Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la Tabula Fati di Chieti. Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo. È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013)
Commento di Steven Grieco-Rathgeb
Il pensiero poetico di Anna Ventura si distingue, mi sembra, per una “velocità” tutta particolare: non necessariamente quella raggiunta attraverso la metafora o altre figure retoriche, e nemmeno quella di certi poeti orientali del passato, in cui la tensione metafisica preme in modo così forte sulla dimensione esistenziale-reale, che si crea un moto, capace di imprimere una inaudita, perfino auto-distruttiva, velocità nell’espressione poetica. In Anna Ventura sono l’estrema pulizia e chiarezza del verso i veicoli che le permettono di raggiungere di colpo il concreto delle cose e degli oggetti del pensiero. Su questo punto aggiungo soltanto qui qualche considerazione in più a ciò che è già stato rilevato da Giorgio Linguaglossa nella sua prefazione.
Dunque una velocità che rinsalda – paradossalmente – l’andamento pacato, equilibrato, intenso del verso; in cui le innervature dell’angoscia “esistenziale” sono per lo più sottintese, o espresse comunque con economia, e soprattutto senza quel particolare tipo di ironia “leggera e distaccata” che tanto ha contribuito a trivializzare la poesia a cavallo fra XX e XXI secolo. In lei il ritmo serrato serve a superare la pesantezza dell’ogni giorno, che non è necessario ribadire, per ricordare invece frammenti di vissuto che rilucono di un qualche senso e possibilmente indicano un filo di continuità. Nei momenti migliori, infatti, le sue poesie dischiudono, tutte insieme, un intimismo puro, nitido, pasternakiano. Una somiglianza con il poeta russo che non è casuale, anzi la dice lunga sui nostri tempi, in cui vige una censura sottile, strisciante, della libertà di pensiero, così come un tempo in Unione Sovietica esisteva la censura ufficiale. Laddove impera infatti un Pensiero Unico, di qualsiasi colore esso sia, viene sempre danneggiata la solidarietà emotiva ed intellettuale fra gli individui, la loro capacità di pensarsi pienamente “umani”.
Nell’attimo “inimmaginabile” di questa poesia, l’autrice deve a Blake (Tiger tiger burning bright / in the forests of the night) tutto quello che lei può o potrà mai dire in campo poetico: e nello stesso tempo al poeta inglese lei non è debitrice di assolutamente niente, non del minimo granello di polvere contenuto nella sua più piccola poesia. Per un semplice motivo: Anna Ventura ha saputo ri-forgiare questa, fra le tante immagini primordiali dell’uomo: il senso di stupore di fronte all’ignoto, che resiste a qualsiasi sistemazione filosofica, teologica o scientifica: la stessa immagine a cui Blake dette espressione due secoli fa in Inghilterra, e qualcun altro in Asia o in Africa mille o forse diecimila anni fa. Questa volta è stata Anna Ventura a ricreare l’immagine: conferendole quel senso inaspettato della cosa appena nata, appena emersa dal nulla, miracolosa come l’elefantino o il cerbiatto appena usciti dall’utero della madre, a stento capaci ancora di tenersi in piedi.
Ma quante proto-immagini e quanti elefantini sono nati e rinati nei milioni e milioni di anni? Ecco un aspetto fra i più importanti della poesia autentica: stare – a modo suo – vicinissima alla vita, quella che ognuno di noi vive. Ed è in questo senso che ho usato più sopra la parola “inimmaginabile”: che non denota semplice “sbalordimento”, bensì indica l’attimo pre-cogitativo, prima che la capacità immaginifica umana si muova e inizi a manifestarsi.
Nella poesia di Anna Ventura c’è inoltre forte il desiderio di tornare a casa, in uno spirito totalmente privo di ogni sentimentalismo. È la nostalgia per un senso più compiuto, più ricco, delle cose del mondo, che sentirono anche i poeti e le poetesse giapponesi del periodo classico (IX-XIII sec.). Essi chiamarono questo anelito furusato, letteralmente “l’antico villaggio” “la casa avita”, “il cuore rammentato delle cose”. Comunque sia, con Pasternàk, e altri poeti di quel paese, l’autrice ha in comune la facoltà di gioire della presenza discreta delle cose: come loro, ha chiaro il concetto che è la concretezza a rivelare in essi l’energia nascosta (anche numinosa). “Res”.
(Steven Grieco)
ATENA
Atena uscì dalla testa di Giove
con lo sguardo fosco e la fronte turrita: già sapeva
quanto le sarebbe costato
essere all’altezza di un tale privilegio.
Prese a invidiare
le dee frivole e belle
che altro non dovevano fare
se non mostrarsi al meglio
delle loro grazie,
parlando il meno possibile.
Lei no; lei avrebbe dovuto anche parlare, all’occorrenza,
perché non poteva deludere
chi l’aveva messa tanto in alto.
Troppo per una donna,
anche se questa donna era Atena.
