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da Repubblica, un articolo di Cesare Garboli sul legame tra Guido Cavalcanti e Dante Alighieri
Confesso di sentirmi un po’ a disagio di fronte al generoso corsivetto che lo scrittore Sebastiano Vassalli ha dedicato sul Corriere della Sera (6 settembre), all’articolo sull’Inferno di Dante che ho recentemente pubblicato su questo giornale (Repubblica, 31 agosto). Come ci si comporta con chi approva le nostre idee nel momento stesso in cui le fraintende? La cosa avrebbe ben scarsa importanza, se non fosse che nel titolo del corsivetto campeggiano due nomi di fuoco, che appartengono al patrimonio culturale di tutti coloro che parlano la nostra lingua: “Perché Dante odiava Cavalcanti”. Una simile notizia, e un simile enunciato, non possono passare sotto silenzio. “Per il critico letterario Cesare Garboli – scrive il Vassalli – al centro della visione di Dante, e del poema che ne discende, c’ è il più forte e il più complesso dei sentimenti umani: l’odio, e al centro dell’odio c’ è Guido Cavalcanti, il grande «cancellato» della Commedia”. Non me ne voglia il Vassalli, ma il fatto è che non sottoscriverei la sua parafrasi neppure per un miliardo di lire. Non sono così miscredente da infischiarmene dell’aldilà. Ci penserebbero le anime di Dante e di Guido, prima o poi, a presentarmi ben altro conto. Prego dunque il lettore di attribuire le righe che seguono a un doveroso bisogno di rettifica.
Me la sbrigherò rapidamente. Nel mio articolo dantesco osservavo come la capacità di odiare, presente in tutta la Commedia e non solo nella prima cantica, abbia assunto ai miei occhi, col passare del tempo e del secolo, una colorazione sempre più forte e marcata. Non c’ è da meravigliarsi se il Novecento scopre in Dante ciò che l’Ottocento aveva tenuto più discretamente occultato. Fuori da questo tema, a conclusione dell’articolo, facevo anche notare che ci sono due ingressi nel tartaro dantesco, corrispondenti a due diversi inizi del poema: uno la grande porta scardinata, l’altro una delle tante porte della città di Dite. Appena varcate le mura della città di Dite, si apre, come tutti sanno, a perdita d’ occhio, il cimitero degli atei: innumerevoli tombe piene di fuoco, destinate a chi negava che l’anima sia immortale e non annetteva alcun valore alla sepoltura. Nel cimitero rovente Dante incontra una figura mitica della sua gioventù, un politico, un condottiero, il capoparte ghibellino Farinata degli Uberti. Insieme a lui, nella stessa tomba, giace Cavalcante Cavalcanti, il padre del grande e insostituibile amico di Dante, il poeta e filosofo Guido. Sotto il profilo strutturale, romanzesco, stilistico, il viaggio dantesco nell’oltretomba comincia qui, davanti al supplizio degli atei, quando Dante coglie l’opportunità, che gli è offerta da Farinata (“chi fur li maggior tui?”), di dichiarare la propria identità anagrafica (leggi: “il proprio io”). Simultaneamente, Dante affronta e scioglie due nodi, due miti, due idoli, o, come si dice modernamente, due “complessi” della sua gioventù, uno politico-militare e l’altro filosofico-letterario, Farinata e Guido. Con il primo, con il fantasma incombente di Farinata, Dante si misura a viso aperto: discute, replica, battibecca. Con Guido, Dante si comporta come si fa con gli amici del cuore, quando il tempo dell’amore e dell’amicizia è finito. Grazie a uno stratagemma geniale, rimuove delicatamente e tacitamente la presenza dell’amico, facendolo scomparire dal proprio sistema intellettuale e quindi dallo scenario della Commedia. In questa rimozione non c’ è nessuna traccia di odio.
E se non sapessi che leggere è più difficile che scrivere, mi meraviglierei che qualcuno abbia potuto fraintendere e distorcere a tal punto il senso delle mie parole. Del resto, si tratta di un meccanismo molto perdonabile. Succede spesso, anche ai più grandi lettori, di scorgere confusamente nel discorso di un altro il riflesso, il riverbero, lo specchio di pensieri propri che non hanno mai preso forma, e così di appoggiare all’autorità di un testo stampato l’occasione per trovare il coraggio di esprimerli. Più gravi, perché storicamente e culturalmente perniciose, mi sembrano invece le conclusioni originali cui giunge il Vassalli, per il quale a fondamento del presunto odio di Dante per Guido Cavalcanti “c’ è la comune esperienza dell’avanguardia”. L’avanguardia? Ma sì, per il Vassalli l’avanguardia si sarebbe incarnata, ai tempi di Dante, nel “dolce stil nuovo”. Diceva un grande maestro di studi storici, Delio Cantimori, e lo ripeteva a ogni occasione, che bisognerebbe astenersi dal tracciare o immaginare analogie, paralleli, raffronti tra i fatti accaduti nel passato e quelli che ci scorrono sotto gli occhi, o tra le congiunture che si sono verificate in un passato lontano e in un altro meno remoto. Le storie dentro la storia, come le unioni carnali, sono sempre diverse. Se lo stesso vale in letteratura, non sarebbe meglio lasciare i movimenti d’ avanguardia al Novecento, che è il loro posto, e lo stil nuovo a quei tempi lontani, ignari di automobili e di socialismo, e così poco interessati a cambiare il mondo? Ma la reincarnazione dell’esperienza letteraria dantesca nella realtà e nell’attualità dell’oggi ci fornisce ben altra sorpresa. Avanguardia o non avanguardia, lo Stil nuovo, secondo il Vassalli, “deluse” Dante, il quale si staccò dal gruppo preferendo “la visione tradizionale dell’arte: l’Antico, contro l’odiato Nuovo”.
L’Antico sarebbe Virgilio, la buona guida della Commedia, mentre l’odiato Nuovo sarebbe il maestro cattivo, Cavalcanti: “una guida ingannevole che lui (Dante) non poteva perdonare e che non perdonò”. Par di capire che il Vassalli dia pochissimo peso a quel documento di storia letteraria che è il noto incontro di Dante, nella sesta cornice del Purgatorio, con Bonagiunta da Lucca, dove lo “Stil nuovo” viene non solo recuperato al poema ma confermato, commentato, autenticato, omologato con tanto di bollo e firma, tra l’altro consegnandone la formula – dolce stil novo – ai posteri e quindi anche allo stesso Vassalli che la usa con tanta disinvoltura. Caro Vassalli, la ringrazio delle sue parole, ma il suo capitoletto di storia letteraria si presenta così oltranzista e così emotivo da sconfinare dal tema letterario. Episodi simili nascono spesso dalla violenza invadente di un oscuro fondo autobiografico. Non so se questo sia il suo caso.
Rime, XII – Perché non fuoro a me gli occhi dispenti
Perché non fuoro a me gli occhi dispenti
o tolti, sì che de la lor veduta
non fosse nella mente mia venuta
a dir: «Ascolta se nel cor mi senti?»
Ch’una paura di novi tormenti
m’aparve alor, sì crudel e aguta,
che l’anima chiamò: «Donna, or ci aiuta
che gli occhi ed i’ non rimagnàn dolenti!»
Tu gli ha’ lasciati sì, che venne Amore
a pianger sovra lor pietosamente,
tanto che s’ode una profonda voce
la quale dice: – Chi gran pena sente
guardi costui, e vedrà ‘l su’ core
che Morte ‘l porta ‘n man tagliato in croce.
*
Perché gli occhi non mi sono stati
spenti o strappati, così che, attraverso
la loro vista, [la donna] non fosse
venuta nella mia mente a dire:
«Ascolta se mi senti nel tuo cuore»?
Ché allora una paura di tormenti
inauditi mi colse, così spietata
e acuta che la mia anima gridò:
«Donna, ora aiutaci, affinché
gli occhi ed io non ne soffriamo.»
Tu li hai lasciati in tale condizione
che Amore è venuto a piangere
su di essi per compassione,
tanto che si sente una voce profonda
che dice: – Chi è addolorato guardi
costui [il poeta], e vedrà che Morte
porta il suo cuore tagliato in croce.