sent, et j’en sais trop sur mes défaites !» Son projet était aussi de composer un poème «cent fois plus difficile à lire qu’il n’eût convenu», dont le sens ne se dégagerait que plus tardivement. Cette obscurité résulterait d’abord de la nature du sujet. Il a voulu rassembler dans ce poème un grand nombre d’idées qui l’occupaient depuis longtemps

Ces «morceaux», les divers états du manuscrit font voir qu’ils ne se sont pas toujours succédé dans l’ordre où le texte définitif les présente, le plus important de ces déplacements concernant le dernier épisode. C’est que l’œuvre s’est formée en restant volontairement aveugle à son destin.

Ailleurs encore, on peut lire : «Ce chant est une autobiographie. J’ai supposé une mélodie, essayé d’attacher, de «ritardare», d’enchaîner, de couper, d’intervenir, de conclure, de résoudre, et ceci dans le sens comme dans le son…» (‘’Cahiers’’, VI, 508-509).

Armé de ces renseignements, invité par Valéry lui-même qui disait : «Il ne suffit pas d’expliquer le texte, il faut aussi expliquer la thèse», on peut essayer de déchiffrer ce poème dense et difficile dont l’obscurité ne résulterait pas d’une intention délibérée d’hermétisme (les raccourcis et les ellpises étant exigés par l’harmonie) et qui, grâce à la musique verbale, transpose une idée abstraite et revêche dans un érotisme onduleux, la pureté de l’idée étant atteinte à travers la pureté de la sensation, sans l’intermédiaire du sentiment.

 

Paul Valéry nel suo studio

Paul Valéry nel suo studio

La jeune Parque” (1917)

Poème de 512 alexandrins

«Le Ciel a-t-il formé cet amas de merveilles
Pour la demeure d’un serpent?»
Pierre Corneille

Qui pleure là, sinon le vent simple, à cette heure
Seule avec diamants extrêmes?… Mais qui pleure,
Si proche de moi-même au moment de pleurer?

Cette main, sur mes traits qu’elle rêve effleurer,
Distraitement docile à quelque fin profonde,
Attend de ma faiblesse une larme qui fonde,
Et que de mes destins lentement divisé,
Le plus pur en silence éclaire un cœur brisé.
La houle me murmure une ombre de reproche,
10 Ou retire ici-bas, dans ses gorges de roche,
Comme chose déçue et bue amèrement,
Une rumeur de plainte et de resserrement…
Que fais-tu, hérissée, et cette main glacée,
Et quel frémissement d’une feuille effacée
Persiste parmi vous, îles de mon sein nu?
Je scintille, liée à ce ciel inconnu…
L’immense grappe brille à ma soif de désastres.

Tout-puissants étrangers, inévitables astres
Qui daignez faire luire au lointain temporel
20 Je ne sais quoi de pur et de surnaturel ;
Vous qui dans les mortels plongez jusques aux larmes
Ces souverains éclats, ces invincibles armes,
Et les élancements de votre éternité,
Je suis seule avec vous, tremblante, ayant quitté
Ma couche ; et sur l’écueil mordu par la merveille,
J’interroge mon cœur quelle douleur l’éveille,
Quel crime par moi-même ou sur moi consommé?…
… Ou si le mal me suit d’un songe refermé,
Quand (au velours du souffle envolé l’or des lampes)
30 J’ai de mes bras épais environné mes tempes,
Et longtemps de mon âme attendu les éclairs?
Toute? Mais toute à moi, maîtresse de mes chairs,
Durcissant d’un frisson leur étrange étendue,
Et dans mes doux liens, à mon sang suspendue,
Je me voyais me voir, sinueuse, et dorais
De regards en regards, mes profondes forêts.

J’y suivais un serpent qui venait de me mordre.

Quel repli de désirs, sa traîne !… Quel désordre
De trésors s’arrachant à mon avidité,
40 Et quelle sombre soif de la limpidité ! Continua a leggere

4 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, poesia francese, recensione libri di poesia, Senza categoria

Andrej Andreevič VoznesenskijDalla vita delle crocette” (Inedito in italiano) traduzione e commento di Donata De Bartolomeo (Prima parte)

 

Andrej Andreevič Voznesenskij, Андрей Андреевич Вознесенский (Mosca, 12 maggio 1933  – Mosca,1 giugno 2010), è stato un poeta russo. Laureato in architettura, scopre, alla fine degli Anni Cinquanta, la sua passione per la poesia. Fin dal 1958 si fece interprete, attraverso i suoi versi, del disagio e delle passioni delle giovani generazioni, sia nella ricerca di ideali da vivere, sia nella forma linguistica più appropriata e più moderna nell’esporli. Esordisce nel 1958 con una raccolta di versi, cui seguì, nel 1959, il poemetto Mastera (“Maestri”), ispirato alla leggenda dell’accecamento dei costruttori della chiesa di San Basilio, con il quale si afferma poeta di vigorosa ispirazione e alto magistero formale. Tra le altre raccolte: Parabola (1960); Mozaika (“Mosaico”, 1960); Antimiry (“Antimondi”, 1964); Vzgljad (“Sguardo”, 1972); Proraby ducha (“Capomastri dello spirito”, 1984).

Dal 1958 cominciò, insieme ad Evgenij Evtušenko, a pubblicare poesie che ebbero riconoscimenti anche da Pasternak e Achmatova. Nel 1978  è stato insignito del Premio Lenin. È stato più volte in Italia, in particolare nel fiorentino cui ha anche dedicato una poesia. Memorabile la sua querelle con il leader sovietico Kruscev, ai tempi della Guerra Fredda, quando il politico dovette cedere alle richieste del poeta e al suo desiderio di poter lasciare il paese e viaggiare per il mondo. Le sue mete furono l’Europa, l’Italia la sua preferita, e gli Stati Uniti che, all’epoca più di oggi, erano l’emblema della libertà. Qui entrò in contatto con i personaggi che negli anni Sessanta tracciarono con le loro variegate espressioni, l’immagine artistica dell’America: Allen Ginsberg, Arthur Miller e Marilyn Monroe.

Andrej Andreevič Voznesenskij

Andrej Andreevič Voznesenskij

 Dopo la laurea in architettura Voznesenskij ha iniziato a pubblicare i primi versi nel 1958, alle soglie di quegli anni Sessanta che, se da un lato furono caratterizzati dalla perdita per la letteratura russo-sovietica di eminenti personalità artistiche (basti citare per tutti l’Achmatova e Pasternak), videro dall’altro affermarsi nuove personalità alle quali saranno affidate le future sorti della letteratura, della poesia e della critica.

Voznesenskij aveva inviato già nel 1954 le sue poesie giovanili a Pasternak ma attese il 1960 per pubblicare i suoi primi volumi: Parabola e Mozaika. La sua fama andò prestissimo crescendo al punto da spingere Evtuscenko a dichiararlo il più grande poeta della giovane generazione, accanto a lui e ad Evghenij Vinokurov che, per la verità, erano poeti più maturi avendo debuttato nell’agone poetico nel decennio precedente. Non dimentichiamo che in questi stessi anni (1962) pubblicava il suo primo libro di versi una nuova poetessa, Bella Achmadùlina, e lavorava, sia pure in clandestinità, Iosif Brodskij le cui prime poesie furono pubblicate nel 1965 negli Stati Uniti ma di cui circolavano in patria numerose copie manoscritte.

Kennedy e Kruscev

Kennedy e Kruscev

Diversissimo il destino di questi poeti, condannato Brodskij per parassitismo sociale e lodato Voznesenskij per aver salvato la sua personalità lirica rivestendola di toni sociali che nascondevano il dramma della personalità umana nella nuova società in via di tecnologizzazione.

Nella raccolta di saggi critici Il talento è un miracolo non occasionale (Mosca, 1980), Evtuscenko dice dell’esordio letterario di Voznesenskij: «si cominciano a scrivere versi così come si comincia a nuotare. Chi sguazza da solo nell’acqua bassa, chi si esercita assiduamente in una piscina ricca di cloro sotto la guida di un maestro esperto. ma in ogni caso i primi movimenti nell’acqua sono convulsi, goffi. Voznesenskij ha cominciato subito a nuotare a farfalla – per lo meno il suo sguazzare o i suoi esercizi nel gruppo dei principianti sono rimasti un mistero per i lettori. I forti, sicuri movimenti del principiante hanno irritato quelli che nuotano tutta la vita “a cagnolino” o si dondolano comodamente sulla schiena. Voznesenskij non ha intrapreso il cammino degli sforzi minuziosi da una categoria all’altra – egli ha raggiunto subito il livello del maestro».

Andrej Andreevič Voznesenskij by_Mikhail_Lemkhin

Andrej Andreevič Voznesenskij by_Mikhail_Lemkhin

 Ma c’è una maestria impersonale quando il poeta assimila almeno le regole della buona creanza – non di più. Voznesenskij «ha confuso le carte». Egli ha unito il russo pereplies[1], le sincopi del moderno jazz e i rombi beethoveniani. Il tragico singulto della Cvetaeva viene frantumato all’improvviso dall’ardita ciciotka[2] del primo Kirsanov. Il fragile tema lirico dai paesaggi quasi alla Zoscenko. Questa asprezza di palpiti ha spaventato gli amanti dei toni piani, affettati. Gli assertori delle regole severe si sono allarmati, scorgendo già nelle prime pubblicazioni di Voznesenskij, e soprattutto in La pera triangolare, un attentato alla poesia russa tradizionale. Fu da loro adoperata sprezzantemente la parolina “moda” per spiegare in qualche modo l’interesse dei lettori per i versi di Voznesenskij: ma i rimandi alla “moda” appaiono spesso rivelare una debolezza di argomentazioni. nonostante le predizioni sarcastiche, il nome di Voznesenskij si è solidamente affermato in letteratura ed i suoi detrattori fanno sorridere come il barone von Grivaldus seduto sempre nella medesima posizione sulla stessa pietra.

Il libro di Voznesenskij L’ombra del suono, che rappresenta in un certo qual modo il bilancio del già lungo lavoro del poeta, appare come la testimonianza del fatto che la sua attività è divenuta nella poesia russa simile a quella parola che non si cancella da una canzone. Assumendo a suo modo l’esperienza della poesia russa, egli stesso ne è divenuto parte.

Mi sembra che senza una analitica comprensione dell’opera di Voznesenskij non sia possibile spiegare i nuovi poeti. Nella psicologia dei lettori si sono in un modo o nell’altro rifratti i suoi ritmi nervosi, le sue metafore intense che sono divenute parte del mondo interiore di molti».

Andrej Andreevič Voznesenskij

Andrej Andreevič Voznesenskij

 Quella di Voznesenskij si palesa quindi come una poesia che se da un lato si riallaccia alla migliore tradizione russa degli anni post-rivoluzionari (Majakovskij, Pasternak, Zabolockij), appare completamente nuova. D’altra parte tutta la generazione dei poeti dell’era chrusceviana e brezneviana aveva operato un drastico ribaltamento della concezione del mondo e del concetto stesso di poesia, giungendo sino alla frantumazione del tabù della sussumibilità della sfera del privato nella prassi artistica ed a questa tematica sempre più laica il pubblico offriva una straordinaria attenzione e compartecipazione.

Andrej Andreevič Voznesenskij

Andrej Andreevič Voznesenskij

Alla lettura Voznesenskij appare poeta «gradevole», versificatore di gran talento; Egli si impunta nell’impedire al suo estro pirotecnico di giostrare oziosamente all’interno delle metafore e delle similitudini, per agganciarle al reale desublimato e per prodursi in rocambolesche variazioni metriche e semantiche che sviano continuamente il lettore, lo sorprendono, lo inchiodano ad ogni verso in una girandola di equivoci e di inceppamenti semantici. L’impressione di dissolvenza, di «deregulation» della costruzione ordinata e gerarchica si fa sempre più evidente e serrata man mano che ci si addentra nel suo lavoro, nei serpeggianti drenaggi metrici e materici, tra gli inciampi delle metafore che fanno scoccare scintille, nel balletto e nella balbuzie dei «dialoghi» così naturali da far pensare estratti dal registratore, costruiti su geometrie scalene o scanzonti, per lo più triangolari, in ripidissima successione paratattica. Il convenzionale della vita quotidiana, quello per intenderci della distinzione tra vero e falso, viene vivisezionato e rimontato con tutti i relativi paradossi e giochi perversi, in una intelaiatura fantastico-surreale lontanissima dalla cantabilità della poesia della sua generazione. La ipernovità di questo nuovo stile doveva apparire ai lettori contemporanei, ad un tempo, estremista ed estranea ai canoni del realismo socialista. Ed invece Voznesenskij creava dall’interno della tradizione la nuova poesia mutuando dalla sineddoche e dalla metafora gli elementi per una poesia anti convenzionale e modernista nutrita di intertestualità dissacratorie e deliranti, in direzione di una orchestrazione sinfonica che si ispirava al «ballabile», ai ritmi jazz, con continui cambi ritmici e timbrici, con la sovrapposizione di note sgargianti e di registri colloquiali convenzionali.

Andrej Andreevič Voznesenskij

Andrej Andreevič Voznesenskij

 Voznesenskij porta di colpo la linea melodica della lirica russa al suo naturale capolinea per scoprire le innumerevoli possibilità offerte da una poesia coerentemente «modernista». Con questa operazione Voznesenskij recupera la carica ancora attuale dell’eredità del cubofuturismo russo e l’eredità delle «poesie per bambini» di Osip Mandel’štam , secondo il quale compito del poeta è animare dall’interno le immagini, le similitudini, le metafore ricercando uno sguardo «ingenuo» (per eccellenza lo sguardo infantile) che potesse permettere inconsueti e non-convenzionali associazioni di correaltà e consentisse l’appropriazione artistica del «nuovo» reale. Se in Chlébnikov è uno sguardo infantile che osserva la lingua e in Mandel’štam  lo sguardo infantile costruisce gli oggetti, in Voznesenskij il medesimo sguardo opera un bizzarro montaggio delle immagini e delle locuzioni dialogiche. Il risultato è sorprendente. Un realismo infantile, pirotecnico, surreale basato sulla tecnica del montaggio e del corto metraggio: successione di rapidi fotogrammi dove il caso e l’estro convergono nella liquidazione di ciò che rimaneva della retorica del realismo apologetico sostenuto dalla critica ortodossa e di ciò che restava della retorica del poetismo spalleggiata dalle autorità culturali.

Andrej Andreevič Voznesenskij in recita

Andrej Andreevič Voznesenskij in recita

Potremmo quindi dire di essere di fronte ad un «esistenzialismo pirotecnico», nel senso di una poesia fortemente tramata sull’esistenza, sul mal di vivere di un’epoca e di un’intera generazione. Ma al contempo è questa una poesia che guarda al futuro, che annuncia il futuro, che si pone di fronte al pubblico senza pavoneggiarsi in elegiache tristezze ma con scorci, ellissi verbali, scarti ironici ed allusivi alla situazione del presente.

È un privato scomodo quello che Voznesenskij offre ai suoi lettori: l’amore desublimato, la modernità (sotto le spoglie di una segreteria telefonica), la quotidianità con la «volgarità del ciao» e le radiazioni nei pacchetti del té; tutto viene fatto oggetto di ironia tagliente che si sere della resa poetica di un vocabolario basso, di versi brevi, di invenzioni linguistiche e metaforiche che rendono dura la vita al traduttore. Su tutto pesa il fardello della Storia che, lontanissima dalla poetica dell’Achmadùlina e vissuta ottimisticamente da Evtuscenko, getta una luce sinistra anche sul rimo amore: «Perdona il fatto che in questi giorni / eravamo innamorati».

L’ironia si fa sberleffo della Storia delle crocette, dove l’espediente figurativo consente a Voznesenskij di demolire persino il mito sacro del famoso sabato comunista in cui Lenin «portò la trave». Non c’è invece ironia dell’assoluta rivendicazione della singolarità del ruolo del poeta:

Tutti scrivono, io smetto.

Di Stalin, di Visotskij, del Bajkal,

di Grebenscikov e Chagall

scrivevo, quando non era permesso.

Non voglio finire nel calderone.

Scrive ancora Evtuscenko nell’articolo citato: «per Voznesenskij il poeta è il salvatore non  il salvato. E di nuovo imperiosamente affiora l’immagine del “superamento della palude”, che ricorda l’eterna funzione della poesia: la lotta con la palude, comunque la si chiami».

(Donata De Bartolomeo)

[1]  ballo russo in cui i danzatori si esibiscono in assoli

[2]  danza ritmica

Andrej Andreevič Voznesenskij

Andrej Andreevič Voznesenskij

(testi tratti da Aksioma Mosca, 1990)

 

 

 

 

 

Volavano due bastoni. Uno verso il Nord, l’altro verso il Nord, l’altro verso
Occidente. Sull’asfalto le loro ombre si sono
Sovrapposte: ne è venuta fuori una crocetta.
-Bastoni, per favore non separatevi, altrimenti io sparirò!
-Scusa, crocetta, per noi è tempo di filarsela.

*

La crocetta andava lungo una stradina.
Vede una folla di crocette su un ramo.
-Siete un’assemblea rionale di crocette?
-No, siamo un lillà.
Si rattristò la crocetta. Soltanto, allargò le braccia.
Andò oltre.

*

Cammina, vede: delle crocette nere stavano l’una sull’altra,
formando una figura ginnica.
-Un saluto ginnico, pace al mondo! Posso montare su di voi
per un attimo?
-Prego, noi siamo la grata di una prigione. Aggrappatevi!
-Scusate ma ho fretta.
Soltanto, allargò le braccia.
Diremo dopo in quale direzione si affrettava.

Andrej Andreevič Voznesenskij

Andrej Andreevič Voznesenskij

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

L’uomo discende dalla scimmia. Ma di chi deriva la crocetta?
Dall’uomo. Se metti sotto terra un cadavere (e lo innaffi),
crescerà una crocetta.
Ma molti ritengono che sia un prodotto della terra.

*

La crocetta ha scoperto l’America per prima.
Sedeva sull’albero maestro.

*

Dicono che la crocetta abbia buttato la bomba atomica su Hiroschima.

*

La crocetta aveva paura dell’AIDS. Andò in farmacia. Comprò.
-Ma su quale estremità bisogna metterlo?
-Avete letto la favola “La bertuccia e gli occhiali”? Rassegnatevi alla via sperimentale.

*

Quando le crocette elessero il ministro dell’economia fluviale, questi stava sulla tribuna e, allargando le braccia all’inverosimile, indicava: “Ecco quale pesce pescheremo!”

*

Una donna andò a trovare una crocetta.*
-Crocetta, posso appendere su di te la camicetta? Solo, non
muoverti, altrimenti me la spiegazzerai.
Si spogliò. Si mise a letto. Aspettò un po’. Si addormentò.
La crocetta rimase ferma fino al mattino, aveva paura di muoversi.

*ndt: in russo la parola krestnik (crocetta) è di genere maschile.

*

La crocetta può nello stesso tempo
stringere

15 commenti

Archiviato in poesia russa, recensione libri di poesia

EDISON di Vítĕzslav Nezval (1900-1958) POEMA IN CINQUE CANTI a cura di Antonio Sagredo

Vítezslav NEZVAL , pí. BRETONOVÁ , André BRETON , Paul ELUARD ,Josef SŠÍMA , Adolf HOFFMEISTER

Vítezslav NEZVAL , pí. BRETONOVÁ , André BRETON , Paul ELUARD ,Josef SŠÍMA , Adolf HOFFMEISTER

Il poema in cinque canti Edison del poeta ceco Vítĕzslav Nezval (1900-1958) fu concepito nell’autunno del 1927. Fu pubblicato per la prima volta a Praga nell’estate del 1928. Nel 1930 fu inserito assieme ad altri poemi nel volume Básnĕ noci (Poesie della notte) dedicato, non a caso, alla memoria del poeta moravo Otokar Březina.

      Nezval ha un avvio poetico danzante, giocoso, spumeggiante, rutilante, spensierato, così come i suoi compagni di strada che si riuniscono in un gruppo denominato Devĕtsil (farfaraccio, chè una pianta con foglie grigiastre e pelose e fiori piccoli di color rosa o bianco).

      Il Devĕtsil esalta la poesia proletaria, poiché l’eco della rivoluzione russa ridesta nuove forze creatrici che percorrono tutte le generazioni europee. Perciò il Devĕtsil attinge a mani spiegate dalle avanguardie artistiche straniere il culto della tecnica e della elettricità, della macchina e del movimento, e pure dagli sperimentalismi pittorici (cubismo) e da quelli poetico-linguistici (parzialmente dal futurismo italiano con Martinetti nel 1921 e molto dal futurismo russo tramite Roman Jakobson a   Praga nel 1920).

   Si esalta questo gruppo di poeti per il cinematografo muto, per  il western americano e il circo (come i russi), e per i nuovi toni musicali e architettonici e infine per la scultura tutta fondata sul moto continuo della forma. Ma è che tutte le arti sono esaltate.  Il Devĕtsil è formato dunque da poeti, pittori, scrittori, registi, saggisti, caricaturisti, critici d’arte e letterari, architetti, ecc.

Vitezslav Nezval con Soupault 1928

Vitezslav Nezval con Soupault 1928

  La poesia ceca contemporanea nasce dalla poesia Zone di Apollinaire (che fu a Praga nel 1902) tradotta da Karel Čapek:. La pittura, invece, tramite il gruppo Osma – che si rifaceva a Munch – si accosta a Picasso e Braque con i pittori  Filla, Kubišta e Zrzavý. Nezval, dunque, visse questa iniziale fase ottimistica e ardimentosa – e pure vitalistica perché protesa verso il sociale – che indifferentemente riuniva maestri come Rimbaud (colore-parola) e Jarry (le stramberie circensi) e gli esperimenti del dada.

      Questi entusiasmi trovarono le atmosfere adatte nei caffè praghesi, specie allo Slavie, dove infatti nacque il Poetismo, nel 1924, che mise fine all’epoca del Devĕtsil, il quale s’era dimostrato fin troppo “programmatico, pesante gioco, qualcosa come una pratica ascetica e una grave regola che escludeva dalla  gioia della vita i suoi mali assortiti adepti” (F. X. Šalda). E allora i poeti e gli artisti cominciarono a “trascurare la tematica sociale e l’elemento didascalico e concentrarono la loro attenzione sulla forma e sul puro gioco delle metafore” (A. M. Ripellino).

   Questo nuovo orientamento era straordinariamente confacente allo spirito di Nezval, e perciò ecco scaturire dal suo canto le irrefrenabili e rutilanti metafore, i giochi acrobatici tra parole, associazioni da vertigine e analogie impensabili; in tutto questo circo delle parole la pantomima nezvaliana è felicemente pazza, non si decanta, è perennemente in moto; e poi, ancora, come cascate di fuochi d’artificio l’uso ossessionante delle anafore (che già Březina  usava) che stordiscono il lettore e lo conducono in paesi lontani, esotici, in una sorta di piani sovrapposti, musicali e colorati; e come in una scatola magica: visioni inesprimibili e indicibili.

       Furono questi poetisti “cavalieri dell’immagine” che vollero vivere la vita come era effettivamente nei loro sogni immagnifici, e non vollero subirla affatto; e tutto ciò che era stato vitale nel Devĕtsil fu ripreso, non per dire e affermare con parole teoriche e vuote, ma per vivere concretamente con atti, con gesti, con reali viaggi (il poeta Biebl, p.e., si recò a Giava).

Vitezlav Nezval al Louvre

Vitezslav Nezval

Nei versi di Nezval  c’è tutto questo amore, passione per il corpo in giro per il mondo, come l’elettricità che collega, comunica con l’America, con Parigi, con l’Africa… così nel suo teatrale  Depeše na kolečdkách (Dispacci a rotelle), che una compagnia teatrale universitaria (gli Skomorochi) mise in scena nel 1971, a Roma,  al teatro Abaco – diretta dal Ripellino.

   Ma, al contrario di quanto pensava il teorico del gruppo Karel Teige, questi avventurosi spostamenti, mascheramenti, questi indiavolati viaggi – vere e proprie metafore geografiche (stupende quelle di Majakovskij), assillanti peregrinazioni reali o immaginarie – nascondono una certa angoscia, angustia, timore, perdita della quiete… e il poeta Halas detta: muffa, putrefazione, ossa, atmosfere meste, dolorose, insanguinate.

      A tre anni, dunque, dalla nascita del Poetismo, il poema Edison “poesia d’incubi”(?) , costringe  Nezval ad accostarsi alla prigione lunare – romantica/byroniana – di Karel Hynek Mácha, al canto cosmico di Otokar Březina, alle ballate indicibili e paurose di Karel Jaromír Erben.  È che Nezval ha bevuto troppo alla coppa dell’ebrezza, ma la sua metafora non perde vigore, efficacia, invece assume una più pesante corposità: è martellante come prima, ma non è più spumante, e diviene un  gravido e denso vino rossastro, che in controluce genera fluttuanti colori non più vivaci, e quindi: il viola, il marrone, il verdastro, il bianco spettrale e lattescente, un grigiastro mercurio: è il nuovo immaginoso congegno del poeta che stavolta smaschera, incide, deforma la realtà. La  sua visione è adesso la fuga, un non ritorno.

      L’Edison  è tutto questo: una  macchina senza moto, elettricità che è trucco e non più gioia: fa male comunicare: troppe tragedie in atto; e allora non più la felicità universale, ma il vacuum cosmico. La pantomima di Nezval s’incrina e s’avvia ad incontrare la poesia funebre e metafisica boema di secoli prima, ma che proprio dal 1927 (anno dell’Edison) al 1945 celebrerà di nuovo, come una volta, ancora i suoi fasti.

      L’Edison è una stralunata, beffarda ombra, suicida e assassina allo stesso tempo… è simile al reale fittizio, che senza requie vela e disvela, del poeta russo Alexander Blok! – La città di Praga è una “baccante di neve” che si specchia vanamente nel suo fiume, nero, la Vltava, poiché non si riconosce se non come ubriaca prostituta, vomito variopinto di luci riflesse, viandante insensato che fissa una stella… inebetito… impiccato che oscillando vuole cantare versi, ma strozzati!

        Praga-America-Praga… e il viaggio è compiuto – se viaggio c’è stato – finito in un bicchiere d’alcool sui banchi umidi dei bar, sulle stelle avvelenate, sulla neve non più candida… e sotto i ponti di un fiume oramai torbido e desideroso di nuovi suicidi.   Il caleidoscopio coloratissimo delle forme barocche – ma come viste da una vetrata gotica – dell’Edison  è macchiato dai sogni impossibili di chi è destinato a divenire l’ombra di una pantomima che si strazia e si tortura.

(pubblicato nella rivista “L’Ozio” 3, gennaio-aprile 1987, traduzione di Antonio Sagredo) -(D.P.A.)

vitezlav nezval cartolina

vitezslav nezval

1° Canto

Le nostre vite sono tristi come il pianto
Una volta, verso sera, usciva da una bisca un giocatore
nevicava, fuori, sopra gli ostensori dei bar
l’aria era umida poiché si avvicinava la primavera
ma la notte sussultava come una prateria
sotto le granate dell’artiglieria delle stelle
le ascoltavano sugli umidi tavoli
ubriachi curvi su bicchieri d’alcool
donne seminude con penne di pavone
malinconici come i tramonti

Ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte.

Ritornavo a casa passando per il ponte delle Legioni
cantando in segreto un motivetto
ubriaco di luci notturne delle barche sulla Vltava
il duomo di Hradčany sonava le dodici esatte
mezzanotte di morte la stella del mio orizzonte
in questa umida notte di fine febbraio

Ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte.

Chinandomi dal ponte io vidi un’ombra
l’ombra del suicida che cadeva negli abissi
ma c’era qualcosa di opprimente che piangeva
era l’ombra e la tristezza di un giocatore d’azzardo
gli dissi signore per carità chi è lei
con una voce triste mi rispose nessun giocatore
ma c’era qualcosa di triste che taceva
ed era un’ombra che sporgeva come una forca
un’ombra che cadeva dal ponte gridai ah, no!
voi non siete un giocatore! no, voi siete un suicida
Andavamo tenendoci per mano, salvi
andavamo mano nella mano trasognati
fuori città, verso la periferia di Košiře
ci salutavano da lontano ventagli notturni
danzavano gli alcools sui chioschi della tristezza
andavamo mano nella mano insieme taciturni

ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte.

Aprii la porta e accesi il gas
portai a dormire la mia ombra della strada
dissi signore per noi due questo è sufficiente
ma non era più l’ombra del mio giocatore
era soltanto un fantasma o una illusione?
me ne stavo solo nel mio solito cantuccio

ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte.

Mi sedetti dietro un tavolo sopra un cumulo di libri
dalla finestra osserva come cade la neve
osserva i fiocchi come s’intrecciano in ghirlande
con la loro chimerica nostalgia
ubriaco di ombre inafferrabili
ubriaco di luci affondate nelle ombre
ubriaco di donne che inseguono sogni e serpenti
ubriaco di donne che seppelliscono la loro giovinezza
ubriaco di avventurose crudeli belle donne
ubriaco di voluttà e di schiume insanguinate
ubriaco di tutta la crudeltà che istiga e tortura
ubriaco di raccapricci e di lutti della vita e della morte

Mi dissi dimentica già le ombre
sfogliando giornali vecchi di una settimana
scorsi il grande ritratto di Edison
che affogava nel fetore della nera stampa
c’era accanto la sua più nuova invenzione
sedeva nel talare come un sacerdote medievale
ma c’era qualcosa di bello che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte

Vitĕzslav Nezval

Vitĕzslav Nezval

2° Canto

Le nostre vite spiccano come carcasse.
Una volta, verso sera, tornava un rapido
fra il Canada e il Michigan
attraverso gole di montagna di cui non so il nome
camminava lungo i corridoi un piccolo fattorino
col berretto calcato sugli occhi
ma c’era qualcosa di bello che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte

Suo padre era sarto calzolaio e spaccalegna
mercante di grano aveva una capanna una soffitta una cantina
ed un eterno girovagare che tanto ci seduce
morì di malinconia per la sua terra e di giovanile tristezza

Papà tu sapevi cos’è l’eterno struggimento
oggi di te non c’è che cenere stella o lampo
papà, tu sapevi che dovunque ci sono dei villani
fra i santi e i tagliaboschi
tu hai conosciuto i vagabondaggi e la fame
vorrei morire come te anche giovane e insolente
ma c’era qualcosa di opprimente che straziava
tristezza lamento e angoscia della vita e della morte

Io non so dove e se hai una tomba
è rimasto del tuo sangue soltanto un orfanello
guarda già in Canada sillaba i tuoi libri
guarda già si rallegra di andare a vedere le corse
guarda già legge le biografie famose
l’enciclopedia e le antiche epopee
guarda è già adolescente guarda come il tempo passa presto
guarda non gioca più: legge libri di chimica

Anch’io spesso da bambino sono stato un eroe
anch’io leggevo i libri di Darwin
anch’io giocavo più seriamente degli altri
con l’acido solforico nel piccolo laboratorio scolastico
col catalizzatore e l’ammoniaca con la bobina rumkorf
ma perché volevo essere anch’io un suonatore d’arpa
ma perché amavo anche l’organetto
ma perché giocavo anche alle favole
che mi è rimasto qualcosa di opprimente che straziava
tristezza e lamento della vita e della morte

Tommaso tu non eri un homme de métier
tu hai letto “l’analisi della malinconia”
anche tu hai conosciuto il dolore la tristezza il lamento e l’amore
nei libri, a Detroit, fra migliaia di volumi
anche tu hai sognato di viaggi per mare
nel tuo primitivo laboratorio
che hai agganciato alle carrozze di un treno merci
in cui hai arricciato le ali di uccelli di carta
GRAND TRUNK HERALD! VELKÝ VESTNÍK in carrozza!
Componi! Stampa! Guerra! Scontri! Erosione!
Gridi appena uscito! Comprate! Nuove notizie!
Incendio in Canada e Piccolo corriere di Giava

ma c’era qualcosa di bello che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte.

Una volta ti sei gettato d’un tratto sotto le ruote
neppure un’anima viva tutt’intorno
ma già trascini il fanciullo tra i repulsori
hai salvato la sua vita e ricevi i miei ringraziamenti

Eccoti al lavoro nel calzaturificio
le macchine schizzano fuoco come vesuvi
su ogni scarpa quanto hai sospirato
so che hai ereditato l’inquietudine di tuo padre vagabondo

Giri come un facchino da un cortile all’altro,
una volta te ne sei andato deluso da New York
errando in questa metropoli americana
eri deciso a gettarti su qualsiasi cosa
forse allora giocavi a carte forse bevevi anche
forse là hai lasciato il meglio delle tue forze

ma c’era in questo qualcosa di bello che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte

Vitĕzslav Nezval

Vitĕzslav Nezval

3° Canto

Le nostre vite sono come circoli viziosi
una volta se ne andava per New York un avventuriero
era un pomeriggio col sole tiepido di maggio
un passante si fermò in silenzio su Broadway
davanti al palazzo West Union Telefraph
dove fischiava come su un quadro di distribuzione
era questo uno strillone e un grande inventore

Mille inventori hanno fatto crack
le stelle non deviarono dalle eterne traiettorie
guardate come vivono serenamente migliaia di uomini
no questo non è lavoro neppure energia
questa è un’avventura come sul mare
a chiudersi in un laboratorio
guardate come vivono serenamente migliaia di uomini
no questo non è lavoro questa è alchimia

Piccola domenica ah quanti rintocchi di campane
centralina senti i campanelli telefonici
i vostri orecchi ascoltano gli amanti
i defraudatori che discorrono di cambiali
i banditi californiani e i notturni assassini
i discorsi telefonici della Grande Praga

Il mondo gioca col vostro timpano
siete divenuto zampillo elettrico
fotomotori di uccelli meccanici
se ne vanno verso le stelle da dove vi ritornano
come dall’uccellatore all’angolo della periferia
annunciando la vostra gloria dai cartelli,
sonnecchiate cinque ore al giorno questo vi basta
in questo somigliate al giocatore d’azzardo

Ogni volta vivere di nuovo e avere una mania
una volta avete scorto in Pennsylvania
la notte e la lampada ad arco da Baker
avete provato la tristezza così come me ieri
sull’ultima pagina del mio romanzo
come un acrobata che attraversò la corda
come una madre che partorì il bambino
come il pescatore che tirò la rete gonfia
come l’amante dopo la dolce voluttà
come l’incedere dei cavalieri dopo la battaglia
come la campagna nell’ultimo giorno della vendemmia
come la stella che si spegne all’alba
come l’uomo che in un attimo perse la sua ombra
come Dio che ha creato la rosa, la notte e il giusquiamo
come Dio che desidera creare le nuove parole
come Dio che deve creare sempre di nuovo
impastando col suo respiro nuovi calici
fa precipitare la nuvola gonfia d’acqua sui campi arati
ma c’era in questo qualcosa che straziava
coraggio e gioia della vita e della morte.
Una sera ai primi di ottobre di quell’anno
misuraste sconfortato il vostro grave passo
lungo il laboratorio del celebre Menlo-Park
fra i regali e la sua corrispondenza
fantasticando girando i pollici per abitudine
avete mescolato a caso i fili di carbonio
l’uccello delle nostri notti con cui a lungo vegliamo
la frusta dei fantasmi delle ombre con cui li cacciamo
i luminosi chirotteri delle passeggiate fantastiche
l’angelo sopra gli stemmi dei cantoni e dei portoni
la rosa dei ristoranti dei caffè e dei bar
le fontane sul viale nell’oscurità della notte
i rosari sopra i ponti dei fiumi delle metropoli
aureola di prostitute di strada
le corone sopra le ciminiere dei piroscafi
lagrime che stillano dalle altezze sopra i piani
sopra il catafalco delle città che le reprime
sopra gli edifici dei templi vecchie mummie
sopra i caffè dove vi sono anime scipite nel fumo
sopra gli specchietti dei vini, sopra il loro eterno inverno
sopra il catafalco della città di languide esalazioni
sopra la mia anima una chitarra scordata
su cui come un accattone delle luci dei sogni e dell’amore
suono e piango cambiando le maschere
con la passione del trovatore io principe e re vagabondo
di una città lussuriosa la famosa Balmoral
dalla sua celebre porta entro sempre nel sogno
attraverso il nero cordone dei miei sudditi e dei carcerati
dei principi delle stragi e delle isteriche carmagnole
delle fiacchere della pazzia e di ruote rabescate
di sadiche passioni per cui suonano le campane
di chimere volanti dai letti sopra i balconi
ubriaco di crudeli avventurose belle donne
ubriaco di voluttà e di schiume insanguinate
ubriaco di tutta la crudeltà che istiga e tortura
ubriaco di raccapricci e di lutti della vita e della morte

Vítězslav Nezval cop

4° Canto

Le nostre vite sono senza ritorno
agonizziamo nei rottami delle illuminazioni
come l’effimera e come i fulmini dei tuoni
già si librano le luci tra le foglie degli alberi
già freme nella neve il filo elettrico
già si avvicina il tempo delle passeggiate luminose
già cercheranno le anime sotto i raggi rontgen
come gli ittiosauri sotto il neogene
già si avvicina all’alba la lancetta d’oro
già siamo testimoni della cinematografia
già per noi schiacceranno gli interruttori
le spettrali ombre del giocatore d’azzardo
già risuonano i gridi e gli applausi
già Edison s’inchina ai suoi ospiti

Già è di nuovo triste l’anima dopo la festa
già siete nello studio e non ci sono più ospiti
quanti inventori hanno fatto crack
le stelle non deviarono dalle eterne traiettorie
guardate come migliaia di persone vivono serenamente
no, questo non è lavoro né energia
questa è un’avventura come sul mare
a chiudersi in un laboratorio
guardate come vivono serenamente migliaia di uomini
no questo non è lavoro questa è poesia

Questa è una intenzione e un po’ il caso
diventare il presidente del proprio popolo
diventare il poeta che superò tutti voi
diventare l’allodola che ruba il seme duracino
essere sempre un fortunato giocatore alla roulette
essere lo scopritore del settimo pianeta.

Migliaia di mele caddero sul naso del globo
e soltanto Newton ha saputo approfittare del suo bernoccolo
migliaia di uomini hanno avuto l’epilessia
e soltanto san Paolo vide i sacramenti
un migliaio di sordi vaga senza nome
e soltanto in uno di loro trovammo Beethoven
migliaia di pazzi già si trascinano verso l’oltremare
e soltanto Nerone seppe incendiare Roma
migliaia di invenzioni ci arrivano in un anno
soltanto in una di loro c’era già quella di Edison

Già di nuovo non dormire già di nuovo non avere certezze
già di nuovo bruciare tutto ciò che arriva alle mani
carbonizzare la iuta il pelo scimmiesco il bastone
le secche foglie delle palme le corde sulla viola
già di nuovo vagare nella propria incredulità
sopra il bambù del ventaglio giapponese
ahimè signore ahimè è questo un ventaglio d’amore
una volta ne avete ricevuto uno da una maschera sconosciuta
quando da giovane con lei vi incontraste al ballo
chi era ah signore rammentatevi
vi congedaste col suo profumo sul ventaglio
ah già di nuovo bruciare tutto ahimè già si contorce
forse era una delle vostre parche –
già di nuovo caricare la sveglia per la notte
già di nuovo con l’alambicco già di nuovo essere Colombo
già di nuovo organizzare la caccia fra i bambù
girare il mondo in lungo e largo
alla ricerca del magico legno del suo ventaglio
come un uomo che cercava quattro capelli d’oro
come un palombaro le perle fra le ombre delle alghe
come Cristo fra le tenebre della via Appia
come un cercatore della felicità tra le nebbie dell’oppio
come l’ebreo errante alla ricerca di una casa
come una madre che vaga dietro il cimitero
aspettando la voce dei bambini dell’oltretomba
come il lebbroso della sua malattia
come l’eremita assetato che cerca Iddio
come gli dei la propria morte quando hanno sete di epoche
come il poeta cieco il suo vero volto
come il viandante lo sguardo sull’aurora boreale
come il pazzo durante l’ultimo giorno del giudizio
come un bambino l’allodola impastando la zolla

Se ne sono andati in Brasile
in Giappone terra di belle magnolie
all’Avana a morire di malaria
come muoiono i missionari
signore avevate di certo un sorriso sul volto
la morte in agguato sotto il bambù
già si presentano per voi dodici sostituti
già si preparano i loro zaini
Mac Gowan trascorse là quasi due anni
si diresse verso il grande Rio delle Amazzoni
le sue acque non hanno né principio né fine
lottò per la vita spesso avventurosamente
sulle rapide di acque mortali
si batté al coltello con avidi cercatori d’oro
arrivando a New York sparì senza lasciare tracce

Come amarvi strade senza meta
voi notti tropicali ubriache di sole
voi luce delle luci voi notti del dolore
voi luci annegate in fondo al mare
voi che morivate così allegramente
divenite voi ora angeli di bambù
io vi ricordo ma chi ancora piange
già di nuovo produrre nuovi interruttori
già di nuovo immergersi in fondo agli alambicchi
già di nuovo avviare una nuova elica
guardate invecchiamo e il tempo passa così veloce
già di nuovo cercare gli elementi per la nuova alchimia
guardate invecchiamo e voi avete ottanta anni
guardate i vessilli come ai raduni dei sokol
le vostre pallide mani come un bianco gesso
no ah questo non è ancora un funerale

ancora vedersi sempre davanti la propria ombra
ancora scomporre gli elementi con gli acidi
ancora di nuovo in brandelli la pelle delle mani
ancora trovare un congegno per le strade verso l’oltretomba
ancora cantare e non avere mai pace
ancora l’ago magnetico per lo spirito umano
ancora dimenticare tutto ciò che strazia
tristezza e angoscia della vita e della morte

Vítězslav Nezval

Vítězslav Nezval

V Canto

Le nostre vite sono consolanti come il riso
Una volta di notte sedendo su un cumulo di libri
ho visto d’un tratto affogare nel fetore della nera stampa
la neve e un grande ritratto di Edison
fu dopo la mezzanotte d’un febbraio avanzato
che mi sorpresi a parlare con me stesso
come se mi fossi ubriacato con un forte vino
discorrevo con la mia ombra assente

Come risonava il refrain sempre qui con lo stesso tono
in punta di piedi m’avvicinai sino alla soglia del balcone
un mare di luci davanti a me palpitava in lontananza
sotto di esso gli uomini già dormivano nei loro letti
ma la notte sussultava come la prateria
sotto le granate dell’artiglieria delle stelle
ascoltavo in silenzio il rintocco delle torri
mirando da lontano le onde sui moli
ombre di suicidi per cui non c’è salvezza
ombre di vecchie puttane di strada
ombre di auto che hanno travolto ombre che camminano
ombre di miserabili che vagano senza tetto
ombre di gobbi ai crocicchi delle strade
ombre gonfiate di rosse ulcere sifilitiche
ombre di uccisi che vagheranno per sempre
intorno alle ombre della coscienza e alle ombre del delitto
ombre camuffate in divise militari
ombre di ubriachi sconvolti dall’amore
ombre di santi che diventarono poeti
ombre di coloro che invano hanno sempre amato
lamentose ombre di meteore di donne perdute
esili ombre di adultere principesse.

ma c’era qualcosa di bello che straziava
l’oblio sul lamento della vita e della morte.

Siate bella siate triste buona notte
più radiosa delle meteore e del loro potere
che un giorno abbiamo conosciuto nelle chiare notti canicolari
riflettori privi delle ombre come fruste
che ci fustigavano sino a una vertigine bruciante
arrivederci segnali che sulle rotaie
mi invitate alle lontananze come rose soffocanti
arrivederci stelle baci della mia anima
che mi aprite i bagni nei giardini
oscuri balsami e odore di garofani
viaggi sulle ali luminose degli aerei
arrivederci crudeli delizie di tanti Edison
sorgenti di pozzi petroliferi voi gloriosi razzi
nobili delle terra senza etichetta
arrivederci stelle che cadete dai bastioni
arrivederci ombre in lontananza sui lungofiumi
ombre del tempo per cui non c’è alcun rimedio
dolci ombre ombre di sogni e di ricordi
ombre azzurre del cielo negli occhi di una bella donna
ombre delle ombre delle stelle negli specchi di acque spumeggianti
ombre di sentimenti sinora senza nome
ombre fugaci come notturni echi
ombre pallide dal colorito opalescente
ombre di respiri di bambini non nati
ombre di madri che pregano per i loro figli
ombre di chimere lungo le città straniere
ombre di voluttà che turbano il sonno delle vedove
ombre di chimere e desiderio della propria casa
Siate bella siate crudele buon giorno
più bella delle meteore delle lagrime e dei giuramenti femminili
amore con cui siamo stati sulle vette delle montagne
raccogliendo i nidi delle stelle e le meteore
arrivederci più belle dei sogni e delle fate
già di nuovo caricare l’orologio per la notte
amico guarda quanti vivono serenamente
no questo non è lavoro questa è poesia

Già di nuovo cogliere nei sogni pallidi gigli
già di nuovo andare al café Slavia
già di nuovo sorbire il nero caffè quotidiano
già di nuovo avere nostalgia e piegare la testa
già di nuovo non dormire, non avere certezze
già di nuovo bruciare tutto ciò che arriva alle mani
già di nuovo udire i suoni di un pianto rattenuto
già di nuovo possedere l’ombra di un giocatore d’azzardo

Le nostre vite sono come la notte e il giorno
arrivederci stelle uccelli bocche delle donne
arrivederci morte sotto il biancospino in fiore
arrivederci addio arrivederci addio
arrivederci buona notte e buon giorno
buona notte
dolce sogno
Edison di Nezval: a. II, n. 3, gennaio-aprile 1987

3 commenti

Archiviato in poesia ceca, recensione libri di poesia

POESIE SCELTE di Andrea Zanzotto (1922 – 2011) da “Meteo” (1996) con un Commento di Giorgio Linguaglossa del 1996

Andrea-Zanzotto di Andre-Aciman-il-paesaggio-come-stato-d-animo

Andrea-Zanzotto di Andre-Aciman il paesaggio come stato d’animo

Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921  Conegliano, 18 ottobre, 2011), nasce da Giovanni, pittore e professore di disegno inviso al fascismo, e da Carmela Bernardi, consegue il diploma magistrale nel ’37. Ottenuta anche la maturità classica (’38), si iscrive a Lettere a Padova: tra i suoi maestri ci sono Diego Valeri e Concetto Marchesi. Sono anni densi di novità per l’autore che, oltre a coltivare la scrittura poetica – alcuni testi composti in questo periodo sono inclusi nella plaquette A che valse? (versi 1938-1942), edita nel ’70 – approfondisce la lettura di Baudelaire, conosce l’opera di Rimbaud e Hölderlin, studia la lingua tedesca. Laureatosi con una tesi sull’opera di Grazia Deledda nel ‘42, l’anno successivo è richiamato alle armi: inviato ad Ascoli Piceno per il corso allievi ufficiali, è sospeso dall’addestramento a causa di una grave allergia e destinato ai servizi non armati. Dopo l’8 settembre trova riparo nei luoghi d’origine e, nelle file di Giustizia e Libertà, collabora con la stampa della Resistenza.

andrea zanzotto

andrea zanzotto

Tornato all’insegnamento con la fine del conflitto, per qualche tempo è in Svizzera; dal ’46 prosegue la sua attività in varie scuole del Veneto. Nel ’51 esce la raccolta Dietro il paesaggio, in cui confluiscono gli inediti insigniti in precedenza (’50) del Premio San Babila. Nel ’54, superato il concorso a cattedre, Zanzotto prende servizio in una scuola media di Conegliano; pubblica nello stesso anno Elegia e altri versi, con prefazione di Giuliano Gramigna. Lavora intanto alle liriche poi raccolte in Vocativo, edito nel ’57. Sposatosi nel ’59 con Marisa Michieli, da cui avrà i figli Giovanni e Fabio, nel ’61 accetta di organizzare la scuola media inferiore di Col San Martino, dove svolge per due anni la funzione di preside. Pubblica, nel ’62, le IX Ecloghe; nello stesso anno, sulle pagine di «Comunità», firma un intervento in cui prende le distanze dalle motivazioni che hanno ispirato la raccolta antologica I Novissimi, uscita nel ’61 per le cure di Alfredo Giuliani. Dopo la raccolta di prose creative Sull’altipiano (’64), dà alle stampe La beltà (’68) e il poemetto Gli sguardi i fatti e senhal (’69). Abbandonato l’insegnamento nel ’70 (ma fino al ’75 continuerà a occuparsi di formazione degli insegnanti), Zanzotto licenzia Pasque (’73) e la raccolta Filò (’76) per il film Casanova di Fellini. Attende inoltre alla trilogia comprendente Il Galateo in Bosco (’78), Fosfeni (’83) e Idioma (’86). Insignito di diversi riconoscimenti – come il Premio Viareggio nel ’78, il Librex- Montale nell’83, il Premio Feltrinelli dell’Accademia nazionale dei Lincei nell’87 –, raccoglie parte della sua produzione critica e saggistica nei volumi Fantasie di avvicinamento (’91) e Aure e disincanti (’94). Negli ultimi anni, ha pubblicato le raccolte Meteo (’96) e Sovrimpressioni (2001). La sua produzione poetica, con una scelta delle prose, è stata riunita e ordinata nel «Meridiano» edito nel 2000.

andrea zanzotto 6

Andrea Zanzotto (1921 – 2012) da “Meteo” Donzelli 1996 pp. 82 £ 16.000
da “Poiesis” n. 10 maggio-agosto 1996

Sangue e pus, e dovunque le superflue
superfluenti vitalbe che parassitano gli occhi,
un teleschermo, fuori tempo massimo.
Dirette erutta e Balocchi

Tu sai che

La città dei papaveri
così concorde e gloriosa
così di pudori generosa
così limpidamente inimmaginabile
nel suo crescere,
così furtiva fino a ieri e così,
oggi, follemente invasiva…

Voi cresciuti in monte su un monticello
di terra malamente smossa
ma ora pronta alla vostra voglia rossa
di farvi in grande-insieme vedere
insieme notare in pura
partecipazione e
naturalmente, naturalmente adorare

Che ridere che gentilezze che squisitezze
di squilli e vanti per la sorpresa infusa
a chi nella note ottusa
non potè vedervi aggredire-blandire
il monticello che fu le vostre mire!

E sembra che là installati
solo ardiate di sfidare a sangue
per nanosecondo il niente, ma
deridendoci, noi e voi stessi.
nella nostra corsiva corriva instabilità e
meschina nanosecondità –
sì quel vostro millantarvi
e immillarvi in persiflages
butta tutto ciò che è innominabile
fuori dal colore
del vostro monticello seduttore…

Un saluto ora non bizzoso, tutto per voi-noi,
sternuto

*

Topinambùr* tuffi del giallo
atti festivi improvvisi del giallo
gialli brividi baci
bacilli-baci

*

Topinambùr
to to torotorotix
augellini lilix
lontani insettini di
vespificato giallo
Ur-giallo lilix

*Pianta erbacea dai fiori gialli accesi che crescono spontanei lungo i fiumi, diffusissima nell’Italia settentrionale

Andrea Zanzotto 5

Commento

Dopo dieci anni di silenzio Andrea Zanzotto stampa questo libro di versi Meteo (1996), «Incerti frammenti» li chiama l’autore; alcune poesie sono di discreta lunghezza, altre sono brevi frammenti. «Più che in passato – scrive l’autore – l’idea che per la poesia non esiste un punto terminale, quello che una volta si diceva “ne varietur”, si è fatta più labile. Molto spesso affido questi frammenti alla carta, come mi vengono, e li ammucchio in un cassetto, anche disordinatamente. La poesia non si scrive su carta speciale. Viene a colpi e a lampi». Zanzotto in una recentissima intervista ha ripetuto che «forse prediligo il frammento, che è anche una composizione un po’ lunga e scherzosa, ma di umorismo nero se si guarda bene (ad es. in quello) intitolato “Tempeste e nequizie equinoziali” dove parlo di una specie di distruzione del cielo operata da una serie di fenomeni che non ci danno più l’idea di un cielo meteorologico, come ad esempio il buco nell’ozono che recita: “Mille teatrini in batuffoli, frammenti / nell’insieme dispettosissimi / ora è quanto è rimasto / di un sospetto di cielo…”, con il finale: “Non ottenesti tu forse la massima pratica orgastica / a testa infilata entro un sacchetto di plastica?”. Continua a leggere

17 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, poesia italiana del novecento, recensione libri di poesia

LA POESIA DI WALLACE STEVENS  di Franco Toscani ‘Prima idea’ e critica della ‘pathetic fallacy’ (Parte II)

Wallace Stevens. Photo of Robert Frost and Stevens at the Casa Marina Hotel in Key West, ca. 1940

Wallace Stevens. Photo of Robert Frost and Stevens at the Casa Marina Hotel in Key West, ca. 1940

  1. ‘Prima idea’ e critica della ‘pathetic fallacy‘

La lingua, nel suo dire essenziale, intende far parlare le cose stesse, di cui “dice” anche il suono e il colore. Nelle poesie e nei saggi pubblicati in The necessary angel   il nesso fra poesia, musica e pittura appare molto stretto ed è più volte ribadito. Scrive ad esempio Stevens: “in poesia le parole, più di ogni altra cosa, sono suoni” ( cfr. AN 107-8,114). E di “dimensione musicale del colore” si è parlato a proposito di Harmonium [1] . Giustamente Fusini, nel suo saggio introduttivo alle Notes , ha osservato che nel poeta americano l’arco acustico è a fondamento dell’arco semantico, “prevale un alfabeto di suoni, soglia preliminare a ogni costituzione in lingua” (N 9,11).

La poesia-immaginazione è “pensiero pulsante nel cuore” che “grazie al candore, ci dà sempre di nuovo la forza/ di ritrovare di ogni cosa l’immacolata natura” (N 62-3), dice le emozioni e i sentimenti di cui l’umanità è sempre stata povera (cfr. Large red man reading , H 512-3, AA 72-3) , non permette che le cose anneghino nell’indifferenza e nello squallore del mondo.

La poesia parte dal disincanto circa la nostra presunta centralità nel mondo: “Di qui sgorga la poesia: viviamo in un luogo/ che non è nostro, e, molto di più, non è noi,/ ed è cosa crudele malgrado i giorni di gloria” (N 64-5). Anziché la nostra centralità, troviamo il centro informe e fangoso, il “muddy center” da cui proveniamo e al quale siamo destinati.

Siamo sorpresi e sconcertati: “ La vita insensata ci trafigge coi suoi misteriosi rapporti” (N 62-3). Nella poesia Nuances of a Theme by Williams (compresa nella raccolta Harmonium , 1923), il poeta scrive contro ogni ipotesi di umanizzazione della natura, rivolto ad una “ancient star”: “Splendi sola, splendi nuda, splendi come il bronzo/ che non riflette il mio volto né alcuna interiorità / del mio essere, splendi come fuoco, che non riflette nulla./ Non partecipare ad alcuna umanità/ che ti soffonda della propria luce./ Non essere chimera del mattino,/ mezzo uomo, mezzo stella./ Non essere un’intelligenza,/ come l’uccellino di una vedova/ o un cavallo vecchio” (H 28-9, 615).

Come ha notato Fusini, v’è una nostalgia dell’origine in Stevens, ma in lui il principio non è logico e razionale, l’esperienza umana è sempre in riferimento al nulla d’esperienza e a quell’ arché alogos  da cui dipende.

 La mente non è all’origine della creazione dell’idea. Stevens vuole risalire alla “prima idea” che permetta l’apertura dello sguardo autentico sulle cose: “Com’è terso il sole se visto nell’idea,/ purificato nella remota chiarità di un cielo/ liberatosi delle nostre immagini e di noi…/ (…) C’era un progetto del sole e c’è ancora./ C’è un progetto del sole. Il sole, ghirigoro d’oro,/ non sopporta alcun nome, ma è/ nella difficoltà di ciò che essere è” (N 58-9).

wallace stevens

wallace stevens

Guardando il sole nella sua nudità essenziale, il poeta trova finalmente il centro che cercava, la ragione del mondo. Pensando il mondo senza il superfluo delle maschere umanistiche, si diventa “a thinker of the first idea” (N 70-1, L 426).

 L’astrazione  consiste allora nell’accogliere il sole come “prima idea”, senza sovrapporre ad essa l’ “umano, troppo umano”. Il progetto del sole sovrasta, determina e condiziona ogni progetto umano. Ciò in cui noi siamo compresi, irrimediabilmente ci sfugge. Non viviamo in una terra cartesiana, il cielo non è il nostro specchio, come crede la pathetic fallacy  degli uomini. Le nuvole, che “vennero prima di noi”, “sono parte di ciò che ci precede, parte del centro fangoso che c’era prima che respirassimo, parte del mito fisico prima che iniziasse il mito umano”  (L 444): è questa l’ astrazione  accessibile ai poeti.

Ora, il concetto di un Dio antropomorfo è al centro della “fallacia patetica”: “Un Dio antropomorfo è semplicemente una proiezione di se stessa fatta da una razza di egoisti, che è per loro naturale considerare sacra” ( cfr. L 349-350, 444; H 214-5, 630-1). Un “Dio troppo, troppo umano” impedisce di godere e di misurare la vita per quella che è (cfr. H 370-1). Se un Dio ci dev’essere, “deve dimorare quietamente”, “essere incapace di parlare”, muoversi silenzioso, come il sole o la luna, scrive Stevens nella poesia Less and Less Human, O Savage Spirit  (1944, H 392-3), già dal titolo di sapore nietzscheano. Dio va piuttosto identificato con l’immaginazione che aiuta l’uomo a vivere meglio (cfr. Final  Soliloquy of the Interior Paramour , H 570-1).

La metafisica ha completamente stravolto e capovolto le cose: “The adventurer/ In humanity has not conceived of a race/ Completely physical in a physical world” (H 386-7). La povertà maggiore è della metafisica, nonostante il suo solenne richiamo agli alti ed eterni valori. “La più grande povertà – scrive il poeta in questa stessa pagina di Esthétique du mal  – è non vivere in un mondo fisico”, rappresentarsi un mondo dietro il mondo, rimanere irretiti nella pathetic fallacy .

All’inizio, però, il venir meno del mondo metafisico provoca sgomento e disperazione: “Che freddo baratro/ quando i fantasmi sono spariti e il realista turbato/ vede per la prima volta la real tà” (H 378-9). Ciò avviene soltanto all’inizio, non si resta paralizzati dal turbamento ; tutta la poesia di Stevens è un invito forte e costante ad andare oltre il “freddo baratro” per vivere in modo più ricco la realtà, anche e soprattutto grazie all’aiuto dell’immaginazione.

[1]   Cfr. R.S. Crivelli, Stevens, grande poeta della luce e del colore ,ne “il sole-24 ore”, 9 ottobre 1994.

wallace stevens quotes 5Wallace-Stevens-Walk-Blackbird-1

The Emperor Of Ice-Cream

Call the roller of big cigars,
The muscular one, and bid him whip
In kitchen cups concupiscent curds.
Let the wenches dawdle in such dress
As they are used to wear, and let the boys
Bring flowers in last month’s newspapers.
Let be be finale of seem.
The only emperor is the emperor of ice-cream.

Take from the dresser of deal.
Lacking the three glass knobs, that sheet
On which she embroidered fantails once
And spread it so as to cover her face.
If her horny feet protrude, they come
To show how cold she is, and dumb.
Let the lamp affix its beam.
The only emperor is the emperor of ice-cream.

from « Harmonium »

L’imperatore del sorbetto

All’arrotolatore di sigari giganti,
quel tutto muscoli, digli di sbattere
in tazze da cucina concupiscenti panne.
Si gingillino le donnette nella veste
che usano indossare e rechino i ragazzi
fiori avvolti in giornali del mese passato.
Sia l’essere il finale dell’aspetto.
Il solo imperatore è l’imperatore del sorbetto.

Prendi dalla cassettiera di abete, senza più
i tre pomelli di vetro, quel lenzuolo
dove una volta lei ricamò delle colombe
e stendilo fino a ricoprirle la faccia.
Se ne spuntano piedi e calli, sarà
per mostrare com’è fredda, com’è muta.
E che affissi la lampada il suo getto.
Il solo imperatore è l’imperatore del sorbetto.

da « Harmonium », traduzione di Giovanni Giudici

Wallace-Stevens-Quotes-1Wallace-Stevens-Quotes-2

Notes Toward a Supreme Fiction

to Henry Church

And for what, except for you, do I feel love?
Do I press the extremest book of the wisest man
Close to me, hidden in me day and night?
In the uncertain light of single, certain truth,
Equal in living changingness to the light
In which I meet you, in which we sit at rest,
For a moment in the central of our being,
The vivid transparence that you bring is peace.

from « Transport to Summer »

 

Note per una finzione suprema

a Henry Church

E per cosa, se non per te, proverei amore?
Terrei il libro più estremo dell’uomo più saggio
stretto, in me nascosto, giorno e notte?
Nella luce incerta della verità singola, certa,
eguale nella vitale mutevolezza alla luce
in cui t’incontro, in cui sediamo quieti,
per un momento nel centro del nostro essere,
la trasparenza vivida che tu porti è pace.

da « Trasporto all’estate », traduzione di Glauco Cambon

 

It Must be Astract

(…)

IV

The first idea was not our own. Adam
In Eden was the father of Descartes
And Eve made air the mirror of herself,

Of her sons and of her daughters. They found themselves
In heaven as in a glass; a second earth;
And in the earth itself they found a green –

The inhabitants of a very varnished green.
But the first idea was not to shape the clouds
In imitation. The clouds preceded us.

There was a muddy centre before we breathed.
There was a myth before the myth began,
Venerable and articulate and complete.

From this the poem springs: that we live in a place
That is not our own and, much more, not ourselves
And hard it is in spire of blazoned days.

We are the mimics. Clouds are pedagogues.
The air is not a mirror but bare board,
Coulisse bright-dark, tragic chiaroscuro

And comic color of the rose, in which
Abysmal instruments make sounds like pips
Of the sweeping meanings that we add to them.

(…)

from « Transport to Summer »

 

Deve essere astratta

(…)

IV.

L’dea prima non era nostra. Adamo
nell’Eden era già padre di Cartesio,
ed Eva rese l’aria di se stessa specchio,

e dei suoi figli e figlie. Si trovarono
in cielo come in uno specchio; una seconda terra;
e nella terra trovarono un verde –

abitanti di un verde lucidissimo.
Ma l’idea prima non era di foggiare
le nubi a imitazione. Le nubi ci precorsero.

C’era un centro fangoso prima che respirassimo.
C’era un mito prima che iniziasse i mito,
venerabile, esplicito e completo.

Da questo nasce la poesia: che viviamo
in un luogo non nostro, e che non siamo noi,
ed è arduo, ad onta dei giorni d’orifiamma.

Noi siamo i mimi. Le nubi pedagoghe.
L’aria non è uno specchio ma lavagna nuda,
quinta fra luce ed ombra, tragico chiaroscuro

e comico colore della rosa, in cui
istrumenti abissali riducono a scricchi
i vasti significati onde li esorniamo.

(…)

da « Trasporto all’estate », traduzione di Glauco Cambon

 

wallace-stevens-riceve-un-premio-1951.j

wallace-stevens-riceve-un-premio-1951.j

Angel Surrounded by Paysans

One of the countrymen:
There is
A welcome at the door to which no one comes?

The angel:
I am the angel of reality,
Seen for a moment standing in the door.

I have neither ashen wing nor wear of ore
And live without a tepid aureole,

Or stars that follow me, not to attend,
But, of my being and its knowing,

I am one of you and being one of you
Is being and knowing what I am and know.

Yet I am the necessary angel of earth,
Since, in my sight, you see the earth again,

Cleared of its stiff and stubborn man-locked set
And, in my hearing, you hear its tragic drone

Rise liquidly in liquid lingerings,
Like watery words awash; like meanings said

By repetitions of half-meanings. Am I not,
Myself, only half a figure of a sort,

A figure half-seen, or seen for a moment, a man
Of the mind, an apparition apparelled in

Apparels of such lightest look that a turn
Of my shoulder and quickly, too quickly, I am gone?

from « The Auroras of Autumn »

 

Angelo circondato da paysans

Uno dei paesani:
C’è forse
un benvenuto alla porta a cui nessuno viene?

L’angelo:
Sono l’angelo della realtà,
visto un attimo affacciarsi sulla porta.

Non ho ala cinerea, né abito smagliante
e vivo senza una tiepida aureola

o stelle al mio seguito, non per servirmi,
ma, del mio essere e del suo conoscere, parti.

Sono uno come voi ed essere uno di voi
vale essere e sapere ciò che sono e so.

Eppure sono l’angelo necessario della terra,
poiché, nel mio sguardo, vedete la terra nuovamente,

spoglia della sua dura e ostinata maniera umana,
e, nel mio udire, udite il suo tragico rombo

liquidamente sollevarsi in liquidi indugi
come acquee parole nell’onda, come sensi detti

con ripetizioni e approssimazioni. Non sono forse,
anch’io, una sorta di figura approssimativa,

una figura intravista, o vista un istante, un uomo
della mente, un’apparizione apparsa in

apparenze tanto lievi a vedersi che se appena
volgo le spalle, subito, ahi subito, svanisco?

da « Le aurore d’autunno », traduz. di M. Bacigalupo

da Wallace Stevens, Harmonium, Poesie 1915 – 1955, a cura di Massimo Bacigalupo, Einaudi, Torino, 1994

 

Wallace Stevens

Wallace Stevens

  1. Un giro attorno al lago

In The Snow Man  (1921) l’uomo è l’ascoltatore del soffio del vento in un paesaggio invernale ; egli ha “a mind of winter” ,  “ascolta nella neve/ e, nulla in sé, vede/ nulla che non sia lì, e il nulla che è” (H 12-13). Ciò sembra molto nihilistico, ma non è così. Lo stesso Stevens rileva in una lettera del 1944 che The Snow Man  va interpretato in  senso  positivo “come un esempio della necessità di identificarsi con la realtà in modo da capirla e goderla” (cfr. L 464; H 12-13,XI; MD 122-3). Le “rupi erose torreggianti sull’Atlantico” di una poesia come  The Irish cliffs of Moher  ( in The Rock , MM 34-35, H 552-3) sono per il poeta “come una ventata di libertà, un ritorno al mondo spazioso e solitario in cui un tempo esistevamo” (L 760).

In The Auroras of Autumn  – ha osservato Fusini nella prefazione all’edizione italiana dell’opera, intitolata La passione del sì – le luci dell’aurora boreale sono “parte dell’innocenza della terra (…). Queste luci non vogliono nulla. Fanno parte, appunto, di una terra né benigna, né matrigna. Ma indifferente, di un’indifferenza che ci salva, tuttavia. Perché non vuole nulla da noi. Solo che stiamo raccolti in essa, come bimbi nel sonno. Il male e il bene non sono un’intenzione della terra” (cfr. AA 27-28,60-61; H 508-9,666, 368-9).[1]

Una volta liberato dalle pastoie metafisiche, “the pensive man” è  “connoisseur of Chaos”, consapevole dell’unità del complesso e della complessità dell’unità (cfr. H 290-3, 641), dell’interrelazione universale che regge tutte le cose e in cui forse si risolve ciò che enfaticamente chiamiamo verità.

Il problema della verità viene da Stevens radicalmente reimpostato in maniera felicemente provocatoria: “Perhaps/ The truth depends on a walk around a lake” (“Forse/ la verità dipende da un giro sul lago”, N 70-71). Così il poeta getta la sua provocazione e il suo sberleffo alla metafisica. La verità è pure in un giro attorno ad uno specchio d’acqua, nell’abitare fra terra e cielo, senza andare a cercare tanto lontano ciò che ci è da sempre molto vicino e che spesso non riusciamo a riconoscere per quello che è. Ci sfugge la misura, ma la misura sta proprio nell’abitare qui sulla terra, nello spazio fra terra e cielo, accettando tutto ciò che questa esposizione significa.

Wallace-Stevens QuotesL’esistenza umana è esposizione all’Aperto e nella sua essenza è rivolta alla cura della terra. La verità dell’uomo si risolve nel problema del suo abitare il mondo e morire. Data l’inseparabilità fra il conoscere e il vivere, decisiva si rivela la questione del luogo . In uno dei suoi Adagia  pubblicati in Opus posthumous , Stevens ha scritto: “La vita è affare di persone, non di luoghi; ma per me è affare di luoghi ed è questo il problema” (OP 158; MM 14).

Allora la poesia sarà, nella sua essenza misurante, individuazione del luogo dell’abitare e la verità “sarà – scrive Fusini nel saggio introduttivo alle Notes  –  conoscenza rivolta al luogo, coinciderà con la ‘cura del luogo’ – come si dice in The rock. Il luogo non è semplice (pre)posizione; quell’ ex  in cui l’uomo è esposto è la casa che dice la separazione, la differenza  in cui l’uomo abita. La ricerca della realtà è cura di questa differenza, di ‘questo luogo, le cose dintorno’” (N 37).

La critica della pathetic fallacy  conduce da un lato a un ridimensionamento dell’umano, a spodestare noi stessi dal trono del mondo che ci siamo arrogantemente costruiti; d’altro lato l’uomo, definito in Esthétique du mal   “the soldier of time” (H 376-7), è pure, in un mondo che mondeggia privo di Fondamento metafisico, misura delle cose, nell’antico senso greco protagoreo e non ancora umanistico. In questo senso, nel saggio The relations between poetry and painting  (compreso in The necessary angel  ), Stevens scrive: “La verità più alta a cui possiamo aspirare, in ogni campo, è che la verità dell’uomo è la risoluzione finale di ogni cosa” (AN 247).[2]

In Chocorua to Its Neighbor  (compresa in Transport to Summer ), la poesia tenta di dire l’umano, ma lo dice in un modo che sfugge completamente alle movenze e ai tratti caratteristici tanto dell’umanismo che assolutizza indebitamente l’uomo quanto di quell’anti-umanismo alla moda che finisce col dimenticare o trascurare ciò che è peculiare dell’uomo stesso, la sua essenziale dignità e povertà: “Dire cose più che umane con voce umana,/ non può essere; dire cose umane con voce/ più che umana, anche non può essere;/ parlare umanamente dall’altezza o dalla profondità delle cose umane, questo è il più acuto parlare” (H 354-5).

Sgombrato il campo dagli equivoci metafisici, ora “The imperfect is our paradise” ( The Poems of Our Climate , in Parts of a World , H 268-9), si ottiene “a new knowledge of reality” ( Not Ideas about the Thing but the Thing Itself , in The Rock , H 586-7, MM 112-3,220-1), il mondo non è più apparenza ingannevole, ma si risolve nella verità stessa (cfr. Landscape with Boat , in Parts of a World , H 310-3). Stevens si muove lungo la strada di un’integrale accettazione del mondo, compreso il suo dolore ineliminabile, sacro e verace (cfr. World without peculiarity , AA 148-151).

 Wallace-Stevens-mind-Meetville-Quotes

  1. Le tracce dei poeti. Stevens e Char

In un aforisma apparso in  Opus posthumous  Stevens scrive: “La grande conquista è la conquista della realtà” (OP 168, N 59). Forse, a questo punto della nostra ricerca, possiamo capire un po’ meglio quanto qui viene detto. Le poesie di Stevens, come ha ben rilevato Hayden Carruth nel 1952, sono “duri confronti con il reale” (cfr. AN 55), soltanto un poco alleviati dalla bellezza e dall’incanto della parola poetica, “finzione suprema”, appunto. Bisogna, credo, abbandonarsi completamente alla bellezza e alla stupefacente ricchezza delle innumerevoli immagini, metafore, figure, suggestioni che popolano i testi difficili del Nostro, a quel suo peculiare turbinio estetico che insieme  rapisce il cuore e ci costringe a pensare radicalmente.

La poesia di Stevens si concepisce “parte della res”, ad esempio “parte del riverbero/ di una notte ventosa com’è”, vuole essere “poesia della pura realtà”, che cerca il “semplice vedere, senza riflessione. Non cerchiamo/ null’altro che la realtà. Dentro essa,/ tutto, comprese le alchimie/ dello spirito, compreso lo spirito che aggira/ e attraversa, non solo il visibile,/ il solido, ma il mobile, il momento,/ l’avvicendarsi delle feste e i costumi dei santi,/ l’ordito dei cieli e l’alta aria notturna” ( An Ordinary Evening in New Haven , in The auroras of autumn , H 532-5).

Il poeta è alla ricerca della realtà e in un tale compito, dissolte le nebbie metafisiche, l’apparenza si risolve nella realtà, il sembrare nell’essere: “E’ possibile che sembrare… sembrare è essere,/ come il sole è qualcosa che sembra ed è./ Il sole è un esempio. Ciò che sembra/ è, e in un tale sembrare tutte le cose sono” ( Description without Place , in Transport to Summer , H 400-1).

La poesia essenziale è l’ “armonia alta” che si pone “al centro delle cose”, in un rapporto strettissimo in cui, per così dire, la poesia diventa mondo e il mondo diventa poesia (cfr. AA 114-9). L’irreale della poesia deve essere creato a partire dal reale, tutta la forza e tutta la potenza dell’uomo immaginativo si sprigionano soltanto a partire dal reale stesso.

sunny-breakfast

sunny-breakfast

La poesia è poesia della realtà nella sua piena libertà espressiva e formale; Stevens si premura di ribadire con forza l’autonomia dell’arte, la sua assoluta esigenza di non aderire acriticamente alla realtà, in particolare agli interessi e agli imperativi politici, sociali, ideologici, morali (cfr. L 402-3, AN 38-39, 103): “Il poeta rifiuta i compiti che altri gli hanno assegnato”,  la poesia va valutata essenzialmente con criteri estetici e formali (cfr. AN 109, 176). Ciò non impedisce che vi possa essere un rapporto fruttuoso fra poesia e praxis , dove la poesia – come ha rilevato René Char – si propone come sguardo in avanti, parola che introduce “una salva d’avvenire”, “la vita futura all’interno dell’uomo riqualificato”.[3]

Il poeta attua per tutti una vigilanza strenua, insonne e inquieta, lascia tracce (“Solo le tracce fanno sognare”, per Char) che vanno individuate e interpretate per consentire gli scatti in avanti (il “bel caos”, diceva Nietzsche) dell’esistenza. La “energia dislocante” della poesia consente di istituire un nesso fragile, sempre pronto ad essere spezzato, fra poesia e politica, un nesso che lascia tuttavia sussistere la piena autonomia di entrambe. Cogliere questo nesso e insieme quest’aria di libertà è qui il problema.

In riferimento alla carica utopica contenuta nella poesia, Char ha scritto mirabilmente che essa “è l’amore realizzato del desiderio rimasto desiderio”.[4] Ciò probabilmente vuol dire non che è condannata alla sterilità e all’impotenza, ma che vi è una reciproca necessità e un reciproco richiamo fra poesia e azione, per cui la prima spinge verso un rinnovamento e un arricchimento di senso del reale, la seconda è indispensabile al necessario farsi-mondo della parola.

In qualche modo la parola, nel suo stesso appartenere al mondo, è pure creatrice di mondo, come scrive Stevens in Description without Place (1945): “la parola è la creazione del mondo,/ il mondo ronzante e il firmamento balbettante./ E’ un mondo di parole da cima a fondo,/ in cui nulla di solido è solidamente se stesso” (H 410-1).

E ancora, nella poesia An Ordinary Evening in New Haven : “le parole del mondo sono la vita del mondo” (H 536-7). L’uomo è il suo linguaggio, gli uomini sono “fatti di parole”, “la vita consiste/ di proposizioni sulla vita” (Men Made out of Words , 1946, H 424-5). Tale essenzialità del linguaggio, oggi compromessa e svilita dal chiacchiericcio mass-mediatico imperante nella nostra “società dello spettacolo”, è propria della poesia se essa è, secondo una bella definizione di Ezra Pound, “l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato”.[5]

Dopo aver citato Rimbaud, per il quale “La poésie ne rythmera plus l’action. Elle sera en avant”[6]  , René Char ha scritto: “La poesia condurrà a vista l’azione, collocandosi avanti ad essa. L’essere-avanti presuppone tuttavia un allineamento angolare della poesia sull’azione, come un veicolo pilota aspira a breve distanza, grazie alla sua velocità, un secondo veicolo che lo segue. Gli apre la via, contiene la sua dispersione, lo nutre del suo slancio.”[7].

Per Char, la poesia è “un chant de départ” (“un canto di partenza”), “pensée chantée” (“pensiero cantato”), “tete chercheuse” (“testa ricercante”) che ha per suo corpo l’azione.[8]   La rifrazione della poesia nello “specchio ardente e offuscato” dell’azione apporterà “le signe plus (+) à la matière abrupte de l’action”.[9] La poesia rifonda l’abitare, “non ritma più l’azione, ma va avanti per indicarle il cammino mobile. E’ per questo che la poesia giunge sempre in anticipo. Essa prepara l’azione e, grazie al suo materiale, costruisce la Casa, ma mai una volta per tutte.”.[10]

wallace stevens harmonium 1

  1. Vigore della trasformazione e parola della povertà

Stevens canta l’indissolubile unità non statica, dinamica dell’io e della realtà: “Chi partecipa ha parte in ciò che lo muta” (N 86-87). Il radicale eraclitismo del poeta consiste nella convinzione secondo cui l’essere non si dà che nell’incessante divenire; tutto muta – le fanciulle, le colombe, le montagne -, il reale è costante metamorfosi, ogni staticità è relativa, tutto è incostante. Senza il mutamento che tutto distrugge e porta con sé non si dà vita umana, non si dà nuova nascita; morte e vita, creazione e distruzione sono inesorabilmente intrecciate, ma la vita tende sempre alla propria affermazione, ogni volta crea con la forza di chi deve lottare per sopravvivere, è sempre inizio, di cui la poesia come suprema finzione è parte.

Il poeta canta il vigore della trasformazione come vigore del mondo, forza dell’inizio che il tempo stimola, accresce e poi tradisce. Leggiamo ad esempio nelle Notes  (non a caso nella sezione  “It Must Change”) : “The freshness of transformation is/ The freshness of a world” (H 472-3). Il mutamento viene inteso in modo eracliteo come unione degli opposti: “ Due cose opposte sembrano dipendere/ l’una dall’altra, come l’uomo dalla donna,/ il giorno dalla notte, e dal reale/ l’immaginario. E’ qui l’origine del mutamento./ Inverno e primavera, freddi sposi, s’abbracciano,/ e ne sgorgano gli elementi della gioia” (H 462-3).

Nel suo stesso dar conto della realtà che incessantemente si trasforma, nel suo esprimere ciò che vediamo così come lo vediamo, la “finzione suprema” deve pure “dare piacere”. Per l’ “intelletto incandescente” di Stevens, la poesia è joie de vivre  particolare che ha come riferimento una joie de vivre  generale (cfr. L 404, AN 39, 134). “Alle fondamenta della poesia di S. – ha scritto Randall Jarrell sulla “Yale Review” nel 1955 – c’è meraviglia e diletto, la gioia del bambino o dell’animale o del selvaggio, la gioia dell’uomo nella sua stessa esistenza, e la gratitudine per essa” (cfr. H 671).

Siamo stranieri sulla terra, abitiamo un luogo che non è nostro, ma questo disincanto non è soltanto tragico. Lo spaesamento originario, preso sul serio, conduce a trovar casa in ogni luogo, permette l’abitazione dappertutto. Proprio il mancato possesso, l’impermanenza e la povertà originaria fanno sì che il viandante straniero trovi talvolta, nel suo errare, sollievo e conforto.

Nell’ultima fase della produzione di Stevens (specie in The Rock  e nelle composizioni raccolte in Opus Posthumous ), uno dei temi che ricorrono più frequentemente è quello della povertà, di cui scrive il Nostro  nella poesia To an Old Philosopher in Rome , dedicata a George Santayana, “negli ultimi anni agnostico ospite di un convento di suore a Roma” (H XVII) : “E’ la parola della povertà che più ci cerca./ E’ più antica della parola più antica di Roma” ( H 560-1, MM 54-55).

Coffee Oranges

Coffee Oranges

La poesia, come canto della necessità, del dire essenziale e più dicente, è canto dell’amore e del dolore, del passare del tempo, del nesso indissolubile vita-morte e il poeta, vecchio e vigile, è impegnato a imparare a morire, a scegliere le parole più appropriate per il distacco definitivo: “una lingua per un calmo addio a se stesso, addio, addio,/ le pacate, beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette” ( The Sick Man , H 590-1, MM 116-7). E’ questo il canto della buona morte, che sopravviene a una vita buona e giusta.

Il punto di partenza, ribadisce Stevens in The Sail of Ulysses , è la povertà, lo stato di mancanza e di bisogno, la necessità (cfr. MM 152-3). Qui viene attribuito alla povertà un senso positivo; solo nel riconoscimento della povertà e a partire da essa nasce la ricchezza autentica dell’uomo. Il senso genuino della praxis  va ricondotto alla povertà, allo stato di bisogno. “Need makes/ The right to use” (MM 152-3). Ecco perché Stevens scrive  in The Auroras of Autumn  che “La povertà s’addice al nocciolo saldo del cuore” (AA 78-79).

[1]   Qui sovvengono i versi di Hoelderlin in Stimme des Volks  (Voce del popolo ): “Indifferenti alla nostra saggezza/scroscian ben anche i fiumi, e tuttavia/ chi non li ama?”. Cfr. F. Hoelderlin, Poesie , cit., pp.64-65.

[2]   Mi sembra che questa peculiare considerazione della “ verità dell’uomo” possa  forse essere utilmente accostata a quella che si palesa nell’opera di Michel de Montaigne. Cfr. Sandro Mancini, Oh, un amico! In dialogo con Montaigne e i suoi interpreti, FrancoAngeli, Milano 1996.

[3]   Cfr. R. Char, Sulla poesia , a cura di Gianluca Manzi, in “lengua” n.13, Crocetti editore,Milano 1993,pp. 94-95.

[4]   Cfr. R. Char, Sulla poesia , cit.,p.94.

[5]   Cfr. Cristina Campo, La Tigre Assenza ,a cura di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi,Milano 1991,p.240.

[6]   Cfr. R. Char, “Réponses interrogatives à une question de Martin Heidegger”,in Oeuvres complètes , Gallimard, Paris 1983, pp.734-6.

[7]   Cfr. R. Char, “Risposte interrogative ad una domanda di Martin Heidegger”, trad. it. in Gino Zaccaria, L’etica originaria. Hoelderlin, Heidegger e il linguaggio , Egea, Milano 1992,p.213.

[8]   Cfr. G. Zaccaria, op. cit., pp.214, 216-7.

[9]   Ibidem.

[10]   Ibidem.

*

Franco Toscani, saggista e insegnante di Filosofia, vive e lavora a Piacenza, dove è nato nel 1955, è membro del comitato scientifico della sezione Emilia-Romagna dell’Istituto italiano di Bioetica, fa parte del consiglio di redazione della rivista “Testimonianze” ed è redattore della rivista “Filosofia e Teologia”.  Co-autore nel volume di AA.VV., Vita e verità. Interpretazione del pensiero di Enzo Paci , a cura di S. Zecchi, Bompiani, Milano 1991. Ha introdotto vari libri di poesia e con G. Zambianchi ha curato il volume postumo di poesie di N. Vegezzi, Terra e carne d’amore , Grafic Art, Piacenza 1995. Nel 2003 ha pubblicato, presso l’editrice Blu di Prussia di Piacenza, una plaquette di poesie, dal titolo La benedizione del semplice (“Prefazione” di C. Sini).Ha collaborato a riviste e a giornali come  “il manifesto”, “Quotidiano dei Lavoratori”,  “Libertà”, “Il Nuovo Giornale”, “Unità Proletaria”, “In-oltre”, “La Balena Bianca”, “La tribù”, “aut aut”, “Alfabeta”, “Nuova Corrente”, “AlfaZeta”,  “Studi Piacentini”, “Città in controluce”, ”dalla parte del torto”, “Qui – Appunti dal presente”,“Testimonianze”, “Filosofia e Teologia”, “Dharma”,”Odissea”, “Koiné”, “La clessidra”, “La Stella del Mattino”. E’ autore con S. Piazza del libro Cultura europea e diritti umani  (Cleup, Padova 2003). Un suo saggio è contenuto nel volume di AA.VV., Il tempo e il soggetto  (Cleup, Padova 2003), di cui è  curatore insieme a G. Olmi e S. Piazza ; tre suoi saggi compaiono in AA.VV., Sulla via della polis infranta , a cura di S. Piazza, Cleup, Padova 2004. Nel 2004 ha curato con G. Zambianchi il volume La rivolta e l’incanto. Poesia, pittura e scultura in Nello Vegezzi ,Editrice Kairos, Piacenza. Del 2010 è il volume (co-autore S. Piazza) Fede e pensiero critico nell’età globale. Testimonianze per una civiltà planetaria, Cleup, Padova. Nel 2011, per le edizioni Odissea di Milano, pubblica i saggi Gandhi e la nonviolenza nell’era atomica e Luoghi del pensiero. Heidegger a Todtnauberg. Del 2012 è il libretto ‘L’azzurro della scuola degli occhi’. Terra e cielo di Hölderlin e  di Heidegger, CFR, Piateda (So).

3 commenti

Archiviato in poesia americana, recensione libri di poesia

LA POESIA DI EDOARDO CACCIATORE – IL MANIERISMO NEUTRO E NEUTRALIZZATO DELLA POESIA di Edoardo Cacciatore (1912-1996) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa del 1997

 

 Edoardo Cacciatore (Palermo 1912 – Roma, settembre 1996). Nato a Palermo da genitori agrigentini, sin dalla prima infanzia Cacciatore si trasferì a Roma dove visse fino alla morte. Negli anni ’50 si rivelò come poeta pubblicando le sue prime poesie (dal titolo Graduali, poi raccolte e nuovamente edite nel 1986) sulla rivista Botteghe Oscure diretta da Giorgio Bassani e patrocinata da Marguerite Caetani. La poesia di Cacciatore si può ricondurre alla forma chiusa: “Nell’accezione di Cacciatore, l’espressione forma chiusa si riferisce a un sistema basato su rigorose regole interne; in tal senso si potrebbe affermare che l’autore faccia uso in tutti i suoi testi esclusivamente di forma chiuse” (Fusco F., Estetica verso noesi in Edoardo Cacciatore, in “il verri”, n. 20, 2002, p. 115). “Cacciatore, manierista, neoretorico, gnomico, è autore di una poesia che costituisce una sorta di apax nel nostro Novecento. È una poesia che non guarda tanto ai modelli italiani coevi o della tradizione in cui ha le proprie radici la letteratura del secolo appena trascorso. Piuttosto si rivolge ai grandi testimoni della crisi – espressiva e conoscitiva -., Eliot o Benn, e intende riformulare le forme metriche chiuse, in una grande varietà di misure e di accenti, verso l’esempio del sonetto elisabettiano, che suggestionò anche Eliot per la duttilità di un metro capace di consentire la mescolanza sui generis di passione e di pensiero, di sentimento e di raziocinio, come scrisse Mario Praz. Cacciatore soffre, nella storia della poesia contemporanea, proprio di questa singolarità, della propria radicale estraneità ai modelli dominanti del secondo dopoguerra”*

(*Patrizi Giorgio Presentazione, in Cacciatore Edoardo, Tutte le poesie, Manni, 2003, pp. 6-7).

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Di Edoardo Cacciatore non sono mai riuscito a leggere più di tre poesie senza un profondo sbadiglio di noia. Cacciatore, di cui si pubblica un’ampia antologia (Il discorso a meraviglia, Einaudi, 1996) ha avuto un momento di celebrità quando Gustav Hocke ne Il manierismo nella letteratura (1959) lo citava come uno dei poeti moderni più interessanti. Cacciatore era allora un signor sconosciuto, senonché questa citazione fu vista come una stramberia del professore tedesco, poi il suo nome fu archiviato. Poi intervennero il ’68, le mode sperimentali, il post-orfismo e Cacciatore fu relegato in soffitta.

In seguito però il poeta fu riabilitato da una parte della critica accademica e fu investito della onorificenza di poeta sperimentale laterale alla corrente centrale dello sperimentalismo tardo novecentesco. Sicuramente lo sperimentalismo ha dato i suoi frutti migliori ogni qual volta ha fatto la sua comparsa un autore laterale o eccentrico (vedi il caso di Amelia Rosselli), ma non mi sembra questo il caso letterario per inaugurare una riabilitazione seppur tardiva. Cacciatore resta, a mio avviso, un epigono maniacalmente avvitato su se stesso, che ha tentato l’originalità stilistica con tutti i mezzi.

Direi che Cacciatore assembla in sé tutti i vizi e i difetti del poeta minore di talento: sperimentale ma di uno sperimentalismo alessandrino, antimetaforico (pletometaforico) e antimetafisico (ma alcuni gli affibbiano anche l’etichetta di metafisico). La sua poesia rivela un faticoso lavoro di “indebolimento” della rima, che diventa talmente debole da risultare del tutto  prevedibile.

Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo

umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

Ora, come tutti sanno, una rima rigorosamente prevedibile rende il verso rigorosamente gratuito. Mi spiego meglio: una poesia che punta tutte le proprie carte unicamente sulla rima, sia pur desublimata, rischia un tonfo quantomeno definitivo ogni qual volta essa divenga una opzione manieristica che si ripete all’infinito per clonazione interna. È ovvio che una rima, ripetuta al’infinito, divenga qualcosa di diverso da una semplice rima, qualcosa che assomiglia alla sua nullificazione, la sua neutralizzazione semantica. La rima, già debole della tradizione del Novecento, subisce in Cacciatore un indebolimento “trasgressivo”, ritorna come un boomerang, sui suoi testi. In altre parole, una rima arcipletorica, equivale ad una rima vacante. La rima assente di Cacciatore è visibile in quanto artificio sperimentale non sorretto da una coscienza critica delle conseguenze di uno sperimentalismo portato alle sue estreme conseguenze. E la riprova di quel che dico è questo componimento portato avanti per ben 287 decasillabi (a ritmo anapestico), con l’invariabile rima in “esterno”.

Come cogiti aleggi l’esterno
E rimugini in cella l’esterno
Crudeltà se le inghiotte l’esterno
Il tumore è un enclave all’esterno
Cioè che fu – cicatrice è all’esterno
Dove mediti? plaf? all’esterno
Nella copula un greto è all’esterno
Nell’orgasmo un acuto è l’esterno
Nei ricordi s’incastra l’esterno
Ma l’anamnesi mena all’esterno
Sembra un sogno e invece è l’esterno…

edoardo sanguineti mani

edoardo sanguineti

Un vero e proprio monumento alla noia, non c’è che dire. Una noia inquietante davvero… Quella che è stata chiamata la “metafora continua” di Cacciatore, io la chiamerei, più modestamente, la rima pletofora, ovvero l’azzeramento della rima, il suo assassinio, questo sì perpetrato scientemente dall’autore. Direi che laddove c’è lo zampillare sempiterno della rima, cessa anche la sua necessità, la funzione della  significazione, e il gioco delle rime diventa una opzione manieristica, una delle varianti dell’estetizzazione manierata e diffusa che si ha oggi…

Il verso di tredici sillabe è modellato, si sa, sul pentametro della metrica classica, ma del pentametro Caciatore rigetta la sua ragione fondante: la narratività. Il tridecasillabo rigorosamente antinarrativo di Cacciatore diventa un verso doppione, una replica descrittiva d’un verso originariamente narrativo. Quello che rimane oggi della sua poesia direi che sono alcuni (rarissimi) lacerti di gusto (cammei rigorosamente forbiti ed asettici) che contribuiranno a depistare questa poesia sul crinale del’assoluto semantico, sganciata dalla lingua di relazione. È un po’ il medesimo vizio della poesia tardo ermetica tanto detestata da Cacciatore. È il solito tema della poesia che pensa se stessa in termini esclusivamente semantici.

Il pensiero di una poesia come un discorso senza l’ontologia, senza il referente del mondo di fuori, è stato un po’ il vizio dello sperimentalismo rimario di Cacciatore. Poesia olistica che vuole sottrarsi al demotico per sua manifesta sfiducia nel concetto di una Lingua che vuole nominare la realtà semantica *.

(* da Giorgio Linguaglossa “Poiesis” n. 14 sett dic 1997, pp. 40-41)
edoardo cacciatore 1

 

 

 

 

SOLLIEVO

Sentire alla lunga è esperienza assai vieta
Protendi quei brividi a farne bersagli
Vi bàzzichi e fissa tu credi la meta
In faccia o di taglio l’azzecchi o la sbagli
È un’altra − lo scopo che lucri è in cammino
Errando ormai va in tutto dissente
Sentire pretendi e ti fai più vicino
Così che il sensorio risulti battente
Chi batte è l’assillo pressante andatura
Il rombo si asserpola e stringe in un dunque
Di balzo è raggianza più in su s’avventura
Felice − tortura quei sensi qualunque
Coatto tu vivi via via coevo
Tu pensi per ordine e provi sollievo

(da La puntura dell’assillo, 1986)

saturno-cassini-4[1]

Saturno visto dalla sonda Cassini

.

Tra schiavo e schiavo non sta più una luna sfatta
Veronica bifronte su bonacce infide
Batte a gong un’inflessione in estrema ratio
Contraffà osanna e belve è che recide
Foschia in trecce e lo iato in realtà riscatta.
Milioni e milioni di semplici siamo
Taglio fu prima poi sutura del potere
Trapezio poi non antropocentrico spazio
Quante mattine scorsero e parvero sere?
Lumi ebbe il mondo e l’homuncio parve più gramo.
Perfino il ferro spinato però non dura
Finirà la guerra è finita e grida Pace
Sequestro è si la vita ma va giù lo strazio
Pregio sempre ha di meno e chi più si compiace
Di dire all’uomo soffri mostro di natura

da Tutti i poteri, Empìria, Roma, 2007

*

I passeri a marzo sono una sonagliera
In noi trova strada il più tenero incesto
Il mattino si adagia accanto alla sera
Il cui sesso scopre con innocente gesto.

da Il discorso a meraviglia, Einaudi, 1996

labirinto aleph

labirinto aleph

Nella luna di luglio

Questa luna che dice ad ogni cosa svestiti
La realtà svela ai sepolcri dell’Appia
Nella luna di luglio due volte superstiti
Al morto prima ed ai vivi poi ch’io sappia
Sopravvivenza mostra un logoro costume
Da un lato all’altro strappato dal collo all’anca
Di ogni sospetto la vita ormai è immune
La nullità consiste si fa pietra bianca
Gli occhi dentro ai quali è un viaggio di laghi
Dimenticano mentre sanno l’accaduto
Non hanno nemmeno l’accortezza dei maghi
Che tengono per dato quanto è risaputo
Questa luna in cui ora andiamo smarriti
È la morte di cui ci siamo rivestiti.

labirinto escher

cornelius escher

 

Eutanasia vanesia

Eutanasia vanesia il tramonto e martella
Arteria occipitale ma mi fo solecchio
Vetri dopo uno scontro e li cantilla a salmo
La luce alieno il passante li scruta calmo
Giudica invece a raccoglierli m’apparecchio
Mentre a tonfo i ragazzi giocano a piastrella

Taglienti frammenti sopra voi m’inginocchio
Chicchi di sangue e so il vostro decorso
Nello spasimo che in ciclo si pavoneggia
Spera d’ordine – già si dispone ogni scheggia
Nel granaio ove il battito offre un sorso
Ai curiosi chiusi nella scorza d’un crocchio
Martellami a pezzi fatuo tramonto lillà
Rovinio è il vero e non morte tranquilla.

saturno-cassini-5[1] (2)

Saturno visto dalla sonda Cassini

Il traguardo della corsa

Corre corre il sangue ma in noi un’altra gara
L’intimità già esterna in storia si stanzia
Controluce la tua mano innocente impara
A macchiare di sangue adulto anche l’infanzia
Mostri e portenti appartengono al fittizio
La sete di sangue soltanto il corpo può berla
Ma tra mano e fronte poggiata un interstizio
S’illumina realmente e concreta in madreperla
Dico a te non credere a chissà quale inganno
L’urto del sangue alla mente al sesso ristagna
L’altra gara che sciama di danno in danno
La terra e il mare che brucia all’aria guadagna
E la cagna che ora ad incitarsi si è morsa
Di sangue non bagna il traguardo della corsa.

Saturno visto dalla sonda Cassini

Saturno visto dalla sonda Cassini

 

 

 

 

 

 

 

 

.

1.
Inutile sperare che la voce
incatenata per i segni astuti
passi di là dai mucchi di rifiuti
elevati sul baratro feroce.
Non vedi il fiume sporco sulla foce
concrescere di fango negli imbuti
del tempo e come livido ti muti
legato all’ovvietà della tua croce?
Adesso che decanta senza scopo
nelle clessidre il fiotto delle idee
per te che non intrecci il prima al poi,
lascia posare quegli occhi di topo
fiochi alla luce delle stanche dee
nel seguire un oblio d’inghiottitoi.

2.
La seta estranea delle guance lisce
ancora m’incatena nella mente
alla prigione delle vite spente
che il tuo scorrere via non concepisce.
Così l’anima intreccia ora alle strisce
delle comete le sue danze lente
e nei cerchi dei voli ibridi assente
al lubrico insinuarsi delle bisce.
Ma che il tuo canto ristesse remoto
era palese dall’istante primo
che tessé nell’incontro la distanza.
Così ritorno da un abbraccio vuoto
a un fuoco fatuo che non bene esprimo
per razionalità di circostanza.

3.
Ora che il giorno incombe nel chiarore
palpitante dell’alba, apro gli sguardi
inconfessati nei calori tardi
che sordo mi riporta un freddo amore.
Così talora senti, nel pallore
dei chiarori invernali in cui ti guardi,
un ritorno d’estate, se ancora ardi
nel fuoco vecchio a un tiepido grigiore.
Ma non era più forse che il fiorire
d’un grumo di corolle nel degrado
ultimo che governa il mondo in fuga.
Interroga perciò questa tua ruga
che la fronte ti schiude sul morire
dei petali, se sfuma il sole rado.

4.
Rade le forme nell’aurora fosca,
se sfrigolano i giorni per angosce,
ora che il senso non si riconosce
più di quanto follia non disconosca.
Così, all’inquieta guerra della mosca
che da gabbie di vetro non conosce
scampo, la mente posa sulle cosce
dell’inerzia la testa e qui s’imbosca.
E di tanti calori non le resta
più che in liquido azoto un fermo fiore,
fragile d’una fredda allegoria.
Pochi compagni hai qui, nella tua festa
solitaria di sogni, ora che il cuore
del tempo in vanità scivola via.

da Tutte le poesie Manni, 2003

 

6 commenti

Archiviato in poesia italiana del novecento, recensione libri di poesia

GËZIM HAJDARI da “DELTA DEL TUO FIUME” GRYKË E LUMIT TËND Inediti – con nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

 

 Faslli Haliti 4

Gezim Hajdari, Foto di Piero Pomponi

Gezim Hajdari, Foto di Piero Pomponi

dalla Prefazione di Giorgio Linguaglossa al libro di prossima pubblicazione nelle edizioni Ensemble di Roma

Il logos poetico di Gëzim Hajdari è governato dalla legge dell’identità nella molteplicità poiché parte dalla presa d’atto dell’esilio fisico e spirituale del parlante il quale non abita più la patria, la Heimat del linguaggio e del paesaggio, perché ne è stato escluso mediante un ingiusto esilio; privato della propria patria, il parlante è costretto a peregrinare di terra in terra, a mescolare il proprio idioma con quello di altri paesi e di altre Lingue, il suo sarà un canto dell’erranza e della trasfusione di Lingue nella Lingua universale-primordiale che sola può ospitare il canto dell’erranza. Disillusione dell’erranza sarà il destino del parlante colui che osa quindi tradire e tradurre il propio canto in un’altra lingua. E il tono epico della singolarità del parlante sarà il tono dominante della lingua, ad un tempo primordiale e originaria, nella quale egli esprime il canto della dimenticanza e del ricordo, dell’esilio e del ritorno impossibile, del tradimento e della fedeltà all’origine. Gëzim Hajdari è costretto così ad inseguire il proprio destino come un Fato pagano: il canto della fedeltà e dell’infedeltà alla propria Lingua e al proprio popolo, di qui il Tragico che incombe su ogni parola pronunciata, il giganteggiamento dell’io, il canto dell’addio («Vado via Europa, vecchia puttana viziata… Addio Europa di muri, impronte delle dita e tombe d’acqua»); infatti la forma di questa poesia è calcata, alla maniera antica, su quella dell’epicedio e dell’inno. È la voce dell’oracolo antico che parla («Io venivo dai luoghi dell’oracolo di Delfi»), che si rivolge alla antica deità-femminile della «savana», del mondo femminile da lungo tempo scomparso che è compito dell’aedo riportare in vita:

Sei una dea negra imbevuta di astri di savana,
sorta dall’oblio dell’arco del tempo.
Attraversi silenziosa la mia carne che brucia,
come la luna piena il bosco oscuro del Congo
nelle notti corti estive.

Porti aria di savana
nelle mani e sul collo di ebano,
stella del Sahara.

I tuoi occhi di antilope – origine delle notti oceaniche,
la tua pelle di seta – profumo di mango,
il tuo corpo di nairone – frutta della passione
sorta dalle viscere della terra rossa,
come la notte del destino.

Un vento erotico soffia dalle Indie,
si sofferma sulle nostre selve incendiate.

Chi ci indicherà la via del ritorno dall’equatore?

Le onde notturne mordono impietosamente il candore
della sabbia bianca sulla riva,
tu tremi.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Il primordiale e il presente combaciano e si sovrappongono, si elidono per creare un altro tempo e un altro spazio entro i quali la voce dell’aedo può riprendere alito e vita. Il testo che riportiamo è rivolto avverso la evangelizzazione forzata della Chiesa Cattolica nei confronti dei popoli dell’Africa; non è l’io del poeta che parla ma la «Volontà di Potenza» della Chiesa Cattolica:

Annuncio il Verbo del buon dio.
Tribù del dio fertile Ashanti , non mi conoscete?
Non sono forestiero, ma sangue del vostro sangue,
custode della Verità,
la mia voce germoglierà da ombra ad ombra
e da verde a verde. Il mio seme prospererà di capanna
in capanna.

magritte

magritte

 Il canto dell’identità ha come corollario il poeta quale «custode della Verità», la non-contraddizione, il suo voler essere simile al canto degli dèi i quali soli possono conoscere la rivalità ma non la contraddizione, la innumerevole ripetizione delle loro gesta nelle loro infinite varianti ma non la loro falsificazione, e i Miti, le gesta favolose, sono il giusto vestito linguistico di questo canto. L’aedo si fa simile ai Morrani (cacciatori di teste di leoni, coloro che uccidono corpo a corpo un leone, che portano sul collo la sua criniera dell’animale come segno di distinzione), si confonde con essi, diventa uno di loro, un essere senza tempo e senza spazio che parla la sua lingua primordiale-universale. L’aedo sposa la Lingua della «savana», la Lingua dell’«Africa»; è la lingua dell’«Africa» a denegare la lingua dell’aedo e a prestargli la propria lussureggiante Lingua ancestrale di miti e di metafore:

Tu, Africa, hai scomunicato il mio Verbo.

faslli_gezim hajdari Il poeta si congiunge con le africane, ama la loro primordiale ferinità femminile, si immerge nella loro femminilità. È una immersione panico-pagana.
È la «crocifissione» il rito primordiale ancestrale mediante il quale il Verbo è diventato carne, ma è un rito ferino, la denegazione dell’uomo pagano originario con il quale l’aedo si è identificato, il rito di «un dio smemorato che non si è mai fatto uomo»; il poeta si dichiara «ospite di Li Po e Du Fu , / sono i miei vecchi amici di gioventù», si rigenera in una sorta di transustanziazione e di trasmigrazione delle anime di tutti i poeti di tutti i tempi, chiede l’ingresso in «Cina», chiede udienza e accoglienza tra gli spiriti dei giusti e dei poeti di tutti i tempi. Il panismo della poesia di Gëzim Hajdari è la diretta conseguenza della sua ribellione alle leggi ingiuste del mondo che gli ha decretato l’esilio. Ecco una immagine epica che potrebbe stare in un film di Kurosawa:

 

 

Al confine della Cina attendo. Dintorno l’eco
del galoppo dei cavalli mongoli,
incendi e città arrese alla furia delle spade
e delle loro frecce avvelenate.

Le guardie rosse non mi fanno entrare
mi chiedono dove vado
e chi conosco in Cina. Oltre le mura,
concubine, imperatori e pagode in festa.

E qui si leva potente il canto di protesta dell’aedo per le ingiustizie del mondo, per tutti gli esiliati del mondo, ecco le «Smokey Mountains», (Montagne Fumanti), queste montagne di spazzatura che rappresentano l’unica fonte di sostentamento di sopravvivenza per duemila famiglie; ecco «Tondo»: una enorme discarica a cielo aperto sul porto di Manila, che comprende le Smokey Mountains; ecco Padre Giovanni Gentilin, di origine italiana di Treviso, che guida una delle parrocchie di Tondo e vive tra i rifiuti. Ecco tutti gli esiliati di tutto il mondo con i quali il poeta si identifica. E il canto dell’esilio diventa, man mano che la lettura avanza, il canto di una umanità degradata dalle ingiuste leggi del profitto e della perdita, dell’oltraggio alla dignità dell’uomo. E il poeta, come un Eracle mitico, erra in tutti i tempi e attraverso tutti gli spazi:

La città di Tutankhamon
dorme ai piedi della Sfinge come un accampamento prima
della battaglia. Gelida la luna sul Nilo ci spia tra i rami nudi
dei datteri. Carri carichi di grano partono verso Roma,
la dolce aria della corte reale mi conduce tra giovani schiave
ed eunuchi. Polvere di chichi di melograno, vaniglia di Zanzibar,
miele di Oman vengono offerti agli ospiti. Dopo i banchetti
e le danze del ventre delle ancelle, nel letto di Cesare,
tra balsami e incensi, mi guida l’infedele Cleopatra.

Il seme del poeta contadino «custode del Verbo» germoglierà e feconderà le giovani donne e la progenie dell’aedo avrà lunga vita, gli uomini si moltiplicheranno e il Verbo tornerà un giorno a signoreggiare nella terra dei «tiranni». Da allora il poeta ha «vissuto solitario / errando di esilio in esilio / condannato dalle tuniche nere / per aver praticato il culto del peccato», il suo canto è alto e potente, come il suo seme, e germoglierà sui tiranni e vincerà sull’esilio decretato da uomini vili e ingiusti. L’aedo è il nuovo Messia, colui che èstato «incaricato» dal Signore per rinnovare le stirpi degenerate:

Toccatemi, sono fertile, virile
uomo in carne ed ossa,
il Signore mi ha incaricato

*

Non voglio essere il tuo figlio,
né il creatore dei corpi celesti,
né attendo la gloria eterna,
voglio essere beato nella vita odierna
in cima alla collina buia di siliquastri

gezim hajdari

gezim hajdari

 Il «contadino della poesia» è l’aedo primordiale, colui che proviene da un altro tempo, e che buca il tempo per giungere, integro e vergine, al nosro tempo dei «tiranni», è colui che restituisce «dignità al Verbo», che parla con la voce autentica della sua virilità primordiale, che restituisce «il tempio delle Parole distrutto dai rampolli del minimalismo sterile»; «fare il contadino della poesia, significa dire la verità», «fare il contadino della poesia, vuol dire essere chiamato traditore e nemico della patria». Ecco, siamo giunti al termine del viaggio, l’aedo è un essere ancestrale, un centauro metà animale e la testa di uomo, metà uomo civilizzato e metà uomo-infero, che ammette una sola signoria: la pulsione dell’eros pagano e primordiale avverso la religione delle «tonache nere» e dei «tiranni», la religione del Potere del mondo contemporaneo, «l’inferno degli eunuchi». La poesia diventa canto orale e corale di guerra e di resistenza attiva, atto di belligeranza e di oltranza, in una parola ridiventa Leggenda, Mito. La sintassi diventa paratattica, va per accumulo, ad ondate, un’onda segue un’altra, l’aedo passa attraverso il Tempo e lo Spazio, grida: «Annuncio il Verbo tra le tribù del Dio fertile Ashanti», «Tu, Africa, mi hai scomunicato / La mia infanzia giace nei Balcani… Sono entrato a Casablanca dalle mura dell’Est / Ho attraversato il Sahara… Le donne di Segou lavano i panni nel fiume Niger… I giovani cheleb muscolosi con i corpi dipinti… Ho attraversato il fiume Niger insieme con le carovane del Sahara… In Egitto sono entrato di notte… Kampala, capitale dei feroci dittatori… I pellicani a stormi… L’inferno degli eunuchi… Custode della mia uva…». Le ultime parole di questa gigantografia dell’io escono come smozzicate, intorbidate dall’immane sforzo sostenuto, quasi balbuzienti. E proprio per questo purissime, vere.  (Giorgio Linguaglossa)

gezim hajdari

gezim hajdari

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(a Roma)

Tu sei nata dall’esilio e in esilio,
sulla terra del Fato,
promesso dall’oracolo di Apollo,
in memoria dell’ultima notte di Troia in fiamme.

Qui un giorno Enea
giunse sulle sponde del Tevere
e pose la prima pietra della città eterna,
accompagnato dai miei avi dell’antica Butrint.

Roma: patria degli esuli,
città in fuga verso la leggenda e il destino

magritte

magritte

 

 

 

 

 

 

 

 

Gezim Hajdari a Venezia

Gezim Hajdari a Venezia

 

 

 

 

 

 

 

 

Vado via Europa, vecchia puttana viziata.

I tuoi ruderi non mi incantano più,
i tuoi specchi e i tuoi abissi hanno ingannato il mio esilio,
ferito il mio mesto corpo dell’Est
davanti ai falsi altari impietriti.

Addio Europa di muri, impronte delle dita e tombe d’acqua.

La mia patria mi ha costretto ad andare via,
i tuoi santi mi hanno abbandonato sotto la pioggia,
come straniero.

Domani, di buon ora,
partirò con la prima nave del Tirreno,
dal porto del Circeo,
accompagnato dai canti mortali delle Sirene,
verso la Croce del Sud
senza voltarmi indietro.

Nei deserti lontani m’aspettano viandanti sconosciuti,
guerrieri di tribù antiche, danzatrici del ventre;
ruberò fanciulle dalle corti dei re di confini,
come Halìl di Jutbìna delle Bjeshkëve të Nëmuna ,
per donarle in sposa al mio signore
e dare vita ad una nuova stirpe.

Incendierò le vecchie lingue arrugginite,
mi scrollerò di dosso identità, cittadinanze e patrie matrigne;
voglio trascorrere i miei anni in prigione,
lontano dai miei libri,
con banditi onesti e fuorilegge.

Addio Europa del sangue versato in nome dei confini assassini
e delle bandiere insanguinate.

Domani, di buon ora,
partirò con la prima nave del Tirreno,
dal porto del Circeo,
accompagnato dai canti mortali delle Sirene,
verso la Croce del Sud

Continua a leggere

5 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, poesia albanese, recensione libri di poesia

Adriano Accattino da “Poesia dell’impoetico” e un inedito, con una nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

Adriano Accattino 

wassily-kandinsky-yellow-red-blue-1925

wassily kandinsky yellow red blue 1925

Adriano Accattino Poesia dell’impoetico Mimesis, Milano, 2012 pp. 130 € 14

Questo libro di Adriano Accattino, un mix di componimenti riflessivi sull’essenza del «poetico» e di considerazioni sull’«impoetico», è una singolare riflessione sulla riconoscibilità del «poetico» nel suo rapporto fenomenologico con l’«impoetico». È una riflessione sull’essenza ontologica della poesia come di un ente che si situa all’interno e all’esterno di un altro ente che l’autore chiama l’«impoetico». Che cos’è l’«impoetico»? Accattino lo rivela subito: il «poetico» è «l’impoetico non ancora rivelato». E così continua la sua interrogazione, si chiede: che cos’è il «poetico»?, «è agevole individuare una composizione poetica: ci soccorrono la letteratura, la scuola, l’orecchio; ma di fronte all’impoetico ci troviamo del tutto impreparati. Esso… è un poetico altro, lontano ancora dal diventare universalmente noto e accolto. Non è un valore affermato, ma qualcosa che si deve andare a cercare e si deve imparare a riconoscere… L’impoetico è dunque una questione di scoperta precoce… Per scovare l’impoetico e cioè il poetico non ancora rivelato, il cercatore s’indirizza a un segnale, a un richiamo che l’impoetico stesso alza: l’affermazione… della sua poeticità, mentre tutti sono convinti del contrario. (…) Il problema sta dunque nel riuscire a captare l’impoetico nel momento in cui appare…». (p. 114)

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Dunque, tra il «poetico» e l’«impoetico» si instaura una sorta di nemicizia, di estraneità e di oppositività. Il discorso di Accattino è dunque una riflessione sulla riconoscibilità di un demanio (il poetico) che esclude sempre l’altro (l’impoetico); una oppositività non dialettica né dialogica ma che definirei ontologica e topologica. Ciascuno dei due demani occupa un luogo, ma si tratta di un luogo post-dialettico, instabile, «liquido» per dirla con un aggettivo alla Bauman, che io invece tradurrei con «soffice», dove interno ed esterno si scambiano di posto, e così l’alto e il basso sono delle cose non più misurabili o perimetrabili. Tra il poetico e l’impoetico si stabilisce una relazione come di vasi comunicanti, di traslazione-versamento di un liquido da un contenitore all’altro.
C’è il rischio, ovviamente, che con questa impostazione del discorso non resti spazio alcuno alla interpretazione del testo intesa come attività critica in quanto essa resterebbe sempre dipendente dal concetto di poeticità prevalente o maggioritaria. Ciò che oggi sta in un contenitore domani starà nell’altro. L’attività critica si ridurrebbe ad essere una mera attività di contro spionaggio.

magritte-2Una sorta di bocciatura in toto del pensiero critico che proviene dalla stessa percezione dicotomica entro la quale Accattino vede la questione della poesia. Il risultato di questa impostazione concettuale è la convinzione secondo cui il poetico apparterrebbe alla sfera del «miracolo»: «la miracolosa transustanziazione dell’impoetico nel poetico»; «ma quale senso può mediarsi da ciò che è immediato o non è? (…) La poesia non tollera intermediari né intromissioni; resta inspiegabile e non sopporta spiegazioni, che in effetti la impoveriscono. È una lingua speciale che non può essere interrotta dai nostri grugniti di commento» (p. 87).
Dove è evidente che dichiarare «l’inspiegabile» della poesia equivale a dichiarare la bancarotta del pensiero critico.

«La poesia… tende a trasformarsi nel proprio opposto, l’impoesia, mentre questa, a sua volta tende alla poesia» (p. 118) «la poesia si nutre del suo contrario e verso il luogo del contrario si muove e si sviluppa (…) Continuamente insoddisfatta di sé, si spinge verso qualcosa che le sta fuori e oltre: dilaga verso l’esterno (…) mentre la poesia si allarga a coprire e incorporare nuovi spazi, insieme si ritira dai vecchi ambiti ed espelle le vecchie sostanze» (p. 121).

Molto brillanti e acute sono alcune riflessioni e aforismi sparsi nel testo, ad esempio: «spiegare il senso della poesia è come alitare su uno specchio e disegnare col dito ciò che si vede dal riflesso»;.(p. 87) Al di là di ciò, altrettanto indubbio è che l’adozione di un impianto concettuale dicotomico preclude all’autore l’approfondimento della questione, questa sì ontologica, della esistenza della poesia nel nostro tempo, della sua giustificazione ontologica, della sua funzione conoscitiva, del suo essere una funzione antropologica dell’uomo nel corso storico della sua civilizzazione, del suo rapporto con l’attuale fase di civilizzazione. (Giorgio Linguaglossa)

 

anish-kapoor-art-7[1]

anish-kapoor-art-7

da “Poesia dell’impoetico”

Molti corrono lungo la superficie
dell’esterno, altri al suo interno:
pochi all’interno dell’interno
e pochissimi si buttano fuori
dall’interno nel cavo sfondato.

Ma veramente speciali sono quelli
che spaziano su tutto e dall’esterno
dell’interno, e poi risalgono
nello spessore fra le due facce.

*

Se sloghi
le sue giunture
se smonti quella scatola
evi pratichi aperture,
puoi trovarti fra le mani
un resto lucido e bello
o anche uno sterco
ributtante: cento volte
questo e una quello.

Sarebbe facile
consegnarti la ricetta;
ma esiste solo
quando riesce; la seconda
volta che la applichi
non funziona più.
Ogni volta ti tocca
cambiare: questo rende
la faccenda divertente.

*

Orfeo Giorgio De Chirico

Orfeo Giorgio De Chirico

Una parola non resta
la stessa: ogni volta che è profferita
si differenzia dalle mille
apparentemente uguali
pronunciate prima.

Per un granello di diversità
modifica la muraglia
del linguaggio:
toglie qualcosa e aggiunge
qualcos’altro.

Così il linguaggio risulta
un corpo variabile,
in continua avanzata su un lato
e in continua ritirata su un altro;
in tal modo si sposta.

*

Poesia è quanto mai lontana
da ogni stabile fondamento;
ciò che viene fermato per forza
di parola è perduto alla poesia.
La mobile parola, invece, non lotta contro
il travolgimento ma lo seconda;
non fissa il limite all’illimitato,
non riduce a misura lo smisurato,
non impone blocchi all’agitato.

La parola poetica consiste
in altre condizioni: così
essa resta all’aperto e nomina.
Se non possiede la facoltà
diretta di dare nome ed esistenza,
di donare senza mediazioni, non serve;
tra mondo e parola è riuscito
a infilarsi quel solito terzo incomodo
che fa da padrone nella storia.

*

Poesia è un colloquio impossibile.
Non costituisce certo
il fondamento su cui
ci troviamo uniti. Assolutamente
non fa nulla per sorreggerci.

Non facilita gli incontri
che presuppongono l’appartenenza
a uno stesso piano: qui
le lingue sono quanto mai distanti.

Ci si può ridurre in comune a prezzo
d’altezza; ci si mette
a comunicare diminuendo
la velocità. Ma qui altezza
e velocità sono sempre al massimo.
Sole con cerchi

Inedito: ARIE CONTRARIE

A

È dunque tutto cavo
e solo la vacuità esiste?

Ecco cos’è quest’illusione
che stenta e si trascina!

A

È dunque tutto colmo
e solo la pienezza esiste?

Ecco cos’è questa certezza
mai spenta che va baldanzosa!

B

O parola che manca!
Che cosa capire del senso
se oscuro è il fondo?

Che cosa comunicare
se resta indecifrabile
il nesso?

Si procede dall’interno
verso l’esterno, dal fondo
verso la superficie,

ma ciò che preme è andare
da quell’interno verso
l’altro interno, da quel fondo
verso il fondo sottostante.

B

La consapevolezza avere,
che non sia supponenza
ma chiaroveggenza;

la cognizione lasciare in fondo
quando a galla si forma
quella schiuma vaporosa.

La consapevolezza segreta
che non mostra neanche un osso
e si stempera nell’incolpevole.

Abbia un senso smarrire il senso.

C

Beato il poeta che sa stringere
le sue scritture in poche pagine.

Beatissimo quello che le riassume
in poche parole. Angelico colui

che di queste parole ne ha
così tante da riempire cento libri.

C

Di mille parole reperire
quell’una che le riassuma

e come questa
trovarne poi altre mille.

D

Luogo dove si consuma
l’essere. Dove la parola

s’addossa al biancume
e lo scrivere si estenua
cadendo a gocce rade.

Luogo che mostra
lembi di ferita.

D

Luogo dove si smorza
lo scrivere, nel pari tempo
presente
e assente in una specie di ondulante interregno marino.

E

Perviene il vincitore,
diverso in quasi niente
dal perdente.

Ogni vittoria s’impone
per il peso di una piuma.

E

Supera il colmo, vincente
per un pelo,

il velo d’acqua sborda
come se riempisse il cielo

non trabocca più di un filo
ma quel filo lega il mondo.

F

L’inizio risulta d’improvviso
sorpassato,

l’opera incominciata
irrimediabilmente tardiva.

Esercizio di mente, questo
lavoro è fatto per niente.

F
Si evidenzia uno spessore
dove viene a mancare;
un’ombra quando
si entra in luce;
un avvallamento
dove la costa si rileva.

Si conosce una forma
dal bordo che la contiene,
oppure da ciò che dall’esterno
delimita il suo contorno?

G

Sulla piatta dimensione
della pagina segni
raggelati nell’istante
in cui stavano cercandosi.

Questa gabbia
ha preso il posto di altre
cento che si sarebbero
potute combinare.

 

G

Una forma si assesta
su cento soppresse;
una forma si stabilizza
su perdite irrimediabili.

Vale infinitamente meno
la forma che si è fissata
di quelle che sono trascorse
senza potersi impaginare

1 Commento

Archiviato in critica dell'estetica, recensione libri di poesia

Antologia L’amore ai tempi della collera a cura di Roberto Raieli letto da Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Antologia L’amore ai tempi della collera a cura di Roberto Raieli Lietocolle, pp. 239 € 15

Ha scritto Salvatore Martino in un recentissimo commento nel blog lombradelleparole.wordpress.com a proposito di una Antologia della poesia contemporanea proposta dal blog : “Dai libri che ricevo molto spesso, dalle infinite presentazioni, dal fiume che naviga su internet sono arrivato alla conclusione quasi imbarazzante e forse pericolosa che il discorso poetico sia diventato un prodotto di massa. Chissà! In un tempo quasi per me archeologico pensavo che la poesia fosse una rara avis, un gioiello posseduto da una elite, tanto difficile, impervio, angoscioso mi pareva il percorso per arrivare ad un risultato di livello frutto del talento innato e della techné, della lettura, dello studio, della bottega dove frequentare uno o più maestri. Arrivato ad una età dove chiamarsi vecchio è obbligatorio mi avverto spiazzato, incapace di comprendere questa nuova realtà. Una cosa so di certo: rarissimamente leggo poesie fatte di immagini, in qualche modo emozionanti, di musica e di pensiero. Molta approssimazione e il più delle volte un andare a capo fatto solo per dissimulare una scadente prosa. Ma allora perché questo prodotto fluviale di massa non diventa anche una fruizione di massa”.

OLYMPUS DIGITAL CAMERASempre sul blog,  ho replicato: “Rispetto la posizione di Salvatore Martino, che coglie alcuni aspetti emblematici come quello dell’a capo… ma non mi sento di condividerla… oggi la poesia contemporanea sembra aver smarrito qualsiasi regola certa dell’a capo, è vero, ma questo, secondo me, invece di essere un difetto, rischia di diventare un elemento positivo; voglio dire che la poesia contemporanea sembra essersi liberata di questo problema, voglio dire che il problema sembra essersi dissolto come neve al sole… Per la verità anche ai tempi di Leopardi e nel Settecento in piena arcadia si contavano migliaia e decine di migliaia di poetanti, e così anche ai tempi di Catullo, certo oggi il fenomeno si è diffuso, è diventato un fenomeno di massa, ma non può certo dirsi che poeti di lunghissima esperienza e cultura come Renato Minore o Laura Canciani (tanto per fare due nomi a caso) non sappiano come e quando andare a capo… il fatto è che presso altri più giovani autori è mutato il concetto di poesia, Ivan Pozzoni dichiara di fare anti-poesia, di voler mettere della dinamite nella poesia, quindi rimproverargli di non avere una regola aurea per la sua versificazione è un rimprovero che non centra il bersaglio, perché quel bersaglio Pozzoni non lo vuole proprio colpire, lui cerca un altro bersaglio: quello della poesia che fa finta di dire qualcosa, che si affida alle aure, alle atmosfere sentimentali, alle dorature, alle stuccature pseudo sperimentali di tanta altra poesia. E poi, se si legge con attenzione e senza pregiudizi, mi sembra che gli autori di questa puntata dell’Antologia abbiano delle qualità.
Contrariamente al mio pessimismo degli ultimi anni, forse mai come oggi la poesia contemporanea è viva, vitale, effervescente… forse manca il Leopardi, ma, in fin dei conti, chi lo può dire con matematica certezza?”. Continua a leggere

3 commenti

Archiviato in recensione libri di poesia, Senza categoria

Angiola Ferraris Nell’aereoplano del firmamento. Manifesti e poeti del primo futurismo italiano (1909-1920). Lettura di Giorgio Linguaglossa

Nell’aereoplano del firmamento. Manifesti e poeti del primo futurismo italiano (1909-1920) a cura di Angiola Ferraris LietoColle, Faloppio, 2013 pp. 274 € 20

opera di Ardengo Soffici

opera di Ardengo Soffici

Il Manifesto del Futurismo apparve in anteprima sul Giornale dell’Emilia di Bologna, in data 5 febbraio 1909. Pochi giorni dopo, il 20 febbraio 1909 viene pubblicato su Le Figaro a proprie spese da Filippo Marinetti con ben altra diffusione mediatica, Parigi era allora la capitale dell’arte, della letteratura e della cultura. Così, da quest’atto individuale di un intellettuale italiano di genio di cultura francese, si dà inizio a quell’effetto domino delle avanguardie dei primi anni del Novecento in tutti i paesi europei. Il futurismo è una proto avanguardia, ha elementi dell’antico mondo ma capovolti, ribaltati nel loro contrario, porta in sé una fortissima reazione a quello che viene chiamato il «passatismo», gli antiquati valori borghesi, l’arte del passato recente e lontano, i musei, il chiaro di luna, i sentimentalismi decadenti e romantici.

La Proto avanguardia (e prima avanguardia europea), ha in sé già dagli inizi tutte le contraddizioni e la vitalità della nuova civiltà di massa già agli albori con il suo culto per la velocità, il Progresso e la mitologizzazione dello stesso nelle sue varianti: il treno, l’aeroplano, l’automobile («più bella della vittoria di Samotracia»), le fabbriche con le ciminiere fumanti, le città percorse da tram e autobus, le città brulicanti di cittadini piccoli borghesi («le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne… Canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne»). Di qui il famoso assioma: «Non v’è più bellezza se non nella lotta»; di qui il culto per la «guerra, la sola igiene del mondo». Continua a leggere

1 Commento

Archiviato in recensione libri di poesia

Fabrizio Dall’Aglio “L’altra luna” (Passigli, 2006) letto da Giorgio Linguaglossa

 foto-donna-macchina-e-scarpa  Nella poesia di Fabrizio Dall’Aglio (nato nel 1955 a Reggio Emilia), c’è ancora un modello e una secondarietà, c’è ancora il calco sonoro dell’endecasillabo della tradizione impiegato come unità ritmica e tonica, come mattone della costruzione poetica, ma è caduta tutta l’impalcatura del discorso suasorio incentrato attorno ad un «io» depositario della stabilità e della leggibilità del mondo. È caduta la speranza che il «mondo» sia leggibile, neanche nella sua riduzione al «quotidiano» e alla «cronaca», neanche nella riproduzione del «quotidiano» e della «cronaca» nel discorso poetico; è caduta la posizione dell’«io» nei confronti del «noi» e nei confronti della Storia. Rimangono dei simulacri (il mondo, l’io, la luna), dei feticci dinanzi ai quali non si può fare che poesia al negativo, poesia della negazione della posizione dell’«io».

Già da Leopardi in poi è invalsa l’immagine della «luna» come metafora dell’arte nella società moderna. La luna equivale all’enigma dell’arte e alla crittografia dell’io. Nella poesia di Fabrizio Dall’Aglio la «luna» non parla, non viene interrogata, sta muta in alto come un enigma appeso nel cielo. La luna parla come la fata nelle favole: «tu vuoi l’avventura?, ti sia concesso il sempre uguale»; la luna parla con il proprio mutismo molto meglio che con la parola; le parole della luna sono la sua luce notturna, il chiaroscuro; lo sguardo che cade dalla luna è simile allo sguardo che cade da un altro pianeta: è l’incomprensibile e l’incomunicabile che fa della luna l’alter ego dell’«io», la faccia nascosta dell’«io», quella in ombra, che corrisponde specularmente al lato in ombra della luna. È l’immagine dell’irriconoscibile che irradia nell’«io» la sua inquietudine: «era la luna, la puledra gialla / e mi fremeva in corpo la sua luce»; «appendevo la luna alla finestra»; «la luna conficcata ad un lampione». L’immagine della luna è anche il contraltare alla immagine dell’«io», così come l’«io» si duplica e si moltiplica la luna invece resta sempre eguale a se stessa, la rappresentazione del sempre uguale di contro alla dispersione della molteplicità dell’«io». La tematica della duplicazione dell’io e delle sue innumerevoli tracce è centrale nell’opera di Dall’Aglio fin da Hic et nunc (1999), che raccoglie le poesie composte dal 1985 al 1998. Scrive Dall’Aglio: «Avevo cambiato pianeta. / Continuavo la mia vita / sulla terra, / ma avevo cambiato pianeta. Succedevo a una morte / – la mia stessa – / accaduta altre volte / altre volte ripresa». È una sorta di metempsicosi laica e terrena priva di metafisica e ricca di sobria accettazione del pianeta sul quale poggiamo i piedi. Paradossalmente, in Dall’Aglio la rivendicazione de «l’altra luna» corre parallela alla valorizzazione dell’«io», ma è un «io» espropriato quello di cui è questione, che oscilla tra l’estraneazione (Entfremdung) e il familiare, il grottesco e il falso sublime, la maschera dell’«io» e la maschera dell’apparenza. L’impiego prevalente dell’endecasillabo e dei suoi sottoprodotti vuole essere il paludamento alto di una materia prosaicizzata, insonora, umile, desacralizzata quale è il viaggio dell’«io» nel mondo, o meglio, il viaggio dell’«io» nei pressi dell’«io», nei luoghi di sosta dell’«io».
La teologia dell’economia, il vantaggio che l’etica mostra dinanzi all’estetica, corrisponde bene alla economia da teologia domestica qual è divenuta oggi la poesia che ritenga di essere ancora il baricentro della stabilità dell’«io». La poesia di Dall’Aglio si riscatta da questa deriva utilitaristica con il proclamarsi, appunto, infungibile ai valori dell’etica e del mercato borghesi, ai valori pseudo estetici dell’economia domestica travestita da «quotidiano», o da «cronaca»; in quanto «la vita è nemica della vita», ne consegue che la vita non è qualcosa di immediatamente traducibile in una formalizzazione già posta o da porsi. È questo l’assioma da cui parte la poesia di Fabrizio Dall’Aglio, ed è un principio che va dritto in rotta di collisione con quanto asserito dal modello poetico di Giovanni Giudici di mettere la vita in versi o che la vita possa fornire materiali per i versi. L’opera del poeta di Reggio Emilia rappresenta la sconfessione drastica di quel positivo proposito.
da Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, 2013

Fabrizio Dall'Aglio.

Da “Quadri scene” in “L’altra luna” (Passigli, 2006)

A conti fatti, nelle pulsazioni
non sente che la voce del silenzio.
Impara a non pensare, prende tempo
e costruisce un’umile disfatta.
Con lui vorrei rialzarmi ed ai suoi piedi
deporre il mio tesoro di conquista,
il mio lembo di vita accovacciata
spremuta come scorza di limone.
Vorrei il suo corpo, la sua condizione,
il suo languido senso di potenza.
Vorrei partecipare alla sua lenta
combustione del mondo, alla sua fede
che non crede e non vede e in nome
del suo dio miracolato poltrire
fra le frattaglie della conoscenza.

*

Non era pioggia, no, non era neve
non era sole o vento, e la stagione
era soltanto il suo ristretto spazio
un plastico di tempo, una visione.

Non era prima, no, non era dopo
non era notte o giorno, si staccava
e si fissava in un istante vuoto
di te, di me, di tutto ciò che c’era.

Non eri tu, no, non ero io
non era bocca corpo mano occhio
ma abbandonato in fondo al suo riflesso
l’inutile bagliore di uno sguardo.

Da “Nel ventre” in “L’altra luna” (Passigli, 2006)

Ora ha unghie allungate
la tua mano,
disegna fiori e linee
di steli e sopra
cieli con angeli ammaestrati
che si esibiscono
nel circo di Dio.
Qui, sopra la terra,
il mondo è umido
e grigio di pianto.
Un santo
si lamenta a mezza voce,
un uomo impreca,
un altro sta aspettando la sua fine.
E il tempo intanto
spreca le sue giornate
in mezzo a questa guerra
non dichiarata,
dove la vita dorme
sul confine.

*

C’era un suono, e mi sembrava
il vuoto di una casa, porte aperte,
tutto aperto, cassetti, ante, finestre,
un suono che passava, i quadri
che battevano nei muri, le tende
gonfie d’aria, avviluppate,
e fogli, fogli pieni di parole
un castello di carte senza senso,
pizzi, bottiglie, piatti, tovaglioli
tutto disperso, tutto senza posto
un suono scritto come voce,
e inchiostro, inchiostro sopra il pavimento.

1 Commento

Archiviato in recensione libri di poesia

Anna Ventura: Una poesia – La parola alle cose – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

foto-video-vuoto

Il Vuoto

Di recente, mi è stato chiesto che cosa intenda per «autenticità» e «identità» in poesia. Per abbozzare una risposta dovrei scrivere un trattato, cosa impossibile ovviamente, perché non ne ho né i mezzi, né la competenza, né il tempo. Però tenterò di rispondere citando una poesia di Anna Ventura dal titolo «La parola alle cose», tratta dalla raccolta Le case di terra (1990). Qui c’è un personaggio, presumibilmente l’autrice, ma nella poesia moderna sappiamo che l’io dell’autore si traveste in una molteplicità di personaggi indipendenti. Quindi, qui c’è un personaggio alle prese con alcune incombenze della vita quotidiana, incombenze senza molto significato che ciascuno di noi fa di continuo in una giornata (camminare per le stanze, dare l’acqua ai fiori, etc). Ma è proprio in questo contesto non significante e non particolarmente significativo che si cela (e affiora) l’epifania di una rivelazione, la magia di una esperienza significativa. Ma, come può accadere che proprio dalla nuda elencazione degli atti della vita quotidiana si riveli un momento significativo? Quale è il nesso che lega il non-significante al significativo, l’inautentico all’autentico?. Leggiamo la poesia:

La parola alle cose

Altissima sui sugheri,
cammino per le stanze.
È estate.
Sposto un calamaio pesante,
raddrizzo un fiore
nella polla d’acqua
di un vaso di cristallo.
In questi stessi spazi,
ampliati da un ordine chirurgico,
ieri,
uno sciame di vespe mi seguiva.
Oggi tocco la realtà e le cose:
angoli e superfici tonde,
la lucentezza degli specchi,
la scarna ruvidezza del coccio,
la porcellana bianca
del bricchetto del latte,
il tegamino d’alluminio
dei tempi della guerra
-oro e rame alla patria-. Ora
mi pare di capire
perché Morandi dipingeva da recluso,
trincerato oltre una fila
lunghissima di stanze: le cose
vogliono un grande silenzio
prima di prendere la parola.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

GIORGIO L.

Da notare quell’incipit meta ironico «Altissima sui sugheri», quando poi tutta la composizione è parametrata su un registro lessicale basso. Anna Ventura viene dopo il decennio de “La parola innamorata”, del post-sperimentalismo e del primo minimalismo romano-milanese, un vero e proprio diluvio di luoghi comuni e di truismi del ceto-massa poetico. La Ventura si pone la seguente parola d’ordine: restituiamo finalmente «la parola alle cose», facciamo parlare le «cose» e lasciamo stare le «parole» ormai troppo inquinate dai paroliferi e dagli alfieri delle parole d’ordine dei modelli maggioritari. Nella sua poesia non c’è più traccia di «mettere la vita in versi» (di un Giudici che farà scuola e pessimi allievi), non c’è più traccia di pasolinismi, di cripto analisi del corpo (di seconda e terza mano), non c’è più traccia di poesia orfica (di seconda e terza mano), non c’è più traccia del post-sperimentalismo auto referenziale di un Edoardo Cacciatore e dei suoi innumerevoli imitatori, qui si va alla radice, e cioè dare la «parola» alle «cose». Mi sembra un coraggioso tentativo di fare tabula rasa di tutto ciò che una certa poesia «maggioritaria» e «minoritaria» aveva propugnato e dei suoi epigoni (di seconda e terza mano), non c’è nulla di quei manufatti contraffatti. La poesia di Anna Ventura reagisce, come può, e con i suoi mezzi, allo sciame di scritture epigoniche che aveva la piccola borghesia massmediatizzata quale contro valore e controllore di quelle scritture poetiche che facevano un uso abusivo del «privato» e del «quotidiano» che tanto erano in consonanza con l’ideologia privatistica della piccola borghesia in via di definitiva conversione a quello che sarà denominato Ceto Medio Mediatico.

Occorre qui distinguere la nozione sociologica di «piccola borghesia intellettuale» da quella di carattere estetico di referente delle scritture poetiche destinate al consumo massmediatizzato di quella classe che nel corso del tardo Novecento e negli anni Dieci diventa una massa fluida e floreale. Dopo il Craxismo arriva la pseudo sinistra post-comunista del Partito Democratico e il fenomeno di teatro Berlusconi, e quella che era una classe intermedia tra proletariato e borghesia diventa adesso un Ceto Medio Mediatico in via di impoverimento sempre meno decisivo per le sorti del Capitale finanziario.
La poesia del tardo Novecento come reagisce a questa situazione?
A me sembra che ci siano state e ci siano anche oggi, qua e là, delle reazioni da parte dei migliori poeti dinanzi a questa situazione macro culturale. La poesia di Anna Ventura è una di queste: salta il «referente» della «piccola borghesia», cioè non si rivolge più a quella piccola borghesia democristiana e cattocomunista degli anni Sessanta Settanta a cui si rivolge, ad esempio, la poesia di un Giudici, che nel frattempo è scomparsa, ma si rivolge ad un interlocutore impalpabile e indistinto (che non c’è e che non si sa se mai ci sarà), tenta di saltare il corto circuito del Medio Ceto  Mediatico. «Le cose vogliono un grande silenzio prima di prendere la parola». Tra la «parola» e la «cosa» si stabilisce un «grande silenzio».

La composizione è basata su un impianto rigorosamente ipotonico, accentuazione dattilica, il metro è variabile e viene lasciato oscillare dal novenario all’endecasillabo con assenza di corrispondenze rimiche e foniche. L’impianto retorico è stato disboscato di tutto il bagaglio retorico-stilistico, ciò che resta è una colonna insonora, un’unica strofa ad andamento ipotonico che poggia su un basamento narrativo. Ciò che resta è l’a-capo del verso, unica marca riconoscibile che ci dice che qui siamo di fronte ad una composizione poetica, infatti la poesia potrebbe essere trascritta tutta in prosa, ma perderebbe di icasticità e di visualizzazione, caratteristiche che sono date dall’a-capo. Tutta la composizione è rivolta al lettore, vuole coinvolgere il lettore all’interno della composizione, richiede un suo intervento attivo. Il lettore è il vero protagonista di questa composizione.

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti.

Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo.

È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

6 commenti

Archiviato in recensione libri di poesia

“Della Rivelazione” (2013) di Franco Di Carlo lettura impolitica da Giorgio Linguaglossa

foto donna con corvo.

Franco Di Carlo “Della Rivelazione” Roma, EdiLet, 2013 pp. 90 € 12

Lettura impolitica di Giorgio Linguaglossa

– Franco Di Carlo non vuole fare a meno della questione dello statuto di verità di un discorso che cerca la verità. L’unica forma di verità attingibile, è detto con chiarezza, è «la terza navigazione», ovvero, il Ritorno, il de reditu dalla dimensione metafisica a quella sensibile. Come sappiamo, «la seconda navigazione» per Platone segna il passaggio dalla conoscenza sensibile alla conoscenza metafisica. Nel linguaggio dei marinai la prima navigazione è quella per così dire spontanea, che si ha con il favore del vento; la seconda è quando occorre remare con le proprie forze. La prima forma di conoscenza è quella sensibile (che proviene dal dato immediato della conoscenza), ed è quella dei filosofi presocratici, fermi alla “natura” (secondo la visione platonica); ma questa conoscenza non è adeguata per spiegare quella dimensione introdotta da Socrate col problema dell’anima, del bene, di ciò che trascende la pura materialità del corpo fisico (Socrate insisteva: tutti si prendono cura del proprio corpo, è però più importante prendersi cura della propria anima). Platone prosegue su questa prospettiva: dà corso alla metafisica (come verrà chiamata questa scienza-episteme dopo Aristotele). Oltre l’essere sensibile c’è l’essere in sé, che non diviene, che permane oltre il mutare del sensibile, che ne è causa e fondamento. Questo essere (o meglio: questa dimensione dell’essere) che Platone chiamerà «idea» (eidos-forma; paradeigma: modello) si coglie con il solo pensiero, con la “forza” del puro pensiero. È questa la “seconda navigazione” per Platone. Per restare in tema, per Agostino c’è anche la “terza navigazione”, quella mediante la quale con la “forza” della fede, l’accoglimento, critico e consapevole basato sul credo in quanto assurdo della rivelazione si arriva alla comprensione conversione verso Dio.

La posizione di Di Carlo è diversa e presuppone le tre citate integrate dalla filosofia heideggeriana dell’essere: il «pellegrinaggio della metamorfosi» si compie come «fuga del corpo da un luogo all’altro».

esiste un mondo intellegibile
che sempre è sovrasensibile
essere che non nasce e non perisce
(…)

– il viaggio continua a gran fatica
per poi interrompersi bruscamente
a causa della contraddizione
incontrata nella prima navigazione
che tutto ciò che è sensibile
non è giustificabile né spiegabile
con le sue sole anche se grandi forze interne
rimanda al trascendente
causa vera delle cose
che vediamo con gli occhi dell’anima

– così attraverso il mare della vita
cerco la verità della ragione
salendo su una zattera che la visione
atterra ai limiti della divina rivelazione
ch’annulla i rischi della traversata
rendendo la mia nave più sicura e fidata
c’è dunque un Aldilà
che la ragione da sola non può
raggiungere perché il mare
s’inburrasca e il viaggio
diviene impossibile da fare

La composizione che fa da prologo è chiara: dapprincipio si ha «la divina foresta» (luogo dell’ombra e della dispersione), qui prende forma la «domanda di salvezza», «palingenesi del mondo superiore» che avviene in una «luce lunare cupa infernale».

camminando all’infinito
lungo l’alta montagna impietosa
e il perfido mare ardito
unisco parola e passo
e lascio la ragione per la vita.

È una poesia che ha l’andamento classico della poesia filosofica di un Lucrezio, il metro è l’endecasillabo sciolto, a volte ipermetro, a volte un metro più ampio, il tono alto solenne, pensieroso, pensante. È una poesia-cammino, che si fa durante il «cammino», durante il tragitto. E in questo camminare ha luogo l’interrogazione metafisica sulle cose ultime, che stanno al di là della fisica delle cose fisiche, e sulle cose prime, che stanno al di qua, nella nostra vita quotidiana. Si ha bisogno di cercare la verità perché essa è la sola giustificazione del discorso poetico. L’eloquio poetico è, per Di Carlo, una petizione di principio che interroga i fondamenti metafisici nel corso della ricerca in atto. Il «pensiero poetante» pensa il pensiero del linguaggio e il linguaggio cede alla pressione costante del pensiero poetante. È in questo pensiero circolare che la poesia di Di Carlo, autore filosoficamente attrezzato, si svolge e si involge, si aggomitola. Ciò che si sa lo si sa anche senza saperlo, lo si sa dapprincipio; per via della seconda navigazione si scende, e nella «terza navigazione» si sa ciò che si sa in quanto lo si è appreso con la forza della conversione all’interno della «contraddizione» della dimensione della Storia.

La vicinanza

la parola nomina la cosa
ogni volta che la dice e porta a sé
le sta accanto la trattiene e sostiene
è tale perché abita vicino
come la poesia di fronte al pensiero
le dimore sono prossime
abitano l’una dinanzi all’altra
parlano per immagini creano un dire
comune sono la stessa cosa
gli enti e le parole ma rimane invisibile
vicinanza la sua realizzazione
l’origine precisa della sua vera condizione

rapporto strano solo questo
possiamo sapere il parlare vicino
si attrae il loro dire pensare e/o poetare
questo è il vero problema
ascoltare la parola che viene
e non interrogare né domandarsi o chiedere
in realtà è la reciproca appartenenza
la loro autentica elementare essenza
Profetico pronunciare o annuncio fondamentale
segnale comunque di un rifiuto radicale
o due modi di dire l’esperienza poetica
della parola pensante del linguaggio

I fiori blu

il viaggio dell’eroe compì l’adempimento
l’attesa sospesa lo portò ai confini
di due mondi dove regnava l’analogia
universale età dell’oro del visibile
e dell’invisibile frammento mirabile
del Mistero libro assoluto magica idea
decifra la natura oscura foresta di simboli
fiori blu nel cammino verso l’anima
iniziatrice visione ricerca impossibile
della trasfigurazione dell’eroe in poeta
aldilà dell’apprendistato della vita
onde di luce splendida ma bassa
passeggera finzione della contraddizione
scompare nella notte spirituale
dove la morte diviene risurrezione
eterna nostalgia liberazione iniziale.

Il doppio abisso

semi di altri mondi cadono in terra
da un luogo celeste sopravvivono
stravolti o muoiono o finiscono
salverà il mondo l’idea di bellezza
l’icona pura dell’ordine verrà
nell’infinita libertà dell’espressione
o l’orrore metafisico danzerà
nel caos di una forza tenebrosa!
Una belva maligna e silenziosa
rivelerà un uovo di serpente
ma alta la parola supera il male
sublime illusione estetica al di là
del nulla funzione dell’identità
e del rapporto causa-effetto arduo
evidente splendore dell’ombra
dove mente e cuore in sospensione
fissano l’istante auratico dell’estasi

Franco Di Carlo volto

Franco Di Carlo

Franco Di Carlo (Genzano di Roma, 1952), oltre a diversi volumi di critica (su Tasso, Leopardi, Verga, Ungaretti, Poesia abruzzese del ‘900, l’Ermetismo, Calvino, D. Maffìa, V. M. Rippo, Avanguardia e Sperimentalismo, il romanzo del secondo ‘900), saggi d’arte e musicali, ha pubblicato varie opere poetiche: Nel sogno e nella vita (1979), con prefazione di G: Bonaviri; Le stanze della memoria (1987), con prefazione di Lea Canducci e postfazione di D. Bellezza e E. Ragni: Il dono (1989), postfazione di G. Manacorda; inoltre, fra il 1990 e il 2001, numerose raccolte di poemetti: Tre poemetti; L’età della ragione; La Voce; Una Traccia; Interludi; L’invocazione; I suoni delle cose; I fantasmi; Il tramonto dell’essere; La luce discorde; nonché la silloge poetica Il nulla celeste (2002) con prefazione di G. Linguaglossa. Della sua attività letteraria si sono occupati molti critici, poeti e scrittori, tra cui: Bassani, Bigongiari, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Sanguineti, Spagnoletti, Ramat, Barberi Squarotti, Bevilacqua, Spaziani, Siciliano, Raboni, Sapegno, Anceschi, Binni, Macrì, Asor Rosa, Pedullà, Petrocchi, Starobinski, Risi, De Santi, Pomilio, Petrucciani, E. Severino. Traduce da poeti antichi e moderni e ha pubblicato inediti di Parronchi, E. Fracassi, V. M. Rippo, M. Landi. Tra il 2003 e il 2015 vengono alla luce altre raccolte di poemetti, tra cui: Il pensiero poetante, La pietà della luce, Carme lustrale, La mutazione, Poesie per amore, Il progetto, La persuasione, Figure del desiderio, Il sentiero, Fonè, Gli occhi di Turner, Divina Mimesis, nonché la silloge Della Rivelazione (2013) con prefazione di R. Utzeri.

Lascia un commento

Archiviato in poesia italiana contemporanea, recensione libri di poesia