Un giorno si tolse le insegne divine
e scese tra gli uomini,
che non la degnarono nemmeno
di uno sguardo. Ma lei non fece una piega:
conosceva la superficialità degli dei,
poteva immaginare quella degli uomini.
Poi un bambino piccolissimo,
nella confusione di un mercato,
perse la sua mamma, e, con la manina,
si attaccò al braccio di Atena, cercando protezione.
Atena si commosse al punto che,
quando tornò sull’Olimpo,
immaginò che il bambino
stesse ancora con lei
e decise di tornare sulla terra
per rivederlo; il piccolo, a sua volta,
dopo aver ritrovata la madre,
ancora sentiva il calore
di quel braccio sicuro
e sperò di stringerlo ancora,
nell’allegria del mercato.
Noli me tangere
L’auriga di Delfi,
col suo broncio di bravo ragazzo
appena uscito dalle mani di sua madre,
non sa di essere tanto bello,
né, forse, tanto valente.
La tunica che lo ricopre
fino ai piedi perfetti,
simile a una colonna dorica,
è il “noli me tangere”
di chi appartiene al destino.
Venere uscì dal mare
Venere uscì dal mare
coperta di goccioline. Vulcano la vide,
dal fondo della sua fucina,
e pensò che, un giorno o un altro,
gli si sarebbe spezzato il cuore. Venere
se ne era accorta,
ma non sapeva che farci:
non era una colpa
se, di tutte, lei era la più bella. Poi
avvertì un brivido, e un altro,
e un altro ancora:
l’acqua del mare, rappresa,
si stava congelando:solo
la fiamma del dio deforme
poteva riscaldarla.
Con i suoi piccoli piedi,
Venere scese nella fucina;
e lì rimase per qualche tempo;
ne uscì fuligginosa e contenta,
perché finalmente era fuori dal gelo
della sua corazza invisibile:
la consapevolezza di un ruolo,
il pregiudizio degli eletti.
Mentre la vita è altrove:
nell’umiltà dell’amore,
nel rischio di spezzarsi il cuore.
(Inediti)
Antinoo
Adriano contemplava Antinoo;
la sua bellezza lo stregava:
volle che gli artisti tentassero l’impossibile:
fermare quella bellezza per l’eterno.
Tutto
avrebbe potuto chiedere – e ottenere –
il giovane dio.
Purtroppo, non voleva niente:
era un corpo di cera,
che un giorno si scoprì
galleggiare sull’acqua,
in mezzo ai petali dei fiori.:
quella era la sua meta, il suo destino.
Restarono le statue.
Arbiter
Era tanto snob,
Petronio Arbiter,
che sfidava la sorte in campo aperto. Sapeva
che ogni suo gesto, ogni parola,
venivano osservati e giudicati,
anche per potersene impadronire. Lui
non faceva nulla per evitare
un tale avamposto della morte.
Nell’impari duello
contro la volgarità e la bruttezza
vinsero loro. A Petronio restò la morte,
che era quello che voleva.
.
L’angelo freddo
Chi può dire che cosa non ci appartiene,
chi segna i confini delle proprietà,
chi chiude le porte e col gesso scrive
i limiti del possibile?
Chi, se non un angelo malvagio,
al quale bruciamo inutili incensi,
l’angelo conformista di un galateo di menzogne,
l’angelo di pietra che sta sulla tomba,
e aspetta solo che gli stiamo a tiro,
ma non ha fretta,
perché già ci possiede?
A quest’angelo freddo
è inutile strizzare l’occhio:
ignora spirito e fantasia;
non ha la luciferina gaiezza
del Satana piede caprino,
né la buia durezza del Maligno:
alita soavemente sulle nostre case arredate,
governa le nostre automobili,
i bambini grassi e le serve.
E’ la nostra ottusa certezza,
la fede indegna di essere creduta.
I ladri, i rapitori, il dolore
sono l’unico baluardo
contro di lui.
Gli sposi di pietra
Forse la tartaruga di Volterra
parla con i sarcofaghi sommersi
nella terra morbida
del giardino del museo.
Sono sempre due,
gli sposi etruschi di nessuna bellezza,
stretti in una scatola di pietra,
che non si annoiano e ridono
di un sorriso che non si spiega ed è beffardo.
Il mistero etrusco non è la scrittura,
non è la remota provenienza,
ma la tenacia testarda
dei loro matrimoni eterni.
Contro la durezza quadrata
di queste scatole di pietra
si spezza
e diventa segatura
il biondo dell’oro sibarita.
Sommerso nella terra, minuscolo,
l’ultimo sarcofago
aspetta di sopravvivere
al giorno del giudizio.
Ha gli sposi mangiati dal tempo,
caduti i nasi di pietra,
interrotto il sorriso sulle bocche,
il filo d’argento di una solitaria lumaca
li percorre, e ammiccano
nell’ombra della fratta più nascosta,
dove è il mistero del mistero, la tana
della tartaruga di Volterra.
dalla Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013) EdiLet, 2